L’atteggiamento animico nel corso dell’evoluzione dell’umanità

O.O. 276 – La missione universale dell’arte – 27.05.1923


 

Sommario: L’atteggiamento animico nel corso dell’evoluzione dell’umanità. Le caratteristiche delle civiltà paleoindiana, paleopersiana, egizio-caldaica e greca. Il compito della scienza dello spirito antroposofica.

 

Facendo seguito alle diverse conferenze tenute qui negli ultimi tempi, vorrei oggi svolgere alcune considerazioni in merito all’evoluzione dell’umanità dopo l’avvento del cristianesimo, e far notare alcune cose che risulteranno meglio proprio come conclusione delle conferenze precedenti.

 

Se riandiamo con lo sguardo all’evoluzione dell’umanità dobbiamo dire che le epoche che studiamo nella scienza dello spirito antroposofica, appunto per avere una visione d’insieme di tale evoluzione, si sono senz’altro formate in base alla particolare natura animica, genericamente umana, nell’ambito delle epoche stesse. La natura umana si distingue tuttavia moltissimo nelle diverse epoche. Oggi però si è poco disposti a vedere appunto al di là delle condizioni animiche dell’umanità odierna, e in genere si descrive quindi l’evoluzione dell’umanità come se nei tempi storici, che si studiano in base ai documenti ritrovati, l’atteggiamento animico fosse sempre rimasto uguale. In verità esso si è modificato, e noi conosciamo i momenti nei quali per così dire ebbe una modificazione chiaramente rilevabile.

 

Si è spesso ricordato che l’ultimo di quei momenti cade nel quindicesimo secolo dopo Cristo. Quello precedente si ebbe nell’ottavo secolo precristiano, e così si può continuare. Nelle nostre cerchie viene spesso fatto presente come in effetti sia giusto quel che dice uno storico dell’arte, Herman Grimm, che cioè la piena comprensione storica degli uomini di oggi possa risalire solo fino ai Romani. Nelle anime si fissano allora gli stessi concetti, più o meno gli stessi concetti che sono validi ancor oggi, a volta addirittura in modo sbagliato, in quanto si sono conservati press’a poco come i concetti giuridici romani che peraltro più non si accordano con la nostra vita sociale. Tuttavia, il modo in cui l’uomo di oggi si inserisce nella complessiva vita sociale ha ancora una comprensione per ciò che risale fino ai Romani. Risalendo invece ai Greci, che vengono descritti anche storicamente secondo il modello di quanto avvenne in seguito, non si penetra più nel vero essere animico del Greco. Ha quindi ragione Herman Grimm quando dice che le figure umane greche, quali di solito vengono descritte dalla storia, sono in effetti confuse.

 

Con la coscienza ordinaria non si vede più allora quello che le anime sperimentavano, e di conseguenza neppure si capiscono più nel modo giusto le relazioni sociali. Ancora più diversa dalla nostra vita dell’anima era poi quella degli uomini del periodo egizio-caldaico che si svolse prima dell’ottavo secolo precristiano, ancora più diversa era nell’epoca paleopersiana, come io l’ho chiamata nella mia Scienza occulta; del tutto diversa dalla vita dell’anima che noi sperimentiamo dalla mattina alla sera era quella del periodo paleoindiano, il primo di quelli che seguirono la grande catastrofe atlantica.

