Il risveglio dell’atteggiamento pedagogico dalla conoscenza integrale dell’uomo

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 11.07.1924


 

Non mi è possibile, purtroppo, dare una risposta al discorso d’inaugurazione tenuto qui stamani, perché io non ero presente. Tuttavia voglio esprimere il mio ringraziamento cordiale per le gentili parole di saluto pronunciate or ora dal dott. Zeylmans van Emmichoven, e soprattutto manifestare la mia soddisfazione profonda di poter tenere qui una serie di conferenze sulla pedagogia che, nell’ambito della Società Antroposofica, tanto ci sta a cuore.

 

Nel campo della cultura e della civiltà la pedagogia costituisce ormai da anni uno dei rami di attività oggetto di studio entro il movimento antroposofico; e possiamo forse, come risulterà da queste conferenze, guardare indietro, in questo campo, con un certo compiacimento a quanto è stato possibile, non dico di attuare (pochi anni sono trascorsi da quando esistono le nostre scuole), ma di avviare, provocando pure un notevole interesse, oltre la cerchia del movimento antroposofico, anche nel mondo culturale odierno, aperto alla vita dello spirito. Riguardando indietro a questa nostra attività pedagogica, mi ricolma di vera gioia poter ora parlare in relazione a questo tema, proprio qui in Olanda, dove già molti anni or sono io tenni delle conferenze su argomenti riguardanti la scienza dello spirito antroposofica.

 

La pedagogia antroposofica vuole agire partendo da quella conoscenza dell’uomo che può esser conquistata soltanto sul terreno dell’antroposofia scientifica spirituale; essa vuol agire partendo da una conoscenza dell’uomo che lo afferri nella sua integrità di corpo, anima e spirito. A tutta prima si considererà una tale affermazione come cosa sottintesa, ovvia. Si dirà che è naturale tener conto di tutto l’uomo allorché si tratta di attività o di arte pedagogica, che appunto non bisogna trascurare lo spirituale di fronte al corporeo, né il corporeo di fronte allo spirituale, eccetera. Come davvero ci si debba comportare in proposito, lo si vedrà ben presto allorché si guardi alle realizzazioni pratiche che sorgono da qualsiasi ramo di attività umana fondato sulla scienza spirituale antroposofica. Qui in Olanda, per ora all’Aja, è stata fondata una piccola scuola sulla base della conoscenza antroposofica dell’uomo; in certo modo una filiazione della nostra Scuola Waldorf di Stoccarda .

 

Credo che chiunque venga a conoscerla, sia per esatte informazioni attinte dall’esterno, sia in seguito ad ima visita diretta- mente effettuata, vedrà che nell’attuazione pratica, in funzione dell’insegnamento e dell’educazione in essa impartiti, emergerà qualcosa che contraddistingue essenzialmente ciò che è fondato sull’antroposofia da ciò che proviene dalla cultura e dalla civiltà attuali. E ciò per il motivo che ovunque oggi si consideri l’attuazione della vita culturale nella vita pratica, ci si presenta un abisso fra quanto gli uomini teoricamente pensano, teoricamente escogitano, e quanto essi praticamente effettuano. Nella nostra vita civile la teoria e la pratica sono oggi diventate due campi che stanno a grande distanza l’uno dall’altro. Per quanto possa suonare paradossale, questo fatto si può osservare in modo specialmente evidente nelle attività più pratiche della vita, ossia nella vita commerciale ed economica. Si imparano in teoria molte cose, si riflette per esempio su dati rapporti economici, e ci si propone questo o quello. Ma siffatti propositi non sono in grado d’inserirsi in modo immediato nell’applicazione pratica perché si pensa su di una cosa, magari si escogita un affare, senza considerare però che si agisce e che bisogna agire in base alle condizioni volute dalla realtà. Affinché ci si comprenda, vorrei spiegarmi ancora più chiaramente.

