La concezione del mondo dei pensatori greci

O.O. 18 – Gli enigmi della filosofia – I (La concezione del mondo dei pensatori greci)


 

Con Ferecide di Siro, vissuto nel sesto secolo prima di Cristo, appare nella vita spirituale greca una personalità nella quale si può osservare la nascita di quanto chiameremo, nelle considerazioni seguenti, « concezione del mondo e della vita ». Ciò ch’egli dice a proposito dei quesiti sul mondo assomiglia ancora, da una parte, alle raffigurazioni mitiche e immaginative di un tempo che precede l’anelito a conseguire una concezione scientifica del mondo. D’altro canto, questa raffigurazione mediante l’immagine ed il mito, si trasforma in lui in una contemplazione che vuole risolvere gli enigmi dell’esistenza e della posizione dell’uomo nel mondo attraverso pensieri. Egli si rappresenta ancora la terra sotto l’apparenza di una quercia alata intorno a cui Zeus stende come un tessuto la superficie dei continenti, dei mari, dei fiumi. Egli pensa che il mondo sia pervaso dall’azione di esseri spirituali, dei quali parla la mitologia greca. Ma egli parla anche di tre origini del mondo: Cronos, Zeus e Chton.

 

Si è molto discusso, nella storia della filosofia, come intendere queste tre origini riconosciute da Ferecide. Poiché le notizie storiche su ciò ch’egli volle rappresentare nella sua opera Heptamychos sono contraddittorie, è comprensibile che ancora oggi le opinioni su questo libro siano del tutto diverse. Chi esamina dal punto di vista storico i dati relativi a Ferecide può avere l’impressione che in lui si possa osservare l’inizio della riflessione filosofica, ma che questo studio è arduo perché le sue parole debbono essere prese in un senso che è molto lontano dal modo di pensare odierno e che deve ancora essere trovato.

 

Alle esposizioni del presente libro, che mira a darci un quadro delle concezioni del mondo e della vita del secolo decimonono, vogliamo premettere nella seconda edizione una rapida descrizione delle precedenti rappresentazioni della vita e del mondo solo quando fondate sulla comprensione concettuale. Lo facciamo, dominati dalla sensazione che le idee del secolo scorso rivelano meglio il loro significato intrinseco, quando non sono considerate indipendentemente, ma alla luce del pensiero delle epoche precedenti. Naturalmente non possiamo presentare in questa « introduzione » tutto il « materiale di prova » che dovrebbe sorreggere la nostra breve esposizione. (Se una volta all’autore sarà concesso fare di questo schizzo un libro indipendente, si potrà constatare che il fondamento richiesto non manca. E l’autore non dubita che se altri vorranno trovare in questo abbozzo un incitamento allo studio scopriranno nella tradizione storica le « prove » di quanto dice).

 

Ferecide giunge alla sua concezione del mondo in una maniera diversa da quella seguita prima di lui. L’importante in lui è ch’egli sente l’uomo in quanto essere animato, diversamente dai suoi predecessori. Per le raffigurazioni più antiche del mondo, la parola « anima » non aveva ancora il significato ch’essa assunse poi nelle concezioni ulteriori della vita. Nemmeno in Ferecide l’idea dell’anima è presente come nei pensatori che lo seguiranno.

Egli sente solo l’elemento animico dell’uomo, mentre i pensatori successivi vogliono parlarne chiaramente e caratterizzarlo in pensieri.

 

Gli uomini dell’epoca primitiva ancora non separano il loro sperimentare umanamente l’anima dalla vita della natura. Essi non pongono se stessi come esseri particolari accanto alla natura: essi sperimentano se stessi nella natura, nello stesso modo in cui sperimentano il tuono ed il fulmine, lo spostamento delle nuvole, il movimento degli astri, il crescere delle piante. Ciò che muove la sua mano, che pone il piede in terra e lo fa camminare, appartiene per l’uomo preistorico ad un dominio di forze cosmiche che muovono anche il fulmine e le nubi, che causano tutto ciò che accade esteriormente.

Ciò che l’uomo primitivo sente, si può descrivere pressappoco così: qualche cosa fa lampeggiare, tuonare, piovere; qualche cosa muove la mia mano, fa andare avanti il mio piede, muove l’aria del mio respiro, fa girare il mio capo.

 

Per esprimere una tale conoscenza, si devono adoperare parole che, a prima vista, sembrano esagerate. Ma il fatto autentico può venire afferrato completamente soltanto tramite una parola apparentemente esagerata. Un uomo che ha un’immagine del mondo come quella qui descritta, avverte nella pioggia che cade una forza operante che oggi chiameremmo « spirituale » e che è dello stesso tipo di quella ch’egli avverte quando si dedica ad una qualsiasi occupazione personale.

Può essere interessante ritrovare in Goethe — nei suoi anni giovanili —, questa maniera di rappresentare le cose, naturalmente con le sfumature particolari ad una personalità del secolo decimottavo. Si può leggere nella dissertazione di Goethe intitolata La natura: ▸ « Essa (la natura) mi ha introdotto (nel mondo), essa me ne condurrà anche fuori. Mi affido a lei. Essa può disporre di me. Essa non prenderà in odio la sua opera. Io non parlai di lei. No, ciò che è vero, e ciò che è falso: essa ha detto tutto. Tutto è colpa sua, tutto è merito suo ».

Si può parlare come Goethe solo se si sente il proprio essere nel complesso della natura e si porta ad affiorare questo sentimento per mezzo dell’osservazione pensante.

 

L’uomo primitivo ciò che pensava, lo sentiva, senza formare un pensiero dalla sua esperienza animica. Egli non sperimentava ancora il pensiero. E perciò nella sua anima si formava l’immagine invece del pensiero.

L’osservazione dell’evoluzione dell’umanità ci fa risalire ad un’epoca in cui non erano ancora nate le esperienze del pensiero, ma in cui, nell’intimo dell’essere umano, viveva l’immagine (l’immagine simbolica), così come nell’uomo che vivrà in seguito scaturirà il pensiero quando osserverà i processi cosmici.

La vita del pensiero nasce per l’uomo ad un’epoca determinata: essa pone fine al precedente modo di sperimentare il mondo in immagini.

 

• Al nostro modo di pensare odierno appare verosimile che gli uomini nei tempi primitivi, abbiano osservato i fenomeni naturali, il vento e la tempesta, il germogliare del seme, il movimento delle stelle ed abbiamo immaginato esseri spirituali come gli autori di questi processi. Invece è assai lontano dalla coscienza contemporanea ammettere che l’uomo primitivo abbia sperimentato l’immagine, come l’uomo più recente sperimenta il pensiero: come una realtà animica.

Verrà riconosciuto, a poco a poco, che nel corso dell’evoluzione dell’umanità si è prodotta una trasformazione dell’organismo umano.

 

Vi fu un tempo in cui gli organi più delicati della natura umana che consentono lo svolgersi di una vita interiore e distinta del pensiero, non erano ancora formati. In quel tempo invece l’uomo possedeva gli organi che gli rappresentavano in immagini la sua co-esperienza (Mitierleben) con il mondo.

Quando sarà riconosciuto questo, una luce nuova cadrà, da una parte sul significato del mito e dall’altra su quello della poesia e della vita del pensiero.

Quando comparve lo sperimentare interiore ed autonomo del pensiero, esso portò al declino della precedente esperienza tramite immagini simboliche. Il pensiero compare ora come strumento della verità. Ma in esso sussiste soltanto un ramo dell’antica esperienza immaginativa che si era espressa attraverso il mito. In un altro ramo sopravvive la spenta esperienza immaginativa, ma in un aspetto più sbiadito, nelle creazioni della fantasia, della poesia.

 

La fantasia poetica e la concezione del mondo in pensieri sono entrambe figlie della stessa madre, dell’antica esperienza delle immagini, che non deve essere confusa con l’esperienza poetica.

• L’essenziale per noi è la trasformazione della sottile organizzazione dell’uomo.

Questa portò alla vita del pensiero.

 

Nell’arte, nella poesia, non opera naturalmente il pensiero in quanto tale; opera ancora l’immagine. Ma essa sta in un altro rapporto con l’anima umana rispetto a quando si formava come immagine di conoscenza.

Come pensiero, l’esperienza animica appare solo nella concezione del mondo, e gli altri rami della vita umana si trasformano corrispondentemente in altro modo quando il pensiero prende l’egemonia sul terreno della conoscenza.

Con il progresso dell’evoluzione umana così caratterizzato è collegato il fatto che l’uomo, dopo l’apparizione di questo modo di vivere il pensiero, debba sentirsi come essere separato, come « anima », in tutt’altra maniera da prima.

 

L’« immagine » era sperimentata in modo tale che l’uomo l’avvertiva come una realtà esistente nel mondo esterno, una realtà che egli sperimentava insieme al mondo a cui egli era legato.

Con il « pensiero », come anche con l’immagine poetica, l’uomo si sente separato dalla natura, egli avverte se stesso nell’esperienza del pensiero come qualche cosa che la natura non può sperimentare così come egli la sperimenta. Nasce, ed è sempre più distinta la sensazione del contrasto tra anima e la natura.

Presso le diverse civiltà dei popoli, il passaggio dall’esperienza immaginativa all’esperienza del pensiero si compie in epoche diverse. In Grecia possiamo assistere a questo passaggio quando si osserva la personalità di Ferecide. Egli vive in un mondo di rappresentazioni in cui l’esperienza immaginativa e il pensiero hanno ancora la stessa parte. Le sue tre idee fondamentali: Zeus, Cronos e Chton possono solo essere rappresentate in modo tale che l’anima che le sperimenti si senta nello stesso momento appartenente a ciò che accade nel mondo esterno. Ci si trova di fronte alla percezione di tre immagini, che possono essere comprese solo quando non ci si lasci fuorviare dalle nostre odierne abitudini di pensiero.

 

Cronos non è il tempo quale lo rappresentiamo oggi. Cronos è un essere, che secondo l’uso del linguaggio odierno si può definire « spirituale », pur sapendo che questo significato non è esauriente. Cronos vive, e la sua mansione è di divorare, di consumare la vita di un altro essere, Chton.

Nella natura, Cronos domina; egli domina anche nell’uomo, e sia nella natura che nell’uomo Cronos consuma Chton.

Sentire nel proprio intimo questo divorare Chton da parte di Cronos o scorgerlo esteriormente nei processi della natura non fa differenza. Accade la stessa cosa in tutti e due i casi.