 

Con l’aiuto però della scienza dello spirito si riescono a trovare le differenze delle diverse epoche riguardo all’atteggiamento complessivo umano in effetti dominante. Va comunque detto che il sentire umano divenne più o meno quale è oggi soltanto nel quarto periodo postatlantico. Parlare di corpo, anima e spirito e di io umano come oggi è corrente, sentendo un’intima connessione dell’uomo con la terra, l’umanità iniziò a farlo nel quarto periodo postatlantico. Così si svolse dunque la vita

 

nel corso del tempo. Si potrebbe dire che sentirsi così legato alla terra ed estraneo al cosmo l’uomo è giunto oggi, tanto da considerare le stelle, e addirittura le nuvole, del tutto al di fuori della sua dimora terrena e di scarsa importanza per lui. Se mi è lecito usare questa espressione, erano elementari e cosmici tutto il sentire e anche gli impulsi volitivi degli uomini precedenti il periodo greco-latino. L’uomo non aveva ancora bisogno di una filosofia per sentirsi parte dell’intero universo, anzitutto del mondo sensibile. Gli era del tutto naturale, del tutto ovvio, non sentirsi solo un essere terrestre, ma sentirsi parte del cosmo intero.

 

Specialmente nel primo periodo di civiltà, il paleoindiano, risalendo cioè al settimo – ottavo millennio precristiano, troviamo che l’uomo sentiva in modo del tutto diverso quello che oggi denominiamo io, forse neppure si può dire che lo pronunciasse. Certo allora gli uomini non parlavano in genere delle cose come oggi, perché il linguaggio umano non si occupava delle cose come fa oggi, ma noi dobbiamo recepirle nel nostro linguaggio. Vorrei quindi dire che chi faceva parte del periodo paleoindiano non parlava dell’io come lo facciamo oggi, in un certo senso come di un punto che riassume le esperienze dell’anima; quando allora si parlava dell’io era ovvio che soprattutto l’io avesse poco a che fare con la terra e le sue vicissitudini. In quanto si sentiva un io, l’uomo in effetti proprio non si sentiva parte della terra, ma collegato soprattutto col cielo delle stelle fisse. Da quel cielo aveva il sentimento di ricevere la sicurezza del suo io, il sentimento di avere in genere un io. Quell’io non era assolutamente sentito come un io umano. L’uomo era tale perché sulla terra veniva rivestito di un corpo fisico. Grazie ad esso, visto come una specie di involucro dell’io, l’uomo era cittadino della terra. Nell’ambito della terra l’io veniva comunque sempre considerato come qualcosa di estraneo. Se oggi volessimo dare un nome al modo in cui l’io era visto allora, dovremmo dire: l’uomo proprio non sentiva l’io umano, ma l’io cosmico.

 

L’uomo avrebbe potuto vedere ogni roccia, ogni montagna e ogni altra cosa che è sulla terra, se di tutto ciò avesse detto che esiste; così del pari in quegli antichi tempi avrebbe sentito che gli uomini non potevano avere un io se sulla terra vi erano solo quelle cose: pietre, piante, montagne e rocce, perché quanto garantisce l’esistenza di tutti gli esseri e le cose terrestri non poteva garantire l’esistenza dell’io. L’uomo non sentiva in sé un io umano, ma un io divino. L’io divino era per lui una goccia tratta dal mare della divinità. Pur con le limitazioni delle quali appunto ho detto prima, se l’uomo voleva parlare dell’io lo sentiva anzitutto come una creatura del cielo delle stelle fisse, e sentiva quel cielo come il solo che avesse un’esistenza. E poiché l’io aveva un’esistenza simile a quella del cielo delle stelle fisse, poteva dire di sé: io sono. Se l’io avesse potuto dirselo solo a misura dell’esistenza di una pietra, del mondo vegetale, delle montagne o delle rocce, esso non avrebbe avuto alcun diritto di dire: io sono. Poteva dirlo solo perché l’io aveva carattere stellare. Poteva dire io sono, solo perché in lui viveva l’esistenza che hanno le stelle. Gli uomini di quegli antichissimi periodi dell’umanità vedevano che i fiumi scorrevano e che gli alberi erano mossi dal vento, ma non ascrivevano all’io alcun impulso al movimento, parlando dell’io umano che abita in un corpo fisico e che ha l’impulso di andare in qua e in là, di muoversi sulla terra; non stimavano di avere il diritto di asserire che l’io fosse attivo nel movimento del corpo, se non come si può dire che il vento muove gli alberi, e che in genere si muove qualcosa sulla terra.

