Come ci si avvicina all’antroposofia


 

1. Sul modo di porre i problemi

 

Nelle Linee direttrici di scienza dello spirito (Anthroposophische Leitsatze) di Rudolf Steiner, troviamo scritto: ▸«Possono essere antroposofi soltanto coloro che sentono certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, allo stesso modo con cui si sente la fame e la sete».

 

L’universo e l’uomo, se considerati con lo sguardo fisico e pensati in categorie concettuali dell’intelletto logico, appaiono come un immenso enigma. Ciò che esiste appare, ma non spiega al contempo il perché e il come della sua esistenza. Per il fatto che l’uomo moderno è dotato soltanto della percezione fisico-sensoria e del pensiero logico-concettuale, deve di necessità vedere il mondo come una realtà senza causa e senza fine. La causa e il fine, sia dell’universo e sia dell’uomo, non stanno difatti nell’ambito del percepibile. Il concetto di causa e il concetto di fine sono creati dal pensiero dell’uomo, ma non trovano un corrispondente elemento nella realtà. Da questo fatto nasce una discrepanza essenziale tra pensiero e percezione. Vediamo ciò con un esempio tratto dalla comune esperienza.

 

L’uomo osserva come la vita umana cominci con la nascita e termini con la morte. Nascita e morte rappresentano i limiti della percezione dell’esistenza dell’uomo. Il pensiero crea però per proprio conto il concetto di causa e il concetto di fine; questi concetti non s’adeguano però ai limiti della percezione, ma li oltrepassano. Nessun essere umano normalmente costituito, può accettare la seguente proposizione: «La causa dell’uomo è la nascita e il fine dell’uomo è la morte».

Nel concetto di causa è insito il concetto di pre-esistenza in un ordine reale diverso da quello in cui appare la conseguenza della causa, ossia l’effetto. Certe cose sono più difficili a dirsi che a capirsi. Perciò cercherò di spiegarmi con qualche esempio.

Consideriamo un orologio; vi sembra possibile che la causa dell’esistenza di un orologio sia anche un orologio? Evidentemente no. Nessuna cosa può avere la causa della sua esistenza e del suo divenire in sé o in una realtà del suo stesso ordine. Dal colore non si produce colore, come dalla gallina non nasce una gallina, ma un uovo. Per questa ragione noi siamo intimamente persuasi, qualunque sia la nostra concezione del mondo, che l’uomo non può essere la causa dell’uomo.

 

Nel concetto di fine è a sua volta contenuto il concetto d’un inizio.

Lo studente studia per diventare medico. Il fine della sua presente fatica presuppone una nuova attività in futuro.

Nel fine c’è dunque sempre l’idea del principio in un ordine reale diverso.

 

Ecco perché non possiamo istintivamente, per quella stessa forza di pensiero che agisce in noi magari a nostra insaputa, accettare l’idea che la nascita sia la causa dell’esistenza dell’uomo e che la morte sia il fine della vita. Il pensiero si spinge al di là della nascita e al di là della morte, ma in questo suo andar oltre non ha niente su cui appoggiarsi. Esperimenta perciò in sé un certo vacillamento e si ritrae impaurito.

Il pensiero supera i limiti della percezione; da tale fatto sorge il problema, la domanda. Quando pensiero e percezione coincidono, lo spirito umano è soddisfatto e non sente il bisogno di porsi problemi. Ciò però non avviene spesso. Il più delle volte il pensiero è molto più vasto del contenuto percettivo. Nell’universo allora tutto appare oscuro ed enigmatico.

 

Di fronte a una realtà in cui pensiero e percezione appariscono discrepanti, l’uomo può assumere due diversi fondamentali atteggiamenti interiori. Può dare maggior valore al pensiero o alla percezione.

• Se dà maggior valore al pensiero dice a se stesso: ▸«La realtà non si esaurisce nella percezione. Il pensiero mi fa intuire l’esistenza di una realtà di ordine diverso, ma non mi conduce in essa. Dove non c’è la percezione, c’è l’ignoto. La conoscenza umana ha dei limiti e questi limiti sono segnati dalla percezione. Oltre la percezione posso andare soltanto con la fede religiosa».