 

Per esempio, oggi si pensa a qualche iniziativa che si vorrebbe attuare per concludere un qualsiasi affare. Ci si ripensa, lo si regola secondo le proprie intenzioni, e poi naturalmente lo si vuole attuare in base a teorie, a pensieri astratti. Ma ecco che quando la cosa sfocia nella realtà, essa cozza da ogni lato contro la realtà stessa. Sì, qualcosa vien attuato, realizziamo i nostri pensieri, ma essi non si confanno alla vita reale. Sicché, effettivamente, vi inseriamo qualcosa che a questa vita reale non si adatta. Ora, un affare iniziato in tal modo lo si può proseguire per un certo tempo; e colui che lo ha iniziato si riterrà un uomo oltremodo pratico. Chi infatti inizia un affare e non ha imparato se non quanto oggi è uso, si ritiene un uomo « pratico »; oggi spesso si sentono contrapporre i « pratici » ai « teorici ». Immaginiamo dunque che si metta in piedi questo tal affare, che si sistemi brutalmente ciò che si è escogitato; forse, se si dispone di capitale, si può anche continuarlo per un certo tempo. Poi, trascorso un certo periodo, l’impresa naufraga, vien trasformata o assorbita da qualche impresa preesistente, o qualcosa di simile. Di solito non si considera quanto buon tratto di pregevole vita rimanga pregiudicato per aver agito così; quante esistenze ne siano state forse annientate; quanta gente danneggiata, quanta ostacolata, eccetera. Ciò proviene soltanto dall’avere escogitato una cosa, dall’averla pensata da uomo pratico. Ma in questo caso, a guardar bene, si è pratici non già grazie alle proprie vedute, bensì grazie alla forza dei propri gomiti. Si è cioè introdotto qualcosa nella realtà, ma senza badare alle condizioni poste dalla realtà stessa.

 

Ecco quanto oggi pullula di nascosto nel mondo civile, non osservato dalla maggior parte degli uomini. L’unico campo in cui oggi queste cose si riconoscono è quello della meccanica, con le sue applicazioni nella vita. Se si vuole costruire un ponte, bisogna conoscere le leggi meccaniche in base alle quali esso possa venir costruito in modo da rispondere alle esigenze volute; altrimenti il primo treno che lo attraverserà precipiterà in acqua. Del resto, cose simili sono già accadute, e sono noti gli effetti di una meccanica errata. In complesso è questo l’unico campo dove senz’altro si può dire nella vita pratica: o si pensa qualcosa secondo le condizioni della realtà, oppure la cosa stessa non può esistere.

 

Se si prende un altro campo, si vedrà subito che non è così evidente stabilire se si pensa secondo le condizioni della realtà o meno. Consideriamo il campo terapeutico. Anche qui si procede oggi in modo che teoricamente si espone una direttiva, e si vuole poi curare il malato di conseguenza. Ben difficile è poi, in un dato caso, rendersi conto se siamo proprio riusciti a guarire, oppure se un uomo doveva morire, o se forse, per il suo destino, è stato curato da morirne. Il ponte costruito in modo sbagliato precipita; ma non è così facile comprendere se il malato è stato fatto ammalare anche di più, se mediante la cura è stato risanato, ovvero se è deceduto in seguito alla stessa.

 

Altrettanto non si può sempre vedere in campo pedagogico se l’educazione è condotta in base alle condizioni poste dal fanciullo in crescita, oppure se ci lasciamo guidare da idee stravaganti che possiamo formarci partendo dalla psicologia sperimentale, da un’indagine esteriore praticata sul fanciullo, per esempio chiedendoci: come è costituita la sua memoria, il suo intelletto, il suo giudizio? e così via. Ci si formano così, a tutta prima, delle opinioni pedagogiche. Ma come vengono poi esse a tradursi nella vita? Le abbiamo nella testa, ivi s’insediano, e allora si « sa »: nello studio dell’aritmetica il fanciullo va guidato in un modo, in geografia in un altro e così via. Poi bisogna procedere all’attuazione pratica. Allora si riflette e si rammenta: ecco, la pedagogia scientifica contiene questa o quella massima fondamentale, la cosa va fatta quindi in questo o quel modo. Poi si sta di fronte alla pratica, si rammenta una massima teorica, e la si applica del tutto esteriormente. Chi possiede il talento di osservare come talvolta dei pedagoghi, eccellenti nella conoscenza delle teorie pedagogiche, passino poi all’applicazione di quanto hanno imparato, può fare l’esperienza che un tale pedagogo è capace sì d’indicare magnificamente quello che ha imparato durante il tirocinio o che gli è stato chiesto agli esami di abilitazione, ma quando gli sta poi di fronte il fanciullo, rimane il più possibile estraneo alla vita. In lui avviene ciò che giorno per giorno, ora per ora, con profondo dolore siamo costretti ad osservare: ossia che nella vita gli uomini passano uno accanto all’altro senza avvertire l’interesse di conoscersi a vicenda. Oggi gli uomini non imparano a conoscersi a vicenda. È un fenomeno generale; ed è altresì il guaio fondamentale di tutti i disturbi sociali che si riscontrano oggi nella vita civile: la mancanza di quell’attenzione, l’assenza di quell’interesse che ogni uomo dovrebbe avere per l’altro. Oggi, nella vita civile, bisogna prendere le cose come sono, e quanto ho detto è ora l’attuale destino dell’umanità.