 

Pressa poco così parlava il maestro dei misteri in quegli antichi tempi ai suoi discepoli: voi potete vedere come gli alberi sono mossi, come le acque scorrono nei fiumi, come il mare è mosso, ma mai l’io potrebbe imparare a sviluppare l’impulso al movimento che l’uomo sviluppa quando porta il suo corpo a muoversi sulla terra né dagli alberi che si agitano, né dall’acqua che scorre nei fiumi, né dalle onde che increspano il mare. Mai l’io potrà imparare da una cosa mossa sulla terra, ma soltanto perché esso è parte del movimento dei pianeti e delle stelle. L’io impara a muoversi solo da Marte, da Giove e da Venere. Se l’io si muove sulla terra, fa qualcosa che è parte del mondo planetario in movimento.

 

Inoltre a un uomo di quegli antichi tempi dell’umanità sarebbe stato del tutto incomprensibile se qualcuno avesse detto: guarda che adesso dal tuo cervello sorgono pensieri. Se oggi ci si immedesima nell’atteggiamento animico che si aveva allora, perché noi stessi attraversammo la vita in quelle antichissime età, e si pensa all’atteggiamento animico odierno secondo il quale si crede che i pensieri sorgano dal cervello, agli uomini di allora, che noi stessi eravamo, appariva del tutto insensato ciò che crede l’uomo di oggi. Allora si sapeva infatti che mai i pensieri sarebbero potuti sorgere dalla massa cerebrale. Si sapeva che il sole suscitava i pensieri e che la luna li acquietava. Si attribuiva all’alternarsi del sole e della luna la vita dei pensieri in se stessi. Nel primo periodo postatlantico, in quell’antichissima epoca, l’io divino era così visto come qualcosa che era parte del cielo delle stelle fisse, dei movimenti planetari, dell’alternarsi dell’azione del sole e della luna. In sostanza si considerava ciò che l’io aveva dalla terra come qualcosa che si riferiva all’io cosmico-divino; per quegli antichi tempi l’essenza dell’io era senz’altro di natura cosmico-divina.

 

Nella mia Scienza occulta chiamai paleopersiano il secondo periodo di civiltà. Ora la vivezza della visione dell’io cosmico non era più come era stata in quello paleoindiano. Ora quella visione era come sfumata. In quei tempi comunque l’uomo partecipava intimamente al corso dell’anno del quale ho spesso parlato qui*. In effetti oggi l’uomo è diventato come un lombrico, naturalmente è solo un’immagine, perché non vive neppure come un lombrico: quello almeno esce dal terreno quando piove. Non ci succede più nulla di speciale, o al massimo differenziazioni astratte: ci secchiamo se piove e non abbiamo l’ombrello, ci adattiamo alla neve d’inverno e allo splendere del sole d’estate, andiamo in campagna o facciamo altro del genere.

 

Partecipiamo sì al corso dell’anno, ma in modo orrendamente oscuro. Non vi partecipiamo con la nostra completa umanità. Vi partecipavamo invece con la nostra piena umanità nel periodo paleopersiano. Allora accadeva che, quando veniva il periodo natalizio, si sentiva che l’anima della terra era unita con la terra, e che questa si ricopriva di neve, la stessa che per gli uomini di oggi è solo acqua gelata. Allora essa era un vestito col quale la terra si copriva per separarsi dal cosmo, per sviluppare nel cosmo una vita individuale e autonoma, perché l’anima della terra era intimamente legata con la terra durante i mesi autunnali fino al tempo che oggi chiamiamo natalizio. Gli uomini sentivano anche che l’anima della terra era ora legata con la terra.

