Educazione del pensiero alla meraviglia, alla venerazione e all’armonia coi fenomeni del mondo

O.O. 134 – Il mondo dei sensi e il mondo dello spirito – 27.12.1911


 

Sommario: La lotta della tendenza materialistica del pensiero e del sentimento con la tendenza spiritualistica. L’uomo voluto da Dio e l’uomo avulso da Dio. Educazione del pensiero alla meraviglia, alla venerazione e all’armonia coi fenomeni del mondo.

 

Il mio compito, in questo ciclo di conferenze, sarà di gettare un ponte tra fatti relativamente consueti, tra esperienze che l’uomo può incontrare nella vita d’ogni giorno, e gli interessi supremi dell’umanità. Così ci si aprirà un’altra delle vie che, dalla vita quotidiana, conducono a ciò che può essere per noi, per la nostra anima e il nostro spirito, l’antroposofìa o scienza dello spirito. Noi sappiamo che l’antroposofia, quanto più ci approfondiamo in ciò ch’essa può darci, penetra nel nostro sentire, nel nostro volere, nelle forze di cui abbisogniamo per mostrarci idonei ad affrontare le molteplici vicende della vita. E sappiamo inoltre che, come possiamo sperimentarla ora grazie agli influssi che appunto in quest’epoca giungono a noi dai mondi superiori, l’antroposofìa rappresenta in certo modo una necessità per l’umanità contemporanea. Sappiamo che in un tempo relativamente breve il genere umano dovrebbe perdere ogni sicurezza, ogni interiore tranquillità, la pace necessaria per vivere, se la rivelazione che chiamiamo antroposofia non giungesse all’umanità, appunto nell’epoca nostra. Sappiamo altresì che veramente, in forza di questa corrente spirituale antroposofica, due tendenze di pensiero e di sentimento vengono, per così dire, a cozzare aspramente tra loro.

 

L’una è quella tendenza di pensiero e di sentimento che è andata preparandosi attraverso molti secoli, e che ormai ha dovunque afferrato, o afferrerà senz’alcun dubbio nel prossimo avvenire, vaste sfere dell’umanità. È la tendenza di pensiero e di sentimento che chiamiamo materialistica; la tendenza materialistica nel senso più lato, la quale s’avventa, per così dire, contro l’altra tendenza di pensiero che è data nell’antroposofia stessa, contro cioè la tendenza spirituale. La lotta di queste due tendenze di pensiero e di sentimento diverrà sempre più evidente quanto più si procederà verso il prossimo avvenire. Diverrà tale che, a volte, non sarà più nemmeno possibile distinguere se in un dato caso si avrà a che fare con una tendenza di pensiero e di sentimento che sia nuda e sincera — diciamo nuda e sincera difesa del materialismo — o se si avrà a che fare con tendenze di pensiero o di sentimento diversamente mascherate. Vi saranno infatti molte correnti materialistiche le quali, se è lecito dir così, si camufferanno di spiritualismo, e sarà spesso difficile discernere dove si nasconda il materialismo e dove si trovi veramente la corrente spirituale.

 

Nel corso di due recenti conferenze da me tenute consecutivamente, ho tentato di mostrare in vari modi quanto sia difficile orientarsi a questo proposito. In una di esse ho cercato di suscitare il senso di come, partendo da certi pensieri e idee da cui, volere o no, siamo oggi dominati, si possa diventare un onesto e sincero avversario della scienza dello spirito. Come si confuta la scienza dello spirito è quanto ho cercato di mostrare nella prima delle due conferenze, alla quale ne ho fatto seguire un’altra: Come si difende, o come si fonda la scienza dello spirito.

Non ho certo creduto di poter dire, in queste due conferenze, tutto il dicibile, nell’uno o nell’altro senso; ma volevo almeno suscitare l’impressione che, effettivamente, molto, moltissimo si può addurre con una grande apparenza di ragione, contro la concezione antroposofica del mondo; e che coloro i quali non possono fare altrimenti che, per così dire, spremer fuori dall’anima loro le opposizioni, non sono affatto le persone meno sincere dell’epoca presente; anzi, sono spesso tra quelli che più onestamente combattono per la verità.

Non voglio ora enumerare di nuovo tutte le ragioni che possono essere addotte contro la scienza dello spirito; voglio solo accennare al fatto che, date le abitudini di pensiero e le concezioni dei nostri tempi, tali ragioni esistono, e possono venir fondate su solide basi; che insomma è veramente possibile confutare a fondo la scienza dello spirito.

 

Ma ora si può chiedere: « Se dunque in tal modo si confuta la scienza dello spirito, se si indicano tutte le ragioni che possono essere addotte contro di essa, come se ne ottiene appunto la confutazione più radicale e più fondata? ».

