Come si pensa


 

Che cosa non è pensiero

Sembrerà forse strano che al principio di un’esposizione intesa a portare alcuna luce sul modo con cui l’uomo pensa, venga posta la seguente domanda preliminare: «Che cosa non è pensiero?».

Qualcuno forse risponderà: «L’orologio, per esempio, non è pensiero».

 

Senza il pensiero dell’orologiaio incarnato in esso, l’orologio non sarebbe più un orologio. Ecco quindi che non possiamo considerarlo come del tutto estraneo alla realtà del pensiero. L’orologio non è forse pensiero, ma è certamente in relazione con il pensiero.

Si leva una voce e dice: «Questa sedia? Quella sedia?». La voce ripete: «Sì, questa sedia».

Questa o quella? – ecco il problema. Questa o quella per me pari sono, canta il conte di Luna, ma parità non significa in alcun modo identità. Dobbiamo lasciar cadere la questione, perché non c’è alcuna possibilità d’intenderci su un oggetto che per uno è “questo” e per un altro è “quello”.

 

A questo punto forse qualcuno s’indispettirà e griderà: «Facciamola finita con queste sciocchezze! È più che evidente che un sasso non è pensiero».

Io ribatto: «Quale sasso? Un sasso che tu conosci o un sasso che tu non conosci? Perché se tu lo conosci, non puoi conoscerlo che come concetto, quindi esso è in relazione con il pensiero. Se invece tu non lo conosci, non hai diritto di dichiarare nulla sul conto suo».

 

Queste non vogliono essere sottigliezze filosofiche. Il mondo che è fuori potrà anche non essere pensiero, ma nello stesso momento in cui si presenta alla coscienza dell’uomo, si trasforma in una grandiosa tessitura concettuale. Per l’uomo tutto è pensiero. Ciò che giunge alla sua coscienza è in parte uguale percezione e concetto.

Intorno ad ogni oggetto del mondo l’uomo intesse una sottile e invisibile rete di pensiero. Se c’è una domanda alla quale non si può rispondere, è appunto questa: «Che cosa non è pensiero?». Tutto è pensiero ciò che giunge alla coscienza dell’uomo. Noi abbiamo fatto quella domanda soltanto per richiamare l’attenzione sul fatto che l’uomo pensa di continuo, anche quando non si rende affatto conto di pensare.

 

Appunto per il fatto che il pensiero sfugge alla nostra normale osservazione, è così difficile rispondere alla domanda: «Come si pensa?».

 

Tutti pensano, ma nessuno sa veramente come si pensa. Nessuno si rende conto difatti che nell’atto di pronunciare due sole semplicissime parole, come per esempio “questa sedia” il suo pensiero ha svolto fulmineamente una formidabile e complessa attività. È diffìcile avere una visione completa di questa attività pensante che ha condotto a dire “questa sedia”, su di essa si può gettare tutt’al più un barlume di luce.

 

Come prima cosa il pensiero ha distinto il soggetto dall’oggetto, l’Io dal mondo; poi nell’oggetto ha innestato il concetto di molteplicità; ha diviso questa molteplicità in tanti gruppi analoghi secondo i procedimenti della logica elementare; ha messo in evidenza un gruppo distinguendolo da tutti gli altri secondo il proprio concetto particolare; il concetto di spazio lo ha condotto alla categoria di ubicazione; tra tutti gli elementi del gruppo distinto, ha scelto quello più vicino al soggetto; alla fine ha polarizzato la coscienza su due elementi: il soggetto e l’oggetto particolare sedia.

Tutto questo complicato procedimento concettuale ha portato alla semplice formulazione “questa sedia”.

 

A qualcuno sembrerà che ciò sia una complicazione filosofica della realtà, e che il pensiero invece per se stesso sia un fatto semplicissimo. Per superare questa opinione semplicistica e profana della realtà del pensiero, rendiamoci conto che nell’atto di dire “questa sedia”, chi esprime tale pensiero sa:

– Che egli esiste e che esiste un mondo;

– Che tra lui e il mondo c’è una separazione;

– Che il mondo è formato di tante cose;

– Che alcune di queste cose si assomigliano;

– Che alcune di queste cose costituenti un gruppo o genere formano a loro volta un sottogruppo o specie.

