Diversi piani di coscienza e impulsi evolutivi degli antichi popoli dell’Asia

O.O. 233 – La storia alla luce dell’Antroposofia – 25.12.1923


 

Sommario: L’esperienza del mondo presso gli antichi. Quattro tipi di esperienza dell’universo, sentito come un tutto spirituale. Significato di molte guerre di conquista trasmesse storicamente. Popoli giovani acquistano coscienza, a contatto con forze di morte di popoli più antichi. Presso i greci le forze di morte eccedevano le forze di vita: la guerra di Troia dovuta alla paura.

 

Dalle considerazioni svolte ieri dovrebbe essere risultato che per acquisire una giusta visione del corso storico dell’evoluzione umana è necessario penetrare nelle differenti condizioni psichiche esistenti nelle diverse epoche. Ho cercato di delimitare l’era delle civiltà asiatiche più antiche, accennando al tempo in cui i discendenti della popolazione atlantica, dopo la catastrofe atlantica, migrarono da occidente verso oriente dando origine a poco a poco ai popoli dell’Europa e dell’Asia. Gli uomini delle civiltà che si svilupparono nell’Asia erano caratterizzati da uno stato d’animo profondamente sensibile all’elemento del ritmo. All’inizio dell’epoca postatlantica troviamo ancora l’eco molto evidente della memoria localizzata che aveva avuto il suo pieno sviluppo nell’Atlantide; in seguito, nei primi periodi postatlantici, quel tipo di memoria andò trasformandosi nella memoria ritmica. Solo durante la civiltà greca, come è stato mostrato, avvenne la trasformazione nella memoria temporale.

 

Dicendo questo, si dice che delle civiltà asiatiche più antiche (di cui le civiltà note alla storia non sono che forme decadenti) furono protagonisti uomini del tutto differenti da quelli delle epoche successive; gli eventi storici esteriori dei tempi più antichi dipendevano da quello che viveva nell’animo umano, assai più di quanto ciò si sia verificato in tempi a noi più vicini. Il carattere dello stato d’animo coinvolgeva allora, nella lontana antichità, l’uomo intero: non c’era allora una vita animica, o una vita di pensiero, quasi indipendentemente dalla totalità dell’uomo, come esiste oggi. Non si conosceva per esempio un pensare come il nostro, che non sente più alcun nesso con i processi interni della testa. Non si conosceva il sentire astratto che ignora del tutto il proprio rapporto con la circolazione del sangue; si conosceva invece un pensare di cui si sperimentava direttamente la connessione con i processi della testa, e un sentire che si sperimentava nel ritmo del respiro e del sangue. Si sperimentava, si sentiva l’uomo intero in modo unitario, non separatamente.

 

Tutto questo era però connesso col fatto che si sperimentava in modo del tutto diverso anche il rapporto col mondo, col cosmo, sia nei suoi aspetti spirituali, sia in quelli fisici. L’uomo d’oggi fa più o meno l’esperienza di sé sulla Terra, a seconda che viva in campagna o in città. Può esser circondato da fiumi, boschi o monti, oppure dagli edifici di una città. Ma se egli parla di ciò ch’è cosmico e soprasensibile, dove crede che questo si trovi? L’uomo moderno non è in grado di indicare una sfera nella quale poter concepire il cosmico e il soprasensibile: questo rimane per lui inafferrabile, intendo dire anche spiritualmente o animicamente inafferrabile. Non così nelle più antiche civiltà orientali, quando l’ambiente circostante (che oggi definiamo come l’ambiente fisico) era sentito come la parte inferiore di un universo concepito unitariamente. Anche allora intorno all’uomo si estendevano i tre regni della natura, ma ogni cosa del mondo esterno era intimamente compenetrata dallo spirituale. L’uomo diceva: io vivo fra i monti, vicino ai fiumi, ma anche in mezzo agli spiriti elementari dei monti o dei fiumi; vivo nel regno fisico, ma il regno fisico è il corpo di un regno spirituale. Intorno a me si trova da ogni parte il mondo spirituale, la parte meno elevata del regno spirituale.