Vedete! Se oggi qualcuno, per la costituzione fondamentale di tutto il suo essere animico, si confessa seguace della scienza dello spirito, e poi si rende edotto di tutto quanto possono dare oggi su vasta scala le scienze, sulle basi della loro idea fondamentale materialistica, egli può, purché abbia cognizione del mondo scientifico attuale, radicalmente confutare la scienza dello spirito. Ma deve anzitutto provocare in se stesso un determinato stato d’animo, per poter compiere radicalmente tale confutazione. Deve produrre nella sua anima una determinata condizione. E cioè un uomo che si accinga veramente a confutare la scienza dello spirito, deve mettersi a giudicare da un punto di vista meramente intellettuale; dal solo punto di vista del raziocinio. Che cosa s’intenda con ciò ci si paleserà subito, se consideriamo la cosa dal lato opposto. Teniamo anzitutto presente quella che ho mostrato come un’esperienza personale. Se si è al corrente dei risultati scientifici del tempo, e per così dire ci si abbandona unicamente al proprio raziocinio, allora si può confutare radicalmente la scienza dello spirito. Fermiamoci un po’ a questo punto, e tentiamo ora di accostarci al nostro compito da tutt’altra parte.

 

Vedete, l’uomo può veramente guardare il mondo da due punti di vista.

Uno di questi due modi di guardare il mondo risulta quando l’uomo, diciamo, contempla un meraviglioso levar del sole, quando il sole appare, quasi generandosi da sé dall’aurora, e poi sorge e risplende sopra la terra; l’uomo allora s’immerge nel pensiero che il raggio solare, il calore solare, suscitano la vita dal suolo terrestre in un ciclo che si ripete ogni anno.

• Oppure l’uomo può anche darsi all’osservazione quando il sole è tramontato e ogni colore si è spento, quando a poco a poco l’oscurità della notte si diffonde, e innumerevoli stelle risplendono nella volta celeste; allora egli può immergersi nelle meraviglie del cielo stellato. Quando l’uomo osserva così ciò che lo circonda come natura, sarà portato a una rappresentazione che, si potrebbe dire, necessariamente lo riempirà d’una profonda beatitudine, e che può richiamarsi a uno dei pensieri fondamentali di Goethe.

▸ «Ah», disse infatti una volta Goethe: «quando noi eleviamo lo sguardo alle meraviglie del mondo stellare, e contempliamo il moto dell’universo con tutte le sue glorie, alla fine abbiamo pure il sentimento che tutto ciò che di così splendido appare intorno a noi nell’universo trovi un significato soltanto quando si rispecchia in un uomo, in un’anima umana che ammira ».

 

Sì, sorge nell’uomo il pensiero che come l’aria penetra in lui, in modo che egli può respirarla e, attraverso al processo che compie in lui, edifica il suo essere, che come è il risultato di quell’aria e delle sue leggi e della sua composizione, egli è pure, in certo modo, un risultato anche del restante vasto mondo che lo circonda, di tutto ciò che penetra nei sensi; non soltanto nel senso della vista, ma anche nel senso che accoglie il mondo del suono e gli altri mondi che fluiscono in noi attraverso ai sensi. L’uomo sta di fronte a questo mondo esterno sensibile, come il confluito risultato di esso, così da dirsi:

▸ « Se guardo più da vicino tutto ciò che sta là fuori, se ci rifletto sopra, se lo percepisco con tutti i miei sensi, allora vedo che il significato di ciò che così vedo ha il suo migliore adempimento nel fatto che alla fine da tutto ciò è uscita cristallizzata la figura meravigliosa dell’uomo stesso ».

È vero che allora può assalire l’uomo il sentimento che, per così dire, è stato espresso in modo elementare dal poeta greco con le parole: «Molto esiste di grande, ma nulla è più grande dell’uomo!».

Come ci appaiono unilaterali tutte le manifestazioni nel mondo esteriore!

 

Ma nell’uomo tutte quelle manifestazioni sembrano confluire in un complesso che ne racchiude tutti gli aspetti, quando noi contempliamo il mondo esteriore dei sensi e poi l’uomo nel bel mezzo del mondo, come essere sensibile nel quale tutto il resto confluisce.

Infatti, quanto più esattamente si osserva il mondo, tanto più l’uomo appare come il punto di confluenza di tutte le unilateralità del restante universo. E allora, quando sviluppiamo in noi questo sentimento di fronte al grande universo, e al suo confluire nell’uomo, sorge nell’anima nostra un pensiero pieno di una profonda beatitudine, il pensiero dell’uomo voluto dagli Dei, dell’uomo che appare come se le azioni e le intenzioni divine avessero edificato un intero universo dal quale avessero irradiato per ogni dove gli effetti, così che alla fine questi potessero confluire nell’uomo, nell’opera più degna, collocata nel centro dell’universo dagli Dei operanti da ogni lato.

 

Opera voluta dagli Dei! Ciò è stato detto anche da chi osservava, appunto a questo riguardo, il mondo esteriore dei sensi in rapporto all’uomo: ▸ «Che cosa sono tutti gli strumenti del musicista di fronte alla meravigliosa costruzione dell’organo dell’udito umano, questo strumento musicale, o di fronte alla meravigliosa costruzione della laringe umana, quest’altro strumento musicale? Molto si può ammirare nel mondo: ma non ammirare l’uomo, come egli sta nel bel mezzo del mondo, è possibile soltanto se non se ne conosce la meravigliosa struttura ». Quando ci dedichiamo a siffatte considerazioni, sorge in noi il pensiero: «Quanto è stato fatto da entità divino-spirituali per portare a compimento l’uomo! ».