 

Il concetto di genere “ciò che serve per sedere” viene diviso qui nei concetti specifici di sedia, poltrona, sgabello, ecc. Tra questi viene scelto quello conveniente di sedia fissato dalla percezione;

– Che tutte le sedie esistenti in questo mondo hanno diversa ubicazione;

– Che quella percepita si trova vicino a lui più di qualsiasi altra;

– Che tutto ciò gli permette di dire con sicurezza: “questa sedia”.

 

Abbiamo indicato così il percorso minimo seguito dal pensiero nella mente di chi ha pronunciate le parole “questa sedia”; potrebbe darsi benissimo che in qualche caso particolare il processo pensante sia ancora più complesso e implichi nella tessitura mentale ancora altre categorie concettuali.

A questo punto vorremmo stabilire questo primo fatto: per ogni percezione, anche la più comune e nota, il pensiero svolge istantaneamente un’attività complicatissima che alla fine si riduce a un concetto semplice.

 

Per la ragione che la complicata attività del pensiero sfugge di solito all’attenzione, che si sofferma invece sul prodotto ultimo e semplice del pensiero, il concetto, nasce il duplice errore di scambiare il pensiero attivo per il suo prodotto, il concetto, e di credere che il processo del pensiero sia facile e semplice.

Si può essere un formidabile pensatore senza rendersi tuttavia conto del modo con cui si pensa. Quest’era, per esempio, il caso di Kant.

 

Kant si pone il problema: «Quale processo di pensiero avviene, quando uno dice: 7+5=12?».

Ecco qui un caso semplicissimo. Tutti, dalla prima classe elementare in poi, sanno che 7+5=12, ma pochissimi si rendono conto perché e come lo sanno.

Kant, per quanto io creda di capire il suo pensiero – anche qui come sempre estremamente complicato -, ragiona nel modo seguente: quando dico 7+5 ho già nella mente la visione che la somma che otterrò sarà formata da un numero di unità superiore di quelle che costituiscono i due singoli addendi. Se aggiungo alle singole unità del primo addendo le singole unità del secondo addendo, ottengo per appunto il numero 12 non contenuto né nel 7, né nel 5, ma da me previsto nella visione dell’intelletto.

 

In fondo il ragionamento di Kant, tradotto in concetti comuni, si basa sulla seguente proposizione: se a una serie di oggetti aggiungo un altro oggetto, ottengo una serie maggiore.

Questo è vero naturalmente, ma il pensiero per arrivare alla preposizione 7+5=12, batte una via completamente diversa, che Kant non sospetta nemmeno. Kant nel suo ragionamento parte dal concetto di unità. Però questo concetto è già un prodotto del pensiero, presuppone un precedente di pensiero.

 

Il concetto di unità è basato sul pensiero; per comprendere il processo pensante che mi fa dire 7+5=12 devo cercar di scoprire il pensiero originale che è partito dalla percezione.

Se passo per un viale non mi colpisce come prima cosa il singolo albero, ma l’insieme concettualmente indistinto degli alberi, il filare. Da quest’insieme il pensiero estrae poi il concetto di albero singolo e forma l’idea: il viale è costituito da tanti singoli alberi.

Non potrei mai dire un uovo, se non avessi avuto in precedenza il concetto di tante uova, di molte uova.

 

Il concetto fondamentale dunque basato sulla immediata percezione è quello della grandezza con le sue sfumature di quantità e di totalità.

Da questo concetto si passa a quello di unità. Nella formazione di questo concetto dobbiamo distinguere dunque due processi di pensiero:

– Il pensiero sulla percezione che dà il concetto di grandezza;

– Il pensiero su questo concetto che dà il concetto di unità.

 

Aristotele per primo ha scoperto questo modo di procedere del pensiero per sempre successive distinzioni, separando la particolarità dalla totalità, fino a giungere al concetto indivisibile.