 

Con la sua anima l’uomo doveva indirizzarsi a ciò che viveva sulla terra; in certo modo si sentiva legato con l’anima della terra, alla terra sotto la coperta di neve. Per lui diveniva trasparente animicamente la coperta di neve. Sotto di essa sentiva gli spiriti elementari che trasportavano la forza dei semi vegetali dall’inverno alla successiva primavera. Quando poi questa arrivava egli sentiva come in certo modo la terra espirasse la sua anima, come tendesse ad aprire al cosmo la sua anima; lui stesso partecipava all’aprirsi della terra al cosmo. Cominciava ad elevare al cosmo la fedeltà, la fedeltà animica che aveva sviluppato durante l’inverno per la terra.

 

Certo, in questo tempo l’uomo non poteva guardare al cosmo solo come lo faceva nel periodo precedente, quando gli era chiaro che quando lo guardava esso dava al suo io esistenza, movimento e pensieri. Tendeva così al cosmo e si diceva: quel che nell’inverno mi legava alla terra esige ora da me che tenda ad elevarmi al cosmo. Non sentiva più come in tempi più antichi e in modo altrettanto intenso il suo legame con il cosmo, ma in certo modo lo presagiva. Come nell’antichissimo periodo paleoindiano l’io si sperimentava parte del cosmo, così ora nel periodo paleopersiano si sperimentava l’elemento astrale dell’uomo come qualcosa che si accompagnava al corso dell’anno. Si sperimentava il corso dell’anno. In un certo senso l’uomo diveniva solenne quando d’inverno vedeva con l’anima la coperta di neve, si sentiva in sé, metteva allora in atto quella che oggi chiameremmo un’analisi di coscienza. Quando arrivava la primavera si apriva con una certa gioia al cosmo. Direi che si apriva al cosmo con un certo rapimento, non più con la chiarezza che aveva nel periodo paleoindiano, ma comunque con una certa gioia, sentendosi strappato dalla sua corporeità proprio alla metà dell’estate, nel tempo che oggi chiamiamo di S. Giovanni. Come in inverno si sentiva legato con i saggi spiriti della terra, nel colmo dell’estate si sentiva unito ai gioiosi spiriti, sempre danzanti e esultanti nel cosmo, che circondavano la terra. Descrivo soltanto quel che era sentito.

 

Poi, intorno al tempo dei nostri mesi di agosto e di settembre, l’anima umana cominciava a sentire di dover di nuovo ritornare alla terra dopo aver ricevuto le forze che aveva preso dal cosmo nell’estate, durante il suo rapimento, e che le rendevano possibile durante l’inverno vivere in modo interiore. In realtà avveniva che in quegli antichi tempi gli uomini sperimentassero appieno la vita nel corso dell’anno, sentendone la spiritualità come un proprio evento umano. Allora si sentiva importante imparare a partecipare con intensità ad alcuni momenti del corso dell’anno. In quel tempo sorsero gli impulsi per le vere e proprie feste. Più tardi le festività dell’anno vennero più o meno sentite soltanto ancora in modo tradizionale. Qualcosa rimase nelle feste dei solstizi solari che ancora mostrano tracce di una partecipazione allo svolgersi annuale, partecipazione che in quegli antichi tempi era ancora potente e intensa.

 

