All’inizio dell’epoca di Michele – Massime 79-84

Commento di Lucio Russo


 

Ricordate ciò che abbiamo detto all’inizio del nostro studio?

• Che dovremmo imparare a distinguere il pensato (fisico) dal pensare (eterico),

• il pensare dalla coscienza pensante (astrale) e la coscienza pensante dall’Io (spirituale).

 

Possiamo adesso aggiungere

• che il “mistero di Michele” è il “mistero del pensare”,

• che “il mistero della Sophia” è il “mistero della coscienza pensante”,

• e che il “mistero del Cristo” è il “mistero dell’Io” (dell’”Io sono”).

 

Il “mistero del pensare”

è il mistero di quella realtà eterica che fa da “ponte” (sensibile-sovrasensibile)

• tra il piano della realtà fisica    •  e quello della realtà animico-spirituale.

 

Affermare che “la via del cuore passa per la testa” significa pertanto affermare che

la via dell’Io e del Cristo (che lo inabita) passa per il pensare eterico (vivente) e per l’Arcangelo Michele.

 

Se vogliamo farci un quadro della lotta che Michele (quale “Principe delle milizie celesti”) conduce contro Arimane, dobbiamo immaginare che il primo ci indica la via che sale dal pensare riflesso a quello vivente, mentre il secondo ci attira sulla via che scende dal pensare riflesso all’organo cerebrale (alla corteccia): cioè su una via che ci vincola ancor più al corpo fisico.

Cominciamo dunque a leggere questa lettera, intitolata: All’inizio dell’epoca di Michele (17 agosto 1924).

 

 

Fino al secolo nono dopo il mistero del Golgota, la posizione dell’uomo di fronte ai suoi pensieri fu diversa da poi.

Egli non aveva il sentimento di essere lui stesso il generatore dei pensieri che vivevano nella sua anima.

Li considerava ispirazioni di un mondo spirituale.

Anche quando pensava su ciò che percepiva con i suoi sensi,

i pensieri erano per lui rivelazioni del mondo divino che gli parlava dagli oggetti sensibili” (p. 55).

 

 

Non è facile capire quale sia “la posizione dell’uomo di fronte ai suoi pensieri”, ossia la relazione dell’uomo (dell’Io) con i pensieri, se non si ha chiaro che è lecito sentirsi “generatori” delle rappresentazioni, ma non dei concetti, dal momento che questi, come abbiamo detto e ripetuto, sono mondo tanto quanto i percetti (i contenuti delle percezioni).

Fatto si è (anche se per lo più lo s’ignora) che un conto è il concetto, altro la nostra coscienza del concetto (così come, banalmente, un conto è l’albero, altro la nostra coscienza dell’albero).

“Il concetto – recita questo Dizionario di filosofia – è un’idea astratta e generale in quanto fissa alcuni caratteri permanenti di un gruppo di individui tra loro simili, caratteri che poi vengono attribuiti a tutti gli individui che entrano nel gruppo considerato” (1).

 

Come vedete, si crede che sia “astratta” la natura del concetto, e non – come si dovrebbe – quella della nostra coscienza del concetto.

Mai si sarebbe affermato, d’altronde, il nominalismo (ch’è alla base del materialismo) se la moderna coscienza del concetto fosse stata all’altezza della sua realtà spirituale.

In quale forma, infatti, ne abbiamo normalmente coscienza (o incoscienza)? Lo abbiamo detto: in quella della “rappresentazione” (mediata dai sensi fisici e dalla corteccia).

 

Ricordate queste parole de La filosofia della libertà?

“La rappresentazione non è altro che un’intuizione riferita a una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione (…) La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato” (2).

 

Per quale ragione, dunque, l’uomo, prima del “secolo nono dopo il mistero del Golgota” (cioè nel corso dello sviluppo dell’anima senziente e agli inizi di quello dell’anima razionale-affettiva), “non aveva il sentimento di essere lui stesso il generatore dei pensieri che vivevano nella sua anima”? E’ semplice: perché lo è andato tanto più sviluppando quanto più si è andata evolvendo e consolidando, in lui, l’anima cosciente (l’autocoscienza egoica), e quindi la coscienza rappresentativa del concetto.

 

 

Chi è dotato di veggenza spirituale comprende questo sentimento perché, quando all’anima

si palesano realtà spirituali, non si ha mai il sentimento di stare dinanzi alla percezione spirituale

e di formare da sé i pensieri per comprenderla; si vede invece il pensiero che è contenuto nella percezione,

e che è dato nella medesima, altrettanto oggettivamente quanto la percezione stessa” (p. 55).