Questo ci fa capire una cosa: quanto più semplice, chiaro e distinto è il concetto, tanto più complesso, profondo e vigoroso è stato il pensiero che lo ha prodotto. Se leggiamo un’opera di Aristotele o di Tomaso d’Aquino, siamo colpiti per la straordinaria semplicità dei concetti, per la cristallina trasparenza delle idee: dietro a questa si nasconde però un formidabile sforzo di pensiero. Viceversa, gli uomini che non sanno pensare, si esprimerebbero con ogni sorta di concetti confusi e complicati.

 

Ora però, dopo aver messo in chiaro che il concetto di unità non può portarci alla proposizione 7+5=12, torniamo al nostro problema.

Immaginiamo di essere in una sala mediocremente illuminata. Poi improvvisamente il chiarore aumenta. Quale è il pensiero che ci formiamo? E’ questo: in questa sala ci sono tante lampade. Prima erano accese soltanto una parte di esse, ora sono accese tutte.

Questo pensiero ci spinge a volgere intorno lo sguardo. Scorgiamo due lampadari, uno con sette lampade, l’altro con cinque. Prima era acceso soltanto quello con sette, ora sono accesi tutti e due. Dopo questa osservazione, possiamo dire: le lampade del primo lampadario più le lampade del secondo lampadario danno la totalità delle lampade che si trovano in questa sala.

Mettiamo bene in evidenza che posso dire ciò con assoluta sicurezza logica anche ignorando completamente il numero delle lampade, che per il corso del mio pensiero non ha alcuna importanza. Nel ragionamento fatto il concetto di unità è completamente assente.

 

Il pensiero fondamentale è il seguente:

La totalità delle lampade che si trovano in questa sala è divisa in due parti. Questo pensiero è chiaro, semplice, e quello che più conta, assolutamente primo. Da questo pensiero, con procedimento puramente logico, si passa al secondo:

Le due parti congiunte danno la totalità.

Nulla di più facile ed evidente. Ora possiamo già comprendere la via che batte il pensiero nell’esprimere il giudizio: 7+5=12.

Davanti al problema 7+5. L’intelletto umano pensa nel modo seguente: una totalità originaria è stata divisa in due parti. Queste due parti stanno davanti a me espresse nei numeri 7 e 5. Se le riunisco ottengo di nuovo la totalità originaria.

 

Questo ragionamento non porta naturalmente ancora al 12 del caso concreto. Ma esso, e soltanto esso, giustifica il giudizio 7+5=12 e risolve il problema di Kant. Kant difatti, si badi bene, non si chiede perché 7+5=12, ché questo non è un problema filosofico; si chiede invece quale processo di pensiero mi porta al giudizio di uguaglianza. Anziché dire 7+5=12, potrei anche dire a+b=c.

Kant si pone il problema: su che cosa si fonda il mio giudizio di uguaglianza se i tre elementi a, b e c non hanno nulla in comune? Ed egli ragiona: nel concetto del soggetto 7+5 non c’è nulla che sia anche contenuto nel concetto del predicato =12. L’intelletto deve creare perciò un nuovo concetto, al di fuori del soggetto e del predicato, che possa sostenere tuttavia questo giudizio. Kant chiama questa specie di giudizi, nei quali il soggetto e il predicato sono concettualmente diversi ed hanno perciò bisogno di essere uniti da un terzo concetto, giudizi sintetici a priori. Secondo Kant il terzo concetto che unisce il soggetto 7+5 al predicato =12, è il concetto di unità.

 

Questa costruzione kantiana di pensiero è artificiosa. Essa si basa sul fatto che Kant non ha saputo scorgere il concetto comune che c’è nel soggetto e nel predicato della proposizione logica 7+5=12 o a+b=c. Il nostro ragionamento ci ha portati invece con chiarezza al concetto comune tanto al soggetto che al predicato. Il corso dei pensieri ci ha portati difatti a dire:

Le parti della totalità danno congiuntamente la totalità intera.