Questa è una delle vie che una osservazione del mondo può dare all’uomo.

 

• Ma vi è ancora un’altra via.

Essa ci si apre allorché sviluppiamo in noi il sentimento dell’elevatezza e della forza immensa di ciò che chiamiamo ideali morali, quando guardiamo dentro l’anima nostra e cerchiamo di sentire un poco che cosa significano nel mondo gli ideali morali.

Occorre una sana natura umana, sana per ogni verso, per sentire appieno la maestà degli ideali morali dell’uomo. Di fronte agli ideali morali possiamo sviluppare in noi qualcosa che può esercitare nell’anima un’azione altrettanto immensa di quella che lo splendore e la gloria delle manifestazioni dell’universo esercitano sull’uomo dal di fuori. Ciò avviene quando accendiamo in noi tutto l’amore e tutto l’entusiasmo che possono appoggiarsi agli ideali e agli scopi morali dell’uomo. Un calore immenso può allora compenetrarci.

 

Allora però, a questo sentimento degli ideali morali, si riattacca necessariamente un altro pensiero, diverso da quello derivante dalla osservazione del mondo che si appoggia alle rivelazioni dell’universo attraverso l’uomo. Appunto chi sente nel modo più forte e più elevato la potenza degli ideali morali, sente nel modo più significativo anche questo altro pensiero:

▸«Oh, quanto sei lontano, o uomo, quale sei attualmente, dagli elevati ideali morali che possono sorgere nel tuo cuore; come sei piccino, in tutto ciò che puoi e fai, di fronte alla grandezza degli ideali morali che sei in grado di proporti! ».

 

Non sentire a questo modo, non sentirsi così piccini di fronte agli ideali morali, può soltanto esser frutto di una disposizione d’anima assai piccina anch’essa; poiché appunto raggiungendo una certa grandezza d’anima, l’uomo sente la sua inadeguatezza di fronte agli ideali morali. E allora albeggia nell’anima un pensiero da cui spesso noi, come uomini, ci sentiamo assaliti: il pensiero di cercare con ogni forza e coraggio di prendere tutti i provvedimenti atti a renderci in certo grado maturi e sempre più maturi, di cercare che gli ideali morali diventino via via, più di prima, forze attive in noi.

 

D’altro canto, in certe nature, può anche prendere talmente radice il pensiero di essere inadeguate di fronte agli ideali morali, da renderle totalmente affrante, da far loro credere di essersi allontanate da Dio, appunto perché sentono con forza il fatto che l’uomo esteriore, collocato nel mondo dei sensi, è voluto da Dio.

▸«Ecco, tu stai», dicono forse quegli Uomini, «in tutto ciò che sei esteriormente. Se guardi te stesso come essere esteriore, devi dirti che in te confluisce tutto il mondo voluto da Dio, che sei un essere voluto da Dio e che porti un volto simile al divino! Poi guardi nel tuo interno dove ti sorgono gli ideali che Dio ti ha scritto nel cuore, che senza dubbio devono essere per te forze volute da Dio, e vedi scaturire come un’esperienza dalla tua anima la tua insufficienza ».

 

Vi sono nell’uomo queste due vie verso l’osservazione del mondo.

• L’uomo può guardarsi da fuori e sentire la più profonda beatitudine per la sua natura voluta da Dio;

• può osservarsi da dentro e sentire la più profonda contrizione per la sua anima avulsa da Dio.

 

Ma un sano sentire può dirsi solamente che dalla stessa origine divina, dalla quale vengono le forze che hanno collocato l’uomo nel centro come un poderoso estratto dell’intero universo, dalla stessa origine divina devono anche scaturire gli ideali morali che stanno scritti nel nostro cuore.

Perché una cosa è così lontana dall’altra?

 

Questo è veramente il grande enigma dell’esistenza umana. E in verità non vi sarebbero mai state nel mondo né scienza dello spirito né filosofia, se nelle anime umane non fosse sorto questo dissidio, cosciente o incosciente, radicato nel sentimento oppure, più o meno chiaro, nell’intelletto. Dall’esperienza di questo dissidio è infatti scaturita veramente ogni cogitazione e investigazione umana più profonda. Che cosa s’inframmette tra l’uomo voluto da Dio e l’uomo avulso da Dio? Questo è veramente il problema fondamentale di ogni filosofia.

Sebbene questo problema sia stato formulato e caratterizzato nei modi più svariati, ciò non di meno esso sta alla base di tutto il pensare e meditare umano. Come può l’uomo giungere in sostanza alla rappresentazione che sia possibile gettare un ponte tra la contemplazione, senza alcun dubbio beatificante, del mondo esterno, e la contemplazione dell’anima nostra, che indubbiamente ci conduce a un profondo dissidio?

 

Dobbiamo proprio caratterizzare un poco la via che l’anima umana può percorrere per assurgere in modo giusto e degno ai problemi supremi dell’esistenza, per scoprire poi dove possano giacere le origini degli errori. Infatti nel mondo, in quanto esso è oggi dominato dalle scienze esteriori, si dirà sempre, quando si parla di sapere, di conoscenza: ▸« Certo che conoscenza e verità devono risultare quando si esprimono dei giudizi esatti, quando si pensa il giusto ».