 

 

Abbiamo detto che,

• in virtù della coscienza scientifico-naturale (quale espressione più alta della coscienza ordinaria),

prima percepiamo (mediante i sensi fisici) e poi pensiamo,

• mentre, in virtù della coscienza scientifico-spirituale,

prima pensiamo e poi percepiamo (mediante i sensi spirituali).

 

Ciò che percepiamo mediante il senso immaginativo, il senso ispirato e quello intuitivo non ha però bisogno,

come ciò che percepiamo mediante i sensi fisici, di essere poi pensato, perché è già pensiero:

ma un pensiero resosi a tal punto vivo e corposo da equivalere a un percetto (a un luminoso contenuto di percezione).

 

Domanda: Potresti fare un esempio?

Risposta: Considera, che so, il concetto di “bellezza”. Un conto è credere che la bellezza sia un’idea astratta, altro sapere che è un’entità spirituale, e che lo è in quanto è in forma appunto d’idee (o di concetti) che le entità spirituali si presentano al pensiero umano.

Siamo abituati a dire, ad esempio, che Afrodite era la Dea greca della bellezza o che Poseidone era il Dio greco del mare, mentre sarebbe più appropriato dire che, per i greci, la bellezza e il mare erano delle entità spirituali o degli Dèi.

 

 

Col secolo nono (e si intende che queste indicazioni si riferiscono alla media di un’epoca perché il trapasso

avviene del tutto gradualmente), spuntò nelle anime umane la luce dell’intelligenza personale-individuale.

L’uomo ebbe il sentimento: “Io formo i pensieri”.

Questo formare i pensieri divenne l’elemento preponderante della vita animica,

di modo che i pensanti scorsero l’essenza dell’anima umana nel suo comportamento intelligente”(p. 55)

 

 

Per “intelligenza personale-individuale” va intesa la coscienza rappresentativa,

giacché la rappresentazione è per l’appunto un “concetto individualizzato”.

 

Lo spuntare della “luce dell’intelligenza personale-individuale” è lo spuntare dell’ego

(della coscienza rappresentativa dell’Io): ossia di una luce

che sorge al tramontare di quella dell’intelligenza impersonale-universale (cosmica),

e che rende con ciò possibile la libertà.

 

Siamo talmente identificati, oggi, con la coscienza rappresentativa e con le nostre opinioni che di tutto questo non ci rendiamo affatto conto.

Si usa parlare, ad esempio, di una concezione “platonica”, “aristotelica”, “cartesiana”, “hegeliana”, “marxiana” ecc.; ma che fine fa così la realtà? Possibile che nessuno sia disposto a rendersi tanto trasparente da permetterci di vedere, non lui, bensì, attraverso di lui?

 

Ricordate che cosa dice il Cristo dello Spirito Santo? Che ci “guiderà verso tutta la verità”, perché non ci “parlerà da se stesso” (Gv 16,13); è infatti lo Spirito “invisibile”, poiché è lo Spirito che non si vede, ma attraverso il quale si vede (la realtà, o, il che è lo stesso, Dio).

 

Ritengo per questo improprio parlare (come spesso si fa) di una concezione “steineriana”,

dal momento che Steiner, in tanto è riuscito a fare quel che ha fatto, in quanto è riuscito a superare

(in nome dello spirito scientifico o, per l’appunto, dello “Spirito di verità”) la propria soggettività:

perché si è reso grande facendosi piccolo.

(“Bisogna che Egli cresca – dice il Battista – ed io diminuisca” – Gv 3,30) (3).

 

Morale della favola: è inutile biasimare o condannare l’egoismo, oppure voler eliminare, come pretenderebbero i marxisti, la “proprietà privata dei mezzi di produzione”, se non si comincia a eliminare, sul piano animico, la “proprietà privata dei pensieri”. E’ insieme a questa, infatti, che sono nati l’ego e il sentimento (tipicamente borghese) dell’habeo ergo sum.

 

Dovremmo realizzare, insomma, non solo che il pensare ci è dato per percepire i pensieri

allo stesso modo in cui l’occhio ci è dato per percepire i colori o l’orecchio per percepire i suoni,

ma anche che l’uomo non è “generatore” della realtà (e delle idee che ne costituiscono l’essenza),

bensì della coscienza della realtà (e del pensare che ne afferra l’essenza).

