Goethe, padre di una nuova estetica

O.O. 271 – Arte e conoscenza dell’arte – 09.11.1888 (relazione)


 

Sommario: L’importanza di Goethe. Storia dell’estetica. Il mondo dell’arte fra quello della realtà sensibile e quello delle idee. Compito dell’estetica. La posizione di Schiller in merito, e quelle di Schelling, Hegel, F.T. Fischer, Fechner, von Hartmann. Goethe per un’estetica dell’avvenire. Il messaggio cosmico dell’artista.

 

È enorme il numero di libri e di dissertazioni che si pubblicano ai giorni nostri con l’intento di determinare il rapporto di Goethe con i più diversi rami delle scienze moderne e dell’attuale vita spirituale. La sola citazione dei titoli riempirebbe tutto un volume. Il fenomeno va attribuito al fatto che sempre più siamo consapevoli di essere con Goethe di fronte a uno spirito creatore con cui deve di necessità fare i conti tutto ciò che voglia partecipare alla vita spirituale dei nostri giorni.

Trascurare Goethe significherebbe in questo caso rinunciare ai fondamenti della nostra civiltà, brancolare nel profondo senza volersi innalzare fino alla luminosa altezza da cui procede ogni luce della nostra cultura.

Soltanto chi riesca in qualche modo a collegarsi con Goethe e col suo tempo può rendersi conto del cammino percorso dalla nostra civiltà, può diventare consapevole delle mete che l’umanità moderna deve seguire; chi invece non riesca a trovare un rapporto col più grande spirito del nostro tempo finisce per venir trascinato come un cieco dai suoi contemporanei. Ogni cosa ci appare in un nuovo nesso, considerandola con uno sguardo acuito a contatto con tale fonte di civiltà.

 

Per quanto ci si possa rallegrare nel vedere che i contemporanei tentano in qualche modo di riallacciarsi a Goethe, non si può davvero dire che sia felice il modo in cui ciò avviene. Troppo spesso manca l’imparzialità, qui invece tanto necessaria, che compenetra in tutta profondità il genio di Goethe, prima di sedersi sulla cattedra della critica.

In molte cose si ritiene Goethe superato, solo perché non se ne comprende l’intera importanza. Si crede si essere arrivati molto più avanti di Goethe, mentre la cosa più giusta sarebbe applicare semplicemente i suoi principi universali, il suo grandioso modo di osservare le cose, ai nostri più perfezionati mezzi e risultati scientifici.

 

Quel che conta in Goethe non è il risultato delle sue ricerche, concordi più o meno con quello della scienza attuale, ma è come egli abbia affrontato l’argomento.

I risultati portano l’impronta del suo tempo, arrivano cioè fino a dove giungono le risorse scientifiche e l’esperienza di quel tempo, ma il suo modo di pensare e di impostare i problemi è una conquista duratura; le si fa un gran torto considerandola dall’alto in basso. Caratteristica del nostro tempo è però che la produttiva forza spirituale del genio appaia quasi insignificante. Né potrebbe essere altrimenti in un tempo in cui è proibito trascendere l’esperienza fìsica, sia nella scienza, sia nell’arte. Per la mera osservazione sensibile non occorrono che sensi sani, e il genio è qualcosa del tutto superfluo.

 

Sia nelle scienze, sia nell’arte il vero progresso non è mai dovuto alla semplice osservazione o alla servile imitazione della natura.

Mille e mille persone passano davanti a un fenomeno trascurandolo; poi un altro osserva lo stesso fenomeno e scopre una grande legge scientifica. Molti videro prima di Galileo oscillare in chiesa una lampada; doveva però venire quella testa geniale per scoprire, grazie a quella lampada, le leggi di moto pendolare, tanto importanti per la fisica.

 

«Se l’occhio non avesse una natura solare, non potremmo rimirare la luce».

Così dice Goethe, intendendo che è in grado di contemplare le profondità della natura solo chi abbia la necessaria predisposizione e la forza atta a scorgere nei fenomeni qualcosa di più dei semplici fatti esterni. Non lo si vuol capire. Non bisogna confondere le grandiose acquisizioni dovute al genio di Goethe con le manchevolezze delle sue ricerche, dovute alla limitatezza delle esperienze di allora.

Goethe stesso caratterizzò con una bella immagine il rapporto fra i suoi risultati scientifici e il progresso della ricerca: li paragonò a pedine con le quali si è forse troppo avanti sulla scacchiera, facendo però comprendere il piano del giocatore.

 

Tenendo nel giusto conto queste parole, nell’ambito dell’indagine goethiana nasce per noi l’alto compito di risalire sempre alle tendenze di Goethe. I risultati che egli stesso dava possono valere solo come esempio del modo con cui egli cercava con mezzi limitati di risolvere i suoi grandi compiti. Dobbiamo cercare di risolverli nel suo spirito, ma con i nostri mezzi accresciuti, basandoci sulla nostra più ricca esperienza.

Per tale via tutti i campi dell’indagine cui Goethe dedicò la sua attenzione potranno essere fecondati, e ciò che più conta porteranno un’impronta unitaria, facendo parte di una grande e unitaria concezione del mondo.

La ricerca solo filologica e critica, che sarebbe sciocco rifiutare, deve essere integrata da quest’altro lato. Dobbiamo impadronirci della ricchezza di pensieri e di idee che vi sono in Goethe, e movendo da lì lavorare e progredire scientificamente.

 

Il mio compito è ora mostrare come questi principi siano applicabili a una delle più recenti e insieme più discusse scienze: l’estetica, una scienza cioè che si occupa dell’arte e delle sue creazioni e che ha poco più di cent’anni di vita.