 

Recentemente, per caratterizzare quale fondamentale errore giaccia nel presupposto che la conoscenza, la verità, debbano risultare quando si esprimono giudizi esatti, mi sono servito di un paragone molto semplice che voglio raccontare anche qui per mostrare che non è affatto così, e che il giusto non conduce sempre al vero.

C’era una volta in un villaggio un ragazzino che i suoi genitori mandavano ogni giorno a comperare dei pani; gli davano sempre dieci soldi in cambio dei quali egli portava a casa sei pani. Se si comperava un pane, esso costava due soldi. Dunque, per dieci soldi, il ragazzino portava a casa sempre sei pani. Non era un aritmetico molto profondo, e non si curava di spiegarsi come mai, portando ogni volta con sé dieci soldi, dato che ogni pane costava due soldi, egli portasse a casa, per i suoi dieci soldi, sei pani. Ma un giorno andò a stare in quella famiglia un altro ragazzo che aveva su per giù la stessa età, ma era un buon aritmetico. Questi, vedendo il ragazzino andare dal fornaio coi suoi dieci soldi, e sapendo che un pane costava due soldi, disse: « Dunque tu devi per forza portare a casa cinque pani! ». Era forte in aritmetica e pensava giusto: « Un pane costa due soldi, egli porta con sé dieci soldi; dunque porterà senz’altro a casa cinque pani ». Eppure, l’altro, ne portò a casa sei. Allora il buon aritmetico disse: « Ma è totalmente sbagliato! È impossibile!

Dato che un pane costa due soldi, che tu hai portato con te dieci soldi, e che due in dieci sta cinque volte, è impossibile che tu porti a casa sei pani! O il fornaio si è sbagliato, o tu ne hai rubato uno ». Eppure il giorno dopo il ragazzino tornò a portare a casa sei pani per dieci soldi.

Il fatto è che in quel paese c’era la consuetudine che, per ogni cinque pani che si comperavano, ne veniva regalato uno per soprammercato. Di modo che, effettivamente, se si andava a comperare cinque pani per dieci soldi, se ne ricevevano sei. Era una consuetudine molto piacevole per le massaie che avevano appunto bisogno di cinque pani per la loro famiglia!

Ebbene, il buon aritmetico aveva pensato giustissimamente, non aveva commesso nessun errore nel suo pensare. Eppure, questo giusto pensare non era affatto d’accordo con la realtà. Dobbiamo convenire che il giusto pensare non arrivava alla realtà, perché appunto la realtà non si regola secondo il giusto pensare.

 

E come in questo caso, così si può dimostrare che effettivamente, pensando i pensieri più acuti e più coscienziosi che sia dato di elaborare logicamente, si può ottenere il più giusto risultato; e tuttavia, commisurato con la realtà, questo risultato può essere totalmente falso. Questo può sempre accadere. Perciò una prova ottenuta mediante il pensiero non è mai determinante per la realtà, mai.

Anche in altro modo ci si può sbagliare, nella particolare concatenazione di causa ed effetto che si può applicare al mondo esterno.

 

Voglio dare un esempio anche di ciò. Supponiamo che un uomo cammini lungo le rive di un fiumicello. Lo vediamo arrivare fino a un certo punto e poi, da lontano, lo vediamo precipitare dalla riva e cadere nell’acqua. Accorriamo sollecitamente per salvarlo, ma egli viene ripescato dall’acqua morto. Ora ci vediamo davanti il cadavere e possiamo constatare che l’uomo in questione è annegato; possiamo procedere con molta acutezza di pensiero: «Forse là, nel punto dove è caduto nell’acqua, c’era un sasso; evidentemente è incespicato in quel sasso, è caduto nell’acqua, ed è annegato ». Infatti, lo svolgimento del pensiero è giusto: un uomo, che camminava sulla riva, è incespicato nel sasso in mezzo alla via, è caduto nel fiume, è stato ripescato morto: dunque è annegato. Non può essere altrimenti. Eppure, per l’appunto in questo caso, può non essere così; e se non ci lasciamo sopraffare da quella concatenazione di cause e di effetti, possiamo scoprire che l’uomo, nel momento della caduta, era stato colpito da una sincope, e in seguito a quella, trovandosi sulla riva d’un fiume, è caduto nell’acqua. Era dunque già morto quando è caduto nell’acqua, e soltanto dopo ha attraversato le vicende che subisce anche chi cade nell’acqua da vivo. Vedete dunque che se, in questo caso, combinando gli avvenimenti esteriori, qualcuno arriva al giudizio: «L’uomo in questione è scivolato, è caduto nell’acqua ed è annegato», ciò è falso, non corrisponde alla realtà, poiché l’uomo è caduto nell’acqua perché era morto, e non è stato ripescato morto dall’acqua perché vi era caduto.