 

 

Prima di allora si era avuta dell’anima una rappresentazione immaginativa.

Non si vedeva la sua essenza nella capacità di formare pensieri, ma nel suo partecipare al contenuto spirituale dell’universo.

Si stimava che le entità spirituali soprasensibili pensassero, che esse agissero nell’uomo e che anche pensassero in lui.

Si sentiva come anima ciò che del mondo spirituale soprasensibile viveva così nell’uomo” (pp. 55-56).

 

 

Ho ricordato, una sera, la “logica dell’essere”, la “logica dell’essenza” e la “logica del concetto” di Hegel.

 

Riprendendo i termini (tomistici) che abbiamo usato studiando La filosofia della libertà, potremmo dire

• che quella dell’essere è la logica del pensiero ante-rem,

che quella dell’essenza è la logica del pensiero in-re,

e che quella del concetto è la logica del pensiero post-rem.

 

Potrebbe divenire più chiaro, così, come il graduale svanire di ogni consapevolezza, tanto del pensiero in-re,

quanto, e a maggior ragione, del pensiero ante-rem, sia dovuto all’unilaterale imporsi del pensiero post-rem.

 

Sono due, in sostanza, le principali conseguenze di tale processo evolutivo

(al quale siamo però debitori – non dimentichiamolo – della nostra libertà “da”):

• la prima è che non solo è venuta meno

l’antica continuità tra il pensiero umano (post-rem) e il pensiero cosmico (in-re e ante-rem),

ma ha preso addirittura corpo un’opposizione

tra il pensiero umano, giudicato “immanente”, e quello cosmico, giudicato “trascendente”;

• la seconda è che il pensiero post-rem, una volta scisso da quello in-re e ante-rem,

si è trasformato in un pensiero, potremmo dire, supra-rem (sulla cosa): vale a dire,

in un pensiero del tutto soggettivo (“fenomenico”, direbbe Kant),

e quindi incapace di cogliere l’essenza della realtà (la realtà “in sé”).

 

 

(…) un tempo gli uomini ricevevano i pensieri da Michele; Michele amministrava l’intelligenza cosmica.

Dal secolo nono in poi gli uomini non sentivano più che Michele ispirava i loro pensieri.

Questi erano sfuggiti alla sua signoria; cadevano dal mondo spirituale nelle singole anime umane.

La vita del pensiero venne ormai sviluppata in seno all’umanità.

A tutta prima si fu incerti sulla natura del pensiero, e tale incertezza viveva nelle dottrine scolastiche.

Gli scolastici si divisero in realisti e nominalisti. I realisti, di cui furono a capo Tommaso d’Aquino e quelli più vicini a lui,

sentivano ancora l’antica parentela fra pensiero e oggetto. Vedevano perciò nei pensieri una realtà che vive negli oggetti.

Consideravano i pensieri dell’uomo come una realtà che dagli oggetti penetra nell’anima.

I nominalisti sentivano fortemente il fatto che l’anima forma i propri pensieri.

Sentivano i pensieri soltanto come un elemento soggettivo che vive nell’anima e nulla ha da fare con gli oggetti.

Credevano che i pensieri altro non fossero che nomi formati dagli uomini per gli oggetti

(allora non si parlava di “pensieri”, ma di “universali”, ma questo non modifica la sostanza della considerazione fatta,

perché i pensieri hanno sempre qualcosa di universale in confronto alle singole cose)” (p. 56).

 

 

• Per i realisti, il pensiero era una realtà che “vive negli oggetti” (in-re)

e che “dagli oggetti penetra nell’anima” (post-rem),

• mentre, per i nominalisti, che sentivano “fortemente il fatto che l’anima forma i propri pensieri”,

il pensiero era, come abbiamo appena detto, una realtà supra-rem: ossia

“un elemento soggettivo che vive nell’anima e nulla ha da fare con gli oggetti”.

 

Notiamo dunque il paradosso:

• da una parte, ci sono coloro che vogliono restare vicini a Michele

• e, dall’altra, coloro che invece se ne allontanano,

ma che, proprio per il fatto di allontanarsene, portano avanti l’evoluzione nella direzione della libertà (“da”).

 

Ciò non deve meravigliare, giacché quanto è positivo in una determinata fase evolutiva può diventare negativo in un’altra

(“L’ego fu un aiuto; – dice ad esempio Aurobindo – l’ego è l’ostacolo”) (4).