Alexander Gottlieb Baumgarten fu il primo, nel 1750, a inaugurare con piena coscienza questo nuovo campo scientifico. Sono della stessa epoca i tentativi fatti da Winckelmann e da Lessing per giungere a un fondato giudizio sui problemi essenziali dell’arte.

 

Tutto quanto prima di allora era stato tentato in questo campo non si può neppure considerare come il più elementare rudimento di una scienza.

Persino il grande Aristotele, il gigante dello spirito che esercitò tanto autorevole influsso su tutti i rami della scienza, rimase del tutto infecondo per l’estetica. Egli escluse del tutto dall’ambito delle sue trattazioni le arti figurative; ne risulta che in genere egli non aveva il concetto dell’arte e che inoltre non conosceva altro principio che quello dell’imitazione della natura; cosa che a sua volta ci mostra che non concepì il compito dello spirito umano che crea artisticamente.

 

Non è affatto un caso che la scienza del bello sia nata solo tanto tardi. Prima non aveva la possibilità di esistere semplicemente perché ne mancavano i presupposti. E quali ne sono i presupposti? L’esigenza dell’arte è antica quanto l’umanità, ma solo più tardi poteva nascere l’esigenza di comprenderne la missione. Lo spirito greco, che grazie alla sua felice organizzazione trovava soddisfazione nella realtà circostante, produsse un’epoca artistica che rappresenta un vertice; ma lo fece con ingenuità primitiva, senza avvertire l’esigenza di creare nell’arte un mondo che potesse offrire all’uomo una soddisfazione che in alcun altro modo poteva essergli offerta.

 

Il Greco trovava nella realtà tutto quel che cercava: la natura appagava appieno tutto ciò cui il suo cuore anelava, tutto ciò di cui il suo spirito era assetato. Non sarebbe mai potuta nascere nel suo cuore la nostalgia per quel che oggi cerchiamo invano nel mondo circostante. Il Greco non si era emancipato dalla natura, e perciò tutte le sue esigenze erano soddisfatte dalla natura stessa. Essendo intessuto con tutto il suo essere con la natura in indivisa unità, essa opera in lui e conosce perciò alla perfezione che cosa deve procurargli per poterlo anche appagare.

In questo popolo ingenuo l’arte costituiva così solo una continuazione della vita e dell’attività della natura stessa, nascendo direttamente dalla natura: appagava cioè gli stessi bisogni della madre, solo in misura superiore. Di conseguenza Aristotele non conosceva principio artistico più alto dell’imitazione della natura. Non occorreva superare la natura, perché in essa si aveva già la sorgente di ogni soddisfacimento. La semplice imitazione della natura, che a noi più tardi doveva apparire qualcosa di vuoto e di insignificante, era allora più che sufficiente.

 

Noi abbiamo disimparato a vedere nella sola natura il sommo apice cui il nostro spirito anela, e quindi il semplice realismo, che ci offre la nuda realtà di quell’apice, più non ci soddisfa. Così doveva succedere. Era una necessità per l’umanità che si evolve verso gradi sempre più alti di perfezione.

L’uomo poteva restare nell’ambito della natura solo fino a quando non aveva coscienza di tutto ciò. Nel momento in cui riconobbe in piena lucidità il proprio sé, in cui si rese conto che nella sua interiorità viveva un mondo almeno altrettanto valido quanto il mondo esterno, egli dovette emanciparsi dalla natura.

Ora non poteva più abbandonarsi tutto, affidarsi appieno alla natura, perché essa generasse i bisogni umani e poi li soddisfacesse. L’uomo doveva porlesi di fronte. Così se ne era di fatto liberato, aveva creato nella sua interiorità un nuovo mondo; da esso fluiva la sua nostalgia, da esso provenivano i suoi desideri.

 

Se quei desideri, ora prodotti non da madre natura, possano anche da lei venir appagati, resta naturalmente affidato al caso. Comunque un abisso preciso separa l’uomo dalla realtà, ed egli deve anzitutto ristabilire l’armonia che prima esisteva in perfetta forma originaria. Così si hanno i conflitti fra ideale e realtà, fra il voluto e l’attuato, in breve tutto quanto porta l’anima umana in un vero labirinto spirituale.

Ora la natura ci sta di fronte inanimata, spogliata di tutto quanto la nostra interiorità annuncia come qualcosa di divino. La prima conseguenza è l’allontanamento da tutta la natura, la fuga dalla diretta realtà. È proprio l’opposto della Grecia. Come essa aveva trovato tutto nella natura, così la nuova concezione più nulla vi trova. In questa luce deve apparirci il medioevo cristiano.

 

Come la Grecia non era in grado di riconoscere l’essenza dell’arte, perché non arrivava a concepire il trascendere la natura, il creare una natura superiore a quella esistente, così la scienza cristiana medioevale non poteva portare a una conoscenza dell’arte, perché l’arte poteva lavorare solo con i mezzi della natura, e i dotti non potevano concepire che nella realtà, priva dell’elemento divino, si potessero creare opere in grado di appagare lo spirito che anela al divino.

Anche qui l’impotenza della scienza non recò danno alcuno allo sviluppo dell’arte. Mentre la scienza non sapeva che cosa pensare dell’arte, nacquero le opere più mirabili dell’arte cristiana. La filosofia, che in quel tempo era soggetta alla teologia, seppe altrettanto poco assegnare all’arte un suo posto nell’evoluzione della cultura, come non vi era riuscito il grande idealista greco, il «divino» Platone. Egli riteneva addirittura dannose le arti figurative e la drammatica; aveva tanto poco l’idea di una missione autonoma dell’arte, da far grazia alla musica solo perché stimolatrice del coraggio in guerra.