Giudizi altrettanto errati di questo, nel quale la cosa è così evidente, se ne trovano ad ogni passo nella nostra letteratura scientifica; solo che là non ce ne accorgiamo, come non ce ne accorgeremmo nel caso dell’uomo colpito da sincope e caduto nell’acqua, se non facessimo delle indagini sull’accaduto. Nelle concatenazioni più sottili di causa ed effetto simili errori vengono commessi di continuo. Con ciò voglio indicare soltanto che a tutta prima, di fronte alla realtà, il nostro pensiero è del tutto incompetente, non è decisivo, non è buon giudice.

Come possiamo dunque evitare di sommergerci completamente nel dubbio e nell’ignoranza, se veramente il nostro pensiero non può essere una guida sicura?

 

Chi ha esperienza di queste cose, chi si è molto occupato del pensiero,

sa che tutto si può dimostrare e tutto anche confutare; le sottigliezze della filosofia non lo sbalordiscono più.

Egli ammirerà l’acume dell’intelletto, ma non potrà più abbandonarsi al solo giudizio intellettuale,

poiché sa che giudizi intellettuali altrettanto validi possono essere escogitati anche nel senso contrario.

Questo vale per tutto ciò che può venir dimostrato o confutato.

 

A questo riguardo si possono fare le osservazioni più interessanti appunto di fronte alla vita. Vi è un certo fascino, però solo teorico, nel conoscere uomini che sono appunto arrivati a un dato momento della loro evoluzione animica, in cui sentono e sperimentano interiormente che, davvero, tutto si può dimostrare e tutto si può confutare; e tuttavia non si sono ancora evoluti fino a ciò che si può chiamare concezione spirituale del mondo.

Simili pensieri mi hanno spesso occupato, appunto in queste ultime settimane, ricordando un uomo che conobbi un tempo e che era l’espressione più meravigliosa d’una tale disposizione d’anima, senza però essere penetrato fino alla reale comprensione della realtà per mezzo della scienza dello spirito.

Ma era arrivato, in sostanza, a riconoscere la confutabilità e anche la dimostrabilità di tutte le asserzioni che si possono fare filosoficamente.

 

Era questi un professore dell’Università di Vienna; si chiamava Laurenz Müllner ed è morto poche settimane or sono. Era un uomo straordinariamente intelligente; sapeva addurre, con grande chiarezza, le dimostrazioni per tutti i possibili sistemi e pensieri filosofici, ma sapeva anche tutto confutare, e sempre designava se stesso come scettico; dalla sua bocca ho sentito una volta un’affermazione in certo senso terribile: «Ahimè! Tutta la filosofia non è altro che un bellissimo gioco di pensiero! ».

A chi sovente aveva potuto osservare il gioco di pensiero sprizzante spirito di Laurenz Müllner, riusciva pure interessante vedere come appunto non fosse possibile trattenerlo sopra un solo punto, poiché egli non consentiva in nulla; tutt’al più, se qualcun altro aveva avanzato qualche idea contraria a una qualsiasi concezione del mondo, era capace di mettersi a difenderla con grande amore, dicendo tutto ciò ch’era dicibile a favore di quella medesima concezione del mondo che forse, un paio di giorni prima, egli aveva rasa al suolo con tutta la potenza del suo acume. Era una mente straordinariamente interessante; davvero, in un certo senso, uno dei filosofi più insigni che siano vissuti a quel tempo. Ed è pure interessante conoscere che cosa lo aveva portato a quel suo atteggiamento fondamentale.

 

Oltre che un profondo conoscitore dell’evoluzione filosofica dell’umanità, era anche prete cattolico, e veramente aveva sempre avuto la volontà di rimanere un buon prete cattolico, quantunque da ultimo fosse stato per molti anni professore all’Università di Vienna. Il modo con cui si era immerso nel pensiero cattolico faceva sì che da un lato, di fronte a quel pensiero fecondato da un certo fervore religioso, gli apparisse piccino tutto ciò ch’era apparso nel mondo come mero gioco di pensiero; che non fosse in grado di uscire dal semplice dubbio, era opera del suo cattolicesimo. Egli era troppo grande per rimanere attaccato al cattolicesimo puramente dogmatico, ma d’altro lato il cattolicesimo era troppo grande in lui, perché egli potesse arrivare a una concezione scientifico-spirituale della realtà. È straordinariamente interessante osservare un’anima siffatta, giunta proprio al punto in cui veramente si può studiare che cosa occorra all’uomo per accostarsi alla realtà. Poiché naturalmente anche quell’acutissimo ingegno si rendeva conto di non potersi accostare alla realtà col suo pensiero.

 

Già nell’antica Grecia era stato detto da che cosa una sana riflessione umana debba prendere le mosse, se vuol avere la prospettiva di giungere una volta alla realtà. E questa sentenza, che già era stata pronunciata nell’antica Grecia, vale certamente tuttora. Già nell’antica Grecia era stato detto:

• «Ogni indagine umana deve prendere le mosse dalla meraviglia».

Ma intendiamolo in senso positivo, miei cari amici! Intendiamolo nel senso positivo che effettivamente, nell’anima che vuol giungere alla verità, deve prodursi una volta questa condizione: stare dinanzi all’universo piena di meraviglia. Chi è in grado di afferrare tutta la forza di questa sentenza greca, arriva a dirsi: ▸« Qualunque siano le altre condizioni per cui può venir portato alla riflessione e all’indagine, se un uomo parte dalla meraviglia, da null’altro che dalla meraviglia di fronte alle cose del mondo, allora è come quando si mette nella terra un seme e da quel seme si sviluppa poi una pianta.»