 

“All’alba della vita spirituale dei tempi nuovi” (5), allorché si preparava a nascere, cioè, l’anima cosciente

(la modernità, la scienza) erano di fatto “rivoluzionari” i nominalisti e “conservatori” i realisti.

Oggi, invece (e questo a partire dal 1879, anno in cui s’inizia la nuova reggenza di Michele),

sono “conservatori” (se non “reazionari”) i nominalisti e “rivoluzionari” i realisti:

• non già, si badi, i vecchi realisti dell’anima razionale-affettiva (come ad esempio i tomisti),

• ma i nuovi realisti dell’anima cosciente che vogliono riavvicinarsi a Michele per sviluppare la coscienza immaginativa

e cominciare così a trasformare l’ego nel “Sé spirituale” (di cui l’uomo si approprierà però soltanto sul futuro Giove).

 

 

Si può dire che i realisti volevano rimanere fedeli a Michele; anche dopo che i pensieri erano caduti dal suo dominio

in quello degli uomini, essi volevano, come pensatori, servire Michele, principe dell’intelligenza del cosmo.

I nominalisti, nella parte subcosciente della loro anima, compirono il distacco da Michele.

Essi considerarono proprietario dei pensieri non Michele, ma l’uomo. Il nominalismo guadagnò in diffusione ed influenza.

Ciò poté continuare fino all’ultimo terzo del secolo diciannovesimo” (pp. 56-57).

 

 

Aggiungiamo, a quanto abbiamo già detto, che

i nominalisti, dal punto di vista conoscitivo, erano allora dei “rivoluzionari” incoscienti o “subcoscienti”,

militanti per la libertà “da” (o libertà “negativa”),

• mentre noi siamo chiamati oggi a essere dei “rivoluzionari” coscienti,

militanti per la libertà “per” (o libertà “positiva”).

 

 

In quest’epoca gli uomini esperti nella percezione degli eventi spirituali in seno all’universo,

sentirono che Michele aveva seguito la corrente della vita intellettuale.

Egli era alla ricerca di una nuova metamorfosi del suo compito cosmico.

Prima egli faceva fluire i pensieri dal mondo spirituale esterno nelle anime degli uomini;

dall’ultimo terzo del secolo diciannovesimo in poi,

egli vuol vivere entro le anime umane in cui i pensieri vengono formati” (p. 57).

 

 

A partire dal 1879, il compito di Michele diviene, da notturno, diurno, o, da incosciente, cosciente,

al fine di permettere agli uomini di “buona volontà”

di ricongiungere, in grazia della sua mediazione eterica, la sfera fisica a quella animico-spirituale.

Ciò vuol dire che Michele prende ad agire sul piano della veglia.

 

Abbiamo già detto, in proposito, che il cosiddetto “ben dell’intelletto” (dono dello Spirito Santo) è, in essenza, il bene della veglia, e quindi un bene che non va diminuito, bensì accresciuto e spiritualizzato o “santificato”

(… “Alla svolta dei tempi / la luce universale dello spirito / entrò nella corrente terrena dell’essere; / oscurità notturna / aveva dominato, / chiara luce diurna irradiò nelle anime umane; …) (6).

Ora qual è il problema? E’ che oggi, per penetrare nel mondo spirituale, possiamo solo andare a dormire, rinunciando allo stato di veglia; per rimanere vigili dovremmo infatti sviluppare, al di là della coscienza rappresentativa, la coscienza immaginativa e quella ispirata, rispettivamente equivalenti, lo abbiamo detto, a un “sognare vigile” e a un “dormire vigile”.

 

 

Prima, gli uomini congiunti a Michele lo vedevano svolgere la sua attività nei dominii dello spirito;

ora essi riconoscono di dover lasciare che Michele dimori nel loro cuore;

ora gli consacrano la loro vita spirituale sostenuta dal pensiero;

e in libera, individuale vita di pensiero si fanno insegnare da Michele quali siano le giuste vie dell’anima.

Uomini che nella vita terrena precedente erano vissuti nell’essenza del pensiero ispirato,

ed erano quindi ministri di Michele, ritornati sulla terra sul finire del secolo diciannovesimo,

si sentirono spinti a siffatta volontaria comunità con Michele.

Considerarono ormai il loro antico ispiratore di pensieri come la guida nel pensare più alto” (p. 57).