 

Nel concetto di parte è implicito quello di totalità. Posso dire con sicurezza 7+5=12 perché il pensiero mi ha portato a riconoscere in 7 e 5 le parti del totale 12. Tanto nel soggetto quanto nel predicato della proposizione 7+5=12 è contenuto il concetto della totalità: nel primo come somma di parti, nel secondo come interezza. Questo concetto comune di totalità rende possibile e giustifica il mio giudizio di uguaglianza nella proposizione a+b=c. Anche se il c mi è completamente sconosciuto, so con sicurezza che a e b non possono essere altro che le sue parti.

Qualcuno a questo punto potrà obiettare: «L’esempio delle lampade di una sala e dei due lampadari è stato chiaro. In esso il concetto di totalità è evidente perché tutte le lampade appartengono ala stessa sala. Io, però, sono avvocato. Incasso da un cliente una parcella di 200 lire e da un altro una parcella di 300 lire. Evidentemente questi denari non fanno parte di una totalità perché sono usciti da due saccocce completamente diverse. Eppure posso sommarli e so con sicurezza di avere in tasca 500 lire. In questa somma il concetto di totalità non c’entra proprio per nulla».

 

A questa obiezione si può rispondere che la totalità nel caso in questione viene stabilita dal processo pensante che ne crea il relativo concetto. In questo senso ha ragione Kant se chiama tale specie di giudizi “a priori”. Nel fare una somma qualsiasi, puramente astratta, il concetto di totalità è un “a priori” logico. Nell’atto stesso di dire a+b, sorge il pensiero: se unisco due cose vuol dire che esse costituiscono un tutto. Da qui deriva di necessità e a priori (cioè senza alcuna precedente esperienza) il concetto di totalità.

Se lo scavo di qualche monumento antico porta alla luce alcuni frammenti di mosaico, si può cercar di riunire questi frammenti in modo da ristabilire la composizione originaria. Se non si sapesse a priori, per mero processo di pensiero, anche senza averlo mai visto in precedenza, che quel mosaico veramente esiste ed è costituito dall’insieme di tutti i frammenti trovati, sarebbe inutile accingersi all’improba fatica della ricostruzione.

 

Allo stesso modo, quando faccio un’addizione so a priori che il totale esiste e che è costituito dalla somma degli addendi. Questo è il processo logico che mi fa dire a+b=c. Naturalmente a base dell’esecuzione aritmetica dell’addizione sta un altro processo di pensiero. Questo secondo processo non riguarda più però il giudizio di eguaglianza, ma l’esecuzione aritmetica della addizione particolare. Per questa esecuzione mi occorre il concetto di unità, cioè dell’elemento non più divisibile del tutto.

Esistono delle speciali macchine calcolatrici che eseguiscono le più complicate operazioni aritmetiche. Tuttavia non si può dire che queste macchine pensino. Allo stesso modo anche un uomo può eseguire un’addizione meccanicamente, senza pensare. Ma senza il pensiero nessun uomo può formarsi il giudizio di uguaglianza a+b=c. Questo giudizio è in sé sicuro; non ha bisogno di essere convalidato da alcuna successiva esperienza e non riguarda minimamente il modo dell’esecuzione aritmetica pratica.

La ragione sta di gran lunga al di sopra dell’aritmetica. Entro in una stanza, trovo a terra alcuni frammenti di porcellana. Un piatto ornamentale è caduto dalla mensola e si è frantumato. Per ricostruire il piatto con l’aiuto del mastice, occorre che sappia quanti sono i frammenti e me li metta a contare? Ma neanche per idea! Mi basta di sapere – e lo so a priori – che l’unione delle parti mi darà il tutto. A ciò mi ha condotto il pensiero.

 

Allo stesso modo, quando esprimo il giudizio 7+5=12, l’aritmetica non c’entra proprio per nulla. L’aritmetica diventa importante solo quando passo all’esecuzione pratica dell’addizione. Come è stato già rilevato, quest’esecuzione si basa sul concetto di unità.