Infatti, ogni sapere deve, in certo modo, aver per seme la meraviglia.

 

È tutt’altro, invece, se l’uomo non parte dalla meraviglia, ma dal fatto, poniamo, che nei suoi anni giovanili i suoi bravi maestri gli abbiano inculcato dei principi che lo hanno fatto diventare un filosofo; oppure se è diventato filosofo soltanto perché nella classe sociale nella quale è cresciuto era costume che s’imparasse qualcosa del genere, ed egli, date le circostanze, è giunto per l’appunto alla filosofia. (È risaputo che gli esami di filosofia sono dei più facili da superare). Insomma vi sono migliaia di punti di partenza per la filosofia, che non sono la meraviglia, ma altre cose. Tutti quegli altri punti di partenza conducono a vivere con la verità in un modo che si può paragonare al fabbricare una pianta di cartapesta invece di farla crescere da un seme.

Il paragone calza a pennello, perché ogni reale sapere, che speri di accostarsi veramente agli enigmi dell’universo, deve procedere dal seme della meraviglia. Un uomo può essere il più acuto pensatore, può soffrire addirittura di un’ipertrofia dell’intelligenza, ma se non è mai passato per lo stadio della meraviglia, non se ne caverà nulla. Si avrà un’acuta, intelligentissima concatenazione d’idee, non si avrà nulla che non sia giusto, ma il giusto non coincide necessariamente col reale. È appunto necessario che, prima di cominciare a pensare, prima di mettere in moto il pensiero, si sia passati per lo stato della meraviglia. Un pensare, che si metta in moto senza lo stato della meraviglia, resta in ultima analisi un mero gioco di concetti. Dunque il pensare deve « aver radice », se così si può dire, nella meraviglia.

 

E non basta! Anche se il pensare ha radice nella meraviglia, e l’uomo, in seguito al suo karma, ha disposizione a diventare molto acuto, se poi, per una certa superbia, giunge ben presto a godere per se stesso del suo acume e non mira più ad altro che a sviluppare la sua intelligenza, allora anche l’iniziale meraviglia non gli servirà a nulla. Infatti se l’uomo, nell’ulteriore svolgimento del suo pensiero, anche dopo che nell’anima sua ha preso posto la meraviglia, non fa altro che pensare, egli non potrà penetrare fino alla realtà.

 

Intendiamoci bene, io non voglio certo dire che l’uomo debba cessare di pensare e che il pensare sia dannoso! È una opinione, questa, largamente diffusa anche negli ambienti teosofici; si crede che il pensare sia qualcosa di dannoso e di cattivo appunto perché si dice che l’uomo deve prendere le mosse dalla meraviglia. Ma non occorre affatto che quando ha un pochino imparato a pensare e sa enumerare le sette parti costitutive dell’uomo, egli desista dal pensare; al contrario, il pensare deve proseguire. Ma dopo la meraviglia deve sopraggiungere un altro stato animico; è quello che meglio di tutto possiamo chiamare venerazione; venerazione per ciò a cui il pensare si accosta.

 

Dopo lo stato della meraviglia ha da venire lo stato della riverenza, della venerazione.

Ogni pensare che si allontani dalla riverenza, dal riverente innalzare lo sguardo, a ciò che al pensiero si presenta,

non potrà mai penetrare nella realtà.

 

Il pensiero non deve mai ballonzolare per il mondo alla leggera, per proprio conto.

Dopo aver superato lo stadio della meraviglia, deve radicarsi

nel sentimento della venerazione verso ciò che sta alla base dell’universo.

 

E qui, certamente, il sentiero della conoscenza viene a trovarsi in una profonda opposizione con ciò che oggi si chiama scienza. Se si dicesse a coloro che oggi stanno nei laboratori davanti alle loro storte, che analizzano le sostanze e ottengono per sintesi nuove combinazioni: ▸«Tu, così facendo, non riuscirai mai a scoprire la verità; potrai ben bene scomporre e poi ricomporre, ma tutti questi sono fatti esteriori. Ti accosti ai fatti del mondo senza riverenza, senza portar loro incontro sentimenti di venerazione, mentre dovresti collocarti di fronte alla tue storte con la stessa pietà e riverente venerazione con cui un sacerdote sta davanti al suo altare », che cosa ne direbbe uno scienziato odierno? Con ogni probabilità si befferebbe terribilmente di noi, perché dal punto di vista della scienza odierna non è possibile riconoscere che la venerazione abbia a che fare con la verità, con la conoscenza.

Quello scienziato, anche ammesso che non ci canzoni, direbbe tutt’al più: ▸«Io posso davvero entusiasmarmi per ciò che avviene nelle mie storte; ma che questo mio entusiasmo sia qualcos’altro che una mia faccenda personale, che abbia a che fare con l’indagine della verità, questo non puoi davvero farlo credere a una persona ragionevole! ». Si apparirà più o meno pazzi di fronte agli scienziati odierni se si dice che l’indagine, e specialmente il pensare intorno alle cose, non deve mai staccarsi da ciò che si deve chiamare venerazione; che non è lecito muovere un passo nel pensiero, senza essere compenetrati da un sentimento di venerazione per ciò che si studia. Questa è la seconda cosa.