 

In basso c’era dunque il regno che per noi è divenuto il regno terrestre, nel quale viveva l’uomo. Egli però si raffigurava che là dove finisce verso l’alto, questo regno (indicato come “chiaro” nella figura seguente), ne comincia un altro (“giallo-rosso”), nel quale il primo trapassa; più in alto un altro ancora (“azzurro”), e infine il più alto che sia raggiungibile (“arancione”). Nei linguaggi orientali questi regni avevano nomi diversi, ma se vogliamo chiamarli con i nomi che usiamo nella conoscenza antroposofica, non ha importanza che allora si denominassero diversamente.

 

Noi possiamo vedere nella parte alta del disegno qui riprodotto la prima gerarchia: Serafini, Cherubini, Troni; poi la seconda gerarchia: Kyriotetes o Dominazioni, Dynamis o Virtù, Exusiai o Potestà; e infine la terza gerarchia: Archai o Principati, Arcangeli e Angeli.

 

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Seguiva poi il quarto regno, in cui vivono gli uomini e al quale secondo la conoscenza moderna noi attribuiamo soltanto gli oggetti e i processi naturali, mentre gli antichi sentivano questi oggetti e questi processi come compenetrati dagli spiriti elementari dell’acqua o della terra. E quest’ultimo regno era costituito dall’Asia (si veda il disegno).

 

L’Asia significava il regno spirituale più basso in cui l’uomo ancora si trovava. Certo, in quei tempi antichi nell’oriente non si avevano le opinioni correnti fra noi oggi per la coscienza umana ordinaria. Sarebbe insensato pensare che in oriente allora si avesse la possibilità di immaginare che in un luogo qualsiasi potesse esistere della materia priva di spirito. Sarebbe stato assolutamente impossibile in quei tempi antichi il parlare di ossigeno o di azoto come ne parliamo oggi. L’ossigeno era per gli uomini di allora lo spirituale che agiva vivificando e stimolando ciò che già era vivente, che accelerava i processi vitali del vivente. L’azoto (che noi oggi consideriamo come mescolato nell’aria all’ossigeno) era per gli antichi il fattore spirituale diffuso nel mondo che, agendo sul sostrato organico vivente, lo prepara ad accogliere in sé un elemento animico. Solo così dunque si conoscevano allora l’ossigeno e l’azoto. Similmente anche tutti gli altri fatti della natura erano conosciuti come connessi con lo spirituale: non esisteva affatto a quel tempo il modo di conoscere comune dei giorni nostri. Solo pochi individui possedevano questo tipo di conoscenza, ed erano proprio gli iniziati. Gli altri uomini erano dotati, per la vita quotidiana, di uno stato di coscienza assai simile al sogno desto, che al nostro tempo si presenta soltanto in condizioni abnormi. In tale stato di sogno desto, o di veglia trasognata, l’uomo si aggirava sulla Terra, sperimentando appunto quasi come in sogno i prati, gli alberi, i fiumi, le nuvole, e ogni altra cosa del mondo circostante.

 

Ricordiamo per un momento l’esperienza che può fare l’uomo d’oggi. Qualcuno si appisola, quand’ecco gli si presenta in sogno l’immagine di una stufa ardente, e sente gridare: Al fuoco! Nello stesso istante, gli sembra che davanti a casa passino i pompieri, accorrendo a spegnere un incendio. Quanto è diverso ciò che del passaggio dei pompieri percepiscono i sensi e riflette la nostra ragione, da quello che si rispecchia nel sogno! Per l’antica umanità orientale, invece, ogni cosa era avvolta in un’atmosfera simile al sogno: tutto ciò che è presente esteriormente nei regni della natura si trasformava in immagini, e in tali immagini si faceva l’esperienza degli spiriti elementari dell’acqua, della terra, dell’aria e del fuoco. D’altra parte gli uomini d’allora non conoscevano lo stato di sonno profondo, privo di sogni, che abbiamo noi oggi: anche durante il sonno gli uomini erano allora dotati di una ottusa coscienza. Mentre, come si dice oggi, il loro corpo si riposava, l’elemento spirituale operava una certa attività nel mondo esterno, e in questa attività si percepiva la terza gerarchia. Nel consueto dormiveglia sognante, cioè nella coscienza quotidiana di allora, si percepiva l’Asia; nel sonno si percepiva la terza gerarchia. Nel sonno si immergeva poi talora una oscura consapevolezza, una coscienza che però incideva profondamente nell’animo le proprie esperienze. Quelle popolazioni orientali possedevano dunque la loro coscienza diurna nella quale ogni cosa si trasformava in immagini, in immaginazioni. Queste immaginazioni non erano più così reali come lo erano state quelle dei tempi più antichi, per esempio nell’epoca atlantica, o addirittura nell’epoca lemurica o in quella dell’Antica Luna: erano però pur sempre immaginazioni, anche durante l’evoluzione dell’antico oriente.

