Rapporto tra uomo e uomo come germe di vita sociale

L’uomo il lavoro e la fraternità – Perugia, 29 novembre 1985


 

Ciò di cui tratteremo questa sera sarà come una parentesi all’interno del lavoro che avete svolto durante il convegno. Usciremo dai temi così concreti, specifici che vi hanno occupato: le piante, l’orto, i terreni. È una parentesi che spero sia giustificata, perché dedicata ai rapporti tra gli uomini e al problema sociale.

La vostra preoccupazione di fondare e di far vivere un’agricoltura biodinamica è uno degli impulsi fondamentali per un rinnovamento della vita sociale.

Per rinnovare la vita sociale non bastano solamente i programmi, ma piuttosto è necessario disporre di una conoscenza profonda dell’uomo per arrivare al nucleo della vita sociale stessa.

Le cose sono cambiate moltissimo con il passare del tempo: la situazione sociale di oggi è difficile, ha aspetti caotici e suscita delle preoccupazioni per tutto quel che riguarda il futuro.

Voglio solo ricordare che, tra le conseguenze di questa nuova condizione da noi tutti vissuta, sono pesantemente in crisi le antiche istituzioni e le forme del vivere comunitario.

La famiglia stessa, intesa come istituto sociale, è in una situazione di crisi e di difficoltà, tanto che si cerca di favorire, di promuovere un recupero del suo valore.

 

Chiedendosi quale sia il nucleo della vita sociale, se si risponde secondo un’immagine antica, si indica la famiglia costituita sui legami di sangue. Ma la crisi in cui essa versa – difficoltà che noi tutti conosciamo e che si traducono poi soprattutto per chi nasce, per i bambini, in drammi – rivela che è necessario andare più a fondo.

Per comprendere da dove partano i possibili elementi di disordine e da dove sia possibile che entrino elementi risanatori, si deve dire che il nucleo più intimo di tutta la vita sociale è proprio il rapporto tra uomo e uomo, di cui la famiglia è uno dei momenti fondamentali.

Proprio il rapporto tra uomo e uomo costituisce il centro, la struttura molecolare di tutta la vita sociale. Ciò che accade nell’esperienza tra uomo e uomo, tra io e io è fondamentale per ciò che accade poi su un piano molto più vasto come quello della società presa nella sua interezza.

Questo problema è presente nella coscienza di filosofi, teologi e studiosi contemporanei, in molti modi, anche se la tragedia più grande che ha colpito il XX secolo, i campi di concentramento prima e durante l’ultima Guerra, ha indotto molti a una repressione profonda di questo nodo centrale.

Com’è potuto accadere ciò che è accaduto nei rapporti tra uomini? Cos’è che non andava, che non era al giusto posto in questi rapporti, per cui degli uomini hanno potuto negare così drasticamente l’individualità, il valore, l’esistenza di altri uomini? Questo problema ha suscitato riflessioni profonde – per riferirci anche solo al problema ebraico-tedesco – sia in filosofi di lingua tedesca che di cultura ebraica.

 

Vorrei ora cercare di avvicinare il problema alla luce dell’antroposofia, della scienza dello spirito. Esso allora si configura secondo una domanda fondamentale: in che modo il singolo io agendo, pensando, parlando, immette nella vita sociale qualche cosa?

Potremmo anche dire: i pensieri, le parole e le azioni di ciascuno di noi, cosa diventano quando sono usciti da noi, quando le parole sono state dette, le azioni compiute e i pensieri accolti?

Uno degli aspetti della vita sociale riguarda proprio la domanda: che cosa diventano fuori di noi i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre parole, le nostre azioni?

 

Che vita conducono quando ci hanno lasciato?

Questa domanda ha, dal punto di vista scientifico spirituale, una risposta che scaturisce dalla constatazione che ognuno di noi nell’addormentarsi, nel dormire, vive proprio l’esperienza di conoscere, di sperimentare, potremmo dire, ciò che i suoi pensieri, le sue parole e le sue azioni siano in realtà.