 

Però, anche un uomo che fosse giunto fino a un certo sentimento di venerazione, ma che poi, avendo sperimentato tale sentimento di venerazione, volesse proseguire col solo pensiero, non progredirebbe più, finirebbe nel nulla. Avrebbe trovato bensì qualcosa di giusto; avendo superato i due primi gradini, ciò che avesse trovato di giusto sarebbe permeato di molte vedute ben fondate, ma dovrebbe ricadere assai presto nell’incerto.

Una terza condizione deve infatti stabilirsi nel nostro stato animico dopo che abbiamo sufficientemente sperimentato lo stato della meraviglia e della venerazione; questo terzo gradino si potrebbe chiamare il « sentirci in saggia armonia con le leggi del mondo ».

 

Il sentirci in saggia armonia con le leggi del mondo non si può acquistare in nessun altro modo se non avendo già, sotto un certo riguardo, riconosciuto l’inanità del semplice pensare, dopo essersi detti e ridetti molte volte: ▸« Chi edifica soltanto sopra la giustezza del pensare (sia per dimostrare, sia per confutare, non importa) si trova sempre veramente nel caso del nostro ragazzino che aveva calcolato in giusta maniera il numero dei pani. Se il ragazzo fosse stato capace di dirsi che il conto che aveva fatto poteva essere giusto, ma che egli non doveva affatto costruire sul suo giusto pensare, bensì doveva perseguire quello che è verità, doveva mettersi in armonia con la realtà, allora egli avrebbe trovato ciò che valeva assai più della giustezza, e cioè l’uso invalso in quel paese di regalare per soprammercato un pane ogni cinque. Avrebbe trovato che si deve uscire da se stessi e osservare il mondo esterno, che il giusto pensare non può decidere se qualcosa sia reale o no.

 

Ma questo mettersi in saggia armonia con la realtà non è raggiungibile così senz’altro! Se fosse raggiungibile senz’altro né voi ora, né alcun uomo in genere avrebbe subito a questo riguardo la tentazione da parte di Lucifero, perché in realtà, dalle guide divine del mondo, era sì predestinata all’uomo ciò che si chiama distinzione del bene dal male, acquisto della conoscenza, mangiare dell’albero della conoscenza; ma per un’epoca più avanzata.

Il fallo, da parte degli uomini, fu di aver voluto acquistare la conoscenza della distinzione del bene dal male in epoca prematura. In seguito alla tentazione di Lucifero, essi vollero appropriarsi prematuramente di ciò che era loro riserbato per più tardi.

Ne doveva conseguire una conoscenza insufficiente; di fronte alla conoscenza reale che l’uomo avrebbe dovuto acquisire secondo ciò che gli era stato predestinato, essa è come un bambino nato prematuro di fronte ad un bambino normale.

 

Gli antichi gnostici (e si sente quanto avessero ragione) usarono effettivamente le parole: ▸ «La conoscenza umana che accompagna l’uomo attraverso le sue incarnazioni nel mondo, è veramente un parto prematuro, un e k t r o m a , perché gli uomini non hanno potuto attendere di attraversare tutto ciò che li avrebbe poi condotti alla conoscenza.

Sarebbe dunque dovuto trascorrere un certo tempo, nel quale l’uomo avrebbe gradualmente maturato in sé dati stati d’animo, dopo di che gli sarebbe stata concessa la conoscenza.

Questo peccato originale dell’umanità viene commesso ancora oggi perché, se non lo si commettesse, non si darebbe tanta importanza al fatto di appropriarci rapidamente di questa o quella verità, ma si darebbe maggior valore al come renderci maturi per poter giungere poi a comprendere certe verità.

 

Ecco qualcosa che può sembrare ben strano all’uomo d’oggi se gli si dicesse: ▸« Per te il teorema di Pitagora è perfettamente comprensibile; ma se tu volessi comprendere più a fondo, nel suo significato misterioso, che la somma dei quadrati dei due cateti è uguale al quadrato dell’ipotenusa… », oppure, prendendo una proposizione più facile, se gli si dicesse : « Prima che tu sia abbastanza maturo per comprendere che tre per tre fa nove, devi attraversare nella tua anima ancora questa o quell’esperienza », un uomo d’oggi riderebbe assai, e riderebbe ancor più se gli si dicesse: ▸«Lo capirai soltanto quando ti sarai messo in armonia con le leggi del mondo; esse hanno ordinato le cose in modo che le leggi matematiche ci appaiono in una determinata maniera ».

 

Veramente gli uomini continuano a commettere il peccato originale, in quanto credono di poter comprendete ogni cosa a qualsiasi gradino, e non dànno importanza al fatto che si deve passare attraverso a certe esperienze prima di poter comprendere ogni problema, ed essere interiormente sostenuti dalla coscienza che in sostanza, con tutti i nostri rigorosi giudizi, nulla possiamo raggiungere nella realtà. Ciò appartiene al terzo stato che abbiamo da descrivere. Per quanto ci sforziamo a giudicare, un errore può sempre avvenire.

