La storia animica dell’umanità e lo sviluppo della memoria

O.O. 233 – La storia alla luce dell’Antroposofia – 24.12.1923


 

Sommario: La storia diviene comprensibile mediante la conoscenza della storia animica. Pensare, ricordare, sentire e volere odierni e i corrispondenti fenomeni psichici presso i popoli orientali preistorici. Memoria localizzata: segni esteriori e monumenti. Memoria ritmizzata: l’arte poetica. La memoria legata al tempo inizia con la civiltà greca. La via dell’interiorizzazione.

 

In queste ore serali del nostro convegno natalizio vorrei presentare uno sguardo d’insieme sulla evoluzione dell’umanità sulla Terra, col proposito di acquistare una coscienza intima e più intensa della natura dell’uomo nell’epoca presente. Proprio ai nostri giorni, in cui si stanno preparando cose tanto straordinariamente importanti per tutta l’umanità civile, ogni uomo che rifletta un po’ a fondo dovrebbe chiedersi: in qual modo la configurazione e l’atteggiamento attuali dell’anima umana sono scaturiti dalla lunga evoluzione passata? E infatti innegabile che il presente diventa comprensibile se lo si studia nel suo divenire, nella sua formazione dal passato.

 

Oggi però si è quanto mai prevenuti sul conto dell’evoluzione dell’uomo e dell’umanità. Anzitutto ci si immagina che per quanto concerne la sua vita animico-spirituale l’uomo sia sempre stato sostanzialmente quale è adesso, in tutto il corso della storia. Certo, per quanto riguarda le scienze si è convinti che in passato gli uomini fossero puerili, che credessero in ogni sorta di fantasticheria e che solo in tempi assai recenti essi siano diventati veramente intelligenti, nel senso scientifico della parola. Se però si prescinde dalla sfera delle scienze, è convincimento diffuso che anche i greci antichi, o i popoli orientali avessero in generale lo stesso atteggiamento animico che è proprio dell’uomo d’oggi. Anche se si ammettono modificazioni minori, nelle grandi linee si pensa che durante tutte le epoche storiche le cose fossero come sono oggi. Si pensa che prima dei periodi storici ci fosse la preistoria, e che di questa si sappia ben poco.

 

Prima ancora, però, si è convinti che l’uomo avesse ancora un aspetto quasi animalesco. Risalendo indietro nella storia ci si raffigura dunque la vita animica più o meno uguale; poi l’immagine sfuma nell’indistinto, e infine ecco che si trova l’uomo in uno stato di imperfezione animalesca, una specie di scimmia superiore.

 

Questa è infatti l’idea oggi corrente, fondata sopra una straordinaria prevenzione. Non ci si sforza minimamente di riconoscere le profonde differenze nell’atteggiamento psichico esistenti fra l’uomo del presente e quello di tempi relativamente non molto remoti, per esempio del nono, decimo o undicesimo secolo, o dei contemporanei del mistero del Golgota, per non parlare della diversità fra l’uomo odierno e i greci antichi. Se poi risaliamo al mondo orientale, del quale la civiltà greca fu una specie di tardi va colonia, incontriamo certi atteggiamenti dell’anima totalmente differenti da quelli dell’uomo moderno.

 

Vorrei mostrare subito con qualche esempio concreto come gli uomini vissuti in oriente diecimila o quindicimila anni fa fossero del tutto diversi, nella loro costituzione, dai greci, per non parlare poi dell’umanità odierna.

 

Proviamo a osservare attentamente la nostra vita psicologica attuale, in qualcuna delle sue manifestazioni. Noi facciamo una qualsiasi esperienza; di tale esperienza, alla quale partecipiamo con i nostri sensi o comunque con la nostra personalità, ci formiamo un concetto, una rappresentazione. Questa viene conservata nel nostro pensiero e da esso, dopo un certo tempo, può riemergere come ricordo nella nostra vita psichica cosciente. Noi possiamo avere una data esperienza mnemonica che ci riporta alle esperienze percepite magari dieci anni prima. Proviamo adesso ad osservare con la massima precisione di che cosa si tratta. Ammettiamo che dieci anni fa qualcuno abbia fatto l’esperienza di trovarsi in una certa compagnia: ci si è fatta allora un’idea di ognuna delle persone presenti, del loro viso, ecc. Si è fatta l’esperienza di quello che esse hanno detto, di quello che insieme a loro si è fatto e così via. Tutto ciò può oggi riemergere in immagine: si tratta del quadro animico presente in noi di un fatto avvenuto dieci anni prima. Non solo per la scienza, ma anche per una sensazione comune (sia pure avvertita oggi di solito solo molto debolmente) una tale rappresentazione mnemonica che fa riemergere un’esperienza passata, viene localizzata nella testa. Si suole dire che i ricordi di avvenimenti passati sono presenti nel capo.