Unito a questi due esseri è Zeus che, secondo il pensiero di Ferecide, non può essere rappresentato come essere divino secondo il nostro concetto attuale della mitologia, così come non può essere rappresentato come semplice « spazio » nel senso odierno, sebbene esso sia l’essere che dà una forma spaziale, estesa a ciò che accade tra Cronos e Chton.

 

L’azione concertata di Cronos, Chton e Zeus, nel senso di Ferecide, viene sperimentata immediatamente nell’immagine, come viene sperimentata l’idea che l’uomo mangia; ma essa è sperimentata anche nel mondo esterno, così come la rappresentazione del colore rosso o azzurro.

Questa esperienza può essere rappresentata nel modo che segue: si guardi il fuoco che consuma le cose. La vita di Cronos si manifesta nell’attività del fuoco, del calore.

Chi osserva il fuoco nella sua attività, e non ha ancora il pensiero indipendente in azione, ma l’immagine, osserva Cronos. Egli vede insieme all’attività del fuoco — non insieme al fuoco materiale — il «tempo».

Prima della nascita del pensiero non vi era un’altra raffigurazione del tempo.

Ciò che oggi chiamiamo « tempo » è una idea foggiatasi all’epoca della concezione del mondo in pensieri.

 

• Se si guarda l’acqua, non come acqua, ma quando essa si trasforma in aria o in vapore, o si osservano delle nuvole che si dissolvono, si sperimenta nell’immagine la forza di « Zeus », di colui che spiega nello spazio la sua attività di espansione; si potrebbe anche dire colui che s’« irradia » nello spazio.

• E chi vede l’acqua diventare solida, oppure un solido trasformarsi in liquido, vede Chton. Chton è qualche cosa che, più tardi, all’epoca delle concezioni del mondo foggiate dal pensiero, è stato chiamato « materia », « sostanza »; Zeus è diventato « l’etere » o anche « lo spazio »; Cronos « il tempo ».

 

Secondo la raffigurazione di Ferecide,

• il mondo si forma tramite la cooperazione di questi tre principi primordiali.

Da questa azione concertata nascono,

• da una parte, i mondi materiali e sensibili (della natura): il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra;

• dall’altra una quantità di esseri spirituali invisibili e soprasensibili

che vivificano i quattro mondi della materia.

 

Zeus, Cronos, Chton sono entità cui si possono applicare le espressioni: « spirito, anima, materia », ma con significato solo approssimativo. Solo mediante la combinazione di questi tre esseri primordiali nascono i regni più materiali del fuoco, dell’aria, dell’acqua, della terra, e le altre entità (soprasensibili) più animiche e spirituali.

 

Con espressioni tolte a concezioni ulteriori del mondo, possiamo denominare

• Zeus, in quanto « etere-spazio »,

• Cronos, in quanto « creatore del tempo »,

• Chton, in quanto « provveditore di sostanza »,

le tre « madri primordiali » del mondo.

 

Si possono ancora intravvedere nel Faust di Goethe,

in quella scena della seconda parte, dove Faust s’incammina verso le « Madri ».

 

Così come appaiono presso Ferecide, questi tre esseri primordiali ci fanno risalire fino ai precursori di questa personalità, ai cosiddetti Orfici. Questi aderiscono ad un modo di rappresentazione che vive ancora completamente nell’antica coscienza immaginativa. Anche presso di loro si trovano tre esseri primordiali: Zeus, Cronos e Caos. Accanto a queste tre « Madri primordiali », quelle di Ferecide sono un po’ meno immaginative.

 

Ferecide tenta di afferrare mediante la vita del pensiero ciò che gli Orfici attingevano completamente per mezzo dell’immagine. Perciò egli ci appare come la personalità riguardo alla quale si può parlare di « nascita della vita del pensiero ». Questa si esprime non tanto nel carattere più concettuale delle rappresentazioni orfiche, quanto in una certa disposizione fondamentale dell’anima di Ferecide che ritroviamo poi in un modo simile in molti filosofi suoi successori in Grecia. Ferecide si vede infatti costretto a vedere l’origine delle cose nel « bene ». Egli non poteva collegare questo concetto con i « mondi mitici degli Dei » del tempo antico. Agli esseri di questo mondo spettavano qualità animiche che non erano compatibili con questo concetto. Nei suoi tre principi primordiali Ferecide non poteva supporre che il concetto del buono, del perfetto.

 

Collegato a questo è il fatto che la nascita della vita del pensiero ha determinato una scossa nel sentire animico. Non si deve trascurare questa esperienza animica da cui ha inizio la concezione in pensieri del mondo.

Non si sarebbe riconosciuto un progresso in questo inizio se non si fosse creduto di afferrare, mediante il pensiero, qualche cosa di più perfetto di quanto era stato afferrato attraverso l’antica esperienza immaginativa.

 

Va da sé che in questo stadio dell’evoluzione della concezione del mondo, la sensazione cui accenniamo non era chiaramente espressa. Ma si avvertiva già ciò che possiamo oggi dichiarare espressamente considerando gli antichi pensatori greci. Si avvertiva che le immagini sperimentate dagli antenati immediati non risalivano ai principi primordiali più alti e perfetti. In queste immagini si manifestavano meno i principi primordiali perfetti. Da questi il pensiero doveva innalzarsi a principi primordiali ancor più alti, dei quali ciò che si scorgeva nelle immagini non era che la creatura.

 

• Mediante il progresso verso la vita del pensiero,

il mondo si divise per la rappresentazione in una sfera più naturale ed una più spirituale.

In questa sfera spirituale concepita solo allora, si doveva sentire ciò che prima era stato sperimentato in immagini.

 

A ciò si aggiunse ora anche la rappresentazione di qualche cosa che viene pensata come superiore a questo mondo spirituale antico e alla natura. Il pensiero voleva raggiungere questo bene più alto. In questa regione eccelsa cerca Ferecide le « tre Madri primordiali ».

 

Uno sguardo sui fenomeni del mondo può illustrare quali rappresentazioni dovessero essere tali da colpire una personalità come Ferecide. Nell’ambiente che lo circonda, l’uomo trova alla base di tutti i fenomeni una certa armonia che appare nel movimento degli astri, nel ciclo delle stagioni coi benefici della crescita delle piante, ecc. In questo corso fausto delle cose intervengono potenze ostacolatrici, distruttrici che si manifestano nelle azioni atmosferiche dannose, nel terremoto, e simili. Chi considera tutto questo può essere condotto ad ammettere una dualità di potenze agenti. Pure, l’anima umana ha bisogno di una unità fondamentale. Essa pensa naturalmente che la grandine devastatrice, il terremoto rovinoso derivino insomma dalla stessa origine dell’ordine benedetto delle stagioni.

 

Attraverso il buono ed il cattivo, l’uomo cerca di vedere il bene primordiale.

Nel terremoto agisce la stessa forza benefica che nella ricchezza della primavera. La medesima entità che fa maturare il seme è attiva nell’ardore del sole che dissecca la terra e ne fa un deserto. Dunque anche nei fenomeni nocivi ritroviamo le « buone Madri primordiali ».

 

Quando l’uomo sente questo alla sua anima si presenta un grandioso enigma cosmico. Per risolverlo, Ferecide ricorre al suo Ofioneo. Rifacendosi alle antiche rappresentazioni immaginative, Ofioneo gli appare come una specie di « serpente cosmico ».

In realtà, esso è un essere spirituale e come tutti gli altri esseri del mondo, è figlio di Cronos, Zeus e Chton, ma si è trasformato tanto dopo la sua nascita, che le sue azioni sono del tutto contrarie a quelle delle « buone Madri primordiali ».

 

Ma con questo il mondo si divide secondo una trinità.

• Vi sono prima le « Madri primordiali », che sono raffigurate come buone e perfette,

• poi i fenomeni cosmici benefici,

• e infine i processi distruttivi, o perlomeno incompleti, che come Ofioneo, si avvinghiano agli effetti benefici.

 

Per Ferecide, Ofioneo non è una mera idea simbolica che raffiguri le potenze ostacolanti, distruttrici. Ferecide con le sue rappresentazioni è al limite tra immagine e pensiero. Egli non pensa: vi sono potenze distruttrici, io le raffiguro con l’immagine di Ofioneo. Un simile processo di pensiero non è presente in lui nemmeno come attività della fantasia. Egli considera le forze ostacolatrici, ed immediatamente appare di fronte all’anima sua Ofioneo, come il colore rosso sorge davanti all’anima quando si getta lo sguardo sulla rosa.

 

• Chi vede solo il mondo quale si presenta alla percezione immaginativa, non distingue, con il pensiero, gli atti delle « buone Madri primordiali » da quelli di Ofioneo.

• Alla soglia della concezione del mondo concepita con il pensiero, appare la necessità di tale distinzione.

 

• Solo mediante questo progresso l’anima si sente un essere separato, indipendente. Essa sente il dovere di chiedersi: donde provengo io stessa? Ed essa deve cercare la propria origine in profondità cosmiche, dove Cronos, Zeus e Chton non avevano ancora oppositori. Ma l’anima sente anche che essa dapprima non può sapere nulla di questa sua origine. Poiché essa si vede in mezzo al mondo in cui agiscono insieme le « buone Madri primordiali » ed Ofioneo. Essa si sente in un mondo dove il perfetto e l’imperfetto sono legati l’uno con l’altro. Ofioneo stesso è avvinghiato alla sua essenza.

 

Si percepisce il processo che si è svolto nelle anime di diverse personalità nel sesto secolo prima di Cristo, se si lasciano agire su di noi le impressioni sopra caratterizzate. Tali anime si sentivano congiunte nel mondo imperfetto con gli antichi esseri divino-mitici. Queste divinità appartenevano allo stesso mondo imperfetto cui appartenevano quelle anime. Da questa atmosfera nacque una lega spirituale come quella fondata da Pitagora di Samo, fra gli anni 540 e 500 a.C. a Crotone, nella Magna Grecia.

 

Pitagora voleva ricondurre i suoi seguaci alla percezione delle « buone Madri primordiali » in cui doveva essere rappresentata l’origine delle loro anime. Sotto questo aspetto, si può dire che Pitagora e i discepoli suoi volevano servire Dei « diversi » da quelli del popolo. E questo ha causato ciò che appare come una rottura tra spiriti come Pitagora ed il popolo. Quest’ultimo era soddisfatto dei suoi Dei; Pitagora invece doveva cacciarli nel regno dell’imperfezione. In questa rottura è anche da ricercare il « segreto » di cui si parla a proposito di Pitagora e che non doveva essere rivelato ai non-iniziati.