 

Ma questo essere, questo starsene estranei l’uno all’altro, raggiunge il colmo allorché il maestro, o l’educatore, sta di fronte all’alunno solo esteriormente, in modo del tutto estraneo, applicando soltanto metodi di educazione attinti alla scienza esteriore. In tal caso non risulta evidente, come per il ponte che crolla a seguito dell’applicazione di una meccanica sbagliata, che qui viene applicata una pedagogia errata. Segno evidente, questo, che oggi gli uomini si trovano a loro agio soltanto con un modo di pensare puramente meccanico, un modo di pensare che grandiosamente trionfa nella vita civile del presente e che dappertutto riesce ad indagare se è stato pensato in modo giusto o no; segno evidente, questo, che la umanità di oggi ha fiducia ancora soltanto nel pensare meccanico, ha fiducia soltanto in quel pensare che si dimostra immediatamente in tutto il suo non-senso, allorché vuole affrontare la realtà su altri campi che non siano quelli della meccanica. Oggi si vuole che tutto sia spiegato e compreso meccanicamente, dalla costruzione dell’universo a tutti gli organismi, poiché soltanto nel pensare meccanico si nutre fiducia. Quando poi si porta il pensare meccanico nella pedagogia, quando per esempio si fanno scrivere al fanciullo parole senza nesso fra di loro, parole che egli dovrà poi ripetere in fretta, affinché si possa magari prender nota della rapidità e della quantità di cose che egli sa accogliere, quando si procede così nella pedagogia, si dimostra di non aver più alcun talento per avvicinarsi al fanciullo. Si fanno cioè esperimenti sul fanciullo, perchè ci manca la capacità di avvicinarci al suo cuore e alla sua anima.

 

Può sembrare che, dicendo tali cose, si abbia la smania soltanto di criticare. È ben noto quanto sia più facile criticare che fare, ma ciò che ho detto non proviene da mania di critica, bensì da un’osservazione immediata della vita. Tale osservazione deve muovere da qualcosa che oggi rimane di solito del tutto escluso dalla conoscenza. Che cosa si richiede dà noi, se oggi intendiamo occuparci di qualcosa che sia fondato sulla « conoscenza », per esempio sulla conoscenza dell’uomo? Si richiede che noi siamo « oggettivi »! Da ogni parte lo si ripete, ed è naturale che bisogna essere oggettivi. Ma io mi chiedo se si possa essere oggettivi allorché si manca completamente di interesse e di attenzione per l’essenza di una cosa.

 

Orbene, di solito ci si figura che nella vita la cosa più soggettiva sia l’amore; e si ritiene senz’altro che chi ama non possa essere oggettivo. Quando oggi si parla di conoscenza si esclude perciò che si possa seriamente parlare di amore. Certo si pensa che il giovane avviato ad acquisire la conoscenza debba essere esortato a farlo con amore. E così infatti accade, il più delle volte, perché appunto la maniera con cui s’impartisce questa conoscenza non è affatto tale da suscitare amore per la conoscenza medesima. Ma l’amore in se stesso, l’abbandonarsi al mondo e alle sue manifestazioni, assolutamente non è considerato conoscenza. Invece, la prima forza conoscitiva per la vita è l’amore. Soprattutto, senza amore, è addirittura impossibile giungere ad ima conoscenza dell’uomo che possa mai esser base e fondamento di una reale arte pedagogica. Cerchiamo dunque di considerare l’amore e di vedere come esso possa agire nel settore specifico della pedagogia, quando sia basato sulla conoscenza dell’uomo derivante dalla scienza dello spirito antroposofica.