• Si parla spesso, anche nella tradizione, di un incontro con il proprio angelo quando ci si addormenta, di un incontro con un essere spirituale che ci giudica o di fronte a cui ci sentiamo giudicati. Nel sonno ciò che di vero, di bello e di buono è vissuto nelle nostre azioni e nei nostri pensieri viene accolto, mentre tutto quello che non partecipa di queste qualità viene respinto. Ciò avviene nel sonno e accade nella vita di ciascuno di noi.

 

Ma che rapporto ha questo con la vita sociale, con il problema sociale?

Durante la vita diurna viviamo nella coscienza abituale di noi stessi, ci riconosciamo per il nome e il cognome, per la nostra storia personale, ci riconosciamo nei pensieri che formuliamo e grazie a essi ci distinguiamo dal mondo esterno, dagli altri.

IL GIORNO è il momento in cui ci afferriamo come individualità, contrapponendoci a tutto ciò che non è noi stessi. Detto in termini più semplici, il giorno è il momento in cui noi siamo in una posizione antisociale, perché affermiamo noi stessi contro gli altri. Naturalmente, anche se lo si fa educatamente, la sostanza non cambia.

Durante LA NOTTE, invece, l’uomo, sia per questa esperienza che avviene nelle profondità dell’inconscio, sia perché esce, diciamo così, dalla coscienza della propria egoità, vive in una condizione in cui la partecipazione alla vita degli altri è massima. Potremmo dire che mai come nel sonno l’uomo è sociale.

Il fatto che l’uomo passi tra la veglia e il sonno è tutt’uno con il fatto che porti dentro di sé impulsi sociali e impulsi antisociali. Così come passiamo tra la veglia e il sonno in un movimento pendolare, nella vita di tutti i giorni passiamo tra momenti di socialità e momenti di antisocialità, momenti in cui affermiamo noi stessi contro gli altri e momenti in cui viviamo all’unisono con gli altri.

Ciò che accade nel sonno per la coscienza individuale, accade, in un certo senso, nell’organismo della società per quelle realtà che si staccano da noi giorno dopo giorno.

 

Potremmo dire che

• le nostre parole, le nostre azioni e i nostri pensieri,

uscendo da noi, entrano nell’organismo della vita sociale, nella società,

entrano nell’animo degli altri uomini, nel mondo

e lì conducono un’esistenza che è profondamente determinata dal contenuto,

dal grado in cui queste nostre espressioni partecipano del vero, del bello, del buono.

• Se da noi escono pensieri erronei o azioni cattive,

quando ci lasciano conducono all’interno dell’organismo sociale una vita

che potremmo paragonare a una sorta di sogno, o magari di incubo, che percorre l’organismo stesso.

 

Come nei sogni c’è una molteplicità, a volte caotica, di fatti e immagini, così, in una molteplicità di effetti socialmente sperimentabili, dovremmo imparare a riconoscere la metamorfosi, l’avvenuta trasformazione di quanto è uscito da noi, per esempio sotto forma di male, di cattiveria, di falsità o di errore.

Questo processo appartiene assolutamente alla realtà. La vita sociale dell’umanità non è guidata coscientemente dagli uomini. Essa si svolge in una maniera totalmente sognante, in alcuni casi totalmente affidata a un sonno profondo. E in questo sonno, che è la vita sociale, si levano come sogni, come incubi o come elementi di malattia e di disordine, gli effetti di quanto ciascuno ha immesso singolarmente come falsità, errore e male. Non è così difficile vedere questo RAPPORTO COMPLESSO, che non esiste solo nel suo aspetto negativo, sottolineo questo, ma esiste anche nel suo aspetto positivo.

Una delle PRIME TAPPE per arrivare a capire cosa accade nel rapporto tra uomo e uomo, dato che questo rapporto si esprime nel divenire, in un passaggio, in uno scambio, in un coinvolgimento nell’agire e nel pensare, è prendere coscienza più profondamente della legge di questa relazione, di quali siano le forze che fanno di quest’incontro qualcosa di socialmente sano o di socialmente insano.