 

Ora facciamo un gran salto indietro nell’evoluzione dell’umanità, e prendiamo in considerazione certe popolazioni dell’oriente antico, delle quali i cinesi o gli indiani di cui parla la storia sono solamente i discendenti. Risaliamo proprio di parecchie migliaia di anni. Se prendiamo in considerazione un uomo di quei tempi, dobbiamo constatare che egli non avrebbe mai detto di avere nella testa un ricordo di un’esperienza da lui fatta nel mondo esterno. Questo tipo di esperienza interiore non esisteva affatto per l’uomo di quei tempi; egli non aveva per nulla dei pensieri, delle idee che gli riempivano la testa. La superficialità degli uomini d’oggi fa sì che essi credano: noi oggi abbiamo delle idee, dei concetti, delle rappresentazioni, dunque li hanno avuti sempre anche tutti gli uomini dei tempi storici. Non è affatto così.

 

Risalendo sufficientemente nel passato con la conoscenza spirituale, si incontrano appunto uomini che non avevano affatto nella testa delle idee, dei concetti o delle rappresentazioni. Essi non sperimentavano nessun contenuto astratto della loro testa, ma (per quanto possa suonare strano) essi sperimentavano la loro testa stessa tutta intera, ne avevano una sensazione diretta. Quegli uomini non si occupavano di astrazioni, come noi oggi; non conoscevano l’esperienza di avere nella testa delle idee, ma conoscevano invece l’esperienza del loro capo stesso. Come noi oggi riferiamo un’immagine mnemonica a una esperienza fatta prima, come oggi esiste una relazione fra il ricordo e l’esperienza esteriore passata, così quegli uomini riferivano l’esperienza del proprio capo alla Terra, a tutta la Terra. Era come se dicessero: nel mondo c’è la Terra, ci sono io e c’è la mia testa; la testa che porto sulle spalle è il ricordo cosmico della Terra. La Terra esisteva prima, la mia testa più tardi: la testa è cioè il ricordo cosmico dell’esistenza della Terra. L’esistenza terrestre sussisteva ancora, ma l’intera configurazione, la conformazione della testa dell’uomo stava in relazione con tutta la Terra. L’uomo dell’antico oriente sentiva cioè nella propria testa qualcosa che riproduceva l’essenza del pianeta Terra stesso. Egli diceva: gli dèi hanno creato dall’esistenza universale del cosmo la Terra, con i suoi regni naturali, con i suoi fiumi e i suoi monti; io però porto sulle spalle la mia testa che è un’immagine fedele della Terra stessa. La testa, col sangue che in essa scorre, è una fedele riproduzione dei corsi d’acqua e dei mari che si spandono sulla Terra. La configurazione dei monti terrestri si ripete nel mio capo nella configurazione del cervello. Io porto sulle spalle e posseggo in me una riproduzione del pianeta terrestre. Esattamente come l’uomo moderno riferisce il suo ricordo alla propria esperienza passata, così l’uomo antico riferiva l’intero suo capo al pianeta Terra. Vediamo qui dunque una notevole diversità nel modo in cui gli uomini si consideravano interiormente.

 

E ancora: se l’uomo osserva e sente l’ambiente che circonda la Terra, l’atmosfera gli apparirà compenetrata dalla luce e dal calore del Sole, e si può in un certo senso affermare che il Sole vive nell’involucro d’aria che circonda la Terra. La Terra si apre all’universo emanando i propri effetti, affidandoli all’atmosfera e aprendosi a sua volta agli effetti del Sole. In quei tempi antichi ogni uomo sentiva la zona terrestre in cui viveva come particolarmente importante, come veramente essenziale. Così un abitante dell’oriente antico sentiva una certa parte della superficie terrestre come la sola che lo riguardasse: in basso la Terra, in alto l’atmosfera rivolta verso il Sole. Tutta la rimanente Terra, a destra e a sinistra, davanti e dietro all’osservatore, si perdeva per così dire nel vago (si veda la parte sinistra del disegno).