 

 

Dal momento in cui l’uomo è giunto all’autocoscienza e alla libertà, Michele non può più guidarlo, come un tempo, mediante immaginazioni (sognanti) e ispirazioni (dormienti); gli si può però proporre come esempio o come modello: un esempio o un modello che costituisce, per ciascuno di noi, un’incessante fonte d’ispirazione ed emulazione nella lotta che è necessario condurre per liberare l’ego (il “precursore”) dalle grinfie degli ostacolatori.

Con l’avvento dell’autocoscienza, non è più Michele, insomma, a dover ispirare l’uomo, bensì è l’uomo a doversi ispirare a Michele. Questo ispirarsi a Michele equivale a un consacrarsi a Michele e, attraverso di lui, alla Vergine-Sophia e al Cristo.

 

 

Prima [dell’ultimo terzo del secolo diciannovesimo] l’uomo poteva soltanto sentire

come dal proprio essere si formassero i pensieri; dall’epoca indicata in avanti,

egli può elevarsi al di sopra del suo essere; può dirigere il suo senso interiore verso le regioni dello spirito;

là gli viene incontro Michele che si mostra congiunto fin dai tempi antichi a tutta la vita del pensiero.

Egli libera i pensieri dal dominio della testa; apre loro le vie del cuore; proscioglie dall’anima l’entusiasmo,

in modo che l’uomo possa dedicare la propria anima a ciò che può venir sperimentato nella luce del pensiero” (pp. 57-58).

 

 

Abbiamo visto che l’uomo sente “come dal proprio essere” si formino i pensieri,

in quanto è grazie al suo corpo fisico (agli organi di senso fisici e alla corteccia) che forma le rappresentazioni

(che mette poi in rapporto tra loro mediante il giudicare).

“Elevarsi al di sopra del suo essere” significa dunque, per l’uomo, elevarsi

dalla coscienza rappresentativa a quella immaginativa, e per ciò stesso dal corpo fisico al corpo eterico.

 

“Liberare i pensieri dal dominio della testa” vuol dire infatti liberarli dalla prigionia della testa fisica

per accedere alla testa eterica (o all’etere della testa, collegato al cakra o “fiore di loto” a 2 petali).

Non vuol dire, quindi, rinunciare alla testa o “perdere la testa” (come vorrebbe Lucifero), ma costringere Arimane a rientrare nei ranghi, dando “a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”: lasciando cioè ad Arimane la gestione del pensiero morto che pensa la morte (la realtà inorganica) e dando a Michele la gestione del pensiero vivo che pensa la vita (la realtà organica).

 

Michele – dice Steiner – apre agli uomini “le vie del cuore”; si tratta di quelle vie che, partendo dal cakra a 2 petali della testa, attraversano il cakra a 16 petali della laringe e arrivano al cakra a 12 petali del cuore.

Non le apre dunque sentimentalmente o emotivamente, bensì lucidamente (potremmo perfino dire “scientificamente”). Questa lucidità (o “scientificità”) non è però, come quella di Arimane, rigida e fredda (rigor mortis), ma capace di prosciogliere “dall’anima l’entusiasmo”: un entusiasmo che sgorga dal ”sacro cuore”, e che, di norma, ci è ignoto.

Al contrario, l’avanzare di Arimane (che va preparando la sua incarnazione) è, per l’anima, quello che l’avanzare della desertificazione è per la Terra. Ne sono una triste conferma i molti che ricorrono oggi ai più vari artifici (invariabilmente morbosi o distruttivi) pur di assaporare la fugace illusione di avere ancora un’anima o di essere vivi.

 

 

“L’epoca di Michele è sorta. I cuori cominciano ad avere dei pensieri;

l’entusiasmo non fluisce più soltanto da oscurità mistiche, bensì da chiarezza d’anima sostenuta dal pensiero.

Comprendere ciò vuol dire accogliere Michele nel proprio intimo.

I pensieri che oggi tendono ad afferrare la spiritualità devono germogliare da cuori che battono per Michele,

riconoscendolo nell’universo come il fiammeggiante principe del pensiero” (p. 58).

 

 

Potremmo dire

•  che quello che sente e non pensa è il cuore di Lucifero,

• che quello che pensa e non sente è il cuore (non-cuore) di Arimane,

• e che quello che pensa e sente (il carattere o la natura dei pensieri) è il cuore di Michele.