 

Il fanciullo ci viene affidato perché lo educhiamo e lo istruiamo. Se pensiamo pedagogicamente in senso antroposofico, osservando il fanciullo, noi non possiamo prospettarci un qualsiasi ideale umano o sociale, e proporci di far sviluppare il fanciullo stesso in modo tale che egli divenga sempre più simile a quell’ideale, perché tale ideale umano può esser quanto mai astratto, e già oggi esso può presentarcisi in tante e diverse forme quanti sono i partiti politici o le opinioni sociali esistenti. Secondo che uno giuri sul liberalismo, sul conservatorismo, su questo o quel programma, egli ha un diverso ideale umano, e appunto a questo ideale vorrebbe pian piano condurre il fanciullo, vorrebbe farlo diventare come egli stima che sia giusto per gli uomini. Ciò raggiunge il suo acme nella Russia di oggi, ma in fondo, anche se non così radicalmente, oggi più o meno si pensa ovunque così.

 

Per chi voglia educare e istruire in senso antroposofico, questo non è affatto il giusto punto di partenza. Non si devono cioè prender le mosse dall’ideale che ci si immagina. Un’immagine astratta di uomo, a cui si voglia adeguare qualsiasi fanciullo, è un idolo, è cosa escogitata, non è affatto realtà. L’unica realtà in questo campo sarebbe tutt’al più quella che noi stessi ci considerassimo come ideale e dicessimo: ogni fanciullo deve diventare come sono io stesso. Per lo meno con ciò si partirebbe da una realtà. Una cosa simile però, appena pronunciata, appare subito assurda.

 

In realtà ci sta di fronte l’essere del bambino che non ha incominciato la propria esistenza con questa sua esistenza fisica, ma che ha portato giù in terra l’essere suo spirituale e animico da mondi prenatali, immergendosi nella corporeità fisica trasmessagli dai genitori e dagli antenati. Il bambino ci si presenta nei primi giorni della sua vita con una fisionomia del tutto indefinita, con movimenti non organizzati, privi di ogni coordinazione. Poi, giorno per giorno, settimana per settimana, si vede come la fisionomia divenga sempre più decisamente la espressione di quanto, dall’interiorità animica, si manifesta alla superficie. Si nota così come i movimenti, come tutte le espressioni della vita del bambino, sempre più si coordinino, come la parte animica spirituale dalle più intime profondità salga alla superficie. Compresi di reverenza religiosa, chiediamo a noi stessi: che cosa mai lavora così, per giungere alla superficie? Il cuore e il sentimento vengono ricondotti verso ciò che dell’uomo esisteva di animico e spirituale nel mondo spirituale prenatale e che di là è disceso in quello fisico; ci diciamo allora : Bambino, poiché con la nascita tu sei entrato nell’esistenza terrena, eccoti dunque in mezzo ad uomini ! Prima eri in mezzo ad entità divine spirituali. Quello che viveva fra entità divine spirituali è ora disceso per vivere fra gli uomini! Nel bimbo vediamo esprimersi il divino. Ci si sente come dinanzi ad un altare. Solo che sugli altari delle comunità religiose gli uomini sacrificano alle divinità affinché i loro doni sacrificali salgano al mondo spirituale; ora invece ci troviamo come davanti ad un altare, ma in senso inverso: le entità divine riversano in basso le loro correnti di grazia, quali essenze divine spirituali, affinché queste, qui sull’altare della vita fisica, abbiano a svilupparsi umanamente, quali messaggeri degli dei. In ogni bambino vediamo l’ordine universale divino, vediamo come Dio crei nel mondo. Nella sua massima espressione questo ci appare allorché contempliamo il bambino in divenire. Allora ogni singolo essere umano, ogni bambino, ci diventa un sacro enigma, poiché allora ciascun bimbo pone il grande quesito, cioè non come il bambino debba essere educato secondo i nostri criteri, in modo che si avvicini ad un idolo, ma piuttosto come dobbiamo curare ciò che le entità spirituali ci hanno mandato nel mondo terreno. Impariamo cioè a riconoscerci collaboratori del mondo spirituale divino e soprattutto a chiederci: che cosa può derivarne se ci dedichiamo all’insegnamento e alla educazione con tale atteggiamento?