Il disordine non interviene solo perché due persone litigano o si avversano, questa, in fondo, è una delle cause quasi palesi del disordine, o una delle conseguenze.

 

Molto più complesso, delicato e potente è tutto ciò che entra per una via più incosciente.

Esigenza della nostra epoca è di divenire massimamente coscienti,

ma proprio in ragione di questa spinta a voler divenire coscienti di tutto,

ognuno di noi si pone nel mondo con il massimo di antisocialità.

 

Questo è un percorso inevitabile, e non si tratta quindi di rinunciare alla coscienza, ma di raggiungere la pienezza della coscienza, trasformandone in un certo modo i contenuti.

Si tratta di acquisire coscienza di ciò che inconsciamente immettiamo nella vita sociale, perché è da lì che vengono gli impulsi più distruttivi; raramente essi vengono attraverso ciò che facciamo coscientemente.

Le guerre sono sempre state accompagnate da una giustificazione altamente ideale. Ancora durante la Prima guerra mondiale l’amore di patria valeva per molti come giustificazione ideale. Quando l’uomo operava in una maniera distruttiva cercava il sostegno di una giustificazione ideale, sostegno che poi è andato sempre più sgretolandosi.

 

IL PROBLEMA non è tanto ciò che di distruttivo viene immesso coscientemente nella vita,

ma ciò che vi viene immesso incoscientemente.

E ciò accade perché l’uomo, per sua natura, è portato a illudersi profondamente su se stesso

e, sulla base di queste illusioni, a immettere nell’organismo sociale falsità, errori e male.

 

Uno dei compiti fondamentali della propria vita insieme agli altri è quello di combattere la tendenza, che ognuno di noi ha, a illudersi su se stesso. Si può riconoscere la forma suprema di questa illusione nella tendenza a essere contenti di ciò che si è, ad accontentarsi, o a mirare ad una situazione in cui ci si possa finalmente fermare.

 

La maggior parte delle persone pensa, crede di essere qualche cosa.

Mentre il problema non è essere qualche cosa.

Quando si pensa di essere qualche cosa si cade nell’errore e nell’illusione.

Si tratta di accorgersi che l’uomo è un essere in divenire e non un essere che può stare fermo.

 

Lo stare fermi, il non imporre a se stessi un compito evolutivo non significa stare fermi, ma andare indietro.

Non è possibile all’uomo accontentarsi di essere quello che è, non evolvere, non trasformare se stesso.

Cade nell’illusione.

 

Uno dei compiti fondamentali nel rapporto che abbiamo con l’altro uomo è quello di correggere noi stessi;

non cadere nell’illusione circa se stessi, nell’accontentarsi,

nella rinuncia al perfezionamento di sé, nella rinuncia all’educazione di sé.

Educare se stessi è un compito incessante che ci accompagnerà fino al momento della morte.

La morte stessa rappresenta una suprema forma di educazione per l’uomo.

 

Educare se stessi significa, nel campo del pensiero, per esempio, imparare a pensare in un modo aderente alla realtà,

non innamorarsi dei propri pensieri, non cullare le proprie capacità o le proprie idee anche buone o geniali.

Non basta avere buone idee perché queste siano reali.

Si può anche pensare con molta correttezza, ma la realtà può comportarsi in un altro modo.

 

Altra sfera di correzione della propria interiorità è il mondo del giudizio nei confronti degli altri,

niente ci è più facile che giudicare gli altri e far valere, a poco a poco, in questo giudizio

una tendenza che sale dal subcosciente, dove operano simpatia e antipatia profonde.