 

(Nel primo dei suoi quattro “Misteri drammatici”, La porta dell’iniziazione, Steiner fa dire a Lucifero:

“Uomo, conosci te e senti me”, e ad Arimane: “Uomo, conosci me e senti te” [7].)

 

L’”intelletto d’amore” o il “pensiero d’amore” (il pensiero del cuore)

è un intelletto o un pensiero luminoso, caldo, saggio, e per ciò stesso morale.

 

Com’è possibile, infatti, uno slancio mistico, così è possibile uno slancio scientifico-spirituale (ha scritto W.B.Yeats [1865-1939]: “Quanto più preciso e dotto il pensiero, tanto maggiore la bellezza, la passione”; e Goethe ha detto: “Solo ciò che è profondamente ed eternamente vero mi può dare gioia”).

“Occorre l’èmpito – afferma Scaligero – di una mistica nuova, che rechi in sé la forza di tutte le antiche mistiche, e in più un elemento nuovo nel mondo, un elemento assoluto ed eroico, capace di superare il limite [del pensiero astratto], che esiste soltanto ora nella sua totalità e ineluttabilità” (8).

Recita l’adagio: “Chi ha i denti non ha il pane, e chi ha il pane non ha i denti“. Capita, in effetti, che quanti sono capaci di slanci non abbiano il pensiero (e che i loro slanci non li liberino perciò da Lucifero), e che quanti hanno il pensiero non siano capaci di slanci (e che il loro pensiero non li liberi perciò da Arimane).

 

Massime 79/80/81   (17 agosto 1924)

 

 

79 – “Alla terza gerarchia (principati, arcangeli, angeli) ci si può spiritualmente accostare

se si imparano a conoscere pensare, sentire e volere in modo da scorgere in essi lo spirituale attivo nell’anima.

Il pensare pone a tutta prima nel mondo solo immagini, non qualcosa di reale.

Il sentire si muove in questo elemento immaginativo;

testimonia di qualcosa di reale nell’uomo, ma non può esplicarlo.

Il volere dispiega una realtà che presuppone il corpo, ma non collabora coscientemente alla sua configurazione.

L’essenziale che vive nel pensare, per fare del corpo il fondamento del pensare stesso,

l’essenziale che vive nel sentire, per fare del corpo il partecipe di una realtà,

l’essenziale che vive nel volere, per cooperare coscientemente alla sua configurazione,

è vivente nella terza gerarchia”.

 

 

Come vedete, si torna a parlare delle Gerarchie, ma da un punto di vista ancora diverso.

 

Le entità spirituali – ricorda Steiner –

• “ci possono aiutare solo se noi siamo in grado di formarci dei pensieri su di loro.

Anche se non siamo arrivati a penetrare con la chiaroveggenza nel mondo spirituale,

basta che sappiamo di loro per riceverne aiuto” (9).

 

Ho già ricordato che in un mio vecchio scritto (10) parlai

della terza come della Gerarchia dei “conoscitori del creato”,

della seconda come della Gerarchia dei “custodi del creato”,

della prima come della Gerarchia dei “creatori del creato”

(e della Trinità come della “creatrice dei creatori”).

 

Ebbene, è da un punto di vista del genere che Steiner torna qui a parlare delle Gerarchie, cominciando dalla terza: da quella, cioè, che non solo agisce, come abbiamo visto, nelle nostre anime, ma ch’è anche l’unica a essersi formata nel corso dell’evoluzione terrestre.

Che cosa abbiamo imparato, infatti, studiando La scienza occulta (11) e L’evoluzione secondo verità (12)?

Che durante l’evoluzione dell’antico-Saturno hanno fatto la loro esperienza “umana” (l’esperienza dell’autocoscienza) quelle che oggi sono le Archài, che durante l’evoluzione dell’antico-Sole hanno fatto la loro esperienza “umana” quelli che oggi sono gli Arcangeli, e che durante l’evoluzione dell’antica-Luna hanno fatto la loro esperienza “umana” quelli che oggi sono gli Angeli (le entità della seconda e della prima Gerarchia hanno fatto invece la stessa esperienza nel corso di cicli evolutivi precedenti).

 

Quando parliamo della terza Gerarchia, parliamo pertanto di entità che sono più intimamente connesse alla nostra storia, giacché la Terra (sulla quale tocca a noi a fare l’esperienza “umana”) non è che una metamorfosi dell’antica-Luna, dell’antico-Sole e dell’antico-Saturno.