 

In un tempo in cui natura e spirito erano tanto intimamente uniti,

non poteva nascere una scienza dell’arte,

e neppure lo poteva quando spirito e natura erano contrapposti in violenta antitesi.

 

Per la nascita dell’estetica era necessaria un’epoca in cui l’uomo, libero e indipendente dai vincoli della natura, vedesse lo spirito nella sua serena chiarezza, ma in cui anche fosse di nuovo possibile confluire con la natura.

Che l’uomo si sollevi oltre il punto di vista della Grecia ha la sua buona ragione, perché nella somma delle casualità di cui è composto il mondo nel quale viviamo non ci è mai possibile trovare il divino, il necessario. Intorno a noi vediamo solo fatti che potrebbero però anche essere diversi:

• vediamo solo individui, mentre il nostro spirito anela all’universale, al prototipo;

• vediamo soltanto il finito, il perituro,

mentre il nostro spirito aspira all’infinito, all’imperituro, all’eterno.

 

Se dunque lo spirito umano, lontano dalla natura, doveva tornare ad essa, doveva anche essere qualcosa di diverso da una semplice somma di casualità.

Goethe intende questo: ritorno alla natura, congiunto però con tutta la ricchezza dello spirito che si è evoluto, con tutto l’alto livello della cultura moderna.

La concezione di Goethe non rispecchia la sostanziale separazione fra natura e spirito; egli vuol vedere nel mondo solo un grande tutto, un’unitaria catena evolutiva di esseri nella quale l’uomo costituisce un anello, sia pure il sommo.

▸ «Natura! Noi ne siamo circondati e avviluppati, senza poterne uscire, senza potervi penetrare a fondo. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci trascina con sé, fino a che stanchi sfuggiamo alla sua stretta».

 

E nel libro su Winckelmann:

▸ «Quando la sana natura umana opera come un tutto, quando ci sentiamo uniti al mondo, in modo grande, bello, nobile e degno, quando un armonioso piacere ci concede puro e libero rapimento, allora l’universo, se potesse, si sentirebbe giunto alla mèta, esulterebbe e ammirerebbe il vertice del proprio divenire e del proprio essere».

In questo sta il vero superamento goethiano della natura, senza però il minimo allontanamento da ciò che forma l’essenza della natura.

 

A Goethe è estraneo quel che egli stesso trova in molti uomini di talento, e cioè «la peculiarità che essi provino una specie di timore di fronte alla vera vita, che si ritirino in se stessi, che creino in sé un proprio mondo, così raggiungendo una relativa perfezione verso la propria interiorità».

Goethe non fugge la realtà per crearsi un mondo astratto di pensieri che nulla ha in comune con essa, ma vi si immerge per trovare, nel suo continuo mutarsi, nel suo divenire e procedere, le sue leggi immutabili; egli si pone di fronte all’individuo per scoprire in lui l’archetipo. Nel suo spirito sorsero così la pianta e l’animale primordiali che altro non sono che le idee della pianta e dell’animale.

 

Non sono vuoti concetti generici, parte di una grigia teoria, ma principi essenziali degli organismi con un contenuto ricco e concreto, pieno di vita e di evidenza. Principi evidenti non certo per i nostri sensi, ma per quella superiore facoltà di percezione di cui Goethe parla nel suo Saggio sul giudizio veggente.

Per lui le idee sono altrettanto oggettive quanto i colori e le forme delle cose; sono tuttavia percepibili solo da chi possieda un’adeguata ricettività, come colori e forme esistono soltanto per chi vede e non per i ciechi.

 

Se non andiamo incontro all’oggetto con spirito ricettivo, esso non ci si svela. Senza la facoltà istintiva di percepire le idee, esse ci rimangono sempre un terreno chiuso.

In merito, Schiller penetrò più a fondo di ogni altro nella struttura del genio goethiano.

 

Il 23 agosto 1794 Schiller spiegò a Goethe il carattere fondamentale del suo spirito con queste parole: ▸ «Voi prendete tutta la natura nel suo complesso per ricevere luce sul particolare; nella totalità del suo modo di manifestarsi, voi cercate il principio esplicativo per l’individuo. Dall’organizzazione semplice salite passo passo alla più complicata, per costruire infine geneticamente, con i materiali di tutto l’edifìcio della natura, la più complessa di tutte: l’uomo. Creando per così dire a nuovo, sulle orme della natura, voi cercate di penetrare nella sua tecnica nascosta».

Nel creare sulle orme della natura vi è una chiave per comprendere la concezione di Goethe. Se davvero vogliamo risalire agli archetipi delle cose, all’immutabile nel perenne mutare, non dobbiamo occuparci di quanto è compiuto, perché esso non corrisponde più del tutto all’idea che vi si manifesta, ma dobbiamo risalire al divenire, dobbiamo spiare la natura mentre crea.

 

È questo il significato delle parole di Goethe nel suo Saggio sul giudizio veggente.

▸ «Se grazie alla fede in Dio, nella virtù e nell’immortalità, ci solleviamo nel campo morale a una regione superiore e ci avviciniamo all’Essere primo, altrettanto dovrebbe accadere nel campo intellettuale; grazie all’osservazione di una natura perpetuamente creatrice, dovremmo diventare degni di partecipare con lo spirito alle sue produzioni. Per questo ho inconsciamente anelato senza tregua al primordiale, al tipico».

 

Gli archetipi goethiani non sono dunque vuoti schemi, ma forze operanti dietro i fenomeni.