 

Bisognerebbe continuamente correggere dentro di sé il giudizio che tende a formarsi degli altri e che si cristallizza entro di noi. All’inizio di una conoscenza una persona ci appare ottima, ne siamo entusiasti: dopo un po’ siamo pronti a parlarne male. È facilissimo trovarsi a parlar male di tante più persone di quante non sarebbe lecito. Questo per un’inclinazione antisociale della nostra natura subcosciente. Gli uomini ci risultano o troppo simpatici o troppo antipatici, e in noi finisce per prevalere un giudizio, una tendenza a giudicare che in realtà è una forma di offesa sul piano sociale. Spesso questi giudizi sono falsi. Nostro compito, quindi, è quello di correggere i giudizi che si formano entro di noi, e non credere di non poterne avere che di giusti. Bisognerebbe essere estremamente evoluti per riuscire a non formulare giudizi falsi, ma perlomeno è possibile correggersi. Così come bisogna essere desti nel pensiero, bisogna essere attenti nel giudicare gli altri.

• La sfera suprema dell’illusione circa se stessi, la più intima, riguarda l’esperienza stessa dell’amore. Molto spesso è possibile confondere l’amore per l’altra persona con l’amore che si porta al proprio sentire l’altra persona, per ciò che l’altra persona suscita dentro di noi come sentimento di felicità e di gioia. Spesso questo è tutto, o la parte più importante. Anche in questo campo è necessario cercare un’intima correzione, un intimo esame, che conduca a chiedersi fino a che punto veramente si ami l’altro e non piuttosto il proprio sentire l’altro, il proprio poter vivere dentro di sé l’altro in una maniera egoistica, o che conduca a chiedersi fino a che punto non si ami in un modo esclusivo e possessivo.

Quindi, uno dei primi fondamentali passi è vigilare su noi stessi e operare una correzione interiore, un’educazione di sé nell’ambito del pensiero, del sentimento e della volontà o dell’amore; guardare senza compiacimento, senza innamorarsi di se stessi, dei propri pensieri, dei propri giudizi e del proprio amare.

 

La domanda era cosa diventino, fuori di noi, i nostri pensieri e le nostre azioni.

Essi, dicevamo, vivono nell’ambito sociale secondo il loro contenuto morale.

Possiamo divenire un po’ più padroni dei loro effetti che così spesso ritornano a noi in una forma irriconoscibile?

Degli errori, del male non sempre ci accorgiamo subito.

Vigilare, destare se stessi, correggersi e combattere la tendenza a illudersi

è la via indicata, uno dei compiti fondamentali.

 

L’altra via è quella che la scienza dello spirito apre, offrendo uno strumento essenziale che conoscete più o meno tutti, l’idea della tripartizione o triarticolazione della vita sociale. Essa consente di riconoscere nella vita sociale tre fondamentali funzioni, tre fondamentali campi di forze, di attività; non è un’utopia, né un programma politico antroposofico.

L’idea della tripartizione è uno strumento essenziale di ampliamento della coscienza.

Attraverso di essa ciascuno può imparare a capire in che modo ciò che esce da lui, che abbandona il suo essere, possa ricomparire e tornare nell’ambito della vita sociale, nei processi economici, in quelli giuridici e nell’ambito della vita spirituale. Se si dispone di questo strumento e lo si usa, si potrà comprendere e decifrare più a fondo il nesso tra la propria persona e l’intero organismo sociale. Esso sveglia in una maniera immensa la coscienza umana, rende molto più sensibili all’infinità di relazioni che collegano, con fili visibili e invisibili, ognuno all’intero organismo sociale.

Non per nulla si celebrano, a volte in modo retorico, discorsi sul fatto che tutti siamo responsabili del bene e del male che accade anche lontano da noi. C’è qualcosa di fondamentalmente vero in questo, ma non basta riconoscerne la verità, bisogna anche capire per quale via questa verità si attui. E la via è resa comprensibile e praticabile alla nostra intelligenza attraverso l’immagine della tripartizione sociale.

Il pensare questa triplice organizzazione di forze entro la società è uno strumento essenziale per superare dentro di sé l’antisocialità del nostro divenire io, e quindi della nostra tendenza a uscire dal corpo sociale. È un antidoto al caos, al disordine che la vita sociale subisce a causa di ciò che scaturisce dalla vita interiore dell’uomo.