 

La vera pedagogia prende innanzi tutto le mosse da un atteggiamento siffatto. Per la pedagogia, per l’insegnamento, è questo atteggiamento che importa! La conoscenza dell’uomo si può acquistare soltanto se l’amore umano – qui si tratta dell’amore per il fanciullo – si trasforma in un atteggiamento attivo. Se si forma tale atteggiamento, allora la professione dell’educatore diventa una missione sacerdotale, poiché in tal caso l’educatore si fa interprete di quanto il mondo divino intende realizzare per mezzo dell’uomo.

 

Potrebbe sembrare che qui pure si esprima, soltanto con altre parole, una cosa ovvia, sottintesa; ma nemmeno ora è così. Nell’ordinamento antisociale del mondo odierno, che soltanto si traveste da mondo sociale, noi vediamo sempre più che, mediante l’educazione, si vuole rincorrere un idolo della umanità invece di aver cura di quanto dobbiamo anzitutto imparare a conoscere quando ce lo troviamo dinanzi nel fanciullo.

 

Un siffatto atteggiamento, quale l’ho descritto, non permette di lavorare in astratto; richiede invece di lavorare spiritualmente, ma per la pratica. E neppure lo si acquista appropriandosi teorie estranee alla vita, lontane dalla vita, ma soltanto avendo un senso per qualsiasi manifestazione della vita, e riuscendo a penetrare amorevolmente in ciascuna di esse.

 

Oggi si parla molto di una riforma pedagogica. Dopo la guerra siamo perfino arrivati a sentir parlare di una pedagogia rivoluzionaria. Si escogitano tutte le possibili riforme per rinnovare l’educazione, e non c’è chi non partecipi a questo intento. Si porta il proprio contributo a questo o a quell’istituto che deve venir fondato; o per lo meno si partecipa alla cosa a parole, dicendo: ecco il modo in cui io mi figuro dovrebbe essere impartita l’educazione. Molto si ragiona sul modo in cui si dovrebbe educare! Ma quale impressione suscita il por mente imparziale a quanto, nei riguardi di una riforma educativa, dicono anche i più radicali riformatori circa il programma che intendono svolgere? Io non so se molti si rendono conto dell’impressione che si riceve quando si hanno sott’occhio i mucchi di programmi di enti o di associazioni per una riforma scolastica: viene fatto di esclamare: « Ma guarda un po’, come è intelligente la gente d’oggi! » Effettivamente tutto quello che si crea in questa maniera è sommamente sapiente! Non lo dico ironicamente, ma sul serio. Mai abbiamo avuto un’epoca tanto sagace come la nostra.

 

E si dispongono programmi: Come devesi educare, affinché le facoltà del fanciullo

vengano sviluppate secondo natura? e poi un secondo punto, e poi un terzo, e così via.

 

Oggi si possono riunire persone di qualsivoglia professione o ceto, per elaborare insieme programmi siffatti: saranno mirabilmente assennate le cose che sbocceranno dai paragrafi, dal primo al trentesimo, così elaborati. Oggi si sa formulare ogni cosa teoricamente. Mai come oggi si son saputi formulare programmi con maggiore abilità! Dopo di che un tale programma, o più programmi, vengono sottoposti ad una commissione, a un parlamento, il che denota di nuovo molta intelligenza. Poi, forse, per riguardo a questo o quel partito, una cosa la si cancella o un’altra viene aggiunta; ne risulta infine un assieme estremamente sapiente, se purè talvolta fortemente colorato da uno o da un altro partito. Ma con tutto questo nulla si può fare, perché non son queste le cose che importano!

 

La pedagogia della Scuola Waldorf non ha mai preso le mosse da un simile programma — eppure intelligenti quanto un gruppo di riformatori scolastici avremmo potuto dimostrarci anche noi, se si fosse trattato di mettere insieme un programma qualsiasi. Forse, però, ne saremmo stati impediti dal dover noi tener conto della realtà, e ne sarebbe venuto fuori qualcosa di peggiore. Mai si è trattato per noi di stabilire un programma. « Principii » sul come bisogna educare, « basi » che in qualche modo avrebbero potuto tradursi in leggi, fin dall’inizio non ci interessavano. Quel che ci interessò fu la realtà, l’assoluta realtà. Qual era essa dunque? A tutta prima essa era rappresentata dai bambini, un dato numero di individualità infantili, dotati di questa o di quella caratteristica. Bisogna aver fatto conoscenza con questo, per sapere che cosa vi è in questi bambini, attraverso quanto in essi è disceso e che essi portano ad espressione mediante la loro corporeità.