 

Gli uomini sperimentavano dunque quelle immagini; inoltre, durante il sonno, facevano un’esperienza che avrebbero potuto formulare così: quando ci addormentiamo per la ordinaria esistenza terrena, noi penetriamo nel regno degli Angeli, degli Arcangeli, delle Archai e viviamo in mezzo ad essi. L’anima si liberava dall’organismo e viveva fra le entità delle gerarchie superiori.

 

Al tempo stesso ci si rendeva chiaramente conto che mentre si viveva nell’Asia, si sperimentavano gli gnomi, le ondine, le silfidi, le salamandre cioè gli spiriti elementari della terra, dell’acqua, dell’aria, del fuoco, e mentre nel sonno (quando il corpo si riposa) si sperimentavano le entità della terza gerarchia, al tempo stesso si partecipava all’esistenza planetaria, cioè a quanto vive nel sistema planetario connesso con la Terra. Nella coscienza di sonno in cui si percepiva la terza gerarchia penetrava però talvolta una condizione particolare, in cui il dormiente sentiva che gli si accostava una sfera del tutto estranea. Egli sentiva di venire accolto da qualcosa che lo allontanava dall’esistenza terrena; questa sensazione non c’era ancora quando si trovava in seno alla terza gerarchia, ma solo quando sopravveniva lo stato di sonno più profondo. In realtà non si aveva una coscienza ben distinta di quello che avveniva in questa terza fase del sonno, ma la esperienza vaga proveniente dalla seconda gerarchia si imprimeva molto profondamente in tutto l’essere umano. L’uomo portava nell’animo quella sensazione, e diceva: ho ricevuto una grazia da spiriti più elevati, che vivono al disopra della sfera planetaria; si parlava allora della gerarchia che comprende le Exusiai, le Kyriotetes e le Dynamis. Quello che ho così esposto costituiva dunque nell’Asia più antica la coscienza ordinaria: tutti quanti possedevano i due stati di coscienza della veglia sognante e del sonno nel quale penetrava la terza gerarchia. Per la loro particolare disposizione naturale, alcuni poi sperimentavano anche quel sonno più profondo, durante il quale alla coscienza umana si affacciava la seconda gerarchia.

 

Quanto agli iniziati nei misteri, essi diventavano partecipi di un ulteriore stato di coscienza: di quale? La risposta è sorprendente: gli iniziati di quei tempi fruivano del tipo di coscienza di cui noi disponiamo oggi durante lo stato di veglia diurna. Gli uomini del presente sviluppano spontaneamente questo stato di coscienza, circa nel terzo anno di vita. L’uomo dell’oriente antico non ne era mai partecipe in modo naturale; doveva acquistarlo artificialmente, partendo dal suo normale stato di veglia trasognata. L’umanità più antica si muoveva nel mondo in uno stato di veglia trasognata, e scorgeva ovunque delle immagini che riproducevano solo in modo più o meno simbolico ciò che oggi tutti percepiscono con contorni netti; invece gli iniziati riuscivano già allora a vedere le cose come le vede l’uomo d’oggi, nella sua coscienza normale. Grazie a questo stato di coscienza che essi dovevano prima conquistarsi, gli iniziati giungevano già allora ad apprendere quello che oggi ogni bambino impara a scuola; la differenza non consisteva tanto nel contenuto, quanto in qualcosa d’altro. Certo a quei tempi non si usavano lettere dell’alfabeto astratte, come quelle di cui ci serviamo noi oggi: la scrittura consisteva di caratteri più intimamente connessi con le cose e i processi del mondo. Tuttavia in quell’epoca remota soltanto gli iniziati imparavano a leggere e a scrivere, perché questo si può fare solo con lo stato di coscienza razionale che è quello naturale di oggi.