Coltivate il pensiero della tripartizione sociale, non perdetevi a discuterne confrontandolo con programmi teorico-politici di società perfette. Questi sono prodotti dal pensiero astratto e morto, il solo per cui valga, in un’ampia misura, l’affermazione che è determinato dalle condizioni economiche di chi pensa.

 

L’IDEA DELLA TRIPARTIZIONE SOCIALE, invece, nasce dalla realtà vivente del pensiero e deve servire a cogliere il nesso vivente tra il singolo uomo, quindi se stessi, e la società. È uno strumento fondamentale per modificare la propria condizione di esseri egoisti e antisociali, capendo meglio le leggi della vita sociale.

Riassumendo quindi:

• conoscere se stessi correggendosi, lavorando nel pensiero, nel sentimento e nella volontà;

• conoscere la realtà sociale nelle sue funzioni, spirituale, giuridica ed economica,

lavorando con lo strumento della tripartizione.

 

Ma l’altro? Se uno dei termini della relazione tra uomo e uomo è quello con cui ciascuno di noi dice io a se stesso, che ne è dell’altro, di quello che definiamo con il tu? È chiaro che ognuno di noi è reciprocamente, l’uno per l’altro, un io e un tu. In questo campo niente è più distruttivo di ciò che deriva dal pensare astratto e morto che dal Seicento in poi è così influenzato dalle condizioni economiche. Questo pensiero, che ha compiuto il suo cammino e che ha donato al mondo i suoi frutti, anche assolutamente positivi, deve essere superato: esso porta a fare dell’altro l’oggetto dei propri giudizi, là dove invece, di fronte all’altro, è proprio il giudizio che deve cadere, che deve spegnersi.

Non sarebbero stati possibili gli eccidi del XX secolo se al fondo di essi non trovassimo dei giudizi, delle sentenze inaccettabili nei confronti dell’altro uomo; il definirlo in base alla classe sociale, al censo, alla razza, al sesso. Come possiamo imparare a non giudicare gli altri uomini? Questa, in fondo, dovrebbe essere la domanda. Anche il Buddhismo e il Cristianesimo ci insegnano che è giusto non giudicare.

Come fare a non giudicare? La via fondamentale è quella che conduce a vedere l’altro come sorgente d’immagini. Allora la domanda si trasforma: come facciamo a stare dinanzi agli altri in modo da farcene delle immagini? Per questo vorrei indicare, con l’aiuto di quanto viene da Rudolf Steiner, alcune possibilità, degli strumenti.

Uno dei modi per acquisire la capacità di cogliere l’altro uomo come immagine è quello di riconoscere in ciascun uomo che si incontra, l’esperienza di una lotta tra forze contrapposte e l’equilibrio che quell’uomo crea tra esse.

 

Nel nostro secolo lo sviluppo della coscienza umana va di pari passo col problema del male.

L’uomo diventa cosciente di sé in massimo grado, in massimo grado diventa antisociale e in misura estrema, come mai prima, deve prendere contatto con le forze del male.

LE FORZE DEL MALE si esprimono in una polarità:

• da un lato nella freddezza assoluta,

nell’indifferenza, e nell’assoluto indurimento del cuore davanti all’uomo, davanti alla natura e davanti alla vita;

• e dall’altro, invece, nella forma dell’eccitazione, dell’esaltazione.

 

Il male costituisce uno dei problemi fondamentali di ciascuno di noi;

ciascuno di noi in questa incarnazione prima o poi lo sperimenta,

e da questo incontro, che non è pubblico, spesso ciascuno può ricavare elementi per una coscienza di sé.

• Ognuno, quindi anche l’altro, è posto in questo dilemma, nella necessità di trovare un equilibrio dentro di sé

tra le forze del male, che lo vorrebbero in qualche modo distorcere.

Ognuno di noi cerca un punto di equilibrio tra i due possibili estremi verso cui il male lo porterebbe.