Questa è la «natura superiore» nella natura, e Goethe vuole impadronirsene. Ne risulta che in nessun caso la realtà, quale si dispiega ai nostri sensi, è qualcosa a cui l’uomo, giunto a un grado superiore di civiltà, possa arrestarsi.

Soltanto oltrepassando la realtà, lo spirito umano rompe l’involucro, penetra nell’essenza e gli si palesa quel che nell’intimo tiene insieme il mondo. Non potremmo mai appagarci dei singoli fenomeni, ma solo delle leggi della natura, mai del singolo individuo, ma solo dell’universalità. In Goethe tutto ciò è espresso in forma quanto mai perfetta.

 

Ciò di fronte a cui anche Goethe si arresta è che per lo spirito moderno la realtà, il singolo individuo non offrono soddisfazione alcuna, perché non nell’individuo, ma solo nel suo superamento troviamo quel che riconosciamo come sommo, che onoriamo come divino, ciò che nella scienza chiamiamo idea.

Come la semplice esperienza non può giungere alla riconciliazione degli opposti perché ha sì la realtà, ma non ancora l’idea, così la scienza non può giungere a tale riconciliazione, perché ha sì l’idea, ma non ha più la realtà.

Fra le due, l’uomo ha bisogno di un nuovo regno, di un regno in cui già il singolo, e non soltanto l’intero, rappresenti l’idea, di un regno in cui l’individuo si presenti già in modo che vi siano in lui il carattere dell’universalità e della necessità.

Un mondo del genere non esiste tuttavia nella realtà, l’uomo deve crearlo, ed è il mondo dell’arte: un terzo regno necessario, accanto a quello dei sensi e a quello della ragione.

 

Deve essere compito dell’estetica vedere l’arte come quel terzo mondo. L’uomo stesso deve infondere l’elemento divino nelle cose della natura che ne sono prive, e questo è un alto compito che spetta agli artisti: hanno per così dire da portare il regno di Dio sulla terra. Questa missione dell’arte, che possiamo chiamare religiosa, è espressa da Goethe nel suo libro su Winckelmann con queste mirabili parole:

▸ «In quanto posto al vertice della natura, l’uomo si presenta a sua volta come un’intera natura che poi deve produrre un vertice in se stessa. A tal fine egli si arricchisce, compenetrandosi di tutte le perfezioni e di tutte le virtù, suscitando scelte, ordine, armonia e significato; si innalza infine sino alla creazione dell’opera d’arte che assume una posizione eminente accanto alle altre sue opere ed azioni. Una volta creata, una volta collocata nella sua realtà ideale di fronte al mondo, essa esercita un influsso perenne, un massimo influsso; sviluppandosi infatti spiritualmente grazie a tutte le sue forze, essa accoglie in sé tutto quanto è nobile e degno di onore e di amore; animando la figura umana, solleva l’uomo sopra se stesso, chiude il cerchio della sua vita e della sua attività, divinizzandolo per il presente nel quale sono compresi passato e avvenire. Tali sentimenti erano afferrati da coloro che guardavano il Giove olimpico, come possiamo dedurre dalle descrizioni, dalle notizie e dalle testimonianze degli antichi. Il dio era divenuto uomo per sollevare l’uomo al dio. Si osservava la dignità suprema e si era rapiti dalla suprema bellezza».

 

Era così riconosciuto all’arte il suo alto significato per il progresso della civiltà umana.

È caratteristico per l’etica possente del popolo tedesco che ad esso si sia anzitutto dischiusa una tale conoscenza, è caratteristico che tutti i filosofi tedeschi, da un secolo a questa parte, si affannino a ricercare la forma scientifica più degna per esprimere come spirito e natura, ideale e realtà si fondino insieme nell’opera d’arte.

L’estetica ha il solo compito di comprendere la vera essenza di tale compenetrarsi, e di elaborare le singole forme assunte nei diversi campi dell’arte.

 

Aver posto per la prima volta il problema nel modo indicato, e aver messo in moto tutte le questioni fondamentali dell’estetica, è merito della Critica del giudizio di Kant, apparsa nel 1790, le cui considerazioni piacquero subito a Goethe. Con tutta la serietà del lavoro dedicato alla cosa, oggi dobbiamo tuttavia ammettere di non avere ancora una soluzione del tutto soddisfacente dei compiti dell’estetica.

Il vecchio maestro della nostra estetica, l’acuto pensatore e critico Friedrich Theodor Vischer, rimase convinto sino alla morte che l’estetica fosse ancora ai suoi inizi. Riconobbe così che tutti gli sforzi compiuti in proposito, compresi i cinque volumi della sua stessa Estetica, seguono vie più o meno errate, e così è veramente.

 

Se mi è lecito esprimere qui la mia opinione, ciò va attribuito soltanto alla circostanza che in questo campo si sono trascurati i fecondi spunti goethiani, dato che Goethe non fu preso sul serio come scienziato. Se lo fosse stato, sarebbero senz’altro state elaborate le idee di Schiller, suscitate in lui osservando il genio di Goethe, e trascritte nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Anche queste lettere non vengono spesso considerate abbastanza scientifiche dagli estetici sistematizzanti, pur essendo esse quanto di più significativo l’estetica abbia mai prodotto.

Schiller parte da Kant. Per molti aspetti questi determina la natura del bello. Cerca anzitutto di esaminare quale sia la causa del piacere che suscitano in noi le belle opere d’arte, e trova che tale senso del piacere è del tutto diverso da ogni altro. Confrontandolo col piacere che si prova quando abbiamo a che fare con un oggetto che ci procura qualche utilità, questo è di tutt’altro genere. È un piacere intimamente connesso col desiderio che quell’oggetto esista.