A tutto ciò era anche legata una compieta modificazione dell’interiore coscienza umana. Nel periodo paleoindiano agli uomini sarebbe apparso piuttosto impossibile se qualcuno avesse parlato di popolo. Agli uomini di oggi ciò appare paradossale, perché essi non possono immaginare che il sentirsi entro un popolo sia sorto nel tempo. Certo, le condizioni terrestri rendevano necessario anche in quei tempi che gli uomini, viventi insieme in un dato territorio, avessero fra loro più stretti rapporti che non con altri lontani, ma il concetto di popolo, il sentimento di esser parte di un popolo, non esisteva nel periodo paleoindiano. Esisteva dell’altro. Si aveva un vivo sentimento per il susseguirsi delle generazioni. Il figlio si sentiva figlio del padre e anche nipote del nonno, del bisnonno e così via. Le cose non venivano quindi fatte come oggi si devono descrivere secondo i nostri concetti correnti, ma per essere nel giusto vanno raccontate altrimenti. Per arrivare al modo di pensare di quegli antichi tempi, si vedrebbe che entro la famiglia si badava molto al poter risalire a chi era stato il nonno, il bisnonno e il bis-bis- nonno, che si era capaci di risalire fino ai più lontani antenati. Ci si sentiva nel susseguirsi delle generazioni. Di conseguenza ci si sentiva anche molto meno nel presente, rispetto a come fu in seguito. Ci si sentiva intimamente legati al susseguirsi delle generazioni. In modo caricaturale ciò è rimasto nel principio nobiliare, nel sentirsi nelle generazioni dei nobili, nel principio degli antenati; era però qualcosa che allora era ovvio in ogni singolo, e non occorrevano allo scopo cronache familiari. Di conseguenza tutto era allora diversissimo, perché la coscienza umana stessa dava con un’istintiva chiaroveggenza la connessione della serie degli antenati; in un certo senso non ci si ricordava solo dei propri avvenimenti vissuti, ma in modo quasi altrettanto vivo, come dei propri, anche di quelli del padre, del nonno e così via. Quei ricordi divennero sempre più pallidi, ma la coscienza umana vedeva un nesso nel sangue che si continuava nelle generazioni. Il sentirsi nelle generazioni aveva allora una funzione importante. Il concetto di popolo, il sentirsi nel popolo avvenne in modo parallelo, anche se lentamente. Nel periodo paleopersiano non si era ancora molto sviluppato e si formò lentamente nel corso del tempo. Quando non si aveva più la coscienza di vivere nelle generazioni, si riempiva la coscienza con l’appartenenza al popolo, in certo modo nel sentirsi nel popolo, mentre in tempi più antichi si vedevano i legami del sangue più importanti nel corso del tempo.

 

Il concetto di popolo acquistò piena importanza solo nel terzo periodo postatlantico, in quello egizio-caldaico. Si era però già affievolita la coscienza del corso dell’anno. Di contro però, fino all’ultimo millennio precristiano, esisteva una viva coscienza che il mondo era pervaso di pensieri, che pensieri vivevano dappertutto nel mondo. Dissi già in un’altra occasione che l’idea che abbiamo oggi che i pensieri si formino in noi e poi si stendano sulle cose, per gli uomini di quei tempi sarebbe stata considerata come se oggi chi beve un bicchier d’acqua dicesse che la sua lingua ha prodotto l’acqua. Uno può certo immaginare di produrre l’acqua con la lingua, ma in verità egli prende l’acqua dall’unitaria massa acquea della terra. Se fosse però molto semplice, se ad esempio non vedesse la connessione fra l’acqua del suo bicchiere con la massa acquea di tutta la terra, potrebbe comunque pensare che l’acqua sorge dalla sua lingua. La stessa cosa avrebbero obiettato gli uomini del periodo egizio-caldaico a chi avesse detto che i pensieri sorgono nella testa. Sapevano che dappertutto sulla terra vivono pensieri. Ciò che l’uomo mette nel vaso della sua testa è tratto dal mare dei pensieri del mondo. In quel periodo di civiltà non si sperimentava più il cosmo nell’io divino, oppure il corso dell’anno nell’astralità umana, ma nel corpo eterico si sperimentavano i pensieri cosmici, il Logos. L’uomo di allora, se si fosse servito delle nostre espressioni, non avrebbe proprio parlato del corpo fisico umano come noi ne parliamo. Noi ne parliamo come della cosa più importante in noi. Chi viveva nel periodo egizio-caldaico sentiva il corpo solo come il risultato di quel che viveva nei pensieri del corpo eterico. Per l’uomo di allora il corpo fìsico umano era un’immagine del pensiero umano, e non gli attribuiva l’importanza che oggi gli attribuiamo. In quel tempo si formava appunto sempre più il concreto concetto di popolo. Possiamo quindi dire che l’uomo diventava sempre più cittadino della terra.