 

Dunque: prima cosa furono i bambini; e poi i maestri. Si può sostenere quanto si vuole il principio che occorre educare il fanciullo conformemente alla sua individualità – tutto ciò sta pure scritto in tutti i programmi di riforma – non ne verrà fuori mai nulla; occorre invece sapere che accanto ai fanciulli si ha un certo numero di maestri e veder quindi che cosa essi siano in grado di fare nel rapporto con quei bambini. La scuola va organizzata in modo che non si abbia da fissare a priori un ideale astratto, ma che invece essa venga via via formata dai maestri e dagli scolari; tutti costoro non esistono in astratto, ma sono singoli esseri ben concreti. Questo è il problema! In tal modo si vien portati di necessità a creare una pedagogia vera, conforme a realtà, sulla base della conoscenza dell’uomo; si vien portati a non essere teorici in nessun particolare, bensì sempre pratici.

 

La pedagogia della Scuola Waldorf, che per la prima attuò la pedagogia antroposofica, è perciò pratica educativa artistica, e in fondo può soltanto dare indicazioni sul modo di comportarsi nel caso singolo. In noi non destano vivo interesse le teorie generali, bensì quegli impulsi che, derivando dall’antroposofia, servono alla reale conoscenza umana che già deve cominciare dal bambino stesso. Invece l’attuale modo grossolano di osservazione non sa rilevare le caratteristiche dei periodi che si susseguono nella vita. Si deve invece cercare d’ispirarsi a ciò che oggi la scienza dello spirito sa dirci sul divenire storico dell’umanità, se si vuol sviluppare il senso giusto da portare incontro al fanciullo. Oggi si conosce veramente poco dell’uomo e dell’umanità! Oggi s’immagina che come noi ora percorriamo la nostra vita, così la si percorresse nei secoli XIV, XV, XVI e seguenti; che così, veramente, sia sempre stato. Ci figuriamo pure gli antichi Greci o gli antichi Egizi anch’essi su per giù simili agli uomini di oggi. Se si risale ancora più indietro, la storia poi va annebbiandosi, ed appaiono quei tali esseri, metà scimmia e metà uomo, quali li pensa la scienza naturale odierna. Ma penetrare nelle grandi differenze che sussistono fra il periodo storico e quello preistorico dell’umanità non desta alcun interesse.

 

Osserviamo l’uomo quale ci sta davanti oggi: osserviamo a tutta prima il bambino fino alla seconda dentizione. Vediamo in modo ben chiaro che lo sviluppo fisico procede parallelo con lo sviluppo animico spirituale. Tutto quello che emerge dallo spirituale e dall’animico ha la sua esatta controimmagine nel corporeo: le due parti si manifestano insieme nel bambino, insieme sbocciano. Poi, superata la seconda dentizione, vediamo già maggiormente emanciparsi l’animico dal corporeo, e potremo quindi seguire nel fanciullo, da un lato uno sviluppo spirituale animico, dall’altro imo sviluppo corporeo. Tuttavia, le due parti non sono ancora molto divise, ma se seguiamo lo sviluppo del giovane dalla pubertà fino al ventunesimo anno circa, osserviamo che la separazione diviene più notevole. E quando giungiamo poi all’epoca in cui l’uomo compie i 27 o i 28 anni, allora, nell’umanità attuale, non possiamo più ravvisare alcun rapporto fra lo sviluppo spirituale animico e quello corporeo fisico. Ma da quello che l’uomo ora fa da un lato nel campo spirituale animico, e dall’altro in quello fisico corporeo, non si nota il nesso fra l’uno e l’altro. Sul finire dei vent’anni, l’uomo è del tutto emancipato, con la sua parte spirituale animica, da quella corporea fisica, e così continua fino al termine della sua vita.