 

Se dunque oggi riapparissero gli uomini dell’antico oriente, essi considererebbero come degli iniziati tutti noi che sappiamo leggere e scrivere e siamo dotati della coscienza normale. La differenza fra quella condizione e l’attuale non consiste però nel contenuto, bensì nel modo. Gli uomini di quel tempo considererebbero sì i nostri contemporanei come degli iniziati, ma appena li avessero riconosciuti tali li scaccerebbero con ogni mezzo: essi infatti sarebbero d’avviso che a un iniziato non è lecito conoscere le cose come le si conoscono oggi. Vorrei caratterizzare con un’immagine l’opinione di quel tempo: essi direbbero che non è lecito scrivere come lo fanno gli uomini d’oggi. Di fronte a uno di questi pseudo-iniziati, cioè a una persona d’oggi dotata di una intelligenza normale, quegli antichi direbbero: costui sa scrivere, mette sulla carta dei segni che hanno un significato, ma non si rende nemmeno conto che è assolutamente diabolico farlo senza essere consapevoli di poterlo fare solo per incarico della divina coscienza universale. Per Poter mettere sulla carta dei segni dotati di significato, direbbero, bisogna essere consapevoli che un dio opera nelle mani, nelle dita, nell’anima, sì che l’anima si esprima mediante le forme di questi caratteri di scrittura. Dunque la differenza tra gli iniziati più antichi e l’uomo d’oggi non risiede nel contenuto, ma nell’atteggiamento dell’anima che era allora del tutto diverso da oggi. Proprio al principio del mio libro Il cristianesimo come fatto mistico si potrà trovare scritto che in tale atteggiamento consisteva l’essenza degli iniziati dei tempi più antichi. Del resto, questo è un fatto costante nella evoluzione dell’umanità: ciò che in una certa epoca si presenta nell’uomo in modo naturale, in un’epoca precedente deve venire acquisito mediante l’iniziazione.

 

Proprio da considerazioni come queste si potrà desumere quanto radicale fosse la diversità dello stato d’animo dei popoli orientali preistorici da quello dell’umanità successiva. Era veramente un’umanità diversa quella che indicava il proprio paese, l’Asia, la natura circostante, come il più basso dei cieli: si sapeva, a quei tempi, dove si trova l’ultimo dei cieli. Proviamo a confrontare questa concezione con quelle odierne, e vedremo quanto poco gli uomini del presente considerino ciò che li circonda come l’ultimo dei cieli! Non possono farlo, perché per lo più non hanno neppure una nozione dei cieli più alti.

 

Vediamo dunque che in quell’epoca molto antica lo spirituale penetrava profondamente nell’esistenza della natura. Tuttavia fra quegli uomini vigevano usanze che alla maggior parte dei nostri contemporanei debbono apparire come estremamente barbariche. Ho già detto che all’umanità più antica sarebbe apparso barbarico, anzi diabolico, se qualcuno avesse usato la scrittura con l’atteggiamento animico con cui la si usa oggi. D’altra parte a molti uomini moderni appare barbaro qualcosa che nell’Asia dei tempi remoti era perfettamente naturale: cioè che le popolazioni migranti da occidente verso oriente spesso soggiogavano con estrema crudeltà i popoli già residenti, ne conquistavano le terre e li riducevano in schiavitù. Questo comportamento costituisce il contenuto prevalente di tutta la storia asiatica più antica. Mentre da un lato quegli uomini avevano un’alta concezione spirituale, nel senso prima accennato, d’altro lato la loro storia esteriore si svolgeva in una serie ininterrotta di conquiste di terre altrui e nella sottomissione violenta degli abitanti. Questo appare senz’altro una barbarie a molti nostri contemporanei. Se anche oggi ogni tanto avvengono delle guerre di conquista, pur tuttavia la gente (anche quella che approva questo tipo di guerre) non si sente la coscienza proprio a posto. Invece nei tempi remoti di cui sto parlando, proprio le guerre di conquista si conducevano con la coscienza più tranquilla: si era persuasi che quelle conquiste fossero volute dagli dèi. Le aspirazioni alla pace che più tardi si diffusero in Asia rappresentano in realtà un prodotto tardivo della civiltà; le continue conquiste territoriali e la sottomissione di altri popoli erano invece un prodotto delle civiltà più giovani. Quanto più indietro nei tempi preistorici si rivolge lo sguardo, tanto più diffuso risulta il ricorso alla conquista: le guerre di conquista dei periodi storici meno antichi, come quelle di Serse e di altri, non sono che un’ombra delle continue conquiste più antiche.