 

Consisteva nel fatto che egli doveva attribuire all’anima umana un’altra origine rispetto alle anime divine della religione popolare. A questo « segreto » si riferiscono gli innumerevoli attacchi subiti da Pitagora. Come avrebbe potuto egli spiegare ad altri che a discepoli preparati con molta cura a questa conoscenza, che essi « in quanto anime » potevano, in un certo modo, considerarsi superiori agli Dei popolari? E come tradurre nella prassi, se non in un gruppo retto da severe norme di vita, che le anime divenissero consapevoli della loro alta origine e si sentissero nondimeno immerse nell’imperfezione? Quest’ultimo sentimento doveva generare l’anelito a rendere la vita tale da ricondurla, mediante il perfezionamento di sé, all’origine. Si capisce che leggende e miti si siano creati intorno a quell’anelito di Pitagora. Ed anche che quasi nessun dato storico ci sia stato tramandato sul vero significato di questa personalità. Chi esamina però le leggende e le tradizioni dell’antichità su Pitagora potrà riconoscere l’immagine che ne abbiamo data.

 

Nell’immagine tracciata da Pitagora il pensiero odierno avverte ancora come un disturbo l’idea della cosiddetta « migrazione delle anime ». Sembra puerile che Pitagora abbia persino detto ch’egli sapeva di essere vissuto sulla terra in tempi precedenti, come un altro essere umano.

Si deve, a questo proposito, ricordare che il grande rappresentante dell’illuminismo moderno, Lessing, nella sua Educazione del genere umano, ispirato da un pensiero tutto diverso da quello di Pitagora, ha rinnovato questa idea delle ripetute esistenze terrestri dell’uomo.

 

Lessing poteva rappresentarsi il progresso dell’umanità solo per mezzo del fatto che le anime umane partecipano ripetutamente alla vita nelle epoche successive della terra. Un’anima porta come disposizione nella vita di un’epoca ulteriore, ciò che ha serbato delle sue esperienze in epoche precedenti. Secondo Lessing, è naturale che l’anima sia già stata spesso nel seno della terra, e ch’essa nel futuro vi torni spesso, e così di vita in vita raggiunga la massima perfezione per lei possibile. Egli richiama l’attenzione sul fatto, che questa idea delle molteplici esistenze terrestri non deve essere considerata come incredibile, perché essa esisteva già nei tempi più antichi, « poiché l’intelletto umano, prima di essere disperso e indebolito dalla sofistica della scuola, giunse subito a questa conclusione ».

 

Troviamo questa idea presso Pitagora. Ma sarebbe un errore credere che egli l’abbia adottata — come pure Ferecide, che l’antichità chiamava il suo maestro — perché egli, ragionando logicamente, abbia pensato che la via sopra indicata che l’anima umana deve percorrere per raggiungere la sua origine, non possa essere percorsa se non in ripetute esistenze terrestri. Attribuire a Pitagora un tale pensiero ragionato sarebbe misconoscerlo. Si parla dei suoi viaggi lontani e dei suoi incontri con saggi che serbavano le tradizioni dell’antica conoscenza umana. Chi osserva ciò che delle antichissime rappresentazioni umane ci fu tramandato, deve giungere alla conclusione che l’idea delle ripetute esistenze terrestri sia stata molto diffusa nell’antichità.

Pitagora si riallacciava alle dottrine primordiali dell’umanità. Le dottrine mitiche immaginative del suo ambiente gli saranno apparse come concezioni degenerate, derivanti da più antiche e migliori. Queste dottrine immaginative dovevano trasformarsi nella sua epoca in concezione del mondo fondata sul pensiero. Ma questa concezione del mondo non gli appariva che come una parte della vita dell’anima. Questa parte doveva essere approfondita, poi avrebbe guidato l’anima alla sua origine.

 

Ma, mentre l’anima penetra così dentro di sé, essa scopre nella sua esperienza intima le ripetute esistenze terrestri come una percezione animica. Essa non torna alle sue origini se non ritrova la via attraverso ripetute vite terrestri. Come un viandante che, per raggiungere un luogo distante, deve necessariamente attraversare altri luoghi, così l’anima che va dalle « Madri » deve ripassare per le vite precedenti, attraverso le quali essa è discesa dal suo essere nella « perfezione », alla vita attuale nella «imperfezione ».

Quando si osserva tutto ciò che si riferisce a questa dottrina non si può far a meno di attribuire a Pitagora l’idea delle ripetute vite terrene, come una sua percezione intima, non come un contenuto concettuale.

 

A proposito della setta di Pitagora, si nota come caratteristica l’opinione che tutte le cose siano basate sui « numeri ». Quando si enunzia ciò, occorre tenere presente il fatto che il pitagorismo si è tramandato anche dopo la morte di Pitagora fino a tempi ulteriori. Tra i discepoli più tardi di Pitagora vengono annoverati: Filolao, Archita ed altri. Di loro in particolare si sapeva nell’antichità che « essi avevano considerato le cose come numeri ». Ma pure se ciò non sembra possibile dal punto di vista storico, questa concezione può essere rintracciata fino a Pitagora. Si ha il diritto di presupporre ch’essa fosse anzi profondamente e organicamente radicata in tutto il suo modo di rappresentare le cose, e ch’essa abbia assunto una forma più esteriorizzata nei suoi successori.

 

Ci si rappresenti Pitagora contemplante in spirito la nascita della concezione del mondo a norma del pensiero. Egli vedeva come il pensiero avesse preso origine nell’anima dopo che questa, uscendo dalle « Madri primordiali », era discesa attraverso vite successive alla sua imperfezione. E in quanto sentiva ciò, egli non poteva risalire alle origini con il solo pensiero. Egli doveva cercare la conoscenza più eccelsa in una sfera, nella quale il pensiero non ha ancora nulla a che fare. Là scoprì una vita animica al di sopra del pensiero.

Come l’anima, nei suoni musicali, sperimenta rapporti numerici, così Pitagora si integrava in una comunione di vita animica con il mondo, che la ragione può esprimere in numeri; ma i numeri sono per l’esperienza solo ciò che le proporzioni di suoni scoperte dai fisici sono di fronte all’esperienza della musica.

 

Per Pitagora, il pensiero deve assumere il posto degli Dei mitici; ma tramite un approfondimento adeguato, l’anima che mediante il pensiero si è staccata dal mondo, si ritrova una con il mondo; essa si sperimenta come non separata dal mondo. Però questa unione non avviene nella regione in cui la convivenza con il mondo diventa una immagine mitica, ma in una regione dove l’anima vibra con le armonie cosmiche invisibili, impercettibili ai sensi e porta a coscienza in sé non ciò che essa vuole, ma ciò che le potenze cosmiche vogliono e fanno in lei divenire rappresentazione.

 

Scopriamo con Ferecide e Pitagora come la concezione del mondo secondo il pensiero tragga origine dall’anima umana. Nello svincolarsi dagli antichi modi di rappresentazione, queste personalità giungono ad un concetto interiore ed autonomo dell’« anima », alla distinzione della medesima dalla « natura » esterna.

 

Ciò che vi è di notevole in queste due personalità è lo svincolarsi dell’anima dalle antiche raffigurazioni immaginative. Questa attività presso gli altri pensatori, con i quali in genere comincia la descrizione dello sviluppo della concezione greca del mondo, si svolge più nel profondo dell’anima. Vengono nominati di solito Talete di Mileto (640-550 a.C.), Anassimandro (nato nel 610 a.C.), Anassimene (fiorente nell’anno 600 prima di Cristo) ed Eraclito (nato nel 500 prima di Cristo ad Efeso).

 

Chi concorda con le nostre esposizioni precedenti, riconoscerà una interpretazione di queste personalità che diverge dalle descrizioni storiche della filosofia. Fondamento di queste ultime è sempre il presupposto inespresso che queste personalità siano giunte attraverso un’osservazione imperfetta della natura alle opinioni che di essi ci sono state tramandate: che Talete abbia affermato che l’essenza fondamentale ed originale di ogni cosa vada cercata nell’« acqua », Anassimandro nell’« illimitato », Anassimene nell’« aria », Eraclito nel « fuoco ».

 

Con questo, non si pensa che tali personalità già vivessero nel processo della nascita della concezione del mondo basata sul pensiero; che esse sentissero ancor più di Ferecide, l’indipendenza dell’anima umana, ma che non avessero ancora terminato la completa e severa separazione dell’anima umana dall’azione della natura.

 

Sarebbe, per esempio, un errore se si spiegasse l’idea di Talete, pensando che egli abbia riflettuto come mercante, matematico, astronomo, sui fenomeni naturali e poi riassunto in maniera imperfetta, ma come un indagatore moderno, le sue conclusioni nella formula: « tutto nasce dall’acqua ». In quel tempo antico, essere un matematico, un astronomo, e così via, significava occuparsi praticamente di quelle discipline, proprio come l’operaio adopera mezzi tecnici, pur senza fondarsi su di una conoscenza di pensiero, scientifica.

 

Si deve invece presupporre che un uomo come Talete vivesse ancora i processi della natura esterna in modo analogo ai processi interni dell’anima. Ciò che gli si presentava come processo naturale nei fenomeni dell’acqua fluida — melmosa, modellatrice della terra — era lo stesso per lui di ciò ch’egli sperimentava interiormente nel suo essere animico-fisico.

In misura minore rispetto agli uomini dell’età anteriore, egli sperimentava — e tuttavia così egli sperimentava — l’azione dell’acqua in sé e nella natura, ed entrambe le azioni erano per lui una unica manifestazione di forze.

Si può anche accennare al fatto che un’epoca più recente vedeva ancora l’affinità dei fenomeni naturali esteriori con processi interiori, così che non si parlava di un’« anima » nel senso odierno della parola, cioè dell’anima separata dal corpo.

La teoria dei temperamenti ha conservato ancora un’eco di questa idea fino ai tempi della concezione del mondo basata sul pensiero.

• Il temperamento melanconico era chiamato tellurico,

• il flemmatico acqueo,       • il sanguinico aereo,       • il collerico igneo.

 

Non sono mere allegorie. Non si percepiva l’elemento animico come pienamente distinto. Si sperimentava in sé l’elemento animico-fisico come una unità, e in questa unità si sperimentava il flusso delle forze che, per esempio, agiscono in un’anima flemmatica, come le medesime forze nella natura agiscono attraverso le azioni dell’acqua. E queste attività esterne dell’acqua erano considerate identiche all’esperienza che viveva l’anima di chi aveva un’attitudine flemmatica. Le nostre abitudini di pensiero odierne devono adattarsi agli antichi modi di « pensare » se vogliono penetrare nella vita animica dei tempi passati.