 

Nel terzo periodo postatlantico di civiltà il legame dell’uomo col mondo stellare e il suo io era piuttosto allentato. Lo si calcolava ancora nell’astrologia, ma non lo si vedeva più nella coscienza elementare. Il corso dell’anno, importante per il corpo astrale, non fu più sentito nella sua immediatezza. Si sentiva però ancor sempre l’elemento del pensiero cosmico. Per così dire l’uomo era arrivato a sentire la pesantezza della terra come suo essere. Sentiva comunque il pensiero come qualcosa di tanto vivente da non poter esaurire il suo essere nella pesantezza della terra.

 

Ciò ebbe maggior valore nel periodo di civiltà greco-latino e si sviluppò sempre più in quel periodo. Solo allora il corpo fisico divenne il più importante per l’uomo. Naturalmente tutto ha la sua giustificazione nel suo tempo, e appunto nella civiltà greca vediamo il pieno e fresco inserimento nel corpo fisico nei singoli risultati di quella civiltà. Vorrei dire che specialmente nell’arte greca si vede quell’inserirsi nel corpo fisico. Davvero per i Greci dei tempi più antichi il corpo fisico era proprio qualcosa che essi sentivano come un bambino che abbia piacere per un vestito nuovo, perché era fresco e giovanile il loro sentirsi nel corpo fisico. Si sentivano vivere nel corpo.

 

Avanzando poi il periodo greco-latino e consolidandosi la romanità, non si sentì più la freschezza del vivere nel corpo fisico, lo si sentì certo ancora, ma direi come qualcuno che è rivestito di un’uniforme e sa grazie ad essa di avere una sua importanza. Più o meno questa era la sensazione, ovviamente non espressa in parole, ma posta nel proprio sentire. Il Romano sentiva il suo corpo fisico come un’uniforme di Stato assegnatagli dall’ordine universale. Il Greco aveva un grande piacere, una volta nato, di poter rivestire il corpo fisico che gli era stato assegnato. Ciò dava anche all’arte greca, alla tragedia, alla poesia di Omero uno slancio caratteristico nell’esporre e raccontare l’elemento umano, in quanto esso era connesso con la presenza fisica dell’uomo. Per tutti i fenomeni psicologici occorre ricercare le motivazioni interiori. Cerchiamo ad esempio di immedesimarci nel piacere che fluisce dalle descrizioni omeriche di un Ettore o di un Achille quando racconta fatti esterni, al gran valore attribuito al racconto dei fatti esterni. Nella romanità ciò si è consolidato. Romano è soprattutto qualcosa che in qualche modo si è consolidato, che comincia dove noi possiamo ancora comprendere con la nostra coscienza usuale. Nel quarto periodo postatlantico di civiltà l’uomo è in effetti diventato davvero cittadino della terra, e si ritrae in una zona indefinita la visione dell’io, del corpo astrale e del corpo eterico. I Greci avevano ancora un sentimento vivente che i pensieri vivessero nelle cose. Ne parlo nel mio libro Gli enigmi della filosofia. Dopo di loro ciò viene superato, e si arriva all’idea che il pensiero nasce nell’uomo. Sempre più l’uomo cresce così, si immerge nel suo corpo fisico.