• Se viceversa dà più importanza alla percezione, fa il ragionamento che segue: ▸«Non vi può essere alcun’altra realtà al di là del percepibile. Il pensiero tuttavia aggiunge a questa realtà un elemento nuovo, non proprio ad essa, quindi l’accresce, la gonfia, le crea intorno un margine concettuale impenetrabile. Dove c’è il pensiero, c’è l’ignoto. La conoscenza umana ha dei limiti e questi limiti sono rappresentati dal pensiero. Oltre il pensiero posso andare soltanto con l’ipotesi scientifica».

 

Queste due concezioni opposte conducono tuttavia a uno stesso risultato: la persuasione che vi siano dei limiti alla conoscenza. Chiamiamo, tanto per intenderci, queste due estreme concezioni, l’una idealismo e l’altra materialismo.

 

Per chiarire il nostro pensiero, immaginiamo ora un idealista e un materialista davanti a un oggetto che non hanno mai visto in precedenza, per esempio un orologio. Essi non sanno nulla né dell’orologiaio, né delle leggi fisiche sulle quali si basa il meccanismo dell’orologio. Questa è naturalmente soltanto un’ipotesi, ma serve al nostro scopo di comprendere i due fondamentali atteggiamenti dello spirito umano di fronte alla realtà.

 

L’idealista, osservando l’orologio, per lui ignoto, si dice: ▸«Qui c’è un oggetto complesso. Esso non può essersi formato da sé. Come l’uomo produce nel suo spirito i pensieri, così un essere superiore ha creato la sostanza con la quale è fatto questo oggetto. Inoltre vedo del movimento: dentro si muovono delle ruote dentellate e fuori due sfere. Ma poiché nulla può muoversi per conto proprio, devo immaginare che un essere invisibile spinga con le sue dita le ruote e le lancette. Perciò una parte di questo oggetto mi rimane sconosciuta: io non posso percepire né chi lo ha creato, né chi lo anima».

 

Il materialista fa un ragionamento opposto: ▸«Qui c’è un oggetto che per il semplice fatto di esistere fa parte della realtà. Non c’è alcuna ragione ch’io lo consideri come un enigma. La materia fa parte dell’ordine naturale della realtà. In questo oggetto però, oltre che materia, esiste anche un elemento estraneo alla realtà percepibile, cioè il pensiero. Come mai la materia si è organizzata in modo da esprimere alla fine una categoria concettuale? Una parte di questo oggetto mi rimane sconosciuta, cioè l’intima legge della sua formazione che posso anche comprendere, ma non percepire. Devo porre l’ipotesi di un mondo materiale tanto sottile che non si lascia percepire. Per ora questo mondo mi rimane ignoto».

 

Forse i miei ascoltatori non saranno persuasi che c’è la possibilità di ragionare, tanto nel senso idealistico che in quello materialistico, in modo così balordo davanti a un oggetto così comune come è l’orologio. Se, però, al posto dell’orologio, mettiamo l’universo, udremo l’idealista e il materialista esprimersi proprio nel modo sopra descritto. La stranezza dei rispettivi ragionamenti sta in questo, che l’idealista si preoccupa dell’esistenza della materia e il materialista si turba davanti all’idea.

 

Ogni uomo di fronte al mondo si pone delle domande. Dal modo con cui le esprime, comprendiamo subito se nella sua anima prevalga la tendenza spiritualistica o quella materialistica.

Dunque il semplice fatto di porsi delle domande di fronte all’enigmaticità del mondo, non è sufficiente indizio di spirito antroposofico. Domande si pongono tutti; moltissimi però s’accontentano di una parvenza che per l’appunto si trova o nella fede religiosa in un Dio invisibile o nell’ipotesi scientifica di una materia invisibile.

 

Antroposofo è colui che per la sua domanda esige una risposta reale. Chi ha fame vuole mangiare; se non trova cibo, muore. Così è l’anima antroposofìca: se non trova nutrimento, muore.

Chi vuol ricevere una risposta reale, deve anche porsi una domanda reale.