 

Se guardiamo l’altro con l’interesse più vivo per il modo con cui egli risolve dentro di sé questo problema, per il modo con cui ogni volta trova un punto di equilibrio tra le forze del male, ecco che allora scaturisce dentro di noi la capacità di vedere l’altro uomo come sorgente di immagini. Dall’altro irraggiano immagini che ci rivelano enormi profondità della vita spirituale.

 

Questo è il primo strumento:

imparare a cogliere come ogni uomo, ogni volta, non astrattamente, trovi questo punto di equilibrio.

Non si tratta di capire quale filosofia lo muova, ma come concretamente

egli realizzi un equilibrio dentro di sé tra gli estremi a cui la sua vita lo espone.

 

Dall’interiorità di ognuno irraggia qualche cosa, e noi sperimentiamo la crudeltà dell’attuale vita sociale già nel fatto che ci si abitua a vedere gli altri uomini opachi, passivi, non irraggianti. Questo non è mai vero, è il risultato della nostra cecità. Uno dei compiti fondamentali è quello di imparare a guardare l’altro come un essere che irradia realtà spirituali che irradia esperienza di realtà spirituali, e forze interiori.

Ciò è possibile solo se ci si educa concretamente a questo sguardo nei confronti dell’uomo, se non si cade, cioè, in illusioni su di sé e non si uccide dentro di sé l’altro.

 

C’è un’altra via, un altro strumento che voglio indicare, sempre con questo scopo: l’educazione a guardare indietro nella propria vita. Oggi lo si fa moltissimo sotto l’influenza delle correnti psicoanalitiche, ma in un modo che spesso si traduce in un potenziamento dell’egocentrismo e dell’egoismo. Nell’orientare lo sguardo sul passato, nel ricordare, è fondamentale aver cura dell’intonazione di sentimento che affiora. Ho assistito a cosa significhi scatenare l’odio di un figlio o di una figlia nei confronti del padre o della madre! Il problema non è di scoprire che esso esista ma nel ricordarlo non rimuginare sui torti subiti, sulle colpe altrui o proprie. Quello che importa è rivedere il proprio passato – anch’esso è divenuto solo immagine – cogliendo le testimonianze che ci dà di quanto di vivente, nutriente ci è arrivato da fuori, ci è stato dato. Se il ricordo ci porta esperienze in cui qualcuno, invece, ci ha ferito, o sottratto qualcosa, si tratta di scoprire quanto tali esperienze ci siano servite. Potrebbe esserci stato molto utile quel tale che un giorno ci ha offeso, mettendo l’accento su un nostro reale difetto o errore, per cui magari abbiamo provato per lui un’antipatia irreversibile.

 

Una delle vie per superare in noi la tendenza a giudicare

è di ripercorrere la propria vita con un sentimento di gratitudine verso la vita stessa.

Ciò che c’è di terribile nell’intonazione di sentimento creatasi all’ombra della psicoanalisi e del marxismo

è l’ingratitudine verso la vita, è la coltivazione dell’ingratitudine verso il passato.

Dobbiamo educarci a coltivare la gratitudine

verso coloro che sono passati nella nostra vita, nelle forme in cui ciò è avvenuto.

 

Se riuscissimo a fare questo, e ciò è tanto più importante se le persone sono defunte, non sono più sulla Terra, allora acquisiremmo, a poco a poco, la capacità di cogliere le altre persone come portatrici viventi di realtà spirituali.

Quando scopro con gratitudine ciò che una persona, passata nella mia esistenza, ha posto e lasciato in essa, allora posso, oggi incontrando un uomo, scoprire in quell’uomo quel valore. Altrimenti gli passerei davanti, cieco. Dobbiamo essere semplicemente grati, per esempio, del fatto di poterci incontrare, parlare, vedere. A volte, il poterci semplicemente vedere trasmette qualche cosa, ma trasmette tanto più, quanto più siamo aperti ad accogliere. Questa apertura ad accogliere si educa, non è già data.

 

Una delle vie di educazione è guardare con gratitudine al passato,

trovare tutto ciò che di luce, di calore, di amore è entrato nella nostra esistenza a opera degli altri.