 

Alla base di questo principio della conquista si trova in realtà qualcosa di molto speciale. A causa delle caratteristiche degli stati di coscienza esistenti allora che ho descritte in precedenza, l’uomo aveva un rapporto del tutto diverso da quello odierno con gli altri uomini e col mondo. Oggi certe differenze fra le varie popolazioni della Terra hanno perduto gran parte della loro importanza, mentre allora si facevano sentire in tutt’altro modo. Proviamo quindi a prendere in considerazione, come un esempio, una situazione che a quei tempi si presentava frequentemente.

Ammettiamo che qui a sinistra (v. il disegno seguente) si estenda il territorio europeo e qui a destra quello asiatico. Una certa popolazione conquistatrice (rosso) poteva avanzare verso un qualsiasi territorio dell’Asia, anche provenendo dal nord, e sottometterne gli abitanti (rosso intorno al giallo).

 

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Di che cosa si trattava, in realtà? Nei casi più frequenti e significativi per la storia, la popolazione conquistatrice, come popolo o come razza, era giovane, piena di forza giovanile. Che cosa significa per l’uomo delle civiltà attuali essere giovane? Significa disporre in ogni momento di tante forze di morte, da poter rifornire le forze dell’anima che necessitano appunto dei processi distruttivi che si svolgono nell’uomo. Sappiamo che in noi sono presenti forze vitali costruttive le quali però non favoriscono l’assennatezza, la consapevolezza, ma al contrario tendono a smorzare la coscienza. In noi debbono operare di continuo anche le forze demolitrici, le forze di morte, che però vengono sempre superate, durante il sonno, dalle forze vitali: solo alla fine della vita le forze di morte si sommano e prevalgono, e si verifica appunto la morte. Sono quelle forze a rendere possibile la riflessione, la coscienza di sé. Questa condizione è però caratteristica dell’umanità attuale, mentre le razze giovani, i popoli giovani soffrivano delle loro forze vitali eccessive. Gli uomini di quel tipo avevano sempre l’impressione che il loro sangue venisse spinto violentemente contro le pareti del corpo. Era come se si dicessero: non ne posso più; la mia coscienza si rifiuta di diventare assennata; per colpa della mia giovinezza non riesco a sviluppare pienamente tutta la mia umanità.

 

Certo però non formulavano così il loro stato gli uomini comuni; parlavano invece così gli iniziati nei misteri, che in quei tempi dirigevano e guidavano ancora tutti gli sviluppi della storia. Una popolazione di quel tipo possedeva dunque troppa giovinezza, troppe forze vitali e troppo poco di quello che avrebbe potuto conferire assennatezza. Ecco allora che essa partiva alla conquista di un territorio dove risiedeva una popolazione più vecchia, che aveva già accolto in sé in un modo qualsiasi delle forze di morte, perché era già in decadenza: e questa popolazione veniva soggiogata. Fra i conquistatori e i vinti ridotti in schiavitù non si stabiliva un legame di sangue, ma nella sfera animica si svolgeva incoscientemente fra i due gruppi qualcosa che da un lato operava un ringiovanimento, e dall’altro favoriva la presa di coscienza, l’assennatezza. Il conquistatore che si era fatta la sua nuova casa, dove ora lavoravano i suoi schiavi, aveva bisogno appunto soltanto di un influsso esercitato sulla sua coscienza. Bastava che egli osservasse gli schiavi, perché nell’anima si attenuasse la tendenza all’ottenebramento e si destasse invece la consapevolezza, l’assennatezza.

 

Quel che oggi si deve conseguire come individuo singolo, veniva allora conseguito mediante esperienze fatte nel contatto con altri. Si aveva per così dire bisogno di avere intorno a sé gente dotata di maggiori forze di morte di quanto ne possedesse una popolazione dominatrice, ma giovane, non pervenuta a piena, consapevole assennatezza. Quegli uomini cercavano di conseguire ciò che era necessario al loro progresso umano, mediante la sottomissione di altri popoli. Le terribili guerre dell’antico oriente, che oggi ci appaiono tanto feroci, non esprimono che gli impulsi operanti nell’evoluzione dell’umanità: vanno quindi considerate necessarie, hanno dovuto aver luogo. L’umanità non avrebbe potuto evolversi sulla Terra, se non fossero avvenute quelle terribili guerre che oggi ci appaiono tanto barbare.

 

Quanto agli iniziati, essi vedevano sì il mondo già come lo si vede oggi, però le loro percezioni erano accompagnate da una condizione dell’animo assai diversa da quella odierna.