 

E così si troverà nella concezione del mondo di Talete l’espressione di ciò che la sua vita animica, affine al temperamento flemmatico, gli fa sperimentare. Egli sperimentava in sé ciò che gli appariva come il mistero cosmico dell’acqua. Spesso viene attribuito al temperamento flemmatico un significato negativo. Ma se in molti casi ciò è giustificato, è vero tuttavia che il temperamento flemmatico, unito all’energia della rappresentazione, fa, mediante la sua tranquillità, la sua assenza di affetti e di passione, dell’uomo un saggio. Un tale carattere ha permesso a Talete di essere celebrato dai Greci come uno dei loro saggi.

 

Per Anassimene, l’immagine del mondo si è formata in un modo diverso, poiché egli era di temperamento sanguinico. È giunto fino a noi un suo detto che ci dimostra direttamente come egli vedesse nell’interiore sperimentare l’elemento dell’aria, l’espressione del segreto del mondo: « Come l’anima nostra, che è un soffio, ci tiene uniti, così l’aria ed il soffio avvolgono il tutto ».

 

Uno studio spregiudicato scoprirà che la concezione del mondo di Eraclito è l’espressione della sua vita interiore di collerico. Uno sguardo alla vita di questo pensatore ce ne darà una comprensione migliore. Egli apparteneva ad una delle più nobili stirpi di Efeso. Fu un avversario accanito del partito democratico. Divenne tale perché si convinse di certe concezioni, la cui verità gli si impose per diretta esperienza interiore. Le idee del suo ambiente, confrontate con le sue, gli parevano una dimostrazione naturale ed immediata della follia di questo stesso ambiente. Egli fu così travolto in lotte tanto ardenti che abbandonò la sua città natia e visse una vita solitaria presso il tempio di Artemide. Prendiamo questo aforisma tramandato fino a noi: « Sarebbe buono che tutti gli Efesini adulti s’impiccassero e lasciassero la loro città ai minori… » o quest’altro che dice degli uomini: « I pazzi nella loro incomprensione assomigliano, anche quando essi odono la verità, ai sordi. Essi sono assenti anche quando sono presenti ».

 

Una esperienza interiore che si esprime in questo modo collerico ha qualche affinità con l’azione divoratrice del fuoco, non vive quietamente e tranquillamente nell’essere, essa si sente una con l’« eterno divenire ». Per un’anima simile il riposo è un assurdo. « Tutto scorre », ecco l’aforisma celebre di Eraclito.

È solo apparenza, se da qualche parte compare un’esistenza immobile.

 

Esprimeremmo una sensazione eraclitiana dicendo: la pietra sembra un essere chiuso, permanente, ma questo è solo apparente. Nell’interno essa si muove con violenza, tutte le sue parti agiscono l’una contro l’altra. Il modo di pensare di Eraclito viene caratterizzato normalmente da questa frase: « Non ci si può tuffare due volte nel medesimo fiume, poiché la seconda volta l’acqua è già diversa ». E un discepolo di Eraclito, Cratilo, rincalza ancora l’aforisma, dicendo: « Non ci si può nemmeno tuffare una volta nel medesimo flutto ». È lo stesso per tutte le cose: mentre consideriamo ciò che sembra permanente, esso è già diventato un’altra cosa nel fiume dell’esistenza.

 

• Non si comprende una concezione del mondo nel suo significato pieno,

se si accoglie solo il suo contenuto di rappresentazione.

L’essenziale risiede nella disposizione che essa trasmette all’anima, nella forza vitale a cui essa dà nascita.

 

Occorre percepire come Eraclito si senta immerso con la sua anima nel fiume del divenire, come l’anima del mondo pulsi nella sua anima umana e le comunichi la propria vita, quando l’anima umana sa di vivere in essa; come da una tale comunione di vita con l’anima universale, nasca, nella mente di Eraclito, l’idea che ciò che vive ha mediante la corrente del divenire, la morte in sé, ma che la morte racchiude nuovamente in sé la vita.

Vita e morte sono nel nostro vivere e nel nostro morire.

 

Tutto contiene ogni altro elemento in sé; solo così il divenire eterno può inondare tutto. « Il mare è contemporaneamente l’acqua più pura e più impura che vi sia, potabile e benefica per i pesci, non potabile e nociva per gli uomini ». « La stessa cosa sono vita e morte, veglia e sonno, gioventù e vecchiaia; l’uno si trasforma nell’altro, e l’altro ridiventa il primo ». « Il bene e il male sono la stessa cosa ». « La via diritta e la via curva… sono la stessa cosa ».

 

Più libero nella vita interiore e più dedito all’elemento stesso del pensiero, ci appare Anassimandro. Egli vede l’origine delle cose in una specie di etere cosmico, un’essenza primordiale, indeterminata, senza forma, senza limiti. Se prendiamo lo Zeus di Ferecide e lo spogliamo di quanto egli ha ancora di immaginativo, avremo l’essere primordiale di Anassimandro: lo Zeus divenuto pensiero.

 

Con Anassimandro si presenta a noi una personalità, in cui dalla disposizione d’anima, che nei pensatori già ricordati era ancora colorata dal loro temperamento, nasce la vita del pensiero. Una tale personalità si sente unita con l’anima alla vita del pensiero e non così strettamente legata alla natura come l’anima che non provi ancora il pensiero come qualcosa d’indipendente. Essa si sente legata all’ordine cosmico che sta al di sopra dei fenomeni naturali.

 

Quando Anassimandro racconta che gli uomini, quali pesci, hanno vissuto prima nell’elemento umido e si sono poi evoluti attraverso forme di animali terrestri, questo significa per lui che il germe spirituale, quale l’uomo si riconosce attraverso il pensiero, ha attraversato stadi preliminari per assumere infine la forma che dall’origine gli era stata destinata.

 

Secondo l’ordine storico, dopo i pensatori già nominati, vengono: Senofane di Colofone (nato nel 570 prima di Cristo), e, molto affine a lui sul piano animico sebbene posteriore, Parmenide (che nel 460 era docente in Atene); Zenone d’Elea (che fiorì intorno al 500 prima di Cristo), Melisso di Samo (intorno al 450).

In questi filosofi la vita del pensiero è tale che essi richiedono una concezione del mondo, e la riconoscono come vera, solo se essa soddisfa pienamente la vita del pensiero. Come deve essere costituito il fondamento originario del mondo di modo ch’esso possa essere assimilato pienamente dal pensare: ecco il quesito che si pongono.

 

Senofane trova che le divinità popolari non possono preesistere al pensare, quindi le respinge. Il suo Dio deve essere pensato. Ciò che i sensi percepiscono è mutevole, è dotato di qualità che non corrispondono al pensiero che cerca l’elemento perenne. Per ciò Dio è l’eterna immutabile unità di tutte le cose, afferrabile con il pensiero.

 

Parmenide vede nella natura esterna, osservata dai sensi, l’irreale, che genera illusioni; solo nell’unità, nell’elemento imperituro che il pensiero può afferrare, risiede la verità.

 

Zenone cerca di spiegare l’esperienza del pensiero indicando le contraddizioni risultanti da quell’osservazione del mondo che intenda trovare la verità nel mutamento delle cose, nel divenire, nella molteplicità esteriore. Citiamo solo una delle contraddizioni cui egli accenna. Il più veloce corridore (Achille) non potrebbe raggiungere la tartaruga, poiché anche se essa si muove con la massima lentezza, quando Achille raggiunge il punto da essa occupato, essa sarà già un po’ più innanzi. Per mezzo di simili contraddizioni, Zenone dimostra come una rappresentazione che si attenga al mondo esterno non sia esatta; egli accenna alla difficoltà che incontra il pensiero quando si sforza di scoprire la verità. L’importanza di questa concezione del mondo, detta eleatica (Parmenide e Zenone sono di Elea), ci apparirà se consideriamo che i suoi sostenitori hanno sviluppato l’esperienza del pensiero fino a farne un’arte specifica, la cosiddetta dialettica.

 

In questa « arte del pensiero » l’anima impara a conoscersi nella sua indipendenza ed intima clausura. Con ciò la realtà dell’anima viene sentita come ciò che essa è nella sua essenza, non partecipando più, come ai tempi antichi, allo sperimentare universale del mondo, ma sviluppando in sé la vita — lo sperimentare del pensiero — che ha le sue radici nell’anima stessa e tramite la quale essa può sentirsi radicata in un sostrato puramente spirituale del mondo. In un primo momento questa sensazione non si esprime ancora in un pensiero distinto: ma può essere riconosciuta come vivente in questa epoca, dalla valutazione che se ne fa.

 

Secondo un « Dialogo » di Platone, Parmenide aveva detto al giovane Socrate ch’egli doveva imparare da Zenone l’arte del pensiero, altrimenti sarebbe sempre rimasto lontano dalla verità. Si sentiva la necessità di questa « arte del pensiero » per l’anima umana che vuole esplorare le profondità spirituali e primordiali dell’essere.

Chi non vede come nel progresso dell’evoluzione umana verso lo stadio dell’esperienza del pensiero, finissero — con l’inizio di questa vita — certe esperienze reali finora vissute e cioè le esperienze immaginative, vedrà il carattere particolare dei pensatori greci del sesto secolo avanti Cristo e dei secoli seguenti, sotto un’altra luce rispetto a quella in cui dobbiamo presentarlo nelle nostre dissertazioni.

 

Il pensiero circondò l’anima umana a un dipresso come un muro.

Prima, essa era immersa, secondo il suo sentire, nei fenomeni della natura; e ciò che essa sperimentava insieme a questi fenomeni, allo stesso modo di quello che essa sperimentava nell’attività del proprio corpo, le si presentava come l’apparizione di immagini pregne di vitalità.

Ora tutta questa varietà di immagini era spenta dalla forza del pensiero. Là dove prima si espandevano le immagini ricche di contenuto ora si estendeva per il mondo esteriore il pensiero. E l’anima poteva percepire se stessa, in ciò che si estende nel tempo e nello spazio, solo se unita (a questi oggetti) per mezzo del pensiero.