L’ingratitudine è una delle piaghe del nostro secolo.

 

Oggi i bambini nascono e dopo tre, sei mesi sono affidati al nido, devono entrare in un’istituzione pubblica. Trent’anni fa, per questo, si sarebbe parlato d’infanzia abbandonata. Per fortuna, poi, in questi nidi è possibile che si trovino anche persone piene di calore e di luce, certo non programmabili; a situazioni disastrose vengono incontro, a volte, delle singolarissime sorgenti di forze. Di quali ricordi farà tesoro la memoria di questi bambini? E quanto arduo sarà reso loro il compito ora proposto?

Come ultimo strumento per cercare di far sì che ognuno di noi stia davanti all’altro in un modo nuovo, vorrei suggerirvi una riflessione che appartiene anch’essa ai tempi e grazie ai quali è maturata come possibilità.

Vi dicevo prima, noi pensiamo, parliamo, facciamo tutto ciò che esce da noi, ma noi pure ci allontaniamo dalle situazioni e portiamo in noi l’eco di queste esperienze, l’immagine di ciò che abbiamo vissuto. L’altro uomo, colui che abbiamo incontrato, vive entro di noi come immagine. Non perché l’abbiamo colto come tale nel senso auspicato prima, intendo dire una cosa ancora diversa: solo per il fatto di esserci incontrati, per ciò che è avvenuto in questo incontro, per lo scambio che ne è scaturito, quando avviene il distacco ciascuno porta dentro di sé in immagine l’altro, immagine, in un certo senso, latente in noi. Quello che ora i tempi hanno reso possibile, che è maturo è che quest’immagine latente in noi viva, che non venga dimenticata e muoia, ma viva.

Questo è uno dei misteri del presente: quanto più noi riusciamo a portare entro di noi l’altro, così come portiamo noi stessi, tanto più l’altro vive in noi. E questo vivere l’uno nell’altro è il passaggio fondamentale per uscire dalla situazione di antisocialità, per scoprire il nuovo senso della vita sociale.

 

La vita sociale non si rinnova da fuori, per programmi o per decisioni, non solo così,

ma si rinnova da dentro, perché l’uomo, giunto al culmine della coscienza astratta,

riesce a passare a una coscienza in immagini.

E l’immagine fondamentale a cui può passare e che porta dentro di sé come vita, è l’immagine dell’altro uomo.

 

Se noi, ripeto, portiamo dentro di noi l’immagine dell’altro, così come portiamo noi stessi, l’altro vive in noi, così come noi viviamo in lui. L’isolamento è vinto, la solitudine egoica ed egocentrica è superata, la vita mostra un nuovo campo del suo svolgersi, e in questo campo dobbiamo porci con forze coscienti.

Quest’esperienza prima era possibile solo attraverso le forze del sangue. Chi ha fratelli sa come proprio attraverso la comunanza della carne con il fratello, porti qualcosa di lui dentro di sé. Questa comunanza legata al sangue, il portare nel proprio sangue l’altro, che ha lo stesso sangue, oggi può essere superata se portiamo l’immagine dell’altro in noi, come portiamo noi stessi; allora l’altro vive dentro di noi e l’esperienza d’incontro tra gli uomini diviene vero germe di vita sociale.

 

IL CAOS in cui l’attuale vita sociale versa ha comunque un senso.

Non si tratta di smarrirsi davanti ad esso e dinanzi al fatto che aumenterà ancora nei prossimi anni.

 

Il senso di questa situazione caotica è proprio quello

di portare l’impossibilità dell’esistenza in questi termini a tal punto,

che singoli uomini trovino la necessità e la capacità

di realizzare tali condizioni d’incontro, tali germi di vita.

 

L’auspicio è di mantenere questa direzione per il rinnovamento della vita sociale.

Questo è quanto mi promettevo di indicarvi in questa conversazione: degli strumenti di cui appropriarsi.

 

Bene, vi ringrazio dell’ascolto.