 

Se dunque un orientale antico viveva su terra indiana, egli sentiva quel pezzo di Terra come dotato di un’importanza particolare, mentre tutto il resto, a est, a ovest, a sud, ecc. si perdeva per lui in una vaga genericità. Egli si curava anche poco di come la Terra confini con gli altri spazi del cosmo. Aveva invece un’importanza del tutto speciale per lui il terreno sul quale per l’appunto si trovava (a sinistra nel disegno: rosso), nonché l’azione esercitata dalla Terra verso il cosmo, proprio in quella regione. Egli sentiva come particolarmente importante il modo in cui gli era dato di respirare sul quel preciso territorio. Oggi gli uomini non si preoccupano gran che di come si respiri sopra un certo terreno. Certo anch’essi si trovano esposti a condizioni di respirazione più o meno favorevoli, ma di questo non sono consapevoli più che tanto.

 

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Per l’uomo orientale antico invece, il modo in cui poteva respirare rappresentava un’esperienza profonda, e così pure altre situazioni connesse al rapporto fra la Terra e l’ambiente cosmico col quale essa confina.

 

L’uomo sentiva la Terra intera come affine a ciò che viveva nella sua testa. La testa però è delimitata verso l’alto, dietro e sui lati da solide pareti ossee, mentre possiede certe uscite, una certa apertura verso il basso, verso il torace (nel disegno precedente, a destra). Per l’uomo dell’antichità aveva un’importanza particolare il sentire che la testa comunica abbastanza liberamente in basso col torace. Egli sentiva la configurazione interna della testa come una riproduzione di ciò che è terrestre. Come sentiva di dover mettere in relazione la Terra con la sua testa, così poneva in relazione l’ambiente che circonda la Terra con le parti del suo corpo che confinano in basso con la testa. Egli sentiva il fatto che la testa comunica in basso col torace, col cuore, come corrispondente in qualche modo all’atmosfera che circonda la Terra, come immagine dell’apertura della Terra verso il cosmo. Era per lui un’esperienza sconvolgente il potersi dire: nella mia testa sento la Terra intera, la testa è una Terra in piccolo, ed essa si apre verso il torace che ospita il mio cuore.

 

Quello che si svolge fra la mia testa e il mio torace, il mio cuore, è l’immagine di ciò che avviene fra la Terra e il cosmo, l’ambiente circostante rivolto verso il Sole. Era proprio un’esperienza importante, profonda quella dell’uomo antico che poteva dirsi: qui, nel mio capo, vive in me la Terra; scendendo più in basso, la Terra si apre in me al Sole, e l’immagine del Sole è il mio cuore (le frecce, nel disegno).

 

In tal modo l’uomo perveniva alla vita del sentimento, quale era possibile in quella remota antichità. Noi oggi abbiamo certo la vita astratta del sentimento, ma del nostro cuore non abbiamo nessuna nozione diretta, anche se crediamo di saperne qualcosa grazie all’anatomia e alla fisiologia. Ciò che se ne apprende in tal modo è però poco più di quanto si può imparare da un cuore riprodotto in cartapesta. L’uomo antico però non aveva un’esperienza affettiva del mondo quale possiamo averla noi; in cambio, aveva l’esperienza del proprio cuore. Noi oggi riferiamo i nostri sentimenti al mondo che ci circonda, sentiamo amore o antipatia per qualcuno, attrazione o repulsione per questo o quel fiore, ma tutto il mondo ambiente è per così dire strappato dalla solida realtà del cosmo in una esangue astrazione. L’uomo dell’oriente antico riferiva il suo cuore al cosmo, lo collegava con ciò che dalla Terra si apriva verso l’ambiente esterno, verso il Sole.