 

In quanto attiva nell’anima umana,

la terza è la Gerarchia del pensare, del sentire e del volere,

o, più precisamente,

dell’”essenziale che vive nel pensare”, dell’”essenziale che vive nel sentire” e dell’”essenziale che vive nel volere”.

 

Di norma, non ne siamo però consapevoli: ignoriamo infatti l’essenza del pensare, poiché ne conosciamo solo il riflesso (corticale), e ignoriamo l’essenza del sentire e quella del volere, poiché le sperimentiamo, rispettivamente, in stato di sogno e di sonno (anche durante la veglia).

Potremmo quindi dire, volendo,

che l’essenza del pensare è precosciente,

che l’essenza del sentire è subcosciente,

e che quella del volere è incosciente.

 

La coscienza di tali essenze dobbiamo perciò conquistarcela, cominciando, come sappiamo, da quella del pensare

(è partendo dalla testa, dice Steiner, che dobbiamo “ricostruire l’uomo totale”). Perché?

Perché nel caso del pensare abbiamo a che fare, allo stato di veglia, con il suo riflesso,

e quindi con una forma (una rappresentazione) “chiara e distinta”

(con una “identità riflessa”, dice Scaligero) alla quale dobbiamo dare forza (immaginativa),

mentre, nel caso del sentire,

ci troviamo più o meno in balia di una forza che, come quella del sogno, ha una forma crepuscolare

e, nel caso del volere, di una forza ancora maggiore che, come quella del sonno, ha una forma totalmente oscura.

 

 

80 – “Alla seconda gerarchia (dominazioni, virtù, potestà) ci si può spiritualmente accostare

se si riguardano i fatti naturali come manifestazioni di uno spirituale vivente in essi.

La seconda gerarchia ha allora la natura come sua sede, per agirvi sulle anime”.

 

 

La conoscenza sensibile comincia con la percezione e finisce con la rappresentazione; grazie a La filosofia della libertà, scopriamo però che la rappresentazione nasce dall’unione del percetto col concetto: ossia dall’incontro di ciò che proviene dal mondo esterno o dalla natura con ciò che proviene dal mondo interno o, per essere più precisi, dal mondo “esterno dell’interno” dello spirito.

Ciò vuol dire, dunque, che la rappresentazione cosciente nasce dall’incontro tra la terza Gerarchia (quella dell’anima) e la seconda (quella che ha “la natura come sua sede, per agirvi sulle anime”), e quindi, come abbiamo detto, tra la Gerarchia del post-rem, che “conosce” la natura, e la Gerarchia dell’in-re, che “custodisce” la natura.

 

Pensate alla scala musicale. Abbiamo, che so, un Do e, dopo un intervallo (un’ottava sopra), un altro Do. Ebbene, il rapporto tra questi due Do è analogo a quello tra il percetto (collegato alla seconda Gerarchia, e in particolare agli Elohim o Spiriti della forma) e il concetto (collegato alla terza Gerarchia, e in particolare alle Archài).

 

Il percetto e il concetto sono dunque una stessa cosa (un’essenza o un’entelechia)

che viene sperimentata a due diversi livelli di coscienza e di realtà (spirituale).

 

 

81 – “Alla prima gerarchia (serafini, cherubini, troni) ci si può spiritualmente accostare

se si riguardano i fatti esistenti nei regni della natura e dell’uomo

come le azioni (creazioni) di uno spirituale attivo in essi.

La prima gerarchia ha allora i regni della natura e dell’uomo come suoi campi di attività, e in essi si esplica”.

 

 

La prima, come abbiamo detto, è la Gerarchia dei “creatori del creato”,

e quindi, precedendo il creato quale “idea” il creato quale “cosa”, la Gerarchia dell’ante-rem.

(Potrete sincerarvi del valore di queste categorie “scolastiche” consultando, di Steiner, La filosofia di Tommaso d’Aquino [13].)

 

Massime 82/83/84     (24 agosto 1924)

 

 

82 – “L’uomo alza lo sguardo ai mondi stellari;

quel che ivi si offre ai sensi sono soltanto le manifestazioni esteriori di quelle entità spirituali e delle loro azioni,

di cui si è parlato in precedenza come degli esseri dei mondi spirituali (gerarchie)”.

 

 

Non ricordo se vi ho già consigliato di accompagnare lo studio delle massime che riguardano le Gerarchie con quello del ciclo di conferenze intitolato: Gerarchie spirituali e loro riflesso nel mondo fisico. Zodiaco-Pianeti-Cosmo (14).

