La trasformazione delle conseguenze esteriori del peccato originale operata da Cristo

Il figlio dell’uomo


 

Se le conseguenze interiori del peccato originale

furono la percezione di un mondo esteriore e i sentimenti della vergogna e della paura,

• le conseguenze esteriori, cioè le condizioni in cui doveva svolgersi il destino dell’umanità,

furono la fatica, la malattia e la morte.

 

Queste tre necessità primigenie della vita umana,

• non hanno il significato di un castigo,

• ma di una misura protettiva per l’umanità di fronte ai grandi pericoli connessi con la sua via verso la libertà.

 

In che senso queste necessità costituissero una difesa dell’umanità dal pericolo di soggiacere al male, se ne è trattato altrove – nella prima delle considerazioni sull’Antico Testamento. Ora si tratta di illustrare il nesso di queste tre necessità con gli effetti delle tentazioni del Cristo Gesù nel deserto. Tale nesso diviene palese, se si è compresa la relazione, trattata nel capitolo precedente, tra il superamento della morte grazie al Mistero del Golgota e la notte del Getsemani, e ancora, tra quest’ultima e la tentazione nel deserto di mutare le pietre in pane.

Se infatti l’incompiutezza di questa tentazione ebbe come conseguenza i dolori della notte del Getsemani – e quindi anche l’intera Passione – così le due altre tentazioni, in quanto definitivamente superate, ebbero come conseguenza la benedizione delle rivelazioni e delle guarigioni che il Cristo per tre anni potè offrire in dono all’umanità.

 

• Invero il superamento della tentazione di scorgere “in un istante tutti i regni di questo mondo”, permise la rivelazione della dottrina di un mondo di amore non ancora presente, che dovrà vincere e trasformare questo mondo.

L’annuncio del regno di Dio da parte di Cristo potè avvenire solo in seguito al superamento della forza fascinatrice dovuta alla visione dei regni di questo mondo “nella loro magnificenza”. La via per l’annuncio del regno di Dio potè dischiudersi dopo che il Cristo Gesù ebbe scrutato e dissolto – come si dissolve una formazione di nebbia per l’azione dei raggi solari – il panorama della condizione che questo mondo mira a raggiungere con le forze risultanti dal suo passato.

 

I segni invece – o miracoli – compiuti dal Cristo, avvennero in seguito al superamento della tentazione di “gettarsi dal pinnacolo del tempio”, cioè di compiere miracoli per mezzo di torbide forze del subconscio. Infatti l’essenziale dei segni e delle guarigioni miracolose operate dal Cristo Gesù, non sta nel loro carattere straordinario ed inusuale, non dunque nel ‘miracolo’ in sé, ma nel fatto che tali segni e guarigioni furono operati movendo dall’Io cosciente e desto. Essi non sarebbero stati tali, se la tentazione di affidarsi all’inconscio non fosse stata precedentemente respinta.

L’azione taumaturgica cosciente del Cristo Gesù fu possibile

solo in quanto era stata preceduta dal rifiuto del miracolo derivante dal subconscio.

 

Se al presente non si vuole restare in un generico sentimento, ma ci si vuole formare un concetto adeguato dell’essenza del ‘regno di Dio’ e dei ‘miracoli’ del Cristo Gesù – concetto che, come ogni concetto conforme allo spirito, può, se elaborato attivamente, divenire una finestra sulla realtà spirituale -, si può ricorrere agli scritti di Rudolf Steiner precedenti le sue pubblicazioni antroposofiche.

Se si approfondisce ad esempio I Mistici e, dopo aver colto il filo della descrizione e del pensiero, ci si domanda: che cosa aveva di mira Rudolf Steiner con la descrizione della mistica, appare allora l’idea centrale di quest’opera, espressa ripetutamente in forme diverse, ossia la grande idea dell’amicizia di Dio [Gottesfreundschaft].

Quest’idea può venire espressa in modi diversi – e lo fu infatti da parte dei singoli mistici, i quali la vissero anche in modo diverso – ma se ne coglie l’essenza, quando si riconosce che

il compito dell’uomo consiste

nell’intervenire attivamente, portando avanti il processo, là ove la realtà creata, il già compiuto, si arresta.

L’uomo continua allora la creazione divina, divenendo egli stesso un collaboratore, un amico di Dio.