 

Noi oggi possiamo dire: “io voglio camminare”, e camminiamo; sappiamo che la nostra volontà vive nelle nostre membra. L’uomo dell’oriente antico aveva un’esperienza del tutto diversa: egli non conosceva affatto ciò che noi oggi chiamiamo volontà. E veramente un preconcetto il ritenere che presso gli antichi popoli orientali esistesse quello che oggi si intende per pensare, sentire e volere. Queste esperienze non esistevano per nulla. Essi avevano esperienze della testa che erano esperienze della Terra; avevano esperienze del torace, o del cuore, che coincidevano con esperienze dell’ambiente circondante la Terra, fino al Sole. Il Sole corrispondeva per loro all’esperienza del cuore. Avevano poi l’esperienza del proprio estendersi nelle membra, della percezione della propria condizione umana nei movimenti delle gambe e dei piedi, delle braccia e delle mani: in tutte queste esperienze gli antichi si sentivano presenti. Tuttavia in quella presenza del loro intimo essere nelle membra essi non sentivano solo un’immagine dell’ambiente che circonda la Terra, ma addirittura un’immagine del nesso fra l’uomo e i mondi stellari (cfr. il disegno precedente). Essi si dicevano: la mia testa è un’immagine della Terra.

 

Ciò che dalla testa si apre liberamente verso il torace, fino al cuore, è l’immagine di quanto si trova nell’ambiente che circonda la Terra. Le forze dei miei arti che io sento riproducono in immagine il rapporto della Terra con le costellazioni presenti nella vastità dello spazio cosmico.

 

Così l’uomo antico che avesse voluto esprimere le sue esperienze che oggi chiameremo volitive, non avrebbe detto “io cammino”, e neppure “io mi siedo”. Il linguaggio stesso era diverso. Se si esaminassero le lingue antiche in queste finezze, si troverebbe sempre che il fatto che noi esprimiamo con le parole “io cammino”, nelle antiche lingue orientali si esprimeva dicendo: il pianeta Marte è attivo in me. Il camminare in avanti era la sensazione degli impulsi del pianeta Marte, percepiti nelle gambe. Similmente il toccare qualcosa, la sensazione provata nelle mani, si esprimeva dicendo “in me agisce il pianeta Venere”. L’indicare a qualcuno una cosa anche in modo rozzo, per esempio con un calcio, si esprimeva dicendo che agiva il pianeta Mercurio. Il mettersi a sedere era l’attività di Giove nell’uomo; e il mettersi sdraiati (sia per riposarsi, sia anche per pigrizia) si esprimeva dicendo che ci si abbandonava agli impulsi di Saturno.

 

Insomma si sentivano nelle proprie membra operare le vastità dell’universo. L’uomo sapeva che muovendo dalla Terra verso il cosmo egli raggiungeva l’ambiente circondante, e poi la sfera stellare. Procedendo invece dalla sua testa verso il basso, faceva le medesime esperienze nel proprio organismo: nella testa era nella Terra, nel torace e nel cuore si trovava nell’ambiente circostante la Terra, nei suoi arti si trovava più lontano, nel cosmo stellare.

 

Da un certo punto di vista si potrebbe dire con ragione: poveri uomini d’oggi, che sperimentano solo i pensieri astratti! Questi pensieri sono ben poca cosa: noi ne andiamo molto fieri, ma anche col pensiero astratto più acuto, più intelligente, noi dimentichiamo la nostra testa, e la nostra testa è assai più ricca di contenuto dei nostri più brillanti pensieri. Una singola circonvoluzione cerebrale è qualcosa di più mirabile e di più grandioso di qualsiasi astratto sapere scientifico, e l’anatomia e la fisiologia non conoscono gran che del meraviglioso segreto delle circonvoluzioni cerebrali. Vi fu dunque un tempo sulla Terra in cui l’uomo aveva coscienza non solo dei suoi modesti pensieri, ma anche della sua testa. Egli allora era capace di sentire la sua testa, di sentire anche singole parti del cervello, mettiamo i corpi quadrigemini, oppure il cosiddetto talamo ottico, e li sentiva come riproduzioni di una certa configurazione fisica dei monti della Terra. L’uomo allora non metteva in relazione il cuore col Sole seguendo una dottrina astratta, ma sentiva realmente che il rapporto del suo capo col suo torace o col cuore corrispondeva al rapporto fra la Terra e il Sole.