 

Il piacere dell’utilità scompare quando cessa l’utilità, ma la cosa è diversa quando si tratta del piacere che proviamo per il bello. È un piacere che nulla ha a che fare col possesso, con l’esistenza dell’oggetto; non è affatto legato all’oggetto, ma solo alla sua rappresentazione.

Mentre per tutto quanto ha un fine, per tutto quanto è utile sorge subito l’esigenza di trasformare la rappresentazione in realtà, per il bello siamo soddisfatti dalla sola immagine. Kant chiama perciò il piacere suscitato dal bello un piacere non influenzato da alcun reale interesse, «un piacere disinteressato».

 

Sarebbe tuttavia falsa l’opinione che in tal modo venga esclusa dal bello ogni finalità; questo avviene soltanto per i fini esteriori. Da qui deriva la seconda definizione del bello: «È bello ciò che è dotato di una forma fine a se stessa, senza servire a un fine esteriore». Per ogni altra cosa della natura, o prodotta dalla tecnica, che noi percepiamo, subito interviene il nostro intelletto a ricercare un utile e un fine, e non è soddisfatto sino a che non abbia una risposta alla domanda: a qual fine? Per il bello il fine è nella cosa stessa, e l’intelletto non ha bisogno di andarne al di là.

 

Qui entra in campo Schiller e lo fa intessendo nei pensieri l’idea della libertà, in una forma che torna ad altissimo onore della natura umana. Anzitutto egli contrappone fra loro due impulsi umani che tendono sempre ad affermarsi.

 

• Il primo è il cosiddetto impulso verso la materia, vale a dire l’esigenza di mantenere sempre spalancati i nostri sensi verso il mondo esterno. Irrompe così in noi un ricco contenuto, senza tuttavia che possiamo esercitare un influsso determinante sulla sua natura.

Questo avviene con incondizionata necessità. Quel che percepiamo è determinato da fuori; qui non siamo liberi, dobbiamo soltanto obbedire al comando della necessità naturale.

 

• Il secondo è l’impulso verso la forma che altro non è se non la ragione che porta ordine e legge nella confusione caotica del contenuto percettivo.

Grazie al suo lavoro, l’esperienza viene sistematizzata.

Tuttavia anche qui, ritiene Schiller, non siamo liberi, perché in questo lavoro la ragione è soggetta alle leggi immutabili della logica. Come prima si è in potere della necessità naturale, così ora lo siamo della necessità razionale.

La libertà cerca un riparo da entrambe le necessità. Schiller indica la sfera dell’arte, mettendo in rilievo l’analogia dell’arte col gioco del bambino.

 

In che consiste la natura del gioco?

Si prendono le cose della realtà e a piacere se ne mutano i rapporti. In tale trasformazione della realtà non è determinante una legge di necessità logica (come ad esempio per costruire una macchina dobbiamo strettamente sottoporci alle leggi della ragione), ma si ubbidisce invece solo a un’esigenza soggettiva. Chi gioca mette le cose in una connessione che gli dà piacere, non si impone costrizione alcuna. Non bada alle necessità naturali, perché ne supera la costrizione, usando a proprio arbitrio le cose che gli sono date; né si sente vincolato alle necessità razionali, perché inventa l’ordine che introduce nelle cose.

Chi gioca imprime così alla realtà la sua soggettività alla quale conferisce un valore oggettivo. Cessa qui l’azione separata dei due impulsi, sono confluiti in uno, e in tal modo diventano liberi: ciò che è naturale è spirituale, ciò che è spirituale è naturale.

 

Schiller, il poeta della libertà, vede così nell’arte solo un libero gioco dell’uomo a un livello superiore, ed esclama entusiasta: ▸ «L’uomo è del tutto uomo solo quando gioca, e gioca soltanto quando è tale nel pieno significato della parola».

Schiller chiama impulso al gioco l’impulso che è alla base dell’arte. Esso produce nell’artista opere che già nella loro esistenza sensibile soddisfano la nostra ragione e il cui contenuto razionale è al tempo stesso presente come esistenza sensibile.

Su questo gradino l’entità umana opera in modo che la sua natura agisca secondo lo spirito, e il suo spirito secondo la natura.

La natura è sollevata allo spirito, lo spirito si immerge nella natura.

In tal modo quella viene nobilitata, e questo vien spinto dalla sua invisibile altezza nel mondo visibile.

 

Le opere che così nascono non sono certo del tutto fedeli alla natura, perché nella realtà spirito e natura non coincidono mai; se quindi confrontiamo le opere dell’arte con quelle della natura, esse ci appaiono come semplice parvenza. Devono però essere parvenza, altrimenti non sarebbero vere opere d’arte.

Col suo concetto di parvenza in questa connessione, Schiller quale estetico non è superato né raggiunto. In questa direzione si sarebbe dovuto continuare a costruire per sviluppare, anche se in un primo momento in modo unilaterale, la soluzione del problema del bello, ricorrendo alle osservazioni di Goethe sull’arte.

Invece entrò in campo Schelling con un principio del tutto errato, e inaugurò un errore dal quale l’estetica tedesca non si è più liberata.

 

Come tutta la filosofia moderna, anche Schelling trova che il compito del sommo sforzo umano sia afferrare gli eterni archetipi delle cose. Lo spirito trascende il mondo reale e si eleva alle altezze dove regna l’elemento divino. Ivi gli si presentano tutte le verità e tutte le bellezze. Solo ciò che è eterno è vero e anche bello.

Secondo Schelling, solo chi si eleva alla verità suprema è in grado di vedere la vera bellezza, perché esse sono una sola e identica cosa. Ogni bellezza sensibile è soltanto un pallido riflesso dell’infinita bellezza che mai potremo percepire con i sensi.