 

Così, ad esempio, intende Tauler la destinazione dell’uomo; tale era anche il senso dell’alchimia di Paracelso, come egli la concepiva; e la stessa cosa voleva dire al lettore Rudolf Steiner allorché, richiamandosi alle figure spirituali della mistica, pose innanzi all’anima il grande, luminoso pensiero: là dove termina la realtà data, il già compiuto, l’uomo può attuare il divenire di una realtà che ancora non esiste.

Questo pensiero che riluce da I Mistici di Rudolf Steiner, era stato da lui già elaborato filosoficamente, in rapporto al conoscere e all’agire, traendone tutte le conseguenze per la coscienza odierna, nelle due parti de La filosofia della libertà. Lì egli mostra come la conoscenza umana si attui in seguito all’integrazione del dato percepito con un elemento non dato, derivato da un altro ‘regno’; la conoscenza sorge, in altre parole, se alla percezione si aggiunge l’intuizione di un elemento celato ai sensi.

 

Parimenti, l’azione morale umana sorge per il fatto

che sulla situazione data agisce attivamente il risultato creativo della fantasia morale.

Si può anche dire:

i regni conclusi della natura, compreso quello umano, quale è divenuto, esistono,

ma l’uomo può realizzare un regno ulteriore, non ancora presente, il regno di Dio.

 

Questo regno si differenzia nelle sue qualità, come nelle sue leggi, dal regno del mondo già compiuto, come l’annuncio e i segni del Cristo Gesù si differenziano dalla natura e dalla ‘legge degli antichi’.

Le summenzionate opere di Rudolf Steiner conducono in effetti al cristianesimo.

Si consegue un rapporto puro e spiritualmente giovane con le prediche e i segni del Cristo Gesù, se si considerano le prime come l’annuncio del nuovo regno, del regno dei cieli, e i secondi, come le azioni derivate da questo regno, servendosi dunque dei concetti ricavati da I Mistici e da La filosofia della libertà. I miracoli del Cristo diventano allora manifestazioni della suprema ‘fantasia morale’, e i discorsi diventano annunci del regno delle ‘intuizioni’, a partire dalle quali l’uomo deve creare, per continuare l’opera dell’esistenza.

 

Se si aggiunge ancora l’idea elaborata nello scritto di Rudolf Steiner Il cristianesimo come fatto mistico, l’idea cioè che il cristianesimo sia il compimento dei misteri dell’antichità, vale a dire che in esso il simbolismo dei misteri sia diventato un fatto mistico, si sperimenta, grazie a quest’idea, una sorta di libera comunione interiore in chiara coscienza, come con l’idea de La filosofia della libertà si sperimenta una sorta di libero e cosciente battesimo interiore.

Con La filosofia della libertà – e altre opere affini – ci si collega al cristianesimo, quale impulso a collaborare liberamente all’evoluzione ulteriore del creato; con l’opera Il cristianesimo come fatto mistico si giunge invece al Cristo, quale entità che sta all’origine di questo impulso e che con le sue azioni ha mutato il corso al destino dell’umanità.

 

Dunque già nelle opere di Rudolf Steiner preparatorie all’antroposofia viene offerta integralmente la possibilità di ritrovare nel nostro tempo il cristianesimo – e precisamente di ritrovarlo come la parola’ del Regno, come i ‘segni’ del Regno e come la penetrazione del Regno nel divenire della Terra, ossia il Mistero del Golgota.

Questi tre aspetti del cristianesimo vengono illustrati anche nei Vangeli, solo che il modo odierno di leggerli e interpretarli, rese necessario trovare una via nuova verso il cristianesimo, per la quale i Vangeli possano essere nuovamente compresi nel loro significato per l’umanità.

 

Questi tre aspetti del contenuto dei Vangeli sono, come già si è detto, gli effetti delle tre tentazioni nel deserto e indicano la trasformazione delle conseguenze interiori ed esteriori della tentazione dell’umanità nel paradiso: precisamente

• la ‘parola’ contiene il superamento della fatica;

i segni e i miracoli significano la guarigione dalla malattia

• e il Mistero del Golgota rappresenta il superamento della morte.

 

Si prenda ad esempio il Sermone della montagna come l’annuncio centrale del Regno mediante la parola, e si considerino più da vicino le nove Beatitudini: si scoprirà che esse contengono la trasformazione interiore del dolore dovuto alla fatica, al lavoro, compiuto dai nove arti dell’entità umana.