 

Nel nostro presente non si ha ancora un giusto sentimento di come in sostanza tutto ciò si sia modificato nel quinto periodo postatlantico di civiltà nel quale siamo dal secolo quindicesimo. Noi ci distanziamo dal nostro corpo fisico, solo che non lo notiamo, si potrebbe dire che immaginiamo ancora ciò che il Greco sentiva della figura umana. La nostra sensazione è però più vaga. Sentendo oscuramente del piè veloce Achille, il nostro sentimento è vago. Sentiamo in modo troppo oscuro che per il Greco era qualcosa che gli dava una diretta e direi vivace impressione di Achille, lo vedeva davanti a sé. Riguardo a tutte le arti e al compenetrarsi del corpo fisico noi ce ne distanziamo con la nostra anima. Mentre il Greco negli ultimi secoli precristiani sentiva come sfuggirgli il pensiero cosmico, come il pensiero potesse venir compreso soltanto se riflesso dall’uomo, oggi negli uomini vi è completa insicurezza in merito ai pensieri. A un Greco di circa il sesto secolo a.C. sarebbe apparso del tutto comico chiedergli di risolvere il problema scientifico del rapporto fra pensiero e cervello. Non avrebbe sentito che si potesse porre un problema del genere, perché quel che in sostanza vi è in questa frase gli sarebbe apparso del tutto ovvio. Si sarebbe comportato come se noi, dopo aver preso in mano un orologio, dovessimo cominciare a speculare filosoficamente per vedere il rapporto fra l’orologio e la mia mano: esamino cioè la carne della mano, esamino il vetro e il metallo dell’orologio, ricercando poi le relazioni tra la carne della mano e il vetro e il metallo dell’orologio per raggiungere una visione filosofica del perché la mia mano aveva afferrato l’orologio.

 

Se lo facessi, sarebbe considerato folle per la coscienza odierna. All’antica coscienza greca sarebbe apparso altrettanto folle voler chiarire la cosa ovvia che l’essere umano afferri i pensieri col cervello, stabilendo un nesso fra l’essenza del pensiero e l’essenza del cervello; si aveva cioè la visione diretta del fenomeno come oggi si vede che la mano afferra l’orologio e non si stima necessario stabilire un rapporto scientifico fra il metallo dell’orologio e la carne della mano. I problemi sorgono nel corso del tempo a seconda del modo in cui si vedono le cose. Per il Greco era ovvio quello che noi chiamiamo nesso fra pensare e organismo, altrettanto ovvio come è il nesso fra mano e orologio, quando afferro un orologio; non speculava sul problema, gli era ovvio. Sapeva come si connettevano i pensieri col suo essere, lo sapeva per istinto.

 

Se ora volessi chiedere: in fondo è solo una mano che tiene l’orologio, perché l’orologio non dovrebbe cadere, perché si mantiene in alto? per il Greco sarebbe lo stesso problema se oggi domandassi: che cosa sviluppa i pensieri nel cervello? Questo è diventato per noi un problema, perché non sappiamo più come liberiamo i pensieri. Siamo sulla strada di liberare da noi stessi di nuovo i pensieri, e non sappiamo come poterli trattare, perché non abbiamo più il corpo fisico, essendo sulla strada di uscirne.

 

Vorrei fare un altro esempio. Non abbiamo soltanto vestiti, ma anche tasche in essi per mettervi qualcosa. Così era per il Greco. Il corpo umano era qualcosa nel quale era possibile inserire pensieri, sentimenti e impulsi volitivi. Oggi non sappiamo come dobbiamo comportarci con pensieri, sentimenti e impulsi volitivi. È come se avessimo tasche nei nostri vestiti, e tutto ne cadesse fuori, oppure come se avessimo paura di farne poi qualcosa, come se per così dire tenessimo le cose in mano perché non sappiamo più di avere le tasche. Così non siamo più consci della natura del nostro organismo, non sappiamo più come dobbiamo comportarci con la nostra vita dell’anima nei confronti del nostro organismo, e pensiamo allora le idee più strane sullo psico-parallelismo o altro del genere. Per la coscienza greca sarebbe come se qualcuno che non vede di avere tasche, non arrivasse a mettere le cose in tasca, quando esse esistono per questo scopo. Dico tutto ciò solo per sottolineare come a poco a poco siamo diventati estranei al nostro corpo fisico.