Spesso udiamo domande di tal genere: «Chi è Dio?» – «Come Dio creò il mondo?» – «Perché lo creò?». Sono domande che partono da anime colorite idealisticamente. Diciamo subito che queste domande sono completamente ingiustificate. Non sono domande reali, ma fatte per puro giuoco mentale.

Domanda reale è quella che poggia sulla percezione di un oggetto.

 

Percepibile e reale è l’universo che si squaderna tutt’intorno a noi e si manifesta ai nostri sensi. Chiedere se vi sia qualcosa oltre l’universo è un assurdo. È lecito invece chiedere allo stesso universo di dirci, attraverso la manifestazione del suo essere e per mezzo delle leggi che lo governano, in che senso esista e il modo del suo divenire. Con questo procedimento basato sul reale, possiamo avere speranza di ottenere una risposta reale. In genere, osserviamo come l’idealista si fa delle domande per pura illazione logica e di conseguenza non ottiene alcuna risposta. Da ciò è tratto a concludere: vi sono dei limiti alla conoscenza umana.

 

Anche il materialista si fa delle domande. Egli osserva, p.e., come la calamita attiri dei pezzettini di ferro e come ogni oggetto sia sottoposto alla forza di gravità. Il materialista non può afferrare questa forza di gravità se non traducendola in una formula matematica e in una legge della natura espressa in concetti. Ciò non gli basta. Egli ragiona: ▸«Sì, nella mia mente c’è il concetto della legge della natura, ma, fuori, nella stessa natura, ci deve essere qualcosa di più reale del pensiero, perché un pensiero non sarà mai capace di attirare un oggetto e di far cadere una pietra».

 

Il materialista è perciò costretto ad aggiungere al mondo percepito un mondo impercepibile che per asserto ipotetico è retto dalle stesse leggi e ha le stesse qualità del primo. E poiché in questo secondo mondo non può entrare che con l’ipotesi, anche il materialista è costretto a dichiarare che vi sono limiti alla conoscenza umana.

 

L’antroposofia invece, all’opposto di quanto dice la religione e la scienza, afferma che non vi sono limiti alla conoscenza umana. Però a questa affermazione dell’antroposofia non si può dare un senso assoluto, ma soltanto quel senso preciso che le viene dal complesso della teoria della conoscenza antroposofica.

L’antroposofia non pretende certo di rispondere alle domande dell’idealista e del materialista.

Per accontentare l’idealista essa non mostrerà certamente un essere divino che secerne dal suo corpo la sostanza del ferro come il filugello un filo di seta, né per appagare il materialista dirà che c’è un’invisibile mano eterica che esce dalla calamita, afferra il pezzettino di ferro e glielo appiccica. L’antroposofia dirà semplicemente che le domande dell’idealista e del materialista sono errate e che perciò, almeno nel senso in cui sono formulate, non hanno e non possono avere una risposta. Se poi da questo fatto, la religione e la scienza sono indotte a dichiarare che vi sono dei limiti alla conoscenza, esse dimostrano semplicemente di ignorare che cosa sia la conoscenza.

 

La conoscenza si fonda su due elementi: la percezione e il concetto. Quando uno di questi due elementi manca, non si può più parlare di conoscenza. Nelle formulazioni teoriche sul problema conoscitivo, l’idealista prescinde dalla percezione e il materialista dal concetto, perciò non è da meravigliarsi se le loro concezioni cadano nel vuoto.

La teoria della conoscenza antroposofica è molto complessa, ma nella Scienza Occulta, la troviamo espressa in una immagine evidente.

 

Su una strada vediamo impressi i solchi di un carro. Ciò fa sorgere in noi delle domande, alle quali, sempre basandoci sull’obiettiva percezione, possiamo dare delle adeguate risposte. Dalla profondità del solco, possiamo capire se il carro era pesante, dalla disposizione con cui si susseguono i segni degli zoccoli dei cavalli possiamo indovinare la direzione seguita, e così via. Ma è ancora lecito chiedere: «Chi guidava il carro?» – «Che intenzioni aveva?» – «Quali pensieri passavano per la sua mente?» .