 

In quel tempo tutta la vita dell’uomo era strettamente congiunta con l’universo, e questa stretta connessione si esprimeva in ogni aspetto della vita umana. Certo, proprio per il fatto che noi adesso abbiamo coscienza del nostro debole pensare, invece che della nostra testa, proprio per questo possiamo avere dei ricordi pensati. Delle esperienze da noi fatte in passato riformiamo delle immagini mnemoniche che vivono nella testa come ricordi astratti. Questo non era possibile all’uomo non ancora dotato di pensieri, ma capace di sentire invece la propria testa: egli non poteva formarsi dei ricordi. Nelle regioni del remotissimo oriente, nelle quali la gente aveva ancora coscienza della testa, ma non era dotata di pensieri, e quindi non aveva neppure dei ricordi, in quelle regioni si poteva trovare qualcosa di cui oggi si ricomincia ad avere bisogno. Per molto tempo gli uomini non ne ebbero bisogno, e del resto è segno di un certo disordine della nostra vita psichica, il fatto che oggi se ne abbia di nuovo bisogno. In quel tempo, là dove vivevano gli uomini che avevano coscienza della loro testa, del loro torace, del cuore e delle membra, nel modo che ho descritto, si trovavano ovunque piantati nel suolo dei pioli, con applicati dei segni, oppure dei segni tracciati su una parete. Tutti i luoghi frequentati dagli uomini erano ricoperti da segni e segnali, per il fatto che non si era ancora dotati di una memoria pensante. Dove era accaduto qualcosa si poneva per così dire un piccolo monumento, e quando si ritornava in quel posto si riviveva quel fatto, grazie al segno esposto. L’uomo era proprio strettamente congiunto con la Terra nel suo capo. Oggi ci si limita ad annotarsi qualcosa nella testa, ma ho già accennato che si comincia ad avere nuovamente bisogno di annotare le cose nei nostri taccuini, sebbene ciò sia dovuto a un certo disordine dell’anima. Tuttavia ne avremo sempre più bisogno; in quei tempi lontani poi non era possibile annotarsi qualcosa nella testa, perché non esistevano i pensieri, le idee. Perciò si mettevano dappertutto una infinità di segni e segnali, e da questa disposizione naturale insita negli uomini ebbe origine la consuetudine di erigere monumenti.

 

Tutto quanto si è manifestato nella storia dell’umanità è condizionato dall’intimo della natura umana. Si dovrebbe ammettere con sincerità che l’uomo d’oggi non conosce affatto la base su cui si fonda la tradizione di innalzare dei monumenti; in tempi moderni i monumenti vengono eretti per abitudine. Essi però non sono altro che i residui di quegli antichissimi segni, o segnali, di quando l’uomo non possedeva ancora una memoria come l’attuale, ma era costretto a porre un segno là dove aveva fatto una data esperienza: quando poi ritornava in quel luogo, faceva rivivere quel fatto nella sua testa, che appunto faceva rivivere ogni cosa connessa con la Terra. Noi affidiamo alla Terra ciò che la testa ha sperimentato: questo era il principio in tempi antichi.

 

Dobbiamo quindi imparare a riconoscere nell’antico oriente l’epoca dei ricordi localizzati, quando tutto ciò ch’è connesso col ricordo era legato all’usanza di porre sulla terra dei segni mnemonici. Il ricordo non si trovava all’interno dell’uomo, ma all’esterno: ovunque si trovavano dei segni o delle pietre posti a ricordo. Si ponevano nella terra dei segni a memoria di qualcosa: questa era dunque la memoria localizzata, il ricordo localizzato.

 

Per lo sviluppo spirituale dell’uomo è ancor oggi straordinariamente utile che egli connetta un fatto non alla memoria interiore, ma alla facoltà mnemonica che si esplica appunto nella convivenza dell’uomo col mondo esterno terrestre. Ci si può per esempio dire: non voglio ricordarmi di questo o di quello, ma pongo in un luogo o in un altro un segno; oppure: per certe cose mi propongo di provare dei sentimenti solamente in conformità di certi segni. Per esempio, voglio mettere in un angolo della mia camera un’immagine della Madonna, guardando la quale mi propongo di sviluppare nell’anima i sentimenti e i pensieri che possono appunto risvegliarsi avendo dinanzi a sé quella immagine. Esiste infatti una delicata rispondenza alla consuetudine di esporre nelle abitazioni l’immagine della Madonna, consuetudine che si trova spostandoci solo un poco verso oriente. Non solo in Russia, ma anche nell’Europa centro-orientale questa consuetudine esiste ancora. Si tratta proprio di residui degli antichi ricordi localizzati: il ricordo si trova fissato esteriormente in un dato luogo.