Tutta l’aritmetica, anzi tutta la matematica, è costruita sul concetto di unità che dai matematici viene considerato assolutamente primo. Necessità pratiche, empiriche dunque e non logiche, hanno portato ciò, ma siffatta concezione non razionale della matematica ha avuto come conseguenza l’insinuamento di gravi errori di pensiero in molte branche del sapere e in molte scienze che sulla matematica appunto si basano.

 

Il primo principio dell’aritmetica è 1+1=2. Questo giudizio però, come abbiamo visto, contiene un’inversione di pensiero. Il pensiero fondamentale è: l’unità si presenta come molteplicità. Il pensiero inverso che ne deriva è: l’insieme della molteplicità dà l’unità.

L’aritmetica prende per unità l’elemento non più divisibile della molteplicità, ma nel far ciò erra grandemente. Se prendo in mano un frammento di quel piatto di porcellana di cui ho parlato prima, e dico: «Questo pezzetto rappresenta l’unità perché è il più piccolo di tutti», le mie parole hanno un senso ragionevole? Evidentemente no. Unità di che cosa? L’unità è rappresentata dal vaso intero.

 

L’aritmetica insegnata nelle scuole che seguono l’indirizzo pedagogico steineriano, si basa perciò sul concetto di totalità e non su quello comune di unità. Al bambino non viene detto: «Qui è una pallina e là un’altra pallina. Insieme fanno due palline. Cioè 1+1=2».

Non vien detto così, perché questo procedimento didattico cozza contro il naturale corso dei pensieri, quale lo abbiamo seguito e descritto in precedenza. Il bambino deve far forza ai suoi pensieri per dire 1+1=2. Egli viene invece aiutato nel naturale e razionale corso dei suoi pensieri, se vede prima una mela intera e poi osserva come questa mela per mezzo di un coltello viene tagliata dal maestro in due parti. Le due parti congiunte danno la mela intera.

In origine c’è sempre la totalità. Dalla totalità il pensiero separa le parti. Nel suo pensiero il bambino segue lo stesso procedimento che il maestro attua materialmente con il coltello. Con ciò tutta l’aritmetica riceve una nuova base non empirica, ma razionale.

 

Un qualunque allievo di una scuola che segue la pedagogia steineriana è in grado di scoprire di primo acchito l’errore che si nasconde nella spiegazione kantiana del 7+5=12.

Forse si potrà obiettare che l’indirizzo pedagogico sopraddetto conduce piuttosto al concetto del numero frazionario che a quello del numero intero. Questo è vero. Ma in realtà non esistono che numeri frazionari. Nei cosiddetti numeri interi il concetto di frazione è sottinteso: essi hanno tutti per minimo comun denominatore un numero n che si avvicina all’infinito. Appunto perciò nelle operazioni può venir omesso. Deve però esser sempre presente come concetto.

 

Per illustrare il suo pensiero sui giudizi sintetici a priori Kant addotta anche un esempio geometrico, per il quale pose il problema: quale processo di pensiero mi fa affermare che la retta è la via più breve tra due punti?

Non vogliamo seguire il ragionamento di Kant basato sul concetto di punto. Facciamo notare che come tutta l’aritmetica si fonda sul concetto di unità, così tutta la geometria viene costruita sul concetto di punto. Anche questo procedimento è errato perché contrasta con il corso dei pensieri.

Nel giudizio “la retta è la via più breve tra due punti” il concetto di punto risulta superfluo. Il concetto primo è in questo caso, come in ogni problema geometrico, il concetto di spazio.

 

La penna e il portacenere poggiati sul mio tavolo da lavoro, Trieste e Milano? la Terra e la Luna si trovano entro lo stesso spazio. Da questo spazio, per successive distinzioni, il pensiero crea i concetti di piano, di retta, di punto. Il concetto di punto è dunque l’assolutamente ultimo nel pensiero geometrico.