 

Ma. non fu sempre così, lo si crede soltanto. La scienza dello spirito antroposofica ci mostra chiaramente e significativamente che quello che noi vediamo oggi, allo stadio presente dell’evoluzione umana, e cioè che il bambino, nella sua parte animica spirituale, è assolutamente dipendente da quella fisica corporea, e viceversa che nella sua parte fisica corporea è dipendente da quella animica spirituale, negli antichi tempi – cosa che non si osserva – si verificava fino alla più tarda età. Se risaliamo fino ai tempi dai quali proviene l’idea che esistevano dei patriarchi, e ci domandiamo che cosa fosse un simile uomo, un patriarca, si può rispondere-: un uomo che era diventato così vecchio si era trasformato nella sua corporeità, ma fino alla più tarda età egli sentiva se stesso come oggi può sentirsi soltanto un uomo giovanissimo; egli, anche nella vecchiaia, sentiva la sua anima e il suo spirito dipendenti dalla sua organizzazione fisica e corporea. Oggi, con la nostra parte fisica corporea, non ci sentiamo più dipendenti da quello che noi pensiamo o sentiamo. Ma tale dipendenza si sentiva una volta, nelle antiche epoche di civiltà; e si sentiva anche, varcata una certa età, come le ossa si indurissero, come, quando si diventava sclerotici, i muscoli includessero in sé qualcosa di non più appartenente alla loro sostanza. Si avvertiva il distruggersi della vita, e si avvertiva pure che, quando decadeva la parte corporea, assumeva maggiore importanza appunto quella spirituale. La anima diveniva libera dalla corporeità – così si diceva – mentre il corpo incominciava a decadere. L’anima era del tutto libera nell’età patriarcale; essendo per così dire il corpo completamente in fase di decadenza, si sprigionava la parte spirituale animica da quella corporea, la prima non era più inserita nella seconda. Per questa ragione si elevava lo sguardo verso il patriarca con tanta devozione e reverenza, pensando: Come diverrò io stesso, quando un giorno sarò così vecchio? Allora riuscirò a sapere, a riconoscere, a intravvedere qualcosa che oggi non mi è possibile di intravvedere, di ravvisare, di riconoscere, perché sono ancora teso alla costruzione della mia corporeità. Lo sguardo s’innalzava allora ad un ordine universale fisico spirituale. Così era nell’epoca più antica.

 

Poi seguì un tempo in cui siffatta dipendenza tra la parte corporea e quella animica spirituale era sentita ancora soltanto fino a cinquant’anni circa; più tardi fino ai quaranta. Seguì quindi l’epoca greca. Quel che dell’epoca greca ci è più prezioso poggia sul fatto che i Greci sentivano proprio ancora l’armonia fra la parte spirituale animica e quella corporea fisica; il Greco sentiva quest’armonia fino al trentesimo, al quarantesimo anno. Egli sentiva ancora nella circolazione sanguigna quanto pone l’anima in unione con la parte fisica corporea. Su ciò poggiava l’unità di quell’arte meravigliosa, della civiltà greca che convertiva in elemento artistico ogni teoria, e insieme ogni elemento d’arte in elemento di saggezza. Ivi lo scultore operava in modo da non aver bisogno di un modello, ma sentiva ancora nella propria organizzazione come il braccio e la gamba sono compenetrati dalle forze che li conformano. Lo si imparava per esempio nei giochi e nelle feste che però, se oggi vengono imitati, non hanno per nulla lo stesso significato.

 

Tuttavia, allorché si abbia un tal senso per lo sviluppo della umanità, si comprende quanto veramente è avvenuto nell’evoluzione dell’umanità stessa, e allora si sa pure che oggi un parallelismo tra la parte fisica corporea e quella spirituale animica non si riscontra più che fino al ventisettesimo o al ventottesimo anno di vita, volendo esser precisi; la maggioranza degli uomini non lo avverte, se non fino alla pubertà. Si sa allora come la parte divina spirituale si desta nell’uomo in sviluppo, e si acquista così la devozione necessaria per sviluppare quanto ci viene incontro del bambino, sviluppare cioè quanto per noi è un dato, invece di quegli ideali astratti che possiamo aver escogitato.