Ad esempio la Beatitudine di chi mendica lo spirito, non significa che lo stato di privazione spirituale sia beato, bensì che lo sforzo di un uomo consapevole della propria povertà spirituale e che pertanto aneli incessantemente allo spirito, porta ad una beatitudine interiore.

Parimenti nella seconda Beatitudine, quella degli afflitti, si intende non una condizione, bensì un’attività, e precisamente si intende quel tipo di attività rispetto alla quale il corpo eterico offre la maggior resistenza: il superamento di questa resistenza è il dolore, cui si riferisce questa Beatitudine.

Anche nella Beatitudine dei miti non si parla di una condizione di natura, ma della fatica nel superare gli ostacoli del corpo astrale, giacché col termine ‘mitezza’ si designa il dominio sul corpo astrale.

 

Questo motivo fondamentale è espresso con pari chiarezza nelle altre Beatitudini. La loro trattazione più approfondita sarà argomento di un prossimo capitolo. Ora è sufficiente presentare l’idea di fondo, che la parola del Cristo Gesù rappresenti l’impulso ad una trasformazione interiore della fatica.

La fatica trasformata è chiamata nei Vangeli fede, pistis. Per ‘fede’ non si intende il ritener vere opinioni proprie o altrui, bensì l’afferrare e fare meta del proprio volere una realtà in divenire del mondo sovrasensibile.

 

Ciò che già esiste, può essere o meno conosciuto,

ma ciò che vive come possibilità per questo mondo e come realtà in un mondo superiore,

può, nel senso dei Vangeli, solo essere creduto.

 

Così, ad esempio, non si può sapere se l’impulso di Michele sarà vittorioso nell’odierna lotta spirituale. Non lo si può sapere, poiché l’esito di questa lotta dipende appunto dall’apporto, da parte dell’umanità, della fede necessaria nei riguardi dell’opera di Michele, del fatto cioè che l’umanità vi partecipi con una corrente di volere umano, che sia non solo spettatrice, ma anche cooperante. Se la realtà di questa lotta è soltanto conosciuta, si sa allora che la lotta esiste. Se però dell’esito di questa lotta si fa una vicenda propria, si sviluppa allora una forza spirituale che non si limita a constatare gli avvenimenti, ma coopera al loro determinarsi.

 

Con la parola ‘fede’

il Cristo Gesù designa una tale assunzione volitiva di una realtà che ancora non è.

• Nei suoi discorsi non è questione della conoscenza del Regno, ma della fede nel Regno.

 

Il Regno infatti non si è ancora attuato. È una realtà nei cieli, un regno dei cieli (basiléia ton ouraniòn), ma per il divenire terreno è solo una possibilità, la cui realizzazione dipende dalla libera adesione dell’umanità, dalla sua fede.

Mentre la conoscenza riconosce il mondo, così come è stato creato, la fede lo trasforma.

 

La fede può spostare le montagne, poiché rappresenta nell’uomo la medesima forza che, a suo tempo, ha eretto le montagne fuori dell’uomo.

 

Non sarebbe tuttavia corretto parlare di una contraddizione tra scienza e fede.

Questa contraddizione in realtà non esiste.

Giacché la fede, quale è intesa nei Vangeli,

altro non è se non una conoscenza,

che non viene soltanto pensata e sentita, ma anche voluta.

 

Quando una conoscenza ridesta a nuova vita

non solo il pensare, ma anche il sentire e il volere,

essa diventa fede, nel senso originario di questa parola.

 

La fede non è dunque altro che una conoscenza la quale ha afferrato l’uomo intero.

Quando l’uomo conosce non solo con i pensieri, non solo con i pensieri e i sentimenti,

ma col suo pensare, sentire e volere,

egli possiede allora la fede nel contenuto di questa conoscenza.

Quello che l’uomo intero ha conosciuto, tale è la fede in senso cristiano.

 

Ciò che si intende oggi per conoscenza è invece soltanto un grado della fede,

mentre ciò che si intende per fede è per lo più una conoscenza che non ha ancora raggiunto il livello della certezza.

 

Questi concetti al presente sono semplicemente rovesciati:

la conoscenza pienamente matura, ossia la fede, è diventata un grado di conoscenza incerta, un opinare soggettivo,

mentre la fede immatura, ossia la conoscenza nel senso odierno, fu posta al grado più alto della certezza.

In tal modo però si è perso il vero concetto della fede.

 

Mentre la parola del Cristo Gesù suscitò la fede, i suoi segni e miracoli la presupponevano.