 

Un secondo stadio si ebbe quando gli uomini passarono dal ricordo localizzato al ricordo ritmicizzato: non per una raffinata astuzia cosciente, ma per una esigenza della propria natura interiore l’uomo sviluppò allora il bisogno di vivere nel ritmo. Egli aveva sviluppato il bisogno di riprodurre in sé quello che aveva udito, in modo da fame scaturire un ritmo. Se per esempio aveva fatto l’esperienza di una mucca, egli non la chiamava soltanto “muh”, ma “muh-muh”, e in tempi più antichi addirittura “muhmuh-muh”. Era come se egli accumulasse l’esperienza vissuta, sì da fame scaturire qualcosa di ritmico. Ancor oggi in certe parole si possono trovare tracce di tale fatto, per esempio nel nome del cuculo. Così pure possiamo osservare che nei bambini piccoli si manifesta la tendenza ad esprimersi mediante ripetizioni della stessa sillaba. Sono questi dei retaggi dell’epoca in cui si diffuse la memoria ritmicizzata, quando non si conservava affatto il ricordo di una data esperienza, se non la si richiamava mediante una ripetizione ritmica. Nelle lingue moderne si trovano alcuni modi di dire ripetitivi che sono un ultimo residuo della forte nostalgia (propria di quella seconda epoca) di ritmicizzare ogni espressione, in quanto ciò che non veniva tradotto in un ritmo non veniva affatto ricordato. Da quella memoria ritmicizzata ebbe poi origine tutta l’arte poetica antica, e più in generale la poesia in versi. Solo in una terza fase si venne formando la nostra attuale memoria temporale: con essa non esiste più il punto di riferimento mnemonico nel mondo esterno, e neppure si è costretti ad affidarsi al ritmo, ma è possibile fruire del ricordo di quello che si è svolto nel tempo. Questa nostra attuale memoria del tutto astratta rappresenta la terza fase dell’evoluzione della memoria.

 

Proviamo ora a fissare il momento storico in cui la memoria ritmica dell’umanità trapassò nella memoria temporale, quando apparve per la prima volta la memoria temporale che sembra del tutto naturale alla povera astrattezza dell’uomo moderno. Da quel momento in poi, si richiamano i ricordi sotto forma di immagini; non si deve più ricorrere, più o meno coscientemente, alla ripetizione ritmica di quello che ci si vuole richiamare in mente. Quel momento del trapasso dalla memoria ritmica a quella temporale coincide con gli albori della civiltà greca, quando dall’oriente asiatico partirono delle colonizzazioni verso la Grecia. I racconti che i greci facevano di certi eroi provenienti dall’Asia o dall’Egitto che si stabilirono sul suolo ellenico, si potrebbero esprimere anche così: un tempo, dai paesi nei quali esisteva la memoria ritmica giunsero i grandi eroi, per cercarsi un clima nel quale la memoria ritmica potesse trasformarsi nella memoria temporale.

 

Abbiamo così determinato con precisione il momento in cui sorse la civiltà greca; infatti nei paesi asiatici donde provenivano le popolazioni elleniche vigeva ancora la piena memoria ritmica. In realtà si comprende correttamente l’oriente antico se lo si riconosce come il paese del ritmo. Se al paradiso terrestre si attribuisce anche solo la datazione che gli attribuisce la Bibbia, se lo si localizza nell’Asia, dobbiamo rappresentarcelo come la zona terrestre dalla quale si levavano nel cosmo i ritmi più puri i quali stimolavano nell’uomo la memoria ritmica. L’uomo viveva sperimentando ritmi in un cosmo che generava ritmi.

 

Nella Bhagavad-Gita, nella letteratura vedica e in certi scritti e poemi dell’Asia occidentale si può ancora sentir riecheggiare quell’antica grandiosa esperienza ritmica: vi rivive l’eco del ritmo che compenetrava un tempo tutta l’Asia di contenuti grandiosi e che si rispecchiava nel torace, nel cuore dell’uomo, come il segreto dell’atmosfera che circonda la Terra. Risalendo più indietro nel tempo, si possono invece rivivere le epoche della memoria localizzata, quando gli uomini non possedevano ancora la memoria ritmica e si dovevano affidare ai segni, ai segnali posti sulla terra, per rimembrare le esperienze vissute. Quando essi non si trovavano in un dato luogo, non ne avevano bisogno, ma quando giungevano lì dovevano ricordare. Non erano però gli uomini stessi a ricordare, ma erano i segni lasciati, era la Terra a farli ricordare. Come la Terra in generale si riflette nella testa dell’uomo, così il segno posto sulla terra ridestava nella testa la propria immagine per quegli uomini dotati di memoria localizzata. L’uomo viveva strettamente congiunto con la Terra e la sua memoria esisteva in quanto esisteva quella stretta connessione. Il Vangelo richiama questo stato di cose in un solo passo, là dove dice che il Cristo scrisse una certa cosa in terra.