Mi trovo in mezzo a una pianura e osservo gli oggetti che mi circondano. Non tutti entrano nella mia visuale. Per vedere alcuni devo volgermi verso di essi. Da questa esperienza nasce il concetto che gli oggetti occupano nello spazio posizioni differenti. Se dalla posizione in cui mi trovo fisso un oggetto, il pensiero mi dice che in tal modo stabilisco una relazione spaziale tra la mia posizione e la posizione dell’oggetto. Da ciò sorge il concetto di direzione. Ammettiamo ora che volessi mettermi in via per raggiungere l’oggetto osservato. In che senso dovrei dirigermi? Evidentemente nel senso della direzione. Ogni altro senso mi porterebbe non verso l’oggetto osservato, ma verso un altro oggetto, più o meno lontano da esso.

Queste esperienze mi fanno concludere:

“la direzione (cioè la linea diretta) è la via più breve tra due posizioni dello spazio.

 

Il corso naturale dei pensieri non segue affatto le solite concezioni geometriche di punto, retta, ecc. Quanto più particolare, ristretto è il concetto, tanto più ulteriore esso appare nel corso del pensiero.

Aristotele chiama a ragione l’attività del pensiero analitica. Il pensiero, almeno nella prima parte del suo processo, conduce per gradi successivi dal concetto dell’universale al concetto del particolare, della specie che comprende la totalità, all’individuo che ne è l’indivisibile singolarità. Questo procedimento pensante che si svolge per gradi da concetti generali a concetti particolari è noto con il nome di metodo deduttivo di Aristotele.

 

Ne vogliamo dare un esempio. Esso ci chiarirà qual è il normale corso dei pensieri che conduce a concetti sempre più individualizzati.

Che cosa è un leone?

Il leone è un animale.

Non tutti gli animali però sono uguali. Distinguo gli animali vertebrati da quelli invertebrati. Il leone ha lo scheletro.

Il leone è un animale vertebrato.

Non tutti gli animali vertebrati sono uguali. Distinguo i vertebrati che hanno sangue caldo da quelli che hanno sangue freddo. Il leone ha sangue caldo.

Il leone è un animale vertebrato a sangue caldo.

Non tutti gli animali a sangue caldo sono uguali. Distinguo gli animali a sangue caldo che partoriscono la prole viva, da quelli che si riproducono in modo diverso. Il leone partorisce la prole viva.

Il leone è un animale vertebrato a sangue caldo viviparo.

Non tutti i vivipari sono uguali. Alcuni si nutrono di carne, altri di erbe. Il leone si nutre di carne.

Il leone è un animale vertebrato a sangue caldo, viviparo e carnivoro.

Non tutti i carnivori sono uguali. Alcuni camminano sulle dita, altri sulle piante dei piedi. Il leone cammina sulle dita.

Il leone è un animale vertebrato a sangue caldo, viviparo, carnivoro e digitigrado.

Non tutti i digitigradi sono uguali. Alcuni, detti felini, hanno la pupilla dilatabile e allungata e le unghie retrattili; altri, detti cani, hanno la pupilla tonda e le unghie fisse. Il leone ha la pupilla allungata e le unghie retrattili.

Il leone è un animale vertebrato a sangue caldo, viviparo, carnivoro, digitigrado e felino.

Non tutti i felini sono uguali. Presentano qualità individuali.

• Il leone è un felino che presenta i seguenti caratteri individuali: corpo grande e robusto, petto largo, addome depresso, coda nuda terminante in un apice corneo coperto da ciuffo.

 

A questo punto devo arrestarmi. Non posso fare ulteriori distinzioni. Sono giunto al concetto individuale di leone.

Il procedimento deduttivo, ossia analitico, presenta due caratteri essenziali:

a) Il concetto finale implica tutta la serie dei concetti precedenti.

b) Ogni concetto successivo comprende un sempre minor numero di individui.

 

Quando ciò non si verifica, si ha la certezza di essere caduti in errore. Molte proposizioni scientifiche sono inficiate per il fatto che la deduzione dalla quale sono sorte non è stata condotta con assoluto rigore. Nella fisica troviamo, per esempio, la legge d’inerzia enunciata nel modo seguente:

“Ogni corpo permane nello stato di quiete o di moto in cui si trova, finché non subisce l’influenza di un corpo esterno.”