 

Si trova un simile atteggiamento animico in Anassagora di Clazomene nell’Asia Minore (nato nel 500 a.C.). Nella sua anima Anassagora si sente legato alla vita del pensiero, e questa vita abbraccia tutto ciò che si espande nel tempo e nello spazio. Così estesa, essa è il « noùs », la ragione cosmica.

Questa, in quanto essenza, permea la natura intera. La natura però si presenta come un aggregato di piccoli esseri, primordiali. I fenomeni che risultano dalla cooperazione di questi esseri primordiali, sono ciò che i sensi possono percepire, dopo che dalla natura sia scomparsa la raffigurazione per mezzo delle immagini. Questi esseri primordiali vengono chiamati « omoiomerie ».

L’anima umana avverte in se stessa la sua relazione con la ragione cosmica (col « noùs »), che avviene nel pensiero, nel recinto delle sue mura. Attraverso le finestre dei sensi, essa scorge ciò che la ragione cosmica opera per mezzo dell’azione reciproca delle « omoiomerie ».

 

Empedocle (nato nel 490 prima di Cristo, ad Agrigento) era una personalità nella cui anima si scontravano con violenza l’antico ed il nuovo modo di pensare. Egli sente ancora qualche cosa dell’intreccio dell’anima con l’esistenza esterna. Odio ed amore, antipatia e simpatia vivono nell’anima umana, ma anche fuori dalle mura che la circondano. La vita animica si espande ugualmente al di là dell’anima e appare nelle forze che separano e collegano gli elementi della natura esterna: aria, fuoco, acqua, terra, e determinano così quanto è percepito dai sensi del mondo esterno.

 

Empedocle sta di fronte ad una natura che in certo qual modo appare ai sensi disanimata e sviluppa una disposizione animica che protesta contro questa disanimazione. La sua anima non può credere che questa sia l’essenza vera della natura, ciò che il pensiero vuole fare di lei. Ancora meno può essa ammettere, a dire il vero, di essere con questa natura solo nel rapporto che risulta dalla concezione del mondo articolata sul pensiero. Ci si deve rappresentare ciò che avviene in un’anima lacerata da tale intimo dissidio, ciò che essa soffre per questo; e si percepirà a posteriori come in questa anima di Empedocle, l’antico modo di rappresentarsi il mondo risorga come forza del percepire, ma sia riluttante a portare ciò alla piena coscienza, e cerchi un’esistenza di tipo intellettuale-immaginativo, cosa di cui troviamo un’eco negli aforismi di Empedocle, che, intesi da questo punto di vista, perdono la loro stranezza. Viene riferito di lui questo detto: « Addio. Non più come un mortale, ma come un Dio immortale, io sto vagando, ed appena entro nelle città fiorenti, sono onorato dalle donne e dagli uomini. A migliaia essi mi seguono, cercando con me la via della salvezza, poiché aspettano da me predizioni, o formule salutari per guarire le loro malattie ».

 

Così si intorpidisce l’anima in cui vive ancora un vecchio modo di rappresentare, che le fa percepire l’esistenza propria come quella di un Dio in esilio, trasportato da un’altra sfera nel mondo disanimato dei sensi, e che per questo considera la terra come un « luogo insolito », in cui egli è capitato come per punizione. Si possono ancora avvertire altre percezioni nell’anima di Empedocle, poiché dai suoi detti lampeggiano sprazzi di sapienza. Il suo sentimento dinanzi alla « nascita della concezione del mondo articolata sul pensiero » è determinato da questa sua disposizione.

 

I pensatori che definiamo « atomisti » considerarono in un modo diverso da questa personalità ciò che la natura era diventata per l’anima umana in virtù dell’apparizione del pensiero. Il più eminente di questi filosofi è, secondo l’opinione ammessa, Democrito di Abdera (nato nel 460 prima di Cristo). Leucippo è una specie di suo precursore.

 

Le omoiomerie di Anassagora si sono ulteriormente materializzate nel sistema di Democrito. Per Anassagora, gli esseri primordiali frammentari si possono ancora assimilare a germi viventi, per Democrito essi sono particole morte ed indivisibili di materia che, mediante le loro combinazioni diverse, costituiscono gli oggetti del mondo esterno. Queste particole si separano, si aggregano, si combinano; tale è la genesi dei fenomeni della natura. L’intelletto universale (noùs) di Anassagora che come una coscienza spirituale (incorporea) genera, con uno scopo determinato, i fenomeni naturali dall’azione combinata delle omoiomerie, diventa, presso Democrito, una legge incosciente della natura (anànke). L’anima ammette solo ciò ch’essa può considerare come un risultato immediato del pensiero. La natura è completamente privata dell’anima; il pensiero impallidisce come esperienza animica, non è più che l’ombra interiore della natura disanimata.

 

Con Democrito appare già il prototipo concettuale di tutte quante le concezioni più o meno materialistiche del mondo che verranno fuori nei tempi successivi.

Il mondo degli atomi di Democrito rappresenta un mondo esterno, una natura, in cui non vive più nulla dell’« anima ». Le esperienze di pensiero nell’anima, la nascita delle quali ha attirato l’attenzione dell’anima umana su se stessa, sono, per Democrito, ombre di esperienze. Questo caratterizza una parte del destino delle esperienze di pensiero. Queste rendono l’anima umana consapevole della propria essenza, ma le dànno anche un sentimento d’incertezza riguardo a se stessa. L’anima, mediante il pensiero, si sperimenta in sé, ma nello stesso tempo si sente distaccata dalla potenza universale, spirituale, indipendente da essa, che le conferisce sicurezza ed appoggio interiore. E così sciolti nella loro anima si sentivano questi uomini, cui nella vita spirituale greca è stato dato il nome di sofisti. Il più eminente tra loro è Protagora (di Abdera, 480-410 prima di Cristo).

Accanto a lui sono da considerare: Gorgia, Crizia, Ippia, Trasimaco, Prodico.

 

Spesso i sofisti vengono rappresentati come gente che giocava superficialmente con il pensiero. Il modo in cui il poeta comico Aristofane li ha dipinti, ha contribuito molto a creare questa opinione. Vi sarebbe però da considerare, accanto ad altre ragioni che ci indurrebbero ad una maggiore stima, il fatto che lo stesso Socrate si sentiva entro certi limiti, discepolo di Prodico e lo giudicava come un uomo che aveva contribuito a rendere più nobili il linguaggio ed il pensiero dei suoi discepoli.

 

La visuale di Protagora si esprime nella celebre frase: « L’uomo è la misura di ogni cosa, delle cose esistenti, quali esse sono, delle cose inesistenti, quali esse non sono ». Nella disposizione di spirito che ispira queste parole, l’esperienza del pensiero si sente sovrana. Essa non vede un legame con una potenza universale oggettiva.

L’idea di Parmenide che i sensi trasmettano all’uomo un mondo di illusioni, potrebbe essere sviluppata ulteriormente aggiungendo: perché, allora, non potrebbe ingannarci anche il pensare, di cui noi pure facciamo l’esperienza?

Protagora però ci risponderebbe: che cosa importa all’uomo che il mondo fuori di lui sia diverso da come egli lo percepisce e lo pensa? Egli si rappresenta mai il mondo se non per se stesso? Ch’esso sia ciò che si vuole per un altro essere, l’uomo non deve preoccuparsene. Le sue raffigurazioni devono servire solo a lui; mediante il loro aiuto, egli deve cercare la sua via in questo mondo. Quando egli avrà le idee completamente chiare su se stesso, potrà non volere altre rappresentazioni se non quelle che possono essergli utili. Protagora vuole essere in grado di costruire sul pensiero, di appoggiarsi unicamente sulla sua potenza infallibile.

Con questo però Protagora si mette in certo modo in disaccordo con lo spirito che vive nelle profondità dell’ellenismo. Questo « spirito » è riconoscibile chiaramente nell’essere greco. Esso si esprime già nell’iscrizione del tempio delfico: « Conosci te stesso ». L’antica saggezza dell’oracolo parla come se essa contenesse l’esortazione a progredire nella concezione del mondo, che si compie attraverso il passaggio dalla raffigurazione immaginativa alla comprensione mediante pensiero dei segreti del mondo. Questa addita all’uomo la propria anima, e gli dice che in essa può essere intesa la lingua in cui il mondo esprime l’essenza sua.

 

Ma nello stesso tempo l’uomo viene confinato in qualche cosa che nel proprio sperimentare mette incertezze ed insicurezza. Gli spiriti greci dovevano vincere i pericoli di una vita animica così autonoma. Dovevano trasformare il pensiero nell’anima in una concezione del mondo. Con ciò i sofisti sono giunti in acque pericolose. Con loro, lo spirito greco si trova come di fronte ad un abisso, e vuole mantenere l’equilibrio mediante la propria forza.

Come abbiamo già detto, dovremmo considerare la serietà e l’audacia di questo sforzo, invece di accusarlo alla leggera, anche se l’accusa, per molti fra i sofisti, è certamente giustificata. Tuttavia questo tentativo segna un punto di svolta nella vita greca. Protagora visse dal 480 al 410 prima di Cristo. La guerra peloponnesiaca, che cade in questo punto cruciale della vita greca, durò dal 431 al 404.

 

Prima, in Grecia, l’individuo era strettamente prigioniero delle relazioni sociali; il bene pubblico e la tradizione gli davano la norma del suo agire e del suo pensare. La personalità individuale aveva valore e significato solo in relazione al tutto, onde non si poteva ancora porre il quesito: quale è il valore del singolo uomo? La sofistica formula questa domanda, compiendo così il passo decisivo verso l’illuminismo greco. Insomma, il problema è questo: come orienta l’uomo la sua vita, dopo esser divenuto cosciente della risvegliata vita del pensiero?

Da Ferecide (o Talete) fino ai sofisti si può osservare in Grecia, nell’evoluzione stessa della concezione del mondo, l’introduzione graduale sempre più distinta del pensiero, nato già prima di questi pensatori. Essi sono un esempio del modo in cui opera il pensiero quando è messo al servizio della concezione del mondo. Ma questa genesi potrebbe essere osservata anche in tutto l’ambito della vita greca.

 

La concezione del mondo è soltanto un terreno sul quale una manifestazione generale della vita si esaurisce in un caso speciale. Si potrebbero scoprire analoghe correnti di evoluzione nel regno dell’arte, della poesia, della vita pubblica, nei diversi rami dei mestieri e del commercio.

Questa osservazione ci farebbe constatare come l’attività umana si modifichi sotto l’influenza di quella organizzazione dell’uomo, che introduce il pensiero nella concezione del mondo.

 

La concezione del mondo non scopre il pensiero,

essa piuttosto nasce dal fatto che si serve della vita del pensiero ora sorta,

per costruirsi una immagine del mondo che prima si formava da altre esperienze.

 

Se si può dire dei sofisti che essi condussero lo spirito dell’ellenismo presso un abisso pericoloso, che si esprime nelle parole « Conosci te stesso », in Socrate dobbiamo vedere una personalità che portò ad espressione questo spirito con la massima perfezione. Socrate, nato intorno al 470 ad Atene, fu condannato a morire per veleno nel 400 a.C.

Socrate ci è stato presentato, dal punto di vista storico, da due tradizioni. La prima è il ritratto che il grande discepolo, Platone (427-347 a.C.), ha tracciato del maestro. Platone esprime in dialoghi la sua concezione del mondo. E Socrate appare in questi dialoghi come un docente. Egli è « il saggio », che conduce gli uomini che lo circondano, per mezzo della sua direzione spirituale, ad alti gradi di conoscenza.

 

Un’altra immagine è stata disegnata da Senofonte nei « Memorabili ». Di primo acchito sembra che Platone abbia idealizzato la figura di Socrate, e che Senofonte sia rimasto più fedele alla realtà immediata.

Uno studio più accurato scoprirà che Platone, come Senofonte, traccia di Socrate l’immagine ch’egli ha concepita secondo un suo punto di vista particolare, e che occorre esaminare in quale misura i due ritratti si completino e si rischiarino a vicenda.

Deve sembrare significativo il fatto che la concezione del mondo esposta da Socrate sia stata tramandata alla posterità come l’espressione completa della sua personalità, come la caratteristica fondamentale della sua vita spirituale.

 

Platone e Senofonte dipingono Socrate in tal modo che si ha l’impressione che dappertutto Socrate esprima la sua opinione personale; ma la sua personalità è cosciente di una cosa:

• chi esprime l’opinione personale nata dal fondo stesso dell’anima,

dice qualche cosa di più di una opinione umana,

egli dice qualcosa che è espressione delle intenzioni dell’ordinamento universale, mediante il pensare.

A quelli che credono di conoscerlo, Socrate appare come la prova di un fatto:

nell’anima umana viene realizzata, pensando, la verità,

quando questa anima è collegata con la sua essenza fondamentale, come nel caso di Socrate.

 

Mentre Platone contempla Socrate, egli non riferisce una dottrina che viene « confermata » dalla riflessione, egli fa parlare un uomo sviluppato nel giusto senso e osserva ciò che egli presenta come la verità.

Il modo in cui Platone si comporta con Socrate diventa l’espressione di ciò che l’uomo è in rapporto al mondo. Non solo ciò che Platone ha riferito di Socrate è importante, ma anche la maniera in cui egli ha introdotto, dal punto di vista letterario, Socrate nell’ambito della vita spirituale greca.

 

Con la nascita del pensiero, l’uomo viene orientato verso la sua « anima ».

Si pone allora la domanda: che cosa dice l’anima, quando tenta di parlare e di esprimere ciò che le forze universali hanno deposto in essa? E la risposta risulta dal modo in cui Platone sta dinanzi a Socrate: nell’anima la ragione universale dice all’uomo ciò ch’essa vuole dirgli. Con questo si giustifica la fiducia nelle rivelazioni dell’anima umana in quanto essa sviluppa in sé il pensiero. La figura di Socrate appare sotto il segno di questa fiducia.

 

Nei tempi antichi, il greco sottoponeva i problemi importanti della sua vita ai santuari sacerdotali; egli si faceva « predire » la volontà e l’intenzione delle potenze spirituali. Una tale istituzione era in armonia con uno sperimentare animico in immagini. Mediante l’immagine, l’uomo si sente collegato con l’azione delle potenze che reggono il mondo. L’oracolo è dunque l’istituzione, tramite la quale un uomo particolarmente dotato in questo senso, trova adito più facilmente di altri uomini alle potenze spirituali.

 

Finché con la propria anima non ci si sentiva distaccati dal mondo esterno, era naturale la sensazione che questo mondo esterno potesse esprimersi più completamente mediante una istituzione speciale che non nell’esperienza quotidiana. L’immagine veniva dal di fuori; perché il mondo esterno non avrebbe potuto esprimersi in luoghi speciali in modo particolarmente chiaro? Il pensiero parla all’intimo dell’anima. Quest’anima è così ripiegata su se stessa; essa non può sentirsi legata ad un’altra anima come lo era dalle rivelazioni degli oracoli sacerdotali. Bisognava dedicare la propria anima al pensiero… Si avvertiva che il pensiero è un bene comune a tutti gli uomini.

Nella vita del pensiero riluce la ragione del mondo senza particolari direttive.

 

Socrate sentì che nell’anima pensante vive la stessa forza che veniva ricercata nei santuari degli oracoli. Egli sentì in sé il « demone », la forza spirituale che conduce l’anima. Il pensiero ha reso l’anima cosciente di se stessa. Con la sua raffigurazione del demone parlante in lui, e che gli indicava, conducendolo sempre, ciò che doveva fare, Socrate voleva esprimere questa verità:

• l’anima che ha trovato se stessa nella vita del pensiero

ha il diritto di sentirsi in comunicazione, entro di sé, con la ragione del mondo.

Così si esprime la valutazione di ciò che l’anima possiede nello sperimentare il pensiero.

Sotto l’influenza di questo concetto, la « virtù » è messa in una luce speciale.

 

A norma della stima che Socrate accorda al pensiero,

egli deve presupporre che la vera virtù della vita umana si riveli alla vita del pensiero.

• La virtù genuina deve essere trovata nella vita del pensiero, perché questa vita conferisce all’uomo il suo valore.

« La virtù si può apprendere », così viene spesso formulato il sistema di Socrate.

Essa si può apprendere perché deve possederla chi afferra veramente la vita del pensiero.

 

È importante ciò che a questo proposito Senofonte dice di Socrate. Socrate insegna ad un discepolo ciò che è la virtù. Il dialogo si svolge così. Dice Socrate: « Credi ora che esista una dottrina ed una scienza della giustizia come esiste una scienza della grammatica? ». « Sì », risponde il discepolo. Socrate: «Chi credi sia più dotto in grammatica, chi di proposito non scrive e non legge correttamente, o chi lo fa senza proposito?». Il discepolo: « Penso che sia chi scrive scorrettamente di proposito, perché se egli volesse, potrebbe scrivere correttamente ». Socrate: « Non ti pare che quello che scrive scorrettamente con intenzione, capisca lo scrivere, e che l’altro non lo capisca?».

Il discepolo: « Certo ». Socrate: « Chi dunque capisce meglio che cosa sia la giustizia, chi mente o inganna con intenzione o chi lo fa senza intenzione? ». (Memorabili di Senofonte).

 

Si tratta per Socrate di spiegare al discepolo che è importante avere l’idea corretta della virtù. Anche ciò che Socrate dice della virtù, mira a corroborare la fiducia nell’anima che riconosce se stessa attraverso l’esperienza del pensiero. Si deve confidare nel retto concetto della virtù più che in tutti gli altri motivi. La virtù rende l’uomo stimabile quando egli la sperimenta nel pensiero.

Socrate così esprime ciò che i tempi presocratici tentavano di esprimere: la valutazione di ciò che la vita del pensiero, ora destata, conferisce all’anima umana. Il metodo didattico di Socrate è dominato da questa visuale.

 

Egli s’avvicina agli uomini presupponendo che in essi viva il pensiero,  che occorra solo destarlo.

Perciò egli formula le sue domande in modo che l’interlocutore sia spinto a destare la vita del pensiero.

Questo è l’essenziale del metodo socratico.

 

Platone, nato ad Atene nel 427 prima di Cristo, in quanto discepolo di Socrate, sentì la sua fede nella vita del pensiero rinsaldata dal maestro. Tutto ciò che la precedente evoluzione cercava di mettere in luce, raggiunge l’apogeo con Platone. E quest’apogeo è l’affermazione che nella vita del pensiero si rivela lo spirito universale.

 

Tutta la vita animica di Platone è illuminata da questa percezione.

Tutto ciò che l’uomo può percepire per via dei sensi o in un’altra maniera,

non ha valore finché l’anima non l’abbia posto sotto la luce del pensiero.

Per Platone la filosofia diventa la scienza delle idee come del vero essere.

E l’idea è rivelazione dello spirito universale, mediante la rivelazione nel pensiero.

La luce dello spirito universale risplende nell’anima umana, vi si rivela come idee;

e l’anima umana si unisce, nell’afferrare l’idea, alla potenza dello spirito del mondo.

Il mondo, esteso nello spazio e nel tempo, è come la massa dell’acqua marina,

in cui si rispecchiano le stelle; ma è reale solo ciò che si rispecchia come idea.

Per Platone, il mondo intero si trasforma nelle idee che agiscono l’una sull’altra reciprocamente. La loro azione nel mondo si produce per il fatto che le idee si rispecchiano nella « hyle », nella materia primordiale. Tramite questo riflesso si determina ciò che l’uomo vede frammentato in molti oggetti e fenomeni isolati. Ma non è necessario attribuire alla « hyle », alla materia originale, la conoscenza, perché la verità non risiede in essa. Si raggiunge la verità solo se si estrae dall’immagine del mondo tutto quanto non è idea.

Secondo Platone, l’anima umana vive nell’idea, ma la sua vita è organizzata in modo che non tutte le manifestazioni dell’anima sono la rivelazione della sua vita nelle idee. In quanto immersa nella vita delle idee, essa appare come « anima razionale » (psychè loghistichè). Tale l’anima appare quando si rivela a se stessa nel percepire il pensiero. Nella sua esistenza terrestre, essa non sarebbe in grado di rivelarsi solo in questo modo: essa deve anche comportarsi in modo da apparire come « anima irrazionale » (psychè àlogos).

E così essa si presenta sotto un doppio aspetto, come eccitatrice di coraggio e come anima appetitiva. Così Platone sembra distinguere nell’anima umana tre parti o membra, l’anima razionale, l’anima senziente (mutartige seele: eccitatrice di coraggio) e l’anima appetitiva.

 

Ma esprimeremo meglio lo spirito del suo sistema se diremo un po’ diversamente: l’anima è nella sua essenza un membro del mondo delle idee.

Come tale, essa è anima razionale. Essa però è attiva, e alla sua vita razionale aggiunge un’attività sensibile ed una appetitiva. In questi tre modi di manifestazione, essa è anima terrestre.

Come anima razionale, essa discende nell’esistenza terrestre attraverso la nascita fisica, e la morte la reintegra nel mondo delle idee. In quanto anima razionale, essa è immortale, poiché come tale vive l’esistenza eterna del mondo delle idee.

 

Questa dottrina platonica dell’anima appare come un fatto importante nell’epoca della percezione del pensiero. Il pensiero, ormai destato, indicò all’uomo l’anima.

In Platone si sviluppa una concezione dell’anima che è il risultato della percezione del pensiero. Il pensiero in Platone si fa più ardito: non solo indirizza verso l’anima, ma esprime che cosa essa sia e, in qualche misura, la descrive. E ciò che il pensiero ha da dire sull’anima, dà a questa la forza di sapersi nell’eterno.

Il pensiero illumina nell’anima perfino la natura di ciò che è temporale, in quanto esso espande la sua propria essenza al di là del temporale. L’anima percepisce il pensiero.

 

Così come si rivela nella vita terrestre, la pura forma del pensiero non può avere pieno sviluppo nell’anima. Ma donde proviene l’esperienza del pensiero se essa non può svilupparsi nella vita terrestre? È una reminiscenza di uno stato preterrestre, puramente spirituale. Il pensiero ha afferrato l’anima in modo tale, ch’esso non si appaghi della sola vita terrestre dell’anima stessa. È stato rivelato all’anima in una preesistenza nel mondo spirituale (mondo delle idee) e l’anima, durante la vita terrestre, ritorna a cercarlo, mediante il ricordo di quell’esistenza che essa ha vissuto nello spirito.

Da questa concezione dell’anima deriva ciò che Platone dice della vita morale.

L’anima è morale, quando essa dispone la sua vita in un modo che le consenta di affermarsi con la maggior forza possibile come anima razionale.

 

• La saggezza è la virtù che è generata dall’anima razionale, essa nobilita la vita dell’uomo!

• La fortezza appartiene all’anima « senziente »,

• la temperanza all’anima appetitiva.

Queste due ultime virtù nascono quando l’anima razionale domina le altre manifestazioni dell’anima.

• Quando tutte e tre le virtù operano armonicamente nell’uomo,

risulta ciò che Platone chiama giustizia, l’orientamento verso il bene, la dikaiosyne.

 

Il discepolo di Platone, Aristotele, (nato nel 384 a Stagira nella Tracia, morto nel 321 prima di Cristo), segna, accanto al suo maestro, un vertice del pensiero greco. Per lui l’introduzione del pensiero nella concezione del mondo è un fatto ormai compiuto e stabile. Il pensiero occupa il suo regno legittimo: comprende ormai da sé l’essenza ed i processi del mondo.

 

Platone dedica la sua esposizione ad intronizzare il pensiero nella sua signoria ed a condurlo fino al mondo delle idee. Per Aristotele, questo dominio è divenuto ovvio. Per lui si tratta di consolidarlo nel campo della conoscenza. Aristotele sa adoperare il pensiero come uno strumento atto a penetrare l’essenza delle cose.

 

• Per Platone, si tratta di superare l’oggetto o l’essenza del mondo esterno: quando essi sono superati, l’anima porta in sé l’idea, che ha soltanto adombrato l’essere esterno al quale è in fondo estranea e che sovrasta da un mondo spirituale della verità.

Aristotele vuole tuffarsi negli esseri e nei fenomeni, e ciò che l’anima scopre mediante questa penetrazione è, secondo lui, l’essenza della cosa stessa.

 

L’anima ha l’impressione di avere estratto questa essenza solo dall’oggetto e di averla ridotta in forma pensabile, in modo che essa possa portarla seco come un ricordo.

Così per Aristotele, le idee sono negli oggetti e nei fenomeni; esse sono una parte degli oggetti, quella che l’anima può trarre fuori coi suoi mezzi. L’altra parte, che l’anima non può estrarre dagli oggetti e per mezzo della quale questi hanno la loro esistenza propria, è la materia (hyle).

 

Il fatto che tutta la concezione del mondo di Platone sia illuminata dalla sua concezione dell’anima, vale anche per Aristotele. Di entrambi pensatori è possibile caratterizzare l’essenza fondamentale di tutta la loro concezione del mondo, se si fa riferimento alla loro concezione dell’anima. Certo, per i due filosofi, dovrebbero essere considerati dei particolari ai quali non possiamo accennare qui in queste dissertazioni, ma in entrambi la concezione dell’anima ci indica l’orientamento del loro modo di pensare.

Platone considera soprattutto ciò che vive nell’anima e come tale partecipa al mondo spirituale.

Per Aristotele è importante soprattutto come l’anima si presenta nell’uomo, per la conoscenza dell’uomo stesso.

 

Come negli altri oggetti, l’anima deve anche penetrare in se stessa

per scoprire in sé ciò che costituisce la sua essenza.

L’idea che, secondo Aristotele, l’uomo trova in un oggetto extra-animico, è realmente l’essenza dell’oggetto;

ma l’anima porta questa essenza nella forma dell’idea per possederla.

 

L’idea non ha la sua realtà nell’anima che conosce,

la sua realtà risiede nell’oggetto esterno con la sua materia (hyle).

Se però l’anima penetra in se stessa, essa trova l’idea in quanto tale nella realtà.

In questo senso l’anima è idea, ma idea attiva, essenza operante.

Ed essa si comporta anche nella vita umana come una tale essenza operante.

Essa afferra nella vita embrionale dell’uomo il corporeo.

 

Mentre in un oggetto extra-animico l’idea e la materia formano un’unità indissolubile,

il caso non è lo stesso per l’anima umana ed il suo corpo.

L’anima umana indipendente s’impadronisce del corporeo,annulla l’idea già attiva nel corpo e prende il suo posto.

Nel corporeo, cui si collega l’anima umana, secondo Aristotele, vive già un elemento animico.

Infatti egli vede operante anche nelle piante e nei corpi animali un elemento animico inferiore.

 

Un corpo che già racchiude in sé l’elemento animico delle piante e dell’animale è, in certo qual modo, fecondato dall’anima umana e così, per l’uomo terrestre, l’elemento corporeo-animico si combina con lo spirituale animico. Quest’ultimo sospende l’attività indipendente corporeo-animica durante il tempo della vita umano-terrestre e agisce con l’elemento corporeo-animico, come con il suo strumento.

 

Nascono così cinque manifestazioni dell’anima che ad Aristotele appaiono come cinque membra dell’anima stessa:

• l’anima vegetativa (threptikòn), sensitiva (aisthetikòn), • appetitiva (orektikòn),

volitiva (kinetikòn),spirituale (dianoetikòn).

 

L’uomo è anima spirituale per ciò che appartiene al mondo spirituale

e che si collega nella vita embrionale con l’elemento corporeo-animico;

le altre membra dell’anima nascono in quanto l’anima spirituale

si sviluppa nel corporeo e tramite questo vive la sua vita terrestre.

Lo sguardo sull’anima spirituale implica naturalmente per Aristotele uno sguardo sul mondo spirituale.

 

L’immagine aristotelica del mondo sta dinanzi a chi la studia, disposta in un modo tale, che

in basso vivono gli oggetti ed i fenomeni rappresentanti la materia e l’idea;

• più lo sguardo si volge verso l’alto, più sparisce tutto quanto può essere di carattere materiale e appare lo spirituale puro — che si presenta all’uomo come idea — la sfera dell’universo in cui il divino, inteso come spiritualità pura che muove tutto, ha il suo essere.

 

L’anima spirituale umana appartiene a questa sfera del mondo; essa non è un essere individuale, ma solo una parte dello spirito universale non ancora unitasi all’elemento corporeo-animico.

Mediante questo collegamento, essa acquista la sua esistenza individuale separata dallo spirito del mondo e continua, dopo la separazione dal corporeo, la sua vita in quanto essere spirituale. Così l’essenza individuale dell’anima comincia con la vita terrestre umana e vive poi eternamente.

 

Platone ammette la preesistenza dell’anima alla vita terrestre, Aristotele no.

Questo è tanto naturale per il pensatore che fa risiedere le idee negli oggetti, quanto l’altra idea è naturale per l’altro pensatore che ci mostra le idee sovrastanti l’oggetto.

 

Aristotele trova l’idea nell’oggetto, e l’anima raggiunge nel corpo

ciò che essa deve essere come individualità nel mondo dello spirito.

 

Aristotele è il pensatore che sviluppò il pensiero mediante il suo contatto con l’essenza del mondo, fino a farne una concezione del mondo. L’epoca precedente aveva condotto all’esperienza del pensiero.

Aristotele afferra i pensieri e li applica a ciò che trova nel mondo.

 

Il modo tutto naturale di vivere nel pensiero, proprio ad Aristotele, lo conduce a ricercare le leggi stesse della vita del pensiero, della logica. Una tale scienza poteva solo nascere dopo che il pensiero destato fosse pervenuto ad uno stadio di maturità e ad un rapporto armonioso con gli oggetti del mondo esterno, come s’incontrano presso Aristotele.

Accanto ad Aristotele, vengono annoverati i pensatori che l’antichità greca, anzi l’antichità intera, considerava come i suoi contemporanei e i suoi successori, personalità le quali appaiono di significato molto più circoscritto. Essi danno l’impressione che le loro facoltà non concedano loro di arrivare al grado d’intuizione raggiunto da Aristotele. Si ha la sensazione che essi si scostino da lui, perché debbono esporre vedute su cose che non comprendono altrettanto bene. Si potrebbero far derivare le loro vedute dalle loro deficienze, che li hanno indotti ad enunciare opinioni già confutate in sostanza da Aristotele.

Tale è l’impressione data dagli Stoici e dagli Epicurei. Ai primi, chiamati così dal portico (Stoà) di Atene, in cui facevano scuola, appartengono Zenone da Cizico (342-270 prima di Cristo), Cleante (nato nel 200 prima di Cristo), Crisippo (282-209) e altri. Essi colgono, nelle precedenti concezioni del mondo, dati che a loro sembrano razionali, ma cercano soprattutto, mediante lo studio del mondo, di sapere quale sia la posizione dell’uomo in esso. Vogliono poi determinare come sia da regolare la vita, affinché essa sia in armonia con l’ordine cosmico e l’uomo viva secondo tale ordine, in un modo conforme alla sua essenza. Dicono che l’uomo stordisce il suo essere naturale con la cupidigia, le passioni, i bisogni; tramite calma e assenza di bisogni sente meglio ciò ch’egli deve e può essere. L’ideale dell’uomo è « il saggio » che non obnubila con nessun vizio lo sviluppo interno dell’essenza umana.

 

Se fino ad Aristotele i pensatori sono soprattutto preoccupati di raggiungere quella conoscenza afferrabile dall’uomo che giunge alla piena coscienza della sua anima mediante la percezione del pensiero, gli stoici cominciano a chiedersi come debba agire l’uomo per manifestare nel miglior modo la sua essenza umana.

 

Epicuro (nato nel 342 a.C., morto nel 270) sistemò a modo suo gli elementi dati già dall’atomistica. Su questo fondamento egli edifica la sua dottrina della vita, che può essere considerata come una risposta alla domanda seguente: se l’anima umana sboccia dai processi del mondo, come un fiore, come deve vivere per mettere d’accordo la sua autonomia con il pensare razionale?

 

Epicuro poteva rispondere solo in un modo a questa domanda che riguarda la vita dell’anima tra la nascita e la morte; poiché con piena coerenza non se ne poteva ricavare un altro dalla concezione atomistica del mondo. Per tale concezione, il dolore costituisce un enigma nella vita tutto speciale, poiché il dolore è uno di quei fatti che spingono l’anima fuori dalla coscienza della sua unità con gli oggetti dell’universo. Si può considerare il movimento degli astri, la caduta della pioggia come venivano considerati nell’epoca primitiva, come un gesto della propria mano, cioè si può scorgere, in questi movimenti diversi, un elemento spirituale-animico unitario. Che certi fenomeni possano causare nell’uomo dolori, ed altri fuori di lui possano lasciarlo indifferente, questo fatto spinge l’anima a riconoscere la sua essenza particolare. Una dottrina della virtù che mira, come quella di Epicuro, a vivere in armonia con la ragione universale, deve naturalmente valutare soprattutto un ideale di vita che eviti il dolore, il dispiacere. Così tutto quanto mette il dolore da parte diventa sommo bene epicureo.

 

Questa concezione della vita ebbe in seguito molti seguaci, anche tra i Romani bramosi di cultura. Il poeta romano Tito Lucrezio Caro (95-52 prima di Cristo) la espresse in una forma perfetta, nel suo poema De rerum natura.

La percezione del pensiero conduce l’anima umana a riconoscere se stessa. Può anche accadere che l’anima si senta impotente ad approfondire la sua vita di pensiero in modo da trovare in essa un collegamento con i principi del mondo. Allora l’anima si sente strappata a questo collegamento per mezzo del pensiero; essa sente che la sua essenza risiede nel pensare; ma pure non trova nessuna via per scoprire nella vita del pensiero altra cosa che non l’affermazione di se stessa.

 

L’anima può solo rinunciare ad ogni vera conoscenza. Tale fu il caso di Pirrone (360-270 prima di Cristo) e dei suoi seguaci, la cui dottrina filosofica viene designata con il nome di scetticismo. Lo scetticismo, la concezione del mondo fondata sul dubbio, non riconosce alla vita del pensiero altra facoltà che quella di foggiarsi opinioni umane sul mondo. Hanno queste opinioni un valore per il mondo al di fuori dell’uomo? Su questo punto lo scetticismo non si pronuncia.

 

Nella serie dei pensatori greci è lecito vedere un quadro in un certo senso completo. Tuttavia sarà necessario ammettere che una tale concatenazione delle idee di personalità diverse abbia un carattere molto esteriore e, per più di un verso, di significato molto secondario, poiché l’essenziale rimane sempre lo studio delle singole personalità e la percezione del modo in cui in esse il carattere umano si manifesta in particolari casi. Però, nella serie dei pensatori greci, si può scorgere qualche cosa come la nascita, lo sviluppo e la vita del pensiero: nei pensatori presocratici una specie di preludio, in Socrate, Platone e Aristotele il vertice, e nel tempo che segue, una decadenza della vita del pensiero, una specie di scioglimento.

 

Chi osserva questo decorso può porsi il quesito seguente: l’esperienza del pensiero ha poi veramente la forza di conferire all’anima tutto ciò a cui l’ha condotta, avendole fatto raggiungere la piena coscienza di sé?

Per lo studioso spregiudicato, l’esperienza greca del pensiero racchiude un elemento che la fa apparire « perfetta » nel senso più alto della parola. È come se, nei pensatori greci, la forza del pensiero avesse elaborato tutto ciò che essa contiene in sé. Chi vuole giudicare altrimenti scoprirà, dopo uno studio accurato, che vi è un errore nascosto in qualche punto del suo giudizio. Più recenti concezioni del mondo hanno prodotto altri risultati tramite altre forze animiche; ma il vero contenuto pensante dei più recenti pensieri era già apparso presso l’uno o l’altro dei pensatori greci.

 

Tutto il pensabile e tutti i modi di dubitare intorno al pensare e alla conoscenza,

tutto ciò appare già nella cultura greca.

E nella rivelazione del pensiero l’anima coglie se stessa nella sua essenza.

 

Ma la vita intellettuale greca ha dimostrato all’anima di poterle conferire tutto quanto ha suscitato nel suo intimo? Di fronte a questo problema sta, come un’eco della vita del pensiero greco, la concezione del mondo che chiamiamo neo-platonica. Il suo rappresentante più eminente è Plotino (204-269 dopo Cristo).

Precursore di questa filosofia può essere detto Filone, che viveva in Alessandria all’inizio dell’èra nostra, poiché quest’ultimo non si avvale della forza creatrice del pensiero per costruire una concezione del mondo. Egli applica piuttosto il suo pensiero ad intendere la rivelazione dell’Antico Testamento. Egli espone allegoricamente in pensieri, ciò che era raccontato come fatti. I racconti dell’Antico Testamento diventano per lui simboli dei processi animici ai quali egli cerca di avvicinarsi con il pensiero.

Plotino non vede nella vita intellettiva dell’anima qualche cosa che abbraccia l’anima nella sua vita intera. Al di là della vita di pensiero vi deve essere un’altra vita dell’anima. Il pensiero formulato in concetti ricopre questa vita animica invece di scoprirla. L’anima deve superare l’essenza del pensiero, annullarlo in se stessa, per poi raggiungere un’esperienza che la ricolleghi all’essenza primitiva del mondo. Il pensiero porta l’anima a se stessa; essa deve riafferrare in sé qualcosa che la conduca fuori dal regno in cui il pensiero l’ha chiusa.

 

Una illuminazione che si produca nell’anima dopo che questa abbia abbandonato il terreno sul quale il pensiero l’aveva condotta, ecco ciò che Plotino mira a conseguire. Egli crede così d’innalzarsi fino ad un’essenza cosmica che non rientra più nella vita del pensiero, per questo per lui la ragione universale, alla quale si elevano Platone ed Aristotele, non è l’ultimo stadio che l’anima possa toccare, ma la creazione di un essere più eccelso, che abita al di là di ogni pensare. Da questo principio, al di sopra del pensiero, che non può essere paragonato a nulla che possa essere pensato, scaturisce tutto ciò che avviene nel mondo.

 

Fino a Plotino, il pensiero, quale esso poteva rivelarsi alla vita” spirituale greca, ha percorso il suo ciclo ed esaurito i rapporti in cui l’uomo può porsi con esso. E Plotino cerca altre fonti oltre quelle che si trovano nella rivelazione del pensiero. Egli esce dalla vita del pensiero che prosegue la sua evoluzione, e passa nel regno della mistica.

 

Sono qui fuori luogo dissertazioni sullo sviluppo della mistica pura: intendiamo solo esporre l’evoluzione del pensiero e ciò che ne risulta. Tuttavia troviamo in diversi momenti dell’evoluzione spirituale dell’umanità, più di un collegamento tra la concezione pensante del mondo e la mistica. Vediamo un tale collegamento presso Plotino. Nella sua vita dell’anima non è determinante solo il pensare. Egli ha un’esperienza animica che rivela un’esperienza interiore, senza presenza di pensieri nell’anima: un’esperienza mistica. In questa esperienza egli sente la sua anima unita al principio universale.

 

Ma il modo in cui Plotino rappresenta la connessione del mondo con questo principio, deve essere formulato in pensieri. Da ciò che è al di sopra del pensiero sono nati gli esseri dell’universo. Ciò che è al di sopra del pensiero è la cosa più perfetta. Ciò che ne deriva è meno perfetto. Così scendiamo fino al mondo visibile, il più imperfetto. In questo mondo si trova l’uomo. Mediante il perfezionamento della sua anima, egli deve spogliarsi di ciò che può dargli il mondo in cui egli dapprincipio si trova e scoprire così una via che faccia di lui un essere conforme all’origine perfetta.

 

Plotino si presenta a noi come una personalità che si sente nell’impossibilità di portare oltre la vita del pensiero greco. Egli non può più arrivare a nulla che, come ulteriore germoglio di una vivente concezione del mondo, sbocci dal pensiero stesso. Se consideriamo attentamente il significato dell’evoluzione della concezione del mondo, siamo autorizzati a dire: la rappresentazione immaginativa è diventata rappresentazione concettuale; in un modo analogo, questa deve trasformarsi in qualche altra cosa.

 

Ma, al tempo di Plotino, l’evoluzione della concezione del mondo non ha ancora raggiunto la maturità per un simile passo. Perciò Plotino abbandona il pensiero e cerca al di fuori di esso.

I pensieri greci, però, fecondati dalle sue esperienze mistiche, diventano idee di evoluzione che rappresentano il divenire del mondo come risultato di una gerarchia discendente di esseri imperfetti, nati da un essere sommamente perfetto.

 

Nel pensiero plotiniano continuano ad operare i concetti greci; ma essi non crescono ulteriormente come un organismo, sono invece afferrati dall’esperienza mistica e non si modellano secondo ciò che essi formano da sé, ma secondo qualche cosa foggiata da forze che stanno al di fuori del pensiero.

Seguaci e continuatori di questa concezione del mondo sono Ammonio Sacca (175-250 d.C.), Porfino (232-304 d.C.), Giamblico (che viveva nel quarto secolo dopo Cristo), Proclo (410-485 d.C.) ed altri.

Come in Plotino e nei suoi successori il pensiero greco, con sfumature platoniche, continua ad evolversi sotto l’influenza di un elemento al di fuori del concetto, così esso si evolve con colorito pitagorico con Nigidio Figulo, Apollonio di Tiana, Moderato da Gades ed altri.