 

Queste domande sono destinate a cadere senza risposta, ma ciò non deve indurci a concludere che vi siano dei limiti alla conoscenza umana. La conoscenza umana si fonda difatti sulla percezione e sul concetto. Nel fare una domanda destinata a portarci alla conoscenza,”dobbiamo perciò basarla sempre sulla percezione. Il problema conoscitivo si svolgerà in modo che nella risposta alla percezione si aggiungerà il corrispondente concetto. La conoscenza non può dare nulla più di questo. Il giusto processo conoscitivo si svolge perciò in due fasi: nella domanda la percezione, nella risposta il concetto.

 

L’idealista e il materialista sono costretti a dichiarare che vi sono limiti alla conoscenza, perché non seguono questa via. L’idealista nella domanda parte da un concetto e il materialista nella risposta vorrebbe trovare una percezione. Entrambi si allontanano in tal modo dalla vera conoscenza e il primo deve sostituirla con la fede, mentre il secondo mette al suo posto l’ipotesi.

 

La conoscenza antroposofica sta ugualmente lontana tanto dall’idealismo che dal materialismo. I problemi che l’antroposofia pone sono sempre fondati sulla percezione, e i relativi concetti sono sempre tratti dal mondo delle idee. Per l’antroposofia non esiste alcuna realtà oltre la percezione e il concetto; in essi si esaurisce tutto il reale. Percezione e concetto hanno uguale valore per l’antroposofo; essi gli appaiono come espressioni paritetiche e complementari della realtà.

 

Per tutte queste ragioni possiamo definire la concezione antroposofica del mondo

come un positivismo sensibile ideale, che si fonda ugualmente sulla materia e sullo spirito.

 

 

2. L’uomo e il mondo

 

Si avvicina giustamente all’antroposofia colui che, nel chiedere una spiegazione del mondo, elimina tutte le domande che non si basano sulla diretta esperienza, che non poggiano sull’immediato dato percepito. Le questioni sull’esistenza di Dio, sul valore della vita, sulla causa e sul fine dell’universo, sulla missione dell’umanità appaiono all’antroposofo vuote enunciazioni dell’intelletto astratto, e perciò egli le pone provvisoriamente in disparte.

Per l’antroposofo vi sono due unici dati immediati: l’uomo e il mondo. Tra questi due dati egli vuol stabilire una relazione e fondare con ciò tutto l’edificio della conoscenza.

 

L’uomo esperimenta il mondo in modo unitario attraverso la percezione. Una pietra, una pianta, un animale, un altro uomo gli appaiono unicamente come percezione, non sono per lui altro che percezione. A ciò che si esaurisce nella percezione egli dà il nome di natura.

 

L’uomo esperimenta se stesso in un duplice modo.

• Una parte del suo essere, il suo corpo, gli appare come percezione. Sa che questo arto gli appartiene per mezzo della sensazione, ma d’altra parte esso non rientra nella sua coscienza e perciò egli lo deve considerare come natura.

• Un’altra parte del suo essere, la sua interiorità, viene esperimentato dall’uomo come autocoscienza. Qui egli sente veramente se stesso: vive nei suoi pensieri, sentimenti e atti volitivi in modo immediato che è più che autopercezione, è autocoscienza.

 

Tale fatto scava un incalcolabile abisso, apre un immenso divario tra l’uomo e il mondo.

Il mondo è pura natura (percezione).

La parte esteriore dell’uomo è bensì immersa nella natura, ma è molto più che natura: è vita e sensazione.

 

Qui sorge il primo grande problema antroposofico: la vita e la sensazione degli arti corporei non possono venir spiegati restando nell’ambito della natura. Dove va dunque ricercata la loro origine?

 

La parte interiore dell’uomo rivela un’essenza completamente diversa da quella della natura. Si può anzi dire che rappresenta un’opposizione alla natura perché nessuna delle leggi che vigono in questa può venire applicata alla vita interiore dell’uomo.

 

• La natura è percepibile e ponderabile,

• l’essenza interiore dell’uomo è invece impercepibile e imponderabile.

 

Per avere un’immagine del grandioso contrasto tra la natura e lo spirito, paragoniamo un sasso con un pensiero. Che cosa hanno essi in comune? Assolutamente nulla. Appartengono a due ordini della realtà completamente diversi.