 

Notiamo come prima cosa che anche una pianta e un animale sono corpi e che essi si muovono per forza propria interna, la prima perché cresce e il secondo perché si sposta. E come seconda cosa deve osservare che un corpo inorganico, nel momento in cui viene osservato, ha già subito l’azione di un corpo esterno e il suo stato di moto o di quiete fu appunto determinato da quell’azione. L’esperienza mi dice che un corpo è fermo perché il suo moto fu arrestato e che un corpo è in moto perché fu spinto dal suo stato quiete.

 

Vedo una biglia ferma sul tappeto verde. Perché è ferma? Perché il tavolo le impedisce di cadere a terra secondo la legge di gravità. Dunque lo stato di un corpo che si trova in quiete è forzato e presuppone l’azione costante di un corpo estraneo.

Se getto un sasso in aria, questo sale per un po’ e poi comincia a cadere. Posso chiedermi: cade per impulso proprio o perché misteriosamente ghermito dal centro di gravità della terra? Non posso assolutamente saperlo.

Il fisico mi dice che la legge d’inerzia può essere applicata solo in determinate condizioni, che però non si verificano mai. Il suo ragionamento è tanto logico come quello di quel tale che disse: se il mio asino avesse le ruote mi servirebbe anche come carretto.

 

Spingo una pallina su un piano levigato. Tuttavia dopo un certo tempo essa s’arresta. Il fisico mi dice che la causa di ciò è l’attrito. Senza l’attrito la pallina continuerebbe nel suo moto all’infinito. Gli faccio osservare che senza il piano di sostegno, la pallina subirebbe la legge di gravità e cadrebbe. Il fisico mi torna a dire che la sua legge d’inerzia prescinde dalla forza di gravità. Vale a dire che prescinde dall’esistenza della Terra.

Dobbiamo dunque concludere che la legge di gravità andrebbe bene sulla Terra, se la Terra non esistesse.

 

L’errore conduce sempre all’assurdo. L’enunciato della legge d’inerzia è errato perché prodotto da un pensiero non rigorosamente analitico. L’esperienza e il procedimento analitico conducono alla seguente formulazione:

“Lo stato di moto o di quiete in cui si trova un corpo inorganico al momento dell’osservazione è necessitato da una causa esterna.”

Questo enunciato non prescinde da alcuna condizione terrestre, è cioè reale; è anche scientificamente rigoroso e, quello che più conta, lascia libero l’adito a una concezione spirituale della realtà.

 

Il mondo ha un’anima. Una concezione scientifica del mondo rigorosamente logica conduce al riconoscimento dell’anima del mondo, se questo riconoscimento manca nella scienza ufficiale, ciò significa unicamente che essa ha le basi meno solide di quanto comunemente si crede.

La nostra odierna chiacchierata sull’attività del pensiero, condotta più con criteri pratici che filosofici, ha voluto essere più che altro una rapida escursione in un mondo completamente ignorato dalla maggior parte degli uomini. L’intimo mondo del pensiero, che si cela dietro la fitta rete di concetti e di idee che esso stesso produce, è meraviglioso come un regno fiabesco. Lo scopo di questa conversazione è già raggiunto, se qualcuno degli ascoltatori si dice: «Vale la pena ch’io ritorni ancora in quel mondo che oggi ho scorto soltanto panoramicamente».

 

Il mondo del pensiero che ogni uomo porta in sé trascende di gran lunga la natura umana.

Chi pensa entra in un santuario divino, in un tabernacolo occulto dove l’universo stesso poggia le sue basi.

L’uomo, specialmente in questo momento critico dell’evoluzione umana,

si sente solo, isolato o rescisso dalla realtà universale.

Per mezzo del pensiero può ristabilire la sua comunione con il cosmo.

Purché sappia vedere nel pensiero non soltanto i prodotti concettuali e ideali, ma l’attività creatrice

che è quella stessa che si manifesta nel cosmo come vita universa degli esseri e volontà d’esistere del mondo creato.

 

Piano d’Arta, 31 luglio 1947