Ne risulta che l’opera d’arte non è bella per se stessa, grazie a ciò che è, ma in quanto riproduce l’idea della bellezza. Ovvia conseguenza di questa idea è che il contenuto dell’arte è identico a quello della scienza, poiché alla base di entrambe vi è la verità eterna che è anche bellezza.

Per Schelling l’arte è soltanto scienza oggettivata.

 

Dobbiamo allora chiederci a che cosa sia legato il piacere che ci procura l’opera d’arte. Sarebbe allora solo un’idea espressa. L’immagine sensibile sarebbe soltanto un mezzo d’espressione, la forma in cui si esprime un contenuto soprasensibile.

In merito tutti gli estetici seguono la corrente idealistica di Schelling. Io non posso infatti essere d’accordo con quanto in proposito dice il più recente storico e teorico dell’estetica, Eduard von Hartmann, cioè che Hegel in questo punto abbia in effetti superato Schelling, e dico in questo punto, perché ve ne sono molti altri in cui Hegel è di gran lunga superiore. Hegel dice anche: «Il bello è la parvenza sensibile dell’idea». Con ciò egli ammette di vedere nell’idea espressa quel che è essenziale nell’arte. Ancora con più precisione il suo pensiero risulta dalla parole: «Le dure cortecce della natura e del mondo quotidiano rendono più aspro allo spirito il penetrare fino all’idea che non l’opera d’arte». Qui risulta ben chiaro che lo scopo dell’arte è lo stesso della scienza, arrivare cioè fino all’idea.

 

L’arte cercherebbe soltanto di mostrare ciò che la scienza esprime direttamente in forma di pensiero. Friedrich T. Vischer chiama bellezza «l’apparire dell’idea» e stabilisce così l’identità del contenuto artistico e della verità. Si possono fare obiezioni, ma chi riconosce nell’idea espressa l’essenza del bello, non potrà mai separarlo dalla verità. Non si comprende allora quale compito indipendente rimanga all’arte, accanto alla scienza. Quanto essa ci offre già lo sperimentiamo col pensiero in forma più pura, più genuina, non celata da un velo sensibile. Solo grazie a sofisticherie questa estetica elimina la vera conseguenza compromettente per cui le forme artistiche superiori dovrebbero essere nelle arti figurative l’allegoria, e nell’arte poetica la poesia didascalica. Questa estetica non riesce a comprendere il significato autonomo dell’arte. Di conseguenza è anche risultata infeconda.

 

Non bisogna tuttavia esagerare, rinunziando ad aspirare a un’estetica non contradditoria. Esagerano in questa direzione quelli che vorrebbero ridurre tutta l’estetica a una storia dell’arte. Questa non è in grado di basarsi su principi autentici e altro non può essere che una raccolta di notizie sugli artisti e sulle loro opere, con l’aggiunta di osservazioni più o meno brillanti, comunque sempre prive di valore, perché derivate dall’arbitrio del ragionamento soggettivo.

 

Dall’altro lato si cercò di demolire l’estetica, opponendole una specie di fisiologia del gusto. Si esaminarono i casi più semplici e più elementari in cui si prova un senso di piacere, per salire poi a casi sempre più complicati, contrapponendo così all’estetica dall’alto un’estetica dal basso. Nella sua Introduzione all’estetica Fechner batté questa strada. È davvero inconcepibile che un’opera simile possa aver successo in un popolo che ebbe un Kant. Per Fechner l’estetica dovrebbe partire da esperimenti sul senso del piacere, come se ogni sensazione di piacere fosse una sensazione estetica, e come se potessimo distinguere la natura estetica di una sensazione di piacere dall’altra, altrimenti che attraverso l’oggetto da cui è prodotta!

 

Sappiamo che un piacere è una sensazione estetica solo se riconosciamo l’oggetto come bello; psicologicamente infatti, in quanto piacere, quello estetico in nulla si distingue da un altro piacere. Il punto è sempre la conoscenza dell’oggetto. Che cosà rende bello un oggetto? Questo è il problema basilare di ogni estetica.

 

Molto meglio che con gli estetici dal basso, ci avviciniamo alla cosa appoggiandoci a Goethe. Merck caratterizzò la creazione artistica di Goethe con le parole: «Tu aspiri, tu tendi a dare una forma poetica alla realtà; gli altri cercano di realizzare il cosiddetto elemento poetico immaginativo, ma giungono solo a sciocchezze».

È più o meno la stessa cosa detta da Goethe nel Faust II: ▸ «Rifletti al che, ma più rifletti al come». Qui è espresso con chiarezza che in sostanza nell’arte non si tratta di un’incarnazione del soprasensibile, ma di una trasformazione del concreto-sensibile.

 

La realtà non deve abbassarsi fino a diventare mezzo d’espressione, ma deve continuare ad esistere nella sua piena indipendenza; deve tuttavia ricevere nuova forma, una forma che ci soddisfi. Se togliamo dal suo ambiente un singolo essere e ce lo proponiamo isolato, molto di esso ci apparirà subito incomprensibile; non riusciremo a metterlo in armonia con l’idea che di necessità dobbiamo porre alla sua base. La sua formazione nella realtà non è solo conseguenza della sua stessa legge, ma la realtà circostante concorre direttamente a determinarla. Se la cosa si fosse sviluppata indipendente e libera, non influenzata da altre cose, allora manifesterebbe la propria idea.

 

L’artista deve cogliere e sviluppare l’idea che è alla base della cosa, il cui libero svolgimento è nella realtà disturbato; deve scoprire nell’oggetto il punto partendo dal quale esso possa svilupparsi nella forma perfetta in cui neppure in natura arriva ad evolversi.