 

Eppure l’uomo esperimenta giorno per giorno, ora per ora, che la sua essenza interiore, il suo spirito, benché diverso dalla realtà esterna in senso assoluto, per il fatto di essere immerso in quella semi-natura che è la corporeità, dipenda del tutto dalle condizioni che dominano negli arti esteriori. Questa dipendenza nell’uomo tra spirito e materia è ben poco reciproca. Lo spirito è incapace di dominare la materia, mentre la materia soggioga completamente lo spirito. Un semplice mal di capo può impedire di pensare.

 

Una volta, da un giovane amico, ho udito fare questo ragionamento: ▸«Se ricevo una percossa sulla testa in modo che qualche centro cerebrale venga leso, cado in svenimento. Ciò dimostra la stretta dipendenza della mia coscienza dal mio cervello. La morte distruggerà il mio cervello. Pertanto dopo la morte non avrò più nemmeno un barlume di coscienza, non esisterò più».

 

Contro questo ragionamento non si può obbiettare nulla in senso logico. Esso nasce dalla diretta esperienza. Certo è che siffatti pensieri possono portare lo sgomento nella vita dell’anima. Questo sgomento può portare all’antroposofia, perché costringe l’anima a formulare con tutta chiarezza e crudezza il secondo grande problema antroposofico:

l’esperienza dimostra che l’essere interiore dell’uomo dipende completamente dal corpo.

Vi è per l’uomo la possibilità di una cosciente e reale esistenza

indipendente da qualsiasi condizione esteriore?

 

A questo problema l’antroposofia risponde in due modi:

• uno puramente teorico      • e un altro fondato sull’esperienza.

 

Tra le opere del Dottor Steiner troviamo una serie di otto meditazioni per il progresso interiore. La prima di queste meditazioni ha per titolo: colui che medita cerca di acquistarsi una giusta rappresentazione del proprio corpo fisico. Questa meditazione dimostra per appunto come in modo puramente conoscitivo, congiungendo cioè la giusta percezione con l’esatto concetto del corpo fisico, l’uomo giunge alla persuasione della sua sopravvivenza.

Noi cercheremo qui ora di indicare l’altra via che conduce non solo alla conoscenza, ma all’esperienza diretta dell’anatomia spirituale dell’entità umana.

 

Come prima cosa cerchiamo di renderci conto che la coscienza dipende dalla percezione. L’uomo acquista coscienza quando in qualunque modo s’accorge che c’è una realtà al di fuori di lui. Se camminando distratti per la via andiamo a dar di cozzo contro un lampione, abbiamo l’impressione che il colpo ricevuto ci abbia ridestati. Possiamo immaginare ogni percezione, di qualunque genere essa sia, come una specie di piccola scossa psichica che desta la nostra coscienza. Per ritornare al ragionamento dianzi esposto dal mio giovane amico, ora possiamo comprendere perché una lesione cerebrale tolga la coscienza. Quando il cervello è leso non percepiamo più, quindi non abbiamo più coscienza.

 

L’uomo vive in due mondi:    • nel mondo dei sensi    • e nel mondo dei pensieri.

Ha la percezione del sasso e anche il concetto del sasso. Il secondo dipende dal primo: non posso pensare sul sasso se prima non l’ho visto. Perciò Tommaso d’Aquino dice: ▸«Non vi è nulla nell’intelletto che non vi sia giunto per via dei sensi». Anche da ciò si vede che il senso è essenziale per la coscienza.

 

Ora dobbiamo cogliere l’essenza della diversità delle esperienze che l’uomo fa nei due mondi nei quali vive. Diciamo subito che ciascuno di questi due mondi gli nasconde metà della realtà.

Il mondo dei sensi gli apparisce come percezione della materia e gli nasconde il suo contenuto di pensiero. Davanti a un orologio, riesco a vedere soltanto il suo aspetto esterno e non i pensieri che vi ha messo dentro l’orologiaio.

Nel mondo dei pensieri avviene l’opposto. Qui ho tutto come idea e niente come percezione.