 

Quello che essi percepivano in contorni netti (come quelli delle nostre attuali percezioni sensorie) per loro era pur sempre qualcosa che proveniva dagli dèi, anche per la coscienza umana. In che modo infatti il mondo si presentava agli iniziati di quei tempi lontani?

 

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Prendiamo il caso di un fenomeno molto evidente: il lampo. Oggi lo si percepisce nel modo che tutti sappiamo (si veda il disegno); ma non così lo vedeva l’uomo antico. Egli vedeva muoversi qui (a destra in alto: giallo) delle entità spirituali viventi, mentre per lui scomparivano del tutto i contorni netti del lampo. Gli si presentava una schiera o una processione di entità spirituali in movimento, mentre non vedeva il lampo come tale; scorgeva come aleggiante nello spazio cosmico una schiera di spiriti. L’iniziato invece percepiva egli pure come gli altri quella schiera, ma la facoltà visiva che si era sviluppata in lui faceva sì che l’immagine delle entità spirituali si affievolisse gradatamente, mentre il lampo gli si veniva delineando nella forma in cui oggi lo percepisce chiunque. L’intera visione della natura come la vediamo noi oggi doveva venire acquisita in quei tempi solo mediante l’iniziazione. Quali sentimenti si collegavano a tale condizione?

 

Anche il fatto che ho menzionato adesso non veniva sperimentato certo con l’indifferenza con la quale oggi si partecipa a conoscenze o a verità. L’esperienza descritta era veramente accompagnata da un’impronta morale. Se consideriamo quanto accadeva ai discepoli dei misteri, dobbiamo renderci conto che essi venivano introdotti in quella visione della natura che più tardi divenne generale, accessibile a tutti. A quei tempi, soltanto alcuni pochi venivano condotti a tale visione della natura, attraverso dure prove, per effetto delle quali essi provavano la sensazione seguente: ecco qui dinanzi a me l’uomo comune che scorge una specie di cavalcata di spiriti elementari nell’atmosfera, ma per effetto di questa visione rimane privo della libera volontà umana. Egli è completamente immerso nel mondo divino-spirituale. In quello stato di veglia trasognata la volontà non era infatti libera, poiché in essa fluiva la volontà divina. Quanto all’iniziato (che da quelle visioni immaginative vedeva emergere il lampo), tale esperienza gli faceva apprendere dal proprio iniziatore a dire: io devo essere capace di muovermi nel mondo anche senza gli dèi, devo diventare un uomo per il quale gli dèi espellono dal proprio seno il contenuto del mondo.

 

Ciò che essi vedevano ormai con netti contorni nel mondo esterno, per gli iniziati era per così dire il contenuto del mondo espulso dagli dèi: essi vi si accostavano per diventare indipendenti dagli dèi.

 

Possiamo capire che questa sarebbe stata una condizione intollerabile, se non fosse intervenuto un fattore compensatorio, e un tale compenso aveva effettivamente luogo. Mentre infatti l’iniziato imparava da un lato a sperimentare l’“Asia” (cioè il mondo fisico circostante) come abbandonata da Dio, dallo spirito, dall’altro egli acquistava uno stato di coscienza ancora più profondo di quello col quale poteva raggiungere la seconda gerarchia. Egli imparava a conoscere, oltre al mondo fisico abbandonato da Dio, anche il mondo della prima gerarchia, il mondo dei Serafini, dei Cherubini e dei Troni.

 

A un determinato punto dell’evoluzione asiatica, circa verso la sua metà (avrò occasione di determinare con maggior precisione questi periodi), lo stato di coscienza di quegli iniziati era tale che, muovendosi sulla Terra, essi ne avevano già una veduta simile a quella che ne ha l’uomo moderno; però sentivano questa esperienza nelle loro membra. Essi sentivano le loro membra libere dal legame con gli dèi, in mezzo alla materia terrestre sdivinizzata; in cambio, in quel paese ormai privo di dèi essi incontravano le alte divinità dei Serafini, dei Cherubini e dei Troni. L’iniziato non faceva più soltanto l’esperienza di quegli esseri spirituali grigio-verdi che erano le immagini del bosco, degli alberi: egli scorgeva il bosco privo di spirito, ma in compenso incontrava proprio nel bosco i componenti la prima gerarchia, questo o quell’essere della sfera dei Serafini, dei Cherubini o dei Troni.