 

Veniamo così indirizzati ad una conoscenza dell’uomo che, per sua natura, è individuale e animica. Quando si sia compenetrati di questi grandi e generali punti di vista storici, ci si potrà accingere ad affrontare in modo corrispondente i singoli compiti educativi. Allora, già quando l’educatore entra nella sua classe, fiorisce in essa una vita tutta differente, poiché egli porta con sé il mondo: spirituale, animico e fisico. Allora egli è circondato da un’atmosfera conforme alla realtà e non da una concezione del mondo teorica escogitata. Allora egli è circondato da un sentire universale. Potremo così fare la meravigliosa esperienza, se osserviamo quanto or ora ho indicato, di fondare una pedagogia che a poco a poco rappresenterà la controimmagine di quanto oggi caratterizza la pratica pedagogica nei vari settori. Molti umoristi di vaglia scelgono spesso il « maestro di scuola » per esercitare su di esso il loro umorismo, e se un maestro ne possiede a sufficienza, egli può anche rifarsi contro chi ha posto in tal marniera nel mondo la sua caricatura. Ma ciò che importa è ben altro. Poiché, se il maestro viene inserito nella scuola, come oggi fa una pedagogia a base teorica, in modo ch’egli non possa affatto imparare a conoscere il fanciullo, pur dovendosene occupare, come è mai possibile che egli non divenga estraneo alla vita? Gli odierni sistemi scolastici non possono fare a meno di estraniarci dal mondo, si viene senz’altro strappati dal mondo. E ne nasce pure questa stranezza: che il pedagogo, estraneo al mondo, dovrebbe appunto far evolvere l’uomo affinché egli riesca nel mondo.

 

Ma ora immaginiamoci per un momento che quanto oggi abbiamo esposto divenga il reale atteggiamento del maestro.

Allora egli starà di fronte ai fanciulli così che in ciascuno di essi gli si paleserà un intero mondo — e non solo un mondo umano, bensì un mondo divino spirituale che si manifesta nell’ambito terreno. Vorremmo dire che il mondo si paleserà allo educatore in tanti svariati punti di vista quanti saranno i fanciulli affidati alle sue cure. Attraverso ciascuno di essi, egli guarderà il vasto mondo. Il suo modo di educare diventerà arte. Il suo insegnamento sarà retto dalla consapevolezza che il suo lavoro è volto direttamente allo sviluppo del mondò. La pedagogia di cui intendiamo parlare, educando e facendo evolvere l’uomo, eleva l’educatore stesso al livello della vasta concezione universale. Allora il maestro può diventare una guida anche per i grandi problemi della civiltà, né più disturba, come oggi accade di frequente, se l’allievo risulta più grande del maestro. Infatti anche questo può avvenire nella scuola. Ammettiamo che il maestro debba educare davvero nel senso di un ideale, di un’immagine dell’uomo che egli si sia proposta. Immaginiamo che egli si trovi davanti una classe di trenta alunni e che fra questi il destino faccia sì che ve ne siano due che, per loro predisposizione, sono molto più geniali dell’insegnante stesso. Che cosa dovrebbe fare il maestro in questo caso? Egli dovrebbe farli diventare simili al suo proprio ideale educativo, né mai potrebbe uscirne qualcosa di diverso. Ma è ciò possibile? La realtà non lo consente, e allora gli allievi crescono a! di sopra del loro insegnante.

 

Se invece noi educhiamo secondo la realtà, se ci prendiamo cura di ciò che, come spirito e come anima, si rivela nel fanciullo, allora siamo nella stessa posizione del giardiniere di fronte alle sue piante. Forse che il giardiniere conosce tutti i segreti delle piante che egli cura? Le piante hanno ben più segreti di quelli che il giardiniere conosca! Ma egli può aver cura delle piante, forse ancor meglio di quelle che non conosce ancora, perché conosce la pratica, perché possiede, per così dire, l’intuito necessario. Così avviene pure in una vera arte dell’educazione: anche se un maestro non è un genio, egli può stare, quale educatore, di fronte a dei genii. Poiché si sa di non dover guidare verso un ideale astratto, ma che nell’interiorità del fanciullo opera il divino nell’uomo, che agisce attraverso la parte corporea fisica. Se questo è il nostro atteggiamento, riusciamo anche a realizzarlo. Riesce a tanto l’amore che, nell’educazione, si irradia e si diffonde; ma occorre appunto che sia presente questo atteggiamento.