 

Per avere il pensiero nel mondo dei sensi, devo toglierlo a prestito dal mondo interiore delle idee, e per avere la percezione nel mondo dei pensieri devo assumerla dal mondo dei sensi. Nella mia mente esiste il concetto di triangolo; se voglio avere anche la percezione di un triangolo, devo tracciare un corrispondente disegno su un foglio di carta.

 

Il mondo dei sensi è il mondo della coscienza perché ci dà la percezione.

In che caso il mondo interiore dello spirito potrebbe anche esso diventare mondo della coscienza?

Nel caso che anche il mondo dello spirito ci apparisse come percezione.

Con ciò abbiamo già indicata la via per giungere all’esperienza della coscienza al di fuori del corpo fisico.

Si tratta di acquistare nuovi sensi per percepire quel mondo nel quale viviamo solo come esseri pensanti.

 

Per fare tanto è necessario in un certo qual modo rovesciare il comune rapporto tra la vita dei sensi e la vita del pensiero. Questo comune rapporto è indicato dalle già citate parole di Tommaso d’Aquino: «Non vi è nulla nell’intelletto che non vi sia giunto per la via dei sensi».

Orbene, per lo scopo sopra indicato, è necessario mettere nell’intelletto proprio qualcosa che non sia stato prima nel senso. A ciò giovano immagini simboliche costruite per intima necessità e non in modo di essere una semplice riproduzione di quanto esiste nel mondo dei sensi.

 

Prendiamo in mano un seme qualunque. Da questo seme si svilupperà una pianta. Il pensiero ce lo attesta in modo irrefutabile; la percezione in seguito ce lo confermerà. Noi però non aspettiamo di avere la percezione. Guardiamo il seme e ci immaginiamo la pianta.

Che cosa è veramente questa pianta-immagine che abbiamo in tal modo nella mente? È niente altro che un concetto reso percepibile. In tal modo si percorre la strada dell’esperienza quotidiana alla rovescia.

Di solito abbiamo prima la percezione e poi il concetto. Con il processo seguito sopra si ottiene prima il concetto e poi si passa alla percezione.

Si potrà obiettare che questa percezione è una pura illusione. Sì, dapprincipio lo è; essa ha soltanto lo scopo di sviluppare nuovi sensi. Una volta che questi entrino in attività, la percezione da illusoria diventa reale.

 

Questa percezione però non è più una percezione del mondo dei sensi ottenuta per il tramite del corpo fisico.

È una percezione del mondo delle idee ottenuta per mezzo di sensi interiori.

Ne risulta una nuova coscienza.

Questa non dipende più in alcun modo dalle condizioni corporee.

 

Facciamoci una domanda: un uomo che possiede questa coscienza soprasensibile, se ricevesse un colpo in testa, andrebbe ancora in svenimento? Egli perderebbe naturalmente la percezione del mondo fisico, ma avrebbe tuttavia la percezione del mondo interiore delle idee. Ciò sosterrebbe la sua coscienza.

Per la via che qui abbiamo indicata, l’antroposofia conduce l’uomo

alla reale e cosciente esperienza del proprio essere in una sfera che trascende la realtà fisica.

 

La duplice coscienza

• quella che deriva dalla percezione nel mondo dei sensi

• e quella che nasce dalla percezione nel mondo dello spirito

è propria dell’Iniziato.

 

• Quando si trova nel mondo dei sensi, l’Iniziato come un qualunque uomo vivo,

trae la percezione dal mondo fisico e il concetto dal mondo spirituale;

• quando si trova invece nel mondo superiore, come un qualunque uomo cosiddetto morto,

riceve la percezione dal mondo spirituale e il concetto dal mondo fisico. Il rapporto è invertito.

 

Per comprendere ciò, immaginiamo un uomo disincarnato, cioè morto, davanti a un orologio. Il morto non percepisce naturalmente l’orologio, ma vede l’idea. Quando dico vede l’idea, non intendo significare che egli l’abbia sotto forma di concetto come l’abbiamo noi; no, egli la percepisce.

Che cosa deve mettere al posto della concretezza fisica dell’orologio che non percepisce?

Deve mettere un concetto.