Essi infatti dovevano manifestare, non la fede, ma il suo effetto. Quest’effetto consisteva nel trasformare, nel sanare la malattia, presente tanto nelle relazioni umane, quanto nella condizione animica e fisica dei singoli uomini. Così, per esempio, nelle nozze di Cana, fu dato il segno del risanamento del matrimonio, quale relazione umana, mentre nella guarigione del cieco nato fu guarito un singolo uomo, e ancora nel risveglio di Lazzaro si trattò di risanare l’essere dell’iniziazione, ossia dei misteri dell’umanità.

 

I segni e i miracoli erano rivelazioni della realtà del Regno.

Come il Regno fu annunciato mediante la parola, così fu rivelato nella sua realtà mediante i segni.

Questa rivelazione del regno dei cieli in Terra, è ciò che nei Vangeli – e propriamente in Paolo – viene designato col termine di amore, agape.

Qui l’amore non è soltanto un sentimento umano, bensì una condizione dell’essere umano complessivo, tale da rendere presente e operante in terra il regno dei cieli.

 

• Se l’uomo era in grado

di elevarsi col suo conoscere ad una realtà sovrasensibile

e di comprenderla con tutto il suo essere, con il pensare, il sentire e il volere,

allora egli possedeva la fede.

• Se invece questa realtà sovrasensibile discendeva nel mondo dei sensi, colmando l’uomo,

essa diventava amore.

 

Quando però l’uomo guardava al mistero della morte in Croce e della Resurrezione del Cristo Gesù, come alla vittoria dell’amore sulla morte, allora egli volgeva lo sguardo al grande fine, al grande compito futuro dell’amore nel mondo.

La forza fluente dalla visione del Mistero del Golgota, preservata e custodita per il futuro, quando sarà giunto il tempo di vincere la morte, quella futura forza dell’amore che si rivelerà vincitrice della morte, Paolo la chiamò speranza, elpis.

Così le tre virtù teologali della scolastica medievale avevano già in Paolo, che ben conosceva il senso originario di queste cose, un significato di gran lunga superiore a quello di un atteggiamento soggettivo dell’anima.

 

Infatti

• l’originaria fede cristiana era un conoscere il regno dei cieli con tutto l’essere umano;

• la discesa di questo regno fino alla realtà sensibile tramite l’essere umano, era il significato originario dell’amore;

• infine la futura forza superatrice del potere oggettivo, extraumano della morte, era la speranza cristiana, quale la intendeva Paolo.

 

• L’umanità deve la presenza di queste forze fondamentali dell’anima e dello spirito alla parola, ai segni e al sacrificio del Cristo Gesù, resi possibili in seguito al superamento delle tre tentazioni nel deserto. Le tre forze fondamentali del cristianesimo sono dunque il frutto, per la coscienza umana, delle tre tentazioni nel deserto.

L’aspetto essenziale della lotta spirituale che viene combattuta nel presente e lo sarà ancora nel periodo della sesta e settima epoca di cultura, è la lotta per lo sviluppo di queste tre forze fondamentali della vita spirituale dell’umanità.

 

Nel presente si aggiunge la lotta per la fede. In questa lotta, il compito della scienza dello spirito fondata da Rudolf Steiner, è di rendere accessibile all’umanità LA VIA A UNA CONOSCENZA che afferri sempre più l’uomo intero, cioè porti all’umanità la fede, nel senso proprio della parola.

 

Solo nella sesta epoca di cultura, quella di ‘Filadelfia’, si avrà anche la realtà dell’amore. Sociale e antisociale si contrapporranno, come oggi si contrappongono conoscenza spirituale e scetticismo. Se oggi la certezza conoscitiva si oppone al dubbio, nell’epoca di cultura di Filadelfia l’amore sociale, la fratellanza dovrà opporsi all’odio.

 

• La settima epoca di cultura – designata nell’Apocalisse come ‘Laodicea’ – avrà invece come motivo centrale del proprio destino la lotta della negazione del futuro, dell’assenza di speranza, contro l’assenso cristiano alla Resurrezione, cioè contro la speranza.

 

Queste cose sono espresse chiaramente nell’Apocalisse di Giovanni, ma possono essere riconosciute immediatamente da ogni uomo che pensi e senta più a fondo, che abbia compreso come tutta la storia ulteriore dell’umanità altro non sia, che la lotta contro l’impulso del Cristo e l’affermarsi di quest’ultimo nel destino dell’umanità.