 

Un giudizio giusto può risultare soltanto quando si sia raggiunto un determinato stato di maturità

e atteso che il giudizio ci balzi incontro: non quando ci adoperiamo per escogitare il giudizio,

ma quando ci adoperiamo a renderci maturi tanto che il giudizio possa venirci incontro.

Allora il giudizio ha qualcosa a che fare con la realtà.

 

Chi fa sforzi, anche immani, per formulare un giudizio giusto, non può mai essere sicuro di poter giungere comunque, per mezzo di questo sforzo interiore, a un giudizio decisivo. A questo potrà sperare di giungere soltanto chi si applica con ogni cura a rendersi sempre più maturo, e ad attendere per così dire i giudizi giusti dalle rivelazioni che gli fluiscono incontro grazie alla maturità che ha raggiunto.

 

A questo riguardo si possono far le esperienze più singolari. Qualcuno che sia molto lesto nel giudicare, penserà naturalmente: ▸« Se un uomo è caduto nell’acqua e lo si ripesca morto, è annegato ». Ma chi è divenuto saggio, chi è divenuto maturo attraverso l’esperienza della vita, saprà che in ogni singolo caso una giustezza generale non significa nulla, ma che in ogni singolo caso dobbiamo aprirci, senza unilateralità, a quel che ci si offre, e che si deve sempre lasciare che il giudizio venga pronunciato dai fatti stessi che si svolgono davanti a noi. Questo si può veder molto bene confermato dalla vita.

 

Prendiamo ad esempio questo caso: qualcuno dice oggi qualcosa. Voi potrete essere di un’altra opinione, e dirgli che quel che dice è completamente falso; potrete insomma avere un giudizio diverso dal suo. Può essere falso tanto ciò che dice lui, quanto ciò che dite voi; sotto certi rapporti entrambi i giudizi possono essere falsi o entrambi possono essere giusti. Che l’uno abbia un giudizio diverso dall’altro, non vi apparirà a questo terzo gradino come qualcosa di decisivo, non vorrà dir nulla; sarà un mero impuntarsi nell’affermazione del proprio giudizio.

Ma chi è diventato saggio si mantiene sempre riservato nel giudicare, per non impegnarsi in nessun modo col suo giudizio; si mantiene riservato persino nel caso in cui ha la coscienza di poter avere ragione; resterà riservato come per prova, per esperimento.

 

Ma supponete che qualcuno vi dica oggi una cosa, e dopo due mesi il contrario, in tal caso, potete mettere completamente da parte voi stessi, potete non aver nulla a che fare coi due fatti, se li lasciate agire su di voi; non avete bisogno di contraddirli; essi si contraddicono vicendevolmente. In tal caso il giudizio viene compiuto dal mondo esterno, non da voi. Solo qui il saggio comincia a giudicare.

È interessante il fatto che ad esempio non si potrebbe comprendere il modo in cui Goethe ha coltivato la sua scienza naturale se, nei riguardi della saggezza, non si avesse il concetto che le cose stesse devono giudicare. Perciò appunto Goethe ha pronunciato le interessanti parole che si trovano nella mia Introduzione alle opere scientifiche di Goethe: ▸ «Non si dovrebbe veramente mai fare giudizi o ipotesi sopra i fenomeni esterni; i fenomeni sono le teorie, esprimono da sé le loro idee, quando ci si è resi maturi per lasciarli agire su di noi nel giusto modo ».

 

Non si tratta di compiere ogni sforzo per spremere dalla propria anima ciò che si ritiene giusto,

• ma di renderci maturi,

• e di lasciare che il giudizio ci balzi incontro dai fatti stessi.

Questa è la posizione che dobbiamo prendere di fronte al pensiero:

• non erigere il pensiero a giudice sopra le cose,

• bensì farne uno strumento perché le cose possano esprimere se stesse.

Questo è porsi in armonia con le cose.

 

Nemmeno quando si è attraversato questo terzo stato, il pensiero deve ancora volersi porre in posizione autonoma; allora soltanto si giunge allo stato d’animo che, in certo modo, è il più alto che si deve raggiungere quando si vuole arrivare alla verità. È lo stato che si può giustamente indicare con la parola devozione.

La meraviglia, la venerazione, la saggia armonia con i fenomeni del mondo, la devozione alla vita universale: questi sono i gradini che dobbiamo superare e che devono andar sempre paralleli col pensiero, che non devono mai abbandonare il pensiero. Altrimenti il pensiero giunge soltanto a ciò che è giusto, ma non a ciò che è vero.

 

Fermiamoci ora al punto cui siamo saliti attraverso la meraviglia, la venerazione, e la saggia armonia coi fenomeni del mondo; fino a quella che oggi abbiamo chiamato devozione, ma che ancora non abbiamo spiegato; ne parleremo domani. Fermiamoci alla devozione, e d’altro canto ricordiamo la domanda che abbiamo sollevata: « Perché basta che noi ci rendiamo intellettuali per poter confutare la scienza dello spirito ? ».

Consideriamoli due problemi delle cui risposte ci occuperemo domani.