 

Possiamo dunque fissare il momento in cui la memoria localizzata trapassò nella memoria ritmica: fu quando, durante la sommersione dell’Atlantide, gli antichissimi popoli postatlantici migrarono da occidente a oriente, verso l’Asia. Si ebbe infatti prima la migrazione dei popoli più antichi dall’Atlantide (che oggi forma il fondo dell’Oceano Atlantico) verso l’Asia, e poi la migrazione inversa della civiltà, dall’Asia verso l’Europa. Quando avvenne la prima migrazione delle popolazioni atlantiche verso l’Asia ebbe luogo il trapasso dalla memoria localizzata a quella ritmica: quest’ultima fiorì soprattutto nella vita spirituale asiatica. Poi, con la colonizzazione compiuta verso la Grecia, si verificò il passaggio dalla memoria ritmica a quella temporale che è ancor oggi la nostra.

 

In questa elaborazione della memoria si trova racchiusa la chiave di tutta la civiltà che si sviluppò fra la catastrofe atlantica e la formazione della civiltà greca, tutto quello che echeggia dall’Asia sino a noi più sotto forma di leggende che di storia vera e propria. Per imparare a conoscere l’evoluzione umana sulla Terra non sono essenziali i fatti esteriori, i documenti, bensì gli sviluppi di quanto vive nell’interiorità umana, per esempio quelli della facoltà del ricordo, che si è andata trasferendo dall’esterno all’interno.

 

 

Sappiamo tutti quale importanza la memoria abbia per l’uomo odierno. È noto che per cause patologiche può accadere che qualcuno perda la memoria di certe parti della sua vita che dovrebbe poter ricordare.

 

Una persona alla quale ero legato da amicizia ebbe il terribile destino di perdere da un momento all’altro la memoria: uscito un giorno da casa, andò alla stazione ferroviaria, prese un biglietto per una certa località, e poi, giunto lì, ne prese un altro per una città diversa. Fece ogni cosa in modo perfettamente ragionevole, l’intelligenza non era alterata; solo la memoria era andata perduta, fino al momento in cui aveva acquistato il primo biglietto. Quando la memoria gli ritornò riallacciandosi a tutto il suo passato, egli si ritrovò a Berlino in un ricovero per senza tetto nel quale era stato accolto. Si potè allora ricostruire che nel periodo in cui era stato smemorato egli aveva girato mezza Europa, senza essere in grado di collegare questa esperienza con tutte le altre precedenti della sua vita. La memoria gli ritornò a poco a poco, durante il suo soggiorno in quel ricovero berlinese, dove era venuto a trovarsi in modo a lui del tutto sconosciuto. Questo non è che un esempio fra i molti che ci mostrano che la vita psichica dell’uomo moderno non è normale, se non sussiste il filo ininterrotto della memoria, fino a un certo punto della nostra infanzia.

 

Le cose stavano diversamente per gli uomini nei quali era ancora presente la memoria localizzata: ad essi quel filo ininterrotto era del tutto sconosciuto. Essi però sarebbero stati infelici (come lo siamo noi, se ci si spegne la continuità del nostro io) se non fossero stati circondati sul terreno da quei segnali che richiamavano loro esperienze passate, o anche da segni posti dai loro familiari o da altri, configurati in modo simile ai segnali disposti da loro stessi e quindi capaci di ricordar loro esperienze affini. Era quindi qualcosa di esterno, per gli uomini di quel lontano passato, ciò che noi oggi sentiamo come una condizione per la normalità del nostro io.

 

Solo mettendoci di fronte a questa metamorfosi animica dell’umanità se ne apprezza a poco a poco tutta l’importanza nell’evoluzione storica. La storia riceve la sua giusta luce dalla considerazione di un fatto come questo. Ho voluto mostrare appunto come si sia svolta la storia animica dell’umanità, per quanto riguarda la facoltà del ricordare. Nei prossimi giorni vedremo come gli eventi storici si riveleranno nel loro aspetto reale, solo se saremo in grado di illuminarli partendo da una vera conoscenza dell’anima umana.