In ogni cosa singola la natura resta appunto al di sotto della sua intenzione: accanto a una pianta, ne crea una seconda, una terza e così via, ma nessuna porta a vita concreta l’idea piena; una ne sviluppa un lato, un’altra un altro, secondo quanto lo consentano le circostanze. L’artista deve invece risalire a quella che gli si manifesta quale tendenza della natura.

Questo appunto intende Goethe quando descrive con le sue parole il proprio modo di lavorare: «Non ho pace sino a quando non trovo un punto da cui molto si possa sviluppare».

 

Nell’artista l’intera esteriorità dell’opera deve esprimere tutta l’interiorità;

nel prodotto di natura l’esteriorità resta indietro rispetto all’interiorità,

e lo spirito umano che indaga deve prima scoprirla.

 

Così le leggi secondo cui l’artista procede, altro non sono che quelle eterne della natura,

pure e non influenzate da impedimento alcuno.

 

Alla base cioè della creazione artistica

• non sta quel che è, ma quel che potrebbe essere;

• non il reale, ma il possibile.

 

L’artista crea secondo gli stessi principi secondo cui crea la natura; egli tratta però gli individui secondo quei principi mentre, per usare un’espressione di Goethe, degli individui la natura non se ne fa nulla: «Essa sempre crea e sempre distrugge», perché vuol raggiungere la perfezione non con i singoli, ma con il tutto.

Il contenuto di un’opera d’arte è una realtà sensibile, è il che nella forma che l’artista gli dà, il suo anelito tende a superare la natura nelle sue tendenze, a raggiungere quanto è possibile con i suoi mezzi e con le sue leggi, in misura maggiore di quanto la natura stessa non sia in grado di fare.

 

L’oggetto che l’artista ci presenta è più perfetto di quanto non lo sia nella sua esistenza naturale,

ma non porta in sé altra perfezione che la propria.

 

Il bello consiste in questo trascendere se stesso dell’oggetto, anche se solo sulla base di quanto ha già di nascosto. Perciò il bello non è innaturale, e Goethe può dire a ragione: ▸ «Il bello è una manifestazione di leggi naturali occulte che, senza di esso, sarebbero rimaste nascoste in eterno»; e in un altro passo: ▸ «Colui cui la natura svela il suo palese segreto sente un’irresistibile nostalgia per la sua più degna interprete, l’arte».

 

• Nello stesso senso in cui si può dire che il bello è irreale, una non verità, una mera parvenza, perché ciò che rappresenta non è mai così perfetto in natura,

• si può anche dire che il bello è più vero della natura, perché rappresenta quel che la natura vorrebbe, ma non può essere.

 

Sul problema della realtà nell’arte Goethe dice: • «Il poeta (e possiamo benissimo estendere queste parole a tutte le forme artistiche) deve ricorrere a dare immagini che raggiungano il loro culmine quando gareggiano con la realtà, cioè quando le descrizioni fatte dallo spirito sono tanto vive da significare per tutti una presenza».

Secondo Goethe: ▸ «Niente nella natura è bello se non è motivato come vero secondo le leggi di natura».

 

Troviamo espresso da Goethe l’altro lato della parvenza, il trascendere se stesso dell’essere: ▸ «Nel fiore la legge vegetale si presenta nella sua somma espressione, e la rosa sarebbe a sua volta l’apice di tale fenomeno. Il frutto non può mai essere bello, perché ora la legge vegetale si ritrae in se stessa (nella semplice legge)».

 

Qui è detto con chiarezza che il bello appare dove l’idea prende forma e vita, dove nell’apparenza esterna percepiamo direttamente la legge; dove invece, come nel frutto, l’apparenza esterna risulta informe e goffa, perché nulla tradisce della legge che è alla base della formazione delle piante, la cosa di natura cessa di essere bella.

Così più oltre è detto: ▸ «La legge che nel fenomeno si esprime nella massima libertà, secondo la propria determinazione, produce il bello oggettivo che naturalmente deve trovare soggetti degni che lo comprendano».

Questo punto di vista di Goethe si esprime nel modo più incisivo nelle seguenti parole: ▸ «Certo l’artista deve imitare la natura con fedeltà e devozione nei particolari, ma nelle regioni superiori del processo artistico, dove un’immagine diventa veramente un’immagine, egli ha libero gioco e può giungere persino a finzioni».

 

Goethe designa il compito sublime dell’arte come un «dare l’illusione di una realtà superiore mediante la parvenza. Sarebbe invece un’aspirazione sbagliata realizzare talmente la parvenza, fino a che ne rimanga solo una comune realtà».

 

Domandiamoci ora per quale ragione gli oggetti dell’arte ci procurano gioia. Anzitutto ci deve essere chiaro che il piacere suscitato in noi dagli oggetti del bello non è per nulla inferiore al piacere solo intellettuale che proviamo osservando ciò che è spirituale.

È sempre una decisa decadenza dell’arte vedere il suo compito nel solo divertimento, nella soddisfazione di un piacere inferiore.

La causa del piacere procurato in noi dagli oggetti artistici è la medesima che, di fronte al mondo delle idee in genere, ci fa provare la gioiosa elevazione che risolleva al di sopra di noi stessi.

Che cosa nel mondo delle idee ci dà una tale soddisfazione?

Null’altro che l’intima pace e perfezione che ha in sé.

 

Nessuna contraddizione, nessuna disarmonia turba il mondo dei pensieri che affiora nella nostra interiorità, perché questo mondo è in se stesso infinito. Tutto ciò che lo rende perfetto è in quello stesso mondo. Tale perfezione, innata nel mondo delle idee, è la causa del nostro elevarci quando gli siamo di fronte.