Ecco in che senso il morto – e anche l’Iniziato quando si trova nei mondi superiori – deve trarre i concetti per le sue percezioni dal mondo fisico.

 

A questo punto si può rilevare che non è troppo comodo entrare nei mondi spirituali con una disposizione d’anima materialistica. Si dirà che entrando nei mondi spirituali il materialista ha modo di correggere la sua opinione. Così però non è. Materialista, abbiamo detto, è colui che dà maggior valore alla percezione che ai concetti. Nel mondo spirituale il mondo dei concetti è il mondo fisico. Il materialista perciò, appena entrato nei mondi superiori, comincerà a parlare dei limiti della conoscenza e dirà che il mondo fisico è un’invenzione di menti fantasiose.

Da ciò si vede come sia importante assumere un giusto atteggiamento di fronte alla realtà proprio nel mondo fisico.

Se la nostra disposizione animica di fronte alla realtà è errata nel mondo dei sensi, lo sarà anche, o assai di più, nel mondo spirituale in cui entreremo dopo varcata la soglia della morte.

L’antroposofia vuol servire all’uomo di orientamento sia nel mondo fisico che in quello spirituale.

 

Dannosa, forse ancora più del materialista, è quella disposizione animica che abbiamo definita idealismo. Si potrebbe pensare che il soggiorno nei mondi spirituali riesce di grande soddisfazione all’idealista. Così invece non è. Nei mondi spirituali l’idealista esperimenta quel medesimo senso di vuoto che prova qui in Terra. Rimane un idealista. Cioè non dà valore al mondo dello spirito e pone i suoi ideali nel mondo dei sensi, che ora gli appare come mondo delle idee.

 

Si conosce l’antroposofo dall’intensità con la quale sente e dal modo con cui pone i problemi. Con pochi cenni abbiamo cercato di caratterizzare questo modo sulla base della teoria della conoscenza. Se non si pone giustamente un problema non si arriva mai alla realtà.

 

L’essenza dell’antroposofia sta tutta nel suo positivismo sensibile ideale,

nell’uguale valore che essa dà alla percezione e al concetto,

nell’accettazione paritetica della materia e dello spirito.

 

Spesso accade che uomini delle più varie tendenze religiose ed esoteriche vengono a contatto con l’antroposofia. Essi trovano ingiustificata l’intransigenza dell’antroposofia rispetto le sue proprie basi concettuali. Di solito ragionano così: ▸«In fondo anche noi crediamo in Dio, nei mondi spirituali, nelle Gerarchie angeliche, nella redenzione per opera del Cristo, nella reincarnazione e nel karma; perciò sarebbe facile metterci d’accordo ed unire i nostri sforzi. Invece gli antroposofi sono intransigenti e credono di essere gli unici possessori della verità».

 

Naturalmente non è così. Gli antroposofi non pretendono di essere i depositari della sapienza. Essi non danno speciale valore al fatto di credere nello spirito e di possedere la verità. Nel campo spirituale possedere la verità è come possedere in Terra un pezzo di carbone. Ciò non basta. Bisogna saper utilizzare il proprio possesso. Chi in Terra sa trasformare un pezzo di carbone in energia motrice, compie un passo avanti perché trasforma anche il suo essere. Lo stesso avviene di chi sa assumere un giusto atteggiamento di fronte alla verità.

 

La verità deve produrre un cambiamento nell’essere umano, deve penetrare nella sua volontà e darle un nuovo contenuto. Perciò il Cristo Gesù ha detto: «Non chi mi chiama Maestro è mio discepolo, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei Cieli».

 

Chi ha compreso ciò, non trova più irragionevole l’intransigenza dell’antroposofia non per le sue idee, ma per la sua metodologia spirituale.

 

Che cosa è veramente l’antroposofia?

L’antroposofia è la scienza dell’uomo evoluto

il quale ha lo spirito come percezione e la materia come concetto.

 

Completando la scienza naturale che ha la materia come percezione e lo spirito come concetto, l’antroposofia, o scienza dello spirito, conduce a una conoscenza integrale, senza limiti, tanto nel mondo dei sensi che nel mondo dello spirito.

 

15 ottobre 1946