 

Tutti questi fatti, considerati come configurazione sociale, costituivano l’essenziale del divenire storico nell’oriente più antico. Le forze propulsive verso lo sviluppo ulteriore tendevano a un conguaglio fra razze giovani e razze vecchie, in modo che le razze giovani potessero maturarsi a contatto di quelle vecchie, e proprio a contatto delle anime appartenenti ai popoli sottomessi. Ovunque nell’Asia antica ritroviamo che certe razze giovani, incapaci di conseguire da sé sole l’assennatezza, la ricercano attraverso le conquiste. Se invece dall’Asia volgiamo il nostro sguardo verso la Grecia, troviamo che qui le cose cambiano. Anche al tempo del massimo fulgore della civiltà greca quel popolo sapeva per così dire come “invecchiare” (cioè acquistare sempre maggiore consapevolezza), ma non era più capace di compenetrare l’invecchiamento con una spiritualità piena. Quante volte ho avuto occasione di ricordare il detto del savio ellenico: meglio essere un medicante nel mondo di sopra, che un re nel regno delle ombre! Il greco non riusciva a risolvere i problemi connessi con la morte, né quella esteriore, né quella che si svolge di continuo entro L’uomo: d’altra parte egli la portava in sé. Perciò presso i greci non vi era (come nella remota antichità) l’impulso costituito da una nostalgia per l’assennatezza, ma c’era invece la paura della morte. I giovani popoli orientali non provavano paura della morte, perché se, in quanto razza, essi non riuscivano a sperimentare la morte al giusto modo, ecco che intraprendevano qualche conquista.

 

Il conflitto interiore che i greci sperimentarono a contatto col significato della morte agì poi come un impulso operante storicamente in seno all’umanità, e portò alla famosa guerra di Troia. I greci non avevano bisogno di ricercare le forze di morte presso una popolazione straniera, al fine di acquistarsi la consapevolezza, l’assennatezza; avevano però bisogno (proprio per quello che essi sentivano della morte) di venire a contatto con il vivente mistero interiore della morte. Ciò condusse al conflitto fra i greci in quanto tali e quella parte dell’umanità asiatica dalla quale essi stessi erano provenuti.

 

La guerra troiana fu una guerra nata dal timore, dalla paura; in essa si trovarono di fronte i rappresentanti della civiltà sacerdotale dell’Asia Minore e i greci che già sentivano in sé le forze della morte, ma non sapevano come considerarle, come affrontarle. La rimanente umanità orientale che intraprendeva spedizioni di conquista, cercava la morte, poiché non ne era partecipe; i greci la possedevano in sé, ma non sapevano come considerarla. Per potersi servire adeguatamente delle forze di morte, essi avevano bisogno di un elemento del tutto diverso. Achille, Agamennone e gli altri eroi portavano in sé la morte, ma non sapevano come orientarsi; perciò rivolsero lo sguardo verso l’Asia. Qui in Asia si trovava invece una popolazione che soffriva della condizione animica esattamente opposta: vi erano uomini che non sentivano la morte con l’intensità con cui la sentivano i greci, ma che nella morte sentivano in fondo una straordinaria ricchezza di vita.

 

Omero ha così espresso tutto questo in modo veramente mirabile: quel contrasto si ritrova presente ogni volta che i troiani sono confrontati ai greci, per esempio nelle caratteristiche figure di Ettore e di Achille. In quel contrasto si esprime quanto stava avvenendo ai confini fra l’Asia e l’Europa. In quel tempo antico l’Asia disponeva per così dire di un eccesso di vita sulla morte e in certo senso anelava alla morte. L’Europa invece disponeva sul suolo greco di un eccesso di morte nell’uomo, ma di tali forze di morte non si sapeva che cosa fare. Vediamo così che l’Europa e l’Asia si trovavano contrapposte anche da un secondo punto di vista: da un lato il trapasso dalla memoria ritmica alla memoria temporale, e dall’altro un’esperienza tutta diversa della morte entro l’organizzazione umana.

 

Domani prenderò in considerazione più approfondita questo contrasto che ho appena delineato alla fine di questa odierna conferenza. Cercheremo di apprendere i cambiamenti radicali avvenuti nel passaggio dall’Asia all’Europa, senza la cui comprensione non si riesce in fondo a capire nulla neppure degli sviluppi attuali dell’evoluzione dell’umanità.