Affinché il bello possa darci una simile elevazione, deve essere secondo il modello dell’idea, cosa ben diversa da quanto vorrebbero gli estetici dell’idealismo tedesco.

 

Non è «l’idea in forma di parvenza sensibile»,

ma proprio il rovescio, una «parvenza sensibile in forma di idea».

Il contenuto del bello, la materia che sta alla sua base,

• è sempre qualcosa di effettivo, una diretta realtà,

• e la forma in cui ci si presenta è ideale.

 

Come si vede, è proprio il contrario di quel che afferma l’estetica tedesca che ha addirittura capovolto la cosa.

Il bello non è il divino in veste sensibile-reale,

ma il reale-sensibile in veste divina.

L’artista non porta il divino in terra, facendolo fluire nel mondo,

ma solleva il mondo alla sfera del divino.

 

Il bello è parvenza, perché produce per incanto davanti ai nostri sensi

una realtà che come è si presenta quale mondo ideale.

«Rifletti al che, ma più rifletti al come», perché quel che conta è il come.

Il che resta sensibile, ma il come diventa ideale.

Dove la forma reale di manifestazione appare meglio nella sfera sensibile,

l’arte raggiunge la sua somma dignità.

 

Goethe dice al riguardo: ▸ «La dignità dell’arte appare forse nel modo più eminente nella musica, perché essa non ha una materia di cui debba tenere conto. Essa è tutta forma e contenuto, e innalza e nobilita tutto quel che esprime».

Ancora non esiste l’estetica che prenda le mosse dalla definizione secondo la quale il bello è realtà sensibile che appare come idea. Deve essere creata. Essa può senz’altro chiamarsi estetica della concezione goethiana del mondo, ed è l’estetica dell’avvenire.

 

Anche von Hartmann, uno dei più moderni cultori dell’estetica che nella sua Filosofia del bello ci ha lasciato un’opera davvero insigne, rimane nel vecchio errore secondo cui il contenuto del bello sarebbe l’idea.

Dice assai giustamente che il concetto fondamentale dal quale ogni scienza del bello deve muovere è quello della parvenza estetica. Sì, ma il manifestarsi del mondo ideale in quanto tale sarebbe sempre da considerare parvenza.

L’idea è la più alta verità; quando essa appare, lo fa appunto come verità e non come parvenza.

 

Si ha invece una parvenza reale quando l’elemento naturale-individuale appare in una veste eterna e imperitura, dotata del carattere di idea, perché tale carattere in realtà non le è proprio.

Inteso in questo senso,

l’artista ci appare come il continuatore dello spirito del mondo;

egli prosegue la creazione quando l’altro l’abbandona.

Ci appare in intimo legame con lo spirito dei mondi,

e l’arte come la libera continuazione del processo di natura.

In tal modo l’artista si solleva dalla vita ordinaria,

ed eleva con lui anche noi che ci immergiamo nelle sue opere.

Non crea per il mondo finito, ma lo trascende.

.

Nella sua poesia L’apoteosi dell’artista Goethe fa dire la sua idea dalla musa all’artista con queste parole:

Così, sopra i suoi simili per secoli

con gran potenza agisce un degno spirito,

e quel che un uomo buono può raggiungere non vive nel breve spazio della vita.

Egli vive ancora dopo la morte,

ed è attivo come ancor vivesse;

l’azione buona, la parola bella restan immortali,

com’era il suo anelito.

 

Così pur tu per tempo smisurato vivrai godendo l’immortalità.

Questi versi esprimono senz’altro il pensiero di Goethe su quella che chiamerei la missione cosmica dell’artista.

Chi mai comprese l’arte con tanta profondità come Goethe?

 

Chi seppe riconoscerle tanta dignità? Quando dice: ▸ «Le grandi opere d’arte sono prodotte dagli uomini, similmente alle somme opere della natura, secondo leggi vere e naturali. Tutto quanto è arbitrario e illusorio cade: in esse vi è necessità, in esse vi è Dio», rivela a sufficienza la piena profondità delle sue opinioni. Nel suo spirito un’estetica non potrà certo essere male. Ciò vale anche per parecchi altri capitoli della nostra scienza moderna.

Quando il 5 aprile 1885, alla morte di Walter von Goethe, ultimo discendente del poeta, i tesori di Goethe divennero patrimonio nazionale, taluni si strinsero nelle spalle al vedere lo zelo degli eruditi che si attaccavano anche ai minimi rimasugli del lascito goethiano, considerandoli come rare reliquie da non sottovalutare in alcun modo, in vista di una profonda indagine.

 

Il genio di Goethe è inesauribile, né si può abbracciarlo con un unico sguardo. Lo si può avvicinare sempre di più e da diversi lati. Tutto in lui deve dunque esserci bene accetto. Anche quel che preso a sé appare senza valore, acquista importanza se messo in relazione con la vasta concezione del poeta.

Solo considerando la piena ricchezza delle manifestazioni della vita nelle quali il suo genio universale si espresse, ci si presenterà all’anima il suo essere, il suo tendere dal quale tutto scaturì e che segna un culmine dell’umanità. Solo quando questo tendere diverrà patrimonio comune di tutti coloro che hanno un anelito spirituale, solo quando sarà diventato generale il proposito non solo di comprendere la concezione goethiana, ma anche di vivere in essa e di farla vivere in noi, solo allora Goethe avrà assolto la sua missione. Questa visione universale dovrà essere per il popolo tedesco, e molto al di là di esso, un segno nel quale tutti gli uomini s’incontrino e si riconoscano in un anelito comune.