La vita economica: associazioni per la creazione di valore e di prezzi. Sistema creditizio e tributario

O.O. 332a – Cultura, politica, economia – 25.10.1919


 

Sommario: L’idea della triarticolazione nasce da un fiuto istintivo per la realtà e funge da metodo. Si tratta di una triade: libertà individuale, solidarietà sociale e loro bilanciamento tramite l’uguaglianza democratica. La vita culturale diventa produttiva e pratica solo se viene amministrata indipendentemente dallo Stato e dall’economia. L’economia diviene produttiva e sociale solo se è indipendente dalla vita statale e giuridica. L’amministrazione politica è la morte dell’economia. Nell’era della tecnica e delle macchine l’iniziativa del singolo è indispensabile per l’economia. L’associazione è un cooperare in base ai talenti in vista di una produzione al servizio del consumatore. Nell’economia di denaro il soldo tiranneggia l’uomo. Il lavoro non è una merce, non può essere pagato. Nell’economia monetaria è il potere del denaro a determinare i prezzi. In un’associazione è il buonsenso sociale a determinare il valore reciproco di merci e servizi. È soprattutto la bravura umana, il talento, che merita “credito” (= fiducia). Le imposte sulle entrate inibiscono il talento, quelle sulle uscite lo favoriscono. Decisivo è il pensiero, la capacità di giudizio dell’individuo. La massa operaia cessa di essere una “massa” quando il singolo supera ogni tipo di fede nell’autorità.

 

Cari ascoltatori!

Dalle convinzioni sorte osservando i fatti dell’evoluzione sociale, come ho cercato di illustrare ieri, è nata l’idea che espongo nel mio libro I punti essenziali della questione sociale, l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale.

Questa idea della triarticolazione dell’organismo sociale intende essere un’idea di vita pratica, che non contiene nulla di utopistico. Per questo, il presupposto per comprendere il mio libro è di leggerlo con un certo intuito per i fatti reali, di non giudicarlo in base a teorie preconcette o a opinioni di partito.

Se quello che ho esposto ieri è giusto, e non dubito che lo sia, vale a dire che le realtà sociali, le condizioni di vita dell’uomo sono diventate gradualmente così complesse che è estremamente difficile averne uno sguardo d’insieme, per discutere su quel che oggi deve condurre all’azione è necessario allora un metodo ben preciso.

 

È fin troppo evidente che di fronte alla complessità dei fatti l’uomo abbia dapprima solo una certa capacità di comprendere i fenomeni economici all’interno degli ambienti in cui vive. Però ogni singolo fenomeno dipende dall’economia intera, oggi non solo da quella di un Paese, ma dall’economia mondiale.

Ecco allora che spesso il singolo individuo si troverà nell’ovvia e comprensibile situazione di voler valutare le necessità dell’economia in base alle esperienze del proprio ambiente ristretto, cosa che lo porterà naturalmente a commettere errori.

Chi ha familiarità con le esigenze di un pensiero aderente alla realtà sa anche quanto sia importante accostarsi ai fenomeni del mondo con un certo fiuto istintivo per la realtà, così da acquistare determinate conoscenze fondamentali che nella vita possono ricoprire un ruolo analogo a quello delle verità fondamentali degli assiomi in certe conoscenze scolastiche.

 

Vedete, se si volesse prima conoscere tutta la vita economica nei minimi particolari per poi trarre da lì delle conclusioni per il da farsi, non si finirebbe mai. Ma non si finirebbe mai neanche di conoscere tutti i particolari di tutti i casi in cui in ambito tecnico si applica il teorema di Pitagora, per poi dedurne la validità.

Si fa propria la verità del teorema di Pitagora da certe relazioni interne, e si sa che deve poi valere ovunque entri in gioco la sua applicazione.

Così, anche nella conoscenza del sociale si intuisce che certe idee fondamentali sono vere e valide in base alla loro stessa natura. E se si ha un fiuto per la realtà, le si troverà poi applicabili ovunque nella vita si presenti il caso.

Così il libro I punti essenziali della questione sociale andrebbe capito a partire dalla sua intima natura, dal carattere intrinseco delle condizioni sociali in esso descritte. Ed è così che in un primo tempo va intesa nel suo complesso anche l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale.

 

Ma in queste conferenze cercherò anche di mostrarvi come singoli fenomeni della vita sociale forniscano delle conferme a quanto è contenuto nell’idea della triarticolazione dell’organismo sociale che risulta dalle necessità di vita del momento attuale e del prossimo futuro dell’umanità: mostrerò in che modo emergono queste conferme e che cosa ne deriva.

In primo luogo però, cari ascoltatori, prima di passare all’argomento di oggi, devo presentarvi a titolo introduttivo e di pura informazione quella che è l’idea fondamentale di questa triarticolazione dell’organismo sociale.

 

Ieri ci è risultato che la nostra vita sociale deve far valere le proprie richieste a partire da tre radici fondamentali, in altre parole, che la questione sociale è triplice: è una questione culturale, una questione statale (giuridica o politica) ed una questione economica.

Chi esamini la recente evoluzione dell’umanità scoprirà, cari ascoltatori, che nel presente questi tre elementi della vita – la vita culturale, quella giuridica (statale o politica) e quella economica – sono confluiti a poco a poco a formare un’unità caotica e che da questa mistura sono nati i nostri attuali danni sociali.

Se ci si rende ben conto di questo – e queste conferenze vogliono fornire la base per una comprensione profonda –, si scopre che il futuro deve svolgersi in modo che la vita pubblica venga articolata

• in un’amministrazione autonoma della cultura, particolarmente dell’educazione e della pubblica istruzione,

• in un’amministrazione autonoma delle istituzioni politiche, statali e giuridiche e

• in un’amministrazione del tutto indipendente dell’economia.

 

Attualmente nei nostri Stati c’è un’unica amministrazione che comprende tutti e tre questi elementi della vita, e quando si parla di triarticolazione si viene subito fraintesi. La reazione tipica a questa proposta è: «Ma sì, adesso arriva uno che vuole un’amministrazione autonoma della vita culturale, di quella giuridica e di quella economica. Quindi vuole tre parlamenti, uno per la cultura, uno democratico-politico e uno per l’economia.»