 

Tutto ciò è anche giustificato nel corso dell’evoluzione dell’umanità. Se risaliamo ancora una volta ai tempi paleoindiani e a come l’uomo guardava alla serie delle generazioni fino a un lontano antenato, certo egli non aveva il bisogno di cercare gli dèi altrove se non nella serie delle generazioni. Poiché l’uomo stesso era qualcosa di divino, rimaneva ben fermo nell’evoluzione umana e cercava il divino negli antenati. L’evoluzione dell’umanità era il terreno nel quale egli cercava il divino.

 

Vi fu il tempo, che ebbe la sua massima fioritura nella civiltà egizio-caldaica, in cui si sviluppò in modo speciale il concetto di popolo. Si vedeva allora il divino nei singoli dèi del popolo, in ciò che viveva spazialmente accanto alla parentela di sangue.

Venne poi il periodo greco, quando in certo modo l’uomo si sentiva sdivinizzato, quando era diventato cittadino della terra. Vi fu allora per la prima volta la necessità di cercare gli dèi al di sopra della terra, di guardare verso l’alto agli dèi. L’uomo più antico sapeva degli dèi guardando alle stelle. Al Greco occorreva aggiungere alle stelle qualcosa di proprio per guardare agli dèi. Quest’esigenza divenne sempre più grande nell’umanità. Oggi l’umanità deve sempre più sviluppare la capacità di prescindere dal piano fisico, di prescindere dal cielo stellato fisico, di prescindere dal corso fisico dell’anno, di prescindere da tutto ciò che sente stando di fronte agli oggetti, non è più in grado di vedere i pensieri negli oggetti. L’uomo deve anzitutto acquisire la possibilità di scoprire l’elemento divino-spirituale come qualcosa di speciale, di sopra e al di là del piano fisico-sensibile per potervelo di nuovo ritrovare.

 

Farlo con energia è appunto il compito della scienza dello spirito antroposofica. In questo modo essa cresce sulla terra partendo da tutta l’evoluzione dell’umanità. Dobbiamo sempre considerare che l’antroposofia non è ricavata da un qualsivoglia arbitrio e inserita come un programma nell’evoluzione umana, ma è qualcosa che risulta come un’interiore necessità dell’evoluzione umana per il nostro tempo. In sostanza il persistere del materialismo nel nostro tempo è solo un restare indietro. Corrisponde invece alle vere esigenze del nostro tempo, perché l’uomo non è solo diventato un cittadino della terra, come lo era al tempo dei Greci, ma si è persino già estraniato dall’essere cittadino della terra, e non solo non sa più come comportarsi con la sua parte animico-spirituale rispetto al corpo, che per lui risulti la necessità di vedere in sé l’elemento spirituale-animico senza quello fisico. Poiché accanto a questa esigenza è rimasta oggi nelle profondità dell’anima una viva esigenza del materialismo, esso è un residuo arimanico di quel che era naturale nella civiltà greca e anche in quella romana. Allora si poteva guardare al fisico, perché in esso si vedeva ancora l’elemento spirituale.

Poiché si è rimasti indietro, oggi non si vede più la parte spirituale in quella fisica, e si considera quest’ultima solo in se stessa. Ne consegue il materialismo. Se posso dirlo, vi è in genere nell’evoluzione dell’umanità una tendenza contraria al progresso. Oggi l’umanità ha ancora paura di formulare nuovi concetti: vorrebbe continuare a sviluppare i vecchi. Dobbiamo uscire da questa avversione al progresso. Se diverremo favorevoli al progresso, acquisiremo anche una naturale relazione verso l’antroposofia che appunto si avvia da esigenze antiquate verso quelle attuali dell’umanità, vale a dire ad elevarsi allo spirito. Oggi ho voluto presentare di nuovo una prospettiva dalla quale sarà possibile vedere come l’antroposofia risulti senz’altro per il nostro tempo una necessità nell’evoluzione dell’umanità.