Dal momento che questa massima fa esplicito riferimento al mondo stellare, sarà bene comunque ricordare, come fa ad esempio Prokofieff ne Le dodici notti sante e le Gerarchie spirituali (15), che le entità delle diverse Gerarchie sono in relazione tanto con lo Zodiaco (spirituale) quanto con i pianeti (animici).

 

Dal punto di vista planetario, infatti, gli Angeli sono in rapporto con la Luna, gli Arcangeli con Mercurio, le Archài con Venere, gli Spiriti della forma con il Sole, gli Spiriti del movimento con Marte, gli Spiriti della saggezza con Giove, e i Troni, ossia le entità della prima Gerarchia subordinate ai Cherubini e ai Serafini, con Saturno.

Dal punto di vista zodiacale, invece, l’Anthropos è in relazione con la regione dei Pesci, gli Angeli con la regione dell’Acquario, gli Arcangeli con la regione del Capricorno, le Archài con la regione del Sagittario, gli Spiriti della forma con la regione dello Scorpione, gli Spiriti del movimento con la regione della Bilancia, gli Spiriti della Saggezza con la regione della Vergine, i Troni con la regione del Leone, i Cherubini con la regione del Cancro, e i Serafini con quella dei Gemelli.

Per quanto riguarda, infine, le regioni del Toro e dell’Ariete, vi leggo ciò che scrive Prokofieff: “Nel momento del Battesimo [nel Giordano] la Trinità superiore si riflette nelle profondità dell’esistenza terrestre: il Principio dello Spirito, come Colomba (Toro), il Principio del Figlio, come Agnello (Ariete), e il Principio del Padre, come Voce dal Cielo, da quelle sfere [oltre lo Zodiaco], a cui non può elevarsi la forza dell’immaginazione umana” (16).

 

 

83 – “La terra è il teatro dei tre regni naturali e del regno umano,

in quanto questi manifestano la parvenza sensibile esteriore dell’attività di entità spirituali”.

 

 

“Tutto l’effimero non è che un simbolo”, dice Goethe.

Abbiamo infatti visto che, nei tre regni naturali e nel regno umano”, l’“effimero” (il caduco) è “simbolo”, “icona” o “epifania” degli esseri elementari e delle entità della terza, della seconda e della prima Gerarchia.

 

 

84 – “Le forze che agiscono da parte di esseri spirituali nei regni naturali della terra e nel regno umano, 

si rivelano allo spirito dell’uomo attraverso la vera conoscenza spirituale dei mondi stellari”.

 

 

La “vera conoscenza spirituale dei mondi stellari” ha ben poco dunque a che fare,

tanto con l’odierna Astrologia (luciferizzata), quanto con l’odierna Astronomia (arimanizzata).

 

Note:

  1. Dizionario di Filosofia – Rizzoli, Milano 1980, p. 86;
  2. R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 89;
  3. cfr. Del “prendersi sul serio”, 23 febbraio 2003;
  4. cfr. Shri Aurobindo: Considerazioni e pensieri – Bocca, Milano 1943;
  5. cfr. R.Steiner: I mistici all’alba della vita spirituale dei tempi nuovi – Libritalia, Città di Castello (PG) 1997;
  6. R.Steiner: Lettere ai soci. 1924 – Antroposofica, Milano 1989, p. 21;
  7. cfr. R.Steiner: La porta dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1984;
  8. M.Scaligero: Graal. Saggio sul Mistero del Sacro Amore – Tilopa, Roma 1982, p. 69;
  9. R.Steiner: Il legame fra i vivi e i morti – Antroposofica, Milano 2010, p. 90;
  10. cfr. La logica hegeliana e le gerarchie spirituali, 7 dicembre 2003;
  11. cfr. R.Steiner: La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969;
  12. cfr. R.Steiner: L’evoluzione secondo verità – Antroposofica, Milano 2004;
  13. cfr. R.Steiner: La filosofia di Tommaso d’Aquino – Antroposofica, Milano 1956;
  14. cfr. R.Steiner: Gerarchie spirituali e loro riflesso nel mondo fisico. Zodiaco-Pianeti-Cosmo – Antroposofica, Milano 1995;
  15. cfr. S.Prokofieff: Le dodici notti sante e le Gerarchie spirituali – Arcobaleno – Oriago di Mira (Ve), 1990;
  16. ibid., p. 45.