Fare una simile richiesta significherebbe non aver capito niente dell’idea della triarticolazione dell’organismo sociale. Questa idea infatti vuol prendere assolutamente sul serio quelle esigenze che sono emerse storicamente nel corso della più recente evoluzione del genere umano.

 

E queste esigenze le possiamo esprimere con tre parole che sono già diventate degli slogan. Ma se andiamo oltre gli slogan per trovare la realtà, vediamo che queste tre parole contengono degli impulsi storici più che legittimi. Queste tre parole sono:

• l’anelito alla libertà della vita umana,

• l’aspirazione alla democrazia, all’uguaglianza, e

• l’impulso ad un’organizzazione solidale della collettività.

 

Ma, cari ascoltatori, se si prendono sul serio queste tre aspirazioni, non le si può ingarbugliare in un’unica amministrazione, perché allora l’una finirà inevitabilmente per ostacolare l’altra.

Chi, per esempio, prende sul serio l’appello alla democrazia, dovrà dirsi: questa democrazia può esplicarsi solo in una rappresentanza popolare o attraverso un referendum, solo se ogni singolo individuo di maggiore età viene messo sullo stesso piano di ogni altro maggiorenne e può decidere in base al suo giudizio riguardo a tutto ciò che può essere deciso democraticamente dalla capacità di giudizio di ogni individuo maggiorenne in quanto tale.

 

Così dice anche l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale: c’è un settore della vita – quello della vita giuridica, dello Stato, delle condizioni politiche – in cui ogni soggetto maggiorenne è chiamato ad esprimere il proprio parere in base alla sua coscienza democratica. Tuttavia, se si vuol far sul serio con la democrazia, non si può assolutamente includere in questa amministrazione democratica da un lato l’ambito culturale, e dall’altro la vita economica.

In questa amministrazione democratica un parlamento va benissimo, ma in un tale parlamento democratico non si potrà mai deliberare su ciò che deve avvenire nel campo della cultura, nel campo della pubblica istruzione e del sistema scolastico. Qui accenno solo brevemente a titolo introduttivo a quello che sarà l’argomento della quarta conferenza.

 

La triarticolazione dell’organismo sociale aspira ad una vita culturale autonoma, soprattutto per quanto riguarda le questioni pubbliche, l’istruzione e il sistema scolastico. Ciò significa che in futuro non dovrà essere qualche decreto statale a stabilire che cosa e in che modo insegnare, ma coloro che si occupano a livello pratico di insegnamento e di educazione dovranno essere anche gli amministratori della pubblica istruzione.

Questo vuol dire che, dal gradino più basso della scuola elementare al più alto livello di insegnamento, l’insegnante dev’essere indipendente da qualunque altro potere – statale o economico – per quanto riguarda il cosa e il come insegnare. Questo deve scaturire da ciò che viene ritenuto opportuno per la vita culturale all’interno della corporazione culturale autonoma stessa. E quindi, il tempo che il singolo dedica all’insegnamento deve essere tale da lasciargli anche il tempo di prender parte attivamente all’amministrazione dell’intero processo dell’istruzione e del sistema scolastico, nonché della vita culturale in genere.

 

Nella quarta conferenza cercherò di mostrare come, in base a questa autonomia della vita culturale, l’attività spirituale dell’uomo riceva un tutt’altro fondamento, come in tal modo possa avverarsi ciò che per via dei pregiudizi odierni si ritiene non possa verificarsi. Grazie a questa autonomia, la vita culturale acquisirà le forze necessarie per intervenire in maniera efficace e salutare nella vita statale e soprattutto in quella economica.

E a livello interiore, una vita culturale autonoma non fornirà della grigia teoria o delle opinioni scientifiche avulse dalla realtà, ma saprà anche intervenire direttamente nella vita umana, di modo che l’uomo, a partire da una vita culturale così indipendente, non sarà pervaso dalle solite idee astratte, ma avrà conoscenze che gli permetteranno di essere autonomo anche in fatto di economia. Proprio in virtù della sua autonomia, la vita culturale diventerà del tutto pratica.

E lo diventerà al punto che si potrà dire: nella vita culturale devono stare in primo piano la competenza e la sua applicazione, non ciò che proviene dal giudizio di un individuo maggiorenne in quanto tale. L’amministrazione della vita culturale va dunque affrancata dal parlamentarismo, e chi crede che anche lì debba comandare un parlamento democratico fraintende del tutto l’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale.

 

Un discorso analogo vale anche per la vita economica, anch’essa dotata di radici proprie e autonome. L’economia dev’essere amministrata secondo le sue specifiche condizioni. Anche qui non è possibile che ogni individuo in quanto maggiorenne decida democraticamente sul modo in cui dev’essere gestita l’economia, ma questo dovrà essere stabilito solo da chi vive e opera in un qualche settore dell’economia, da chi ha esperienza in un certo campo, da chi ne conosce le concatenazioni con altri ambiti economici.

Competenza e specializzazione sono i requisiti indispensabili per far sì che nella vita economica possa realizzarsi qualcosa di proficuo. Questa vita economica deve quindi svincolarsi dallo stato di diritto da una parte e dalla vita culturale dall’altra, per essere posta sulla base che le è propria.

Ed è proprio questo, cari ascoltatori, che oggi non viene capito neanche da chi ha convinzioni socialiste.

 

Questi individui dalle idee di sinistra pensano che basti che la vita economica assuma una certa forma per far sì che in futuro spariscano determinati danni di natura sociale. Si è visto, ed è facile vederlo, che l’ordinamento economico degli ultimi secoli fondato sul capitale privato ha prodotto certi danni. Questi danni sono evidenti.

Che giudizio si dà? Ci si dice: l’ordinamento economico del capitalismo ora in vigore ha prodotto dei danni. Questi danni svaniranno se elimineremo l’ordinamento economico del capitalismo privato, se lo sostituiremo con l’economia collettiva. I danni sorti derivano dal fatto che singoli proprietari hanno trasformato in proprietà privata i mezzi di produzione. Quando non ci saranno più singoli proprietari che trasformano i mezzi di produzione in proprietà privata, quando tali mezzi saranno amministrati dalla collettività, allora i danni spariranno.

 

A questo punto si può dire: anche chi ha opinioni socialiste si è procurato conoscenze parziali, ed è interessante il modo in cui queste conoscenze singole operano negli ambienti socialisti. Oggi si dice: «Sì, i mezzi di produzione dovrebbero essere amministrati collettivamente» – o il capitale, che in fondo rappresenta i mezzi di produzione. Però si è già anche visto a che cosa ha portato la statalizzazione di determinati mezzi di produzione, per esempio delle poste, delle ferrovie, e così via. E non si può affatto dire che i danni siano stati eliminati ora che lo Stato è diventato capitalista.

Dunque non serve statalizzare e neanche municipalizzare, non si può ottenere nulla di proficuo neppure fondando delle cooperative di consumo di cui fan parte le persone che hanno bisogno di determinati articoli. Coloro che vogliono regolare questo consumo e in base ad esso esercitare il controllo anche sulla produzione dei beni, diventano dei tiranni della produzione, ormai anche secondo l’opinione delle persone a orientamento socialista.

 

E così si è già fatta largo la consapevolezza che sia la statalizzazione che la municipalizzazione, come pure l’amministrazione mediante cooperative di consumo, portino alla tirannia dei consumatori. I produttori finirebbero per trovarsi in una situazione di dipendenza tirannica dai consumatori. Per questo taluni pensano che andrebbero fondate – come una specie di amministrazione collettiva – delle associazioni operaie di produzione, delle cooperative in cui gli operai potrebbero organizzarsi e produrre per se stessi, in base alle loro idee e ai loro principi.

E di nuovo, anche persone di tendenza socialista si sono accorte che in tal modo non si otterrebbe altro che la sostituzione di un singolo capitalista con un tot di operai che producono da capitalisti. Ma neppure questi operai che producono da capitalisti sarebbero in grado di fare qualcosa di diverso rispetto al singolo capitalista privato. Viene quindi respinta anche l’idea delle cooperative operaie di produzione.

 

Ma, cari ascoltatori, a tanti non basta vedere che queste singole associazioni non porteranno a nulla di fruttuoso in futuro. Tanti pensano che la collettività di tutto uno Stato, di un’intera area economica potrebbe diventare una grande cooperativa in cui tutti i soci siano nel contempo produttori e consumatori. Allora non è più il singolo individuo a produrre questo o quello di sua iniziativa per la comunità, ma sarebbe la collettività stessa a impartire le direttive sul come e cosa produrre, come distribuire i prodotti e così via. Sì, al posto dell’amministrazione privata della nostra moderna vita economica si vuole mettere un’enorme cooperativa che gestisca sia il consumo che la produzione.

Chi guardi a fondo nella realtà sa che in fin dei conti questo passaggio all’idea della cooperativa generale deriva semplicemente dal fatto che lì l’errore non viene visto così facilmente nei particolari come nella statalizzazione parziale: nella municipalizzazione, nelle cooperative operaie di produzione e nelle cooperative di consumo.

 

In queste ultime l’ambito di cui farsi un’idea è per così dire più ridotto. È più facile vedere gli errori che si commettono mentre si cerca di realizzare delle istituzioni di questo genere. La cooperativa statale, che abbraccia un’intera società, è invece grande. Si parla allora di quel che si vuol fare e non ci si accorge che dovranno necessariamente sorgere gli stessi errori – che nel piccolo si vedono subito ma nel grande no, poiché non si ha una visione d’insieme del tutto. Questo è il problema.

E bisogna riconoscere su cosa si basa l’errore fondamentale di questo modo di pensare – sul fatto che ci si muove a vele spiegate in direzione di un’enorme cooperativa che vuole amministrare da sola tutto il consumo e tutta la produzione.

Che tipo di pensiero è quello che vuole realizzare una cosa del genere?

 

Cari ascoltatori, che tipo di pensiero sia ce lo mostrano i numerosi programmi di partito del giorno d’oggi. Come si presentano questi programmi di partito? Ci si dice: «Allora, ci sono certi settori di produzione che vanno amministrati collettivamente. Questi, a loro volta, devono fondersi in settori più grandi, in campi amministrativi più vasti. Là ci dev’essere una sorta di centrale amministrativa che diriga il tutto, per poi arrivare ad un ufficio economico centrale che amministri tutto il consumo e tutta la produzione.»

A quali pensieri, a quali idee si ricorre quando si vuole organizzare in questo modo la vita economica? Si ricorre a quanto si è appreso nella vita politica, così come si è sviluppata nella recente storia dell’umanità.

 

Quelli che oggi parlano di programmi economici si sono formati perlopiù alla scuola della politica in quanto tale. Hanno preso parte a campagne elettorali, hanno esperienza di tutto ciò che si verifica quando si viene eletti per rappresentare in qualche parlamento quelli da cui si è stati votati. Hanno fatto esperienza di cosa avviene negli uffici amministrativi, sulle sedie dei politici, e così via. Hanno per così dire imparato la routine dell’amministrazione politica e vogliono applicarla alla vita economica. Ciò vuol dire che in base a tali programmi la vita economica dev’essere completamente politicizzata, poiché gli interessati conoscono solo l’amministrazione della politica.

Oggi è assolutamente necessario rendersi conto che questa prassi che si vuole imporre alla vita economica è qualcosa che le è assolutamente estraneo.

Eppure, la maggior parte di quelli che oggi parlano di riforme della vita economica o addirittura di una sua rivoluzione, sono tutto sommato dei puri e semplici politici che vivono nel pregiudizio secondo il quale ciò che hanno imparato in ambito politico vada bene anche per l’amministrazione dell’economia. Ma un risanamento del ciclo economico potrà aver luogo solo se l’economia viene studiata e gestita a partire dalle sue condizioni di vita specifiche.

 

Che cosa vogliono in fondo questi riformatori politicanti dell’economia? Niente di meno che, per prima cosa, in futuro sia questa gerarchia di uffici centrali a stabilire cosa dev’essere prodotto. In secondo luogo esigono che tutto il processo produttivo venga determinato dagli uffici amministrativi. E in terzo luogo vogliono che chi deve partecipare al processo produttivo venga eletto e messo al suo posto da questi stessi uffici centrali. Come quarta cosa poi chiedono che questi uffici centrali si occupino di distribuire le materie prime alle singole aziende.

L’intera produzione deve, in altre parole, essere subordinata ad una gerarchia di amministratori politici. È il succo della maggior parte delle idee di riforma economica del presente.

 

Non ci si rende conto che con una simile riforma si resterebbe al livello attuale e non si eliminerebbero i danni che, al contrario, crescerebbero a dismisura. Ci si rende conto che non funziona con la statalizzazione, con la municipalizzazione, con le cooperative di consumo o con quelle operaie di produzione. Ma non ci si rende conto che si finirebbe per trasferire nell’amministrazione collettiva dei mezzi di produzione proprio tutto quello che si critica così aspramente nel sistema del capitale privato.

È questo che va soprattutto capito al giorno d’oggi: che ovunque vengano introdotti tali provvedimenti e tali istituzioni sorgerebbe inevitabilmente quello che vediamo ben chiaramente realizzarsi nell’Europa dell’est.

 

Nell’est dell’Europa, cari ascoltatori, singoli individui sono stati in grado di realizzare queste idee di riforma economica, di metterle in pratica. Chi vuole imparare dai fatti potrebbe vedere nel destino a cui va incontro l’est come questi provvedimenti portino all’assurdo.

E se gli uomini non fossero fissati sui loro dogmi ma cominciassero a imparare dai fatti, non si direbbe che la socializzazione economica in Ungheria è fallita per questo o per quel motivo, ma si studierebbe il perché era per natura destinata al fallimento. Ci si renderebbe conto che ogni socializzazione di questo genere può solo portare distruzione, che non può produrre niente di proficuo per il futuro.

Ma ancor oggi ci sono ampie cerchie a cui risulta difficile imparare in questo modo dai fatti. Lo vediamo soprattutto nelle cose che spesso vengono citate solo fra parentesi dai pensatori socialisti. Costoro dicono: «Sì, è vero, tutta l’economia attuale è stata trasformata dalla tecnica moderna

 

Se volessero proseguire questo ragionamento, dovrebbero riconoscere lo stretto legame che c’è fra la tecnica moderna e la competenza, e la specializzazione. Dovrebbero capire che la tecnica moderna incide in modo determinante su ogni campo della vita economica stessa. Ma non vogliono vederlo.

E così dicono come fra parentesi di non volersi occupare dell’aspetto tecnico dei processi produttivi, che si possono lasciar perdere! Vogliono occuparsi solo del modo in cui gli uomini coinvolti nei processi di produzione sono inseriti a livello sociale, di come si conformi la vita sociale per gli individui coinvolti nei processi produttivi.

 

Ma, cari ascoltatori, è evidente, se solo lo si vuole vedere e capire, come la tecnica intervenga in modo diretto e decisivo nella vita economica. Basti fare un solo esempio, un esempio direi classico.

La tecnica moderna ha portato, mi esprimo per sommi capi, a produrre con le sue numerose macchine dei prodotti che servono al consumo. E queste macchine dipendono solo ed esclusivamente dal fatto che per l’attività economica sono stati estratti da quattrocento a cinquecento milioni di tonnellate di carbone nel periodo antecedente allo scoppio della guerra. Se ora si calcolano le energie economiche, le forze economiche impiegate dalla macchina, che viene costruita e gestita dal pensiero umano, emerge un risultato interessante:

Calcolando delle giornate lavorative di otto ore, emerge il curioso risultato che, mediante le macchine, cioè grazie i pensieri umani incorporati nelle macchine, grazie all’inventiva delle menti, viene prodotta tanta forza lavorativa quanta ne verrebbe generata da settecento o ottocento milioni di persone.

 

Se quindi pensate, cari ascoltatori, che la Terra ha oggi circa millecinquecento milioni di abitanti che impiegano la loro forza lavoro, allora grazie all’inventiva degli uomini della recente evoluzione culturale, grazie allo sviluppo tecnico, ne ha ottenuti settecento o ottocento milioni in più. Quindi ci sono duemila milioni di persone che lavorano. Questi settecento o ottocento milioni di “persone” in più non lavorano in effetti, sono le macchine a lavorare per loro. Ma che cosa lavora dentro le macchine? La mente umana!

È straordinariamente importante comprendere davvero questi fatti che potrei facilmente moltiplicare, perché da essi si riconoscerà che la tecnica non può essere lasciata tra parentesi, ma che è attivamente coinvolta nel processo economico, è diventata un tutt’uno con esso. Senza il fondamento della tecnica moderna, senza competenza e specializzazione dell’individuo, l’economia moderna è impensabile. Se si ignorano queste cose si fanno i conti non con la realtà, ma con idee preconcette, che scaturiscono dalle passioni umane.

 

L’idea della triarticolazione dell’organismo sociale prende sul serio la questione sociale, e proprio per questo non può andar d’accordo con quelli che parlano per slogan e programmi di partito. Sente invece il dovere di parlare in base ai fatti.

Per questo, ponendosi sul piano della realtà, deve riconoscere che, soprattutto nella nostra vita complessa di oggi, l’economia dipende in tutto e per tutto dall’iniziativa del singolo. Mettere la comunità astratta al posto dell’iniziativa del singolo significa annientare la vita economica, ucciderla.

L’Europa dell’est ne potrà dar prova se resterà ancora a lungo sotto l’attuale regime. Togliere al singolo l’iniziativa che deve partire dal suo spirito per fluire nel movimento dei mezzi di produzione in vista del bene della comunità umana, equivale ad annientare, ad uccidere la vita economica stessa.

Ma come si sono formati quelli che oggi consideriamo dei danni?

 

La recente evoluzione umana con la sua perfezione tecnologica ha fatto sì che il processo produttivo d’oggi richiede l’iniziativa del singolo, e quindi anche la possibilità che il singolo disponga del capitale per gestire di propria iniziativa il processo produttivo. E l’origine dei danni che hanno accompagnato questa recente evoluzione va ricercata altrove.

Se ne vogliamo scoprire l’origine, la prima cosa da fare è metterci sul piano del principio d’associazione anziché su quello di cooperativa, sia essa pure una grande cooperativa.

Che cosa vuol dire mettersi sul piano del principio d’associazione anziché su quello del principio di cooperativa? Vuol dire questo, cari ascoltatori:

Chi si pone sul piano del principio di cooperativa pensa che basti che gli uomini si mettano insieme e deliberino a partire dalla loro comunanza, per amministrare il processo produttivo. Si cerca prima l’associazione degli uomini, la loro cooperazione, e dopo si vuole produrre a partire da questa comunanza, dalla comunità delle persone.

 

L’idea dell’organismo triarticolato si pone sul piano della realtà e dice: per prima cosa devono esserci le persone in grado di produrre, persone competenti e specializzate. È da loro che deve dipendere il processo produttivo. E questi individui competenti e specializzati devono consociarsi per occuparsi della vita economica sulla base di una produzione che deriva dall’iniziativa del singolo.

In questo consiste il vero principio d’associazione: prima si produce, e ciò che viene prodotto sulla base della consociazione di persone dedite alla produzione viene portato al consumo.

In un certo senso, la disgrazia del nostro tempo consiste nel non capire la radicale differenza fra questi due principi, poiché in sostanza, cari ascoltatori, tutto dipende dal rendersi conto di questa differenza.

Non si è dotati di quell’istinto che fa capire che ogni comunità astratta finirà inevitabilmente per minare il processo produttivo qualora voglia amministrarlo. Il tipo di comunità che sorge in un’associazione, può arricchirsi solo di ciò che viene prodotto a partire dall’iniziativa del singolo per poi distribuirlo in spirito di solidarietà ai consumatori.

 

Oggi, per un motivo a cui ho già accennato ieri, non ci si rende conto del fatto importante che sta alla base di queste cose. Ho già detto ieri che, più o meno all’epoca in cui nella storia dell’umanità abbiamo avuto il Rinascimento e la Riforma, dall’America centrale e del sud sono arrivati i metalli preziosi i quali hanno contribuito alla trasformazione dell’economia naturale, che fino ad allora era in vigore, in economia monetaria.

Cari ascoltatori, in questo modo si è compiuta in Europa un’importante rivoluzione economica. Si sono create delle condizioni che vigono ancor oggi. Sopra queste condizioni si sono calati per così dire dei sipari che non consentono più di vedere le vere realtà.

Osserviamo con più attenzione queste condizioni. Partiamo dalla vecchia economia naturale, anche se oggi non è più in vigore.

 

Nel processo economico di baratto si ha a che fare unicamente con ciò che viene prodotto dal singolo. Questi lo può scambiare con il prodotto di un altro. È ben ovvio che all’interno di questa economia naturale, dove un prodotto può solo essere scambiato con un altro prodotto, deve regnare una certa affidabilità. Se si vuole ottenere in baratto un prodotto di cui si ha bisogno, bisogna averne uno da offrire che abbia per l’altro un valore corrispondente. Ciò significa che, se vogliono avere qualcosa, gli uomini sono costretti a produrre qualcosa, sono costretti a barattare qualcosa che abbia un valore reale, evidente.

Al posto di questo scambio di beni, dotati di valore reale per la vita umana, è subentrata l’economia monetaria. E il denaro è diventato qualcosa con cui si fanno scambi di tipo economico, proprio come si fa con gli oggetti reali nell’economia naturale. Bisogna solo tener presente che il denaro, essendo diventato un oggetto economico reale, simula all’uomo allo stesso tempo qualcosa di immaginario, di irreale, e così facendo tiranneggia gli esseri umani.

 

Cari ascoltatori, prendiamo un caso estremo: consideriamo il fatto che proprio l’economia creditizia, a cui ho fatto cenno ieri, alla fine faccia il suo ingresso nell’economia monetaria, cosa che negli ultimi tempi ha fatto diverse volte. Allora emerge, ad esempio, quanto segue.

Come Stato o come singolo si vuole realizzare un impianto, un impianto telegrafico o qualcosa di simile. Si può richiedere un credito per un ammontare cospicuo e si sarà cosi in grado di realizzare questo impianto telegrafico. Certi rapporti permetteranno di ottenere determinate somme di denaro, su cui però dovranno essere pagati degli interessi. Bisogna allora garantire questa corresponsione di interessi. E in molti casi che cosa succede all’interno della nostra struttura sociale, soprattutto nella statalizzazione, laddove è lo Stato stesso a gestire l’economia?

Succede che la cosa per cui si è usato il denaro in questione è stata realizzata, è stata prodotta, e il denaro è stato consumato, non esiste più – ma la gente continua a pagare il credito che era stato richiesto per la sua realizzazione. Questo significa che ciò per cui ci si è indebitati in chiave di credito non c’è più, ma si continua ad amministrare il denaro.

 

Queste cose hanno anche un risvolto economico a livello mondiale. A Napoleone III, che era tutt’altro che stupido in fatto di idee moderne, è venuto in mente di abbellire Parigi e ha fatto costruire moltissimo. I ministri, suoi docili satelliti, hanno costruito e costruito. Hanno avuto l’idea di usare le entrate dello Stato per pagare gli interessi. Così Parigi è diventata molto più bella, ma la popolazione sta ancora oggi pagando i debiti che sono stati fatti allora. Benché da tempo le cose non abbiano più un fondamento reale, si continua a fare affari sul denaro che è diventato a sua volta oggetto economico.

La faccenda ha anche il suo lato positivo. Nell’antica economia naturale, quando si commerciava era necessario produrre dei beni. Ovviamente questi beni erano soggetti a deterioramento, potevano deperire, e quindi si era costretti a continuare a lavorare, a produrre beni sempre nuovi, se questi erano necessari.

 

Con il denaro questo non è più necessario. Lo si dà via, lo si presta a qualcuno, e ci si mette al sicuro. Cioè, con il denaro si commercia in modo del tutto indipendente da quelli che producono i beni. In un certo senso il denaro, diventando esso stesso un fattore produttivo, emancipa l’uomo dal processo economico diretto.

È qualcosa di straordinariamente significativo, questo, poiché nella vecchia economia naturale il singolo dipendeva dal singolo, l’uomo aveva bisogno dell’uomo. Gli uomini dovevano cooperare, dovevano andare d’accordo, dovevano intendersi su determinati provvedimenti, altrimenti la vita economica non poteva andare avanti. Nell’economia monetaria, chi diventa capitalista dipende naturalmente da quelli che lavorano, ma per costoro egli è un perfetto estraneo – e loro per lui.

 

• Quant’era vicino il consumatore al produttore nella vecchia economia naturale, dove si aveva a che fare con dei beni reali!

• Quanto è distante chi fa economia di denaro da chi lavora perché questo denaro possa fruttare interessi!

Vengono scavati degli abissi fra gli uomini, i quali, nell’economia monetaria, non possono più essere vicini gli uni agli altri.

 

È la prima cosa da prendere in considerazione se si vuole trovare un modo per riavvicinare le masse dei lavoratori – sia intellettuali che fisici –, quelli che producono realmente, a coloro che con gli investimenti di capitali rendono possibile l’economia. Questo tuttavia può avvenire solo per mezzo del principio di associazione, cioè se gli uomini riprendono ad associarsi in quanto uomini. Il principio d’associazione è un’esigenza della vita sociale, ma un’esigenza quale l’ho descritta io, non come quella che appare nei programmi socialisti.

 

E che altro è subentrato proprio per via dell’economia monetaria che negli ultimi tempi sta crescendo a dismisura? Vedete, cari ascoltatori, in tal modo anche quello a cui si dà il nome di lavoro umano è diventato dipendente dal denaro.

I socialisti e gli altri litigano sull’inserimento del lavoro umano nella struttura sociale, ed è possibile trovare buone ragioni sia a favore che contro le opinioni sostenute tanto dagli uni quanto dagli altri.

 

Lo si capisce perfettamente soprattutto se si è imparato non a pensare e a sentire sulla classe operaia, ma a pensare e a sentire in sintonia con lei. Allora si capisce bene quando l’operaio dice che in futuro la sua forza lavoro non dovrà più essere una merce, che non dovrà più esistere la condizione per cui da un lato sul mercato delle merci si pagano i beni, e dall’altro, sul mercato del lavoro, il lavoro umano viene pagato sotto forma di salario. Non ci vuol molto per capirlo.

Ed è facile anche capire che Karl Marx ha trovato molti seguaci quando ha calcolato che chi lavora produce un plusvalore, che non ottiene i pieni proventi della sua forza lavorativa ma produce un plusvalore che viene intascato dall’imprenditore. Si capisce poi che l’operaio, sotto l’influsso di una simile teoria, lotta per questo plusvalore.

 

Ma dall’altra parte è altrettanto facile dimostrare che il salario viene pagato dal capitale, che la moderna vita economica viene regolata completamente dall’economia capitalistica, che certi prodotti fruttano qualcosa a livello di capitale ed è in base a questo che viene pagato il salario, che si compra il lavoro. Ciò significa che il salario viene prodotto dal capitale.

Si può dimostrare sia l’una che l’altra teoria. Si può dimostrare che il capitale è il parassita del lavoro e anche che il capitale è il creatore del salario. In poche parole, è possibile sostenere le opinioni di partito dell’una o dell’altra parte a pari ragione. Bisognerebbe capirlo fino in fondo, allora si capirebbe anche che attualmente si cerca di raggiungere qualcosa solo con la lotta di classe e non per mezzo di un’analisi e di una spiegazione oggettive della situazione.

Il lavoro umano è qualcosa di talmente diverso dalle merci che è del tutto impossibile pagare allo stesso modo la merce e il lavoro senza produrre danni economici.

 

Solo che gli uomini non si accorgono di come stanno le cose; proprio in quest’ambito oggi non afferrano ancora la natura dell’economia. Sono molti gli economisti che sanno fin troppo bene: se si aumenta in un modo qualsiasi la liquidità dei mezzi monetari, il denaro in circolazione, cioè le monete metalliche o la cartamoneta, il denaro costerà di meno e i beni di prima necessità diventeranno più cari. È una cosa che si capisce subito, ci si rende conto dell’assurdità del semplice aumento della quantità del denaro in circolazione che, lo si può toccar con mano, non provoca nient’altro che un aumento dei prezzi dei generi alimentari. La famosa spirale continua a salire senza mai fermarsi.

 

Ma c’è qualcos’altro di cui invece non ci si rende conto. Non si capisce che nel momento in cui il lavoro viene pagato come merce, come si pagano i prodotti, è ovvio che i lavoratori lotteranno per ottenere una rimunerazione sempre migliore. Ma quello che il lavoratore ottiene sotto forma di retribuzione in denaro, cari ascoltatori, ha sulla formazione dei prezzi lo stesso effetto del semplice aumento della quantità di denaro in circolazione. È di questo che ci si dovrebbe rendere conto.

Invece di aumentare la produzione, invece di fare in modo che la produzione diventi più redditizia, potete, come hanno fatto alcuni ministri delle finanze, limitarvi ad introdurre banconote, ad aumentare la quantità di denaro in circolazione. Allora la gente avrà più liquidità di denaro, ma tutti i prodotti, soprattutto i generi di prima necessità, diventeranno più cari. Di questo gli uomini si rendono già conto, per questo capiscono quanto sia assurdo aumentare solo a livello astratto la quantità di denaro in circolazione.

 

Ma non ci si accorge che tutto il denaro messo in circolazione solo per pagare il lavoro produce non meno un rincaro dei beni. È infatti solo in una vita economica indipendente dallo Stato che possono formarsi dei prezzi sani. È possibile che si formino dei prezzi sani solo se vengono sviluppati in base al libero apprezzamento della prestazione umana.

Per questo l’idea della triarticolazione sociale – e domani sarà nostro compito spiegare esaurientemente come – tende ad emancipare completamente il lavoro dal processo economico.

Il lavoro in quanto tale, cari ascoltatori, non è qualcosa che fa parte del processo economico. Pensateci bene – sembra strano, paradossale dire queste cose, ma al giorno d’oggi molte cose che devono essere comprese si presentano come paradossali. Gli uomini si sono allontanati di parecchio da un pensiero lineare, per questo trovano del tutto assurde certe cose che devono essere dette proprio a partire dai capisaldi della realtà.

 

Supponete che uno faccia dello sport da mattina a sera, che pratichi un tipo di sport. Costui impiega forza lavoro esattamente come uno che spacca la legna. Esattamente allo stesso modo, solo che uno la impiega per la collettività umana.

Chi pratica uno sport non lo fa direttamente per la collettività, magari lo fa indirettamente in quanto diventa più forte, ma di solito non mette il suo potenziale di energia al servizio della collettività. Per la comunità non è di nessuna importanza il fatto che impieghi energia lavorativa facendo dello sport, che lo fa stancare come a spaccar legna. Lo spaccar legna sì che ha importanza in campo economico.

 

Questo significa che l’esplicare forza lavoro è qualcosa che in sé e per sé non viene affatto preso in considerazione a livello economico. Ma quello che si produce grazie all’impiego della forza lavoro, quello sì che viene preso in considerazione nella vita economico-sociale. Bisogna guardare a quello che per mezzo della forza lavoro viene prodotto, poiché è quello che ha valore per la collettività.

Perciò anche all’interno della vita economica può essere preso in considerazione soltanto il prodotto realizzato mediante la forza lavoro. E l’amministrazione dell’economia deve occuparsi esclusivamente del valore reciproco dei vari prodotti.

 

Il lavoro deve restare completamente fuori dal circuito economico. Ha il suo giusto posto sul terreno giuridico, sul terreno di cui parleremo domani, dove ogni individuo maggiorenne deve esprimere il suo giudizio da pari a pari rispetto ad ogni altro individuo maggiorenne. Il genere, la durata e il carattere del lavoro vengono stabiliti dai rapporti giuridici che si stabiliscono fra gli uomini. Il lavoro va quindi tirato fuori dal processo economico.

Allora al processo economico resterà solo quella che possiamo definire la regolazione del valore reciproco delle merci, la regolamentazione di quali prestazioni uno debba ricevere in cambio della propria prestazione. A questo dovranno provvedere quegli uomini che emergono dalle associazioni stipulate fra produttori e altri produttori, fra produttori e consumatori e così via.

 

In economia si avrà dunque a che fare unicamente con la formazione dei prezzi. Il lavoro non sarà un fattore che viene regolamentato all’interno della vita economica, ma ne verrà invece del tutto estromesso.

Se il lavoro resta all’interno della vita economica bisogna pagarlo a partire dal capitale. In tal modo si origina proprio quello che nella vita economica più recente può essere definito l’anelito al puro profitto, al puro e semplice guadagno. In questo modo infatti chi vuole fornire prodotti economici è inserito nel bel mezzo di un processo che trova la propria conclusione nel mercato. E qui chi vuole davvero capire dovrebbe rivedere un’idea, un concetto che oggi viene formulato in modo del tutto sbagliato.

 

Si dice: il produttore capitalista immette i suoi prodotti sul mercato per trarne profitto. Vuole solo ricavarne un profitto. E dopo che per lungo tempo i pensatori socialisti hanno affermato con un certo diritto che l’etica nel suo insieme non ha niente a che vedere con questo trarre profitto, con questo “approfittare”, che con esso ha a che fare solo il pensiero economico, oggi si è di nuovo disposti a considerare il profitto, il guadagno, da un punto di vista etico e morale!

Io invece intendo parlare non da un’ottica etica, e nemmeno da una unilateralmente economica, ma dal punto di vista della società nel suo insieme. E allora bisogna chiedersi: che cos’è ciò che si manifesta nel guadagno, nel profitto? È qualcosa, cari ascoltatori, di cui nel contesto vero e proprio dell’economia si può parlare solo alla stregua del fatto che quando la colonnina di mercurio sale si sa che nella stanza fa più caldo.

 

Quando uno dice: questa colonnina di mercurio mi indica che la temperatura è aumentata, sa bene che non è la colonnina di mercurio a riscaldare la stanza. Essa indica solo che la temperatura del locale è aumentata per via di altri fattori. Così il guadagno che risulta sul mercato dalle nostre attuali condizioni produttive altro non è che l’indicatore del fatto che si è autorizzati a fabbricare quei prodotti, in quanto fruttano un utile.

Vorrei, infatti, che mi si dica dove mai al mondo si trovi un’indicazione che un prodotto ha diritto di essere fabbricato se non risulta che, una volta che lo si è prodotto e messo sul mercato, sortisce un profitto. È l’unica indicazione del fatto che la struttura economica va organizzata in modo tale che salti fuori questo prodotto. E così si capisce che un prodotto non va realizzato se risulta che, immettendolo sul mercato, non c’è smercio, nessuno lo richiede, non produce nessun guadagno.

 

Così stanno le cose, non secondo le chiacchiere e le ciance che parlano di domanda e offerta nelle teorie economiche. Il fenomeno originario, archetipico, in questo campo è che oggi solo e soltanto il cosiddetto profitto dà la possibilità di dirsi: puoi realizzare un certo prodotto, perché esso avrà un certo valore all’interno della comunità umana.

Cari ascoltatori, la necessaria trasformazione del mercato, oggi così importante, avrà luogo quando nella nostra vita sociale sarà presente un effettivo principio di associazione. Allora non saranno la domanda e l’offerta impersonali, staccate dall’uomo, a decidere sul mercato se un prodotto dev’essere fabbricato o meno. Saranno le associazioni, in base alla volontà sociale degli individui in esse coinvolti, a far emergere da sé altre persone che si occuperanno di analizzare il rapporto che c’è fra il valore di un bene prodotto e il suo prezzo in denaro.

 

Oggi, il valore di una merce che viene prodotta non viene per tanti versi neanche preso in considerazione. Esso costituisce sì l’impulso alla domanda, ma questa domanda è alquanto problematica nella nostra vita sociale attuale, perché c’è sempre da chiedersi se si hanno anche i mezzi, le possibilità patrimoniali per poter comprare. A che serve avere dei bisogni, se non si dispone dei mezzi necessari per soddisfarli? A quel punto la cosiddetta “domanda” tace.

Si deve creare un elemento di raccordo fra i beni da una parte e i bisogni umani che danno un valore a quei beni, a quei prodotti dall’altra Ciò di cui si ha bisogno riceve il suo valore umano in base al bisogno stesso. Dall’ordinamento sociale dovranno emergere delle istituzioni che creino un ponte tra il valore impresso ai prodotti dai reali bisogni umani e i prezzi che tali prodotti devono avere.

 

Oggi il prezzo viene dettato dal mercato in base alla presenza di persone in grado di acquistare questi beni, dotate cioè del denaro necessario per comprarli. Un vero ordinamento sociale dev’essere invece orientato a far sì che coloro che devono avere dei beni per via dei loro bisogni legittimi possano anche ottenerli. Ciò significa che il prezzo va assimilato al valore dei beni, che gli deve corrispondere realmente.

Al posto dell’odierno mercato caotico deve subentrare un’istituzione mediante la quale i bisogni degli uomini, il loro consumo, non vengano più tiranneggiati come accade ora per via delle cooperative operaie di produzione o della grande cooperativa socialista. L’associazione sarà un’istituzione che analizza il consumo degli uomini per stabilire di conseguenza come venirgli incontro.

 

Per questo è necessario che, sotto l’influsso del principio d’associazione, venga introdotta la possibilità reale di produrre le merci di modo che corrispondano ai bisogni rilevati. Questo vuol dire che ci devono essere istituzioni con persone che studiano i bisogni. La statistica può solo recepire un istante, uno spaccato del presente, non è mai indicativa per il futuro. I bisogni che sorgono di volta in volta vanno sempre di nuovo studiati, e le misure per la produzione vanno adottate di conseguenza.

Se un articolo tende a diventare troppo caro, questo è segno che troppo poche persone lavorano per produrlo. Vanno allora condotte delle trattative per trasferire degli operai da altri settori produttivi a questo, così che la produzione di questo articolo aumenti. Se invece un articolo tende a diventare troppo a buon mercato, se cioè se ne ricava troppo poco, allora bisogna introdurre delle trattative per far sì che a questo articolo lavorino meno persone.

 

Vuol dire che in futuro il soddisfacimento dei bisogni dipenderà dal modo in cui le persone vengono assegnate ai loro posti di lavoro. Il prezzo del prodotto è condizionato dal numero di persone che lavorano per realizzarlo, ma grazie ai provvedimenti delle associazioni diventerà sostanzialmente simile o uguale al valore che il bisogno umano reale deve attribuire al prodotto in questione.

Allora vediamo come al posto del mercato aleatorio subentrerà la ragione degli uomini, come il prezzo esprimerà ciò che gli uomini hanno negoziato, a seconda dei contratti conclusi mediante le istituzioni esistenti. Vediamo il mercato trasformarsi nel senso che la ragione umana prende il posto della cieca casualità del mercato oggi in vigore.

 

Non appena separiamo la vita economica dagli altri due ambiti di cui parleremo nei prossimi giorni, vediamo che essa viene posta su una base sana e ragionevole. I due campi sono quello giuridico o statale e quello culturale, che tratteremo anche in relazione alla vita economica, così che, ciò che oggi non può che risultare un po’ oscuro, verrà poi chiarito. In economia si guarderà solo al modo in cui si esplicano attività economiche.

Non è più necessario compromettere i prezzi delle merci per il fatto che questi prezzi devono anche stabilire la durata o la quantità di lavoro da svolgere o quanto questo lavoro dev’essere retribuito o cose del genere. Nella vita economica si ha a che fare solo con il valore reciproco delle merci. In questo modo ci si pone su un terreno sano anche nell’economia, terreno che va salvaguardato per l’intera vita economica.

 

In una vita economica di questo tipo ciò che oggi può essere un’illusione solo per via dell’economia monetaria in cui il denaro stesso è oggetto dell’economia sarà ricondotto al suo fondamento naturale, autentico. In futuro non si avrà più un’economia di denaro e in vista del denaro, poiché le istituzioni si occuperanno del valore reciproco delle merci.

Ciò significa che si ritornerà alla realtà naturale dei beni e quindi anche alla reale produttività degli uomini, alla loro bravura.

E non sarà più possibile far dipendere i rapporti di credito dalla presenza o meno di denaro, o dal fatto che il denaro venga “rischiato” in questo o in quel modo, ma i rapporti di credito dipenderanno dal fatto che ci siano uomini capaci di fare questo o quello, di realizzare questa o quella cosa. Sarà la bravura umana, sarà il talento dell’uomo ad avere credito. E nel momento in cui sono i talenti umani a stabilire i limiti entro i quali concedere credito, questo credito non potrà essere concesso oltre le capacità reali degli uomini.

 

Se vi limitate a dare denaro perché venga amministrato, allora ciò che viene così prodotto potrà essere consumato da un pezzo – il denaro continuerà ad essere amministrato. Se versate del denaro solo per il talento umano, allora col cessare della bravura umana cessa anche ciò che si può amministrare col denaro. Di questo parleremo nei prossimi giorni.

La vita economica può infatti procedere con le proprie gambe in modo sano solo se gli altri due campi indipendenti, l’ambito giuridico e quello culturale, stanno al suo fianco. Ma allora all’interno della vita economica tutto deve risultare da presupposti prettamente economici. I beni materiali vengono prodotti a partire da presupposti genuinamente economici.

Basta pensare a qualcosa che nella vita sociale rappresenta una specie di scarto della vita economica, per vedere come un pensare sanamente economico debba rimuovere alcuni aspetti di quello che ancor oggi viene dato per scontato nell’ordinamento sociale, per cui si lotta come se si trattasse di un progresso.

 

Carissimi ascoltatori! Oggi fra quelli che credono di capire qualcosa della vita reale non c’è ancora quasi nessuno che pensi che non rappresenta affatto un progresso aggiungere a tutte le possibili tasse indirette o agli altri introiti dello Stato la cosiddetta imposta sul reddito, in particolare l’imposta sul reddito crescente. Oggi tutti pensano che sia giusto tassare il reddito.

Eppure, cari ascoltatori, per quanto possa sembrare paradossale all’uomo d’oggi, l’idea che si possa raggiungere una tassazione equa tassando il reddito deriva dall’inganno prodotto dall’economia monetaria.

Il denaro viene incassato, lo si usa per fare scambi economici. Attraverso il denaro ci si libera dalla concretezza del processo produttivo stesso. In un certo senso, nel processo economico il denaro causa il medesimo tipo di astrazione che subiscono i pensieri nel processo conoscitivo.

 

Ma come dai pensieri astratti non si possono far saltar fuori per incanto delle realtà, così anche dal denaro non si può far comparire nulla di reale se esso non è un semplice simbolo dei beni che vengono realmente prodotti, se non è per così dire una specie di contabilità, una contabilità corrente, scorrevole, se ogni cifra monetaria non rappresenta un certo bene.

Anche di questo dovremo parlare più dettagliatamente nei prossimi giorni, ma oggi va detto che un’epoca che è fissata sul modo in cui il denaro diventa oggetto autonomo dell’economia deve necessariamente considerare le entrate monetarie come la cosa da tassare in prima linea.

 

Ma, cari ascoltatori, in questo modo, gravando di imposte, ci si rende corresponsabili dell’economia monetaria. Si tassa quello che in effetti non è un bene reale, ma solo un segno che indica un bene. Si lavora con qualcosa di economicamente astratto.

Il denaro diventa reale solo quando viene speso. In quel momento entra nel processo economico, e non importa se lo spendo per divertirmi o per soddisfare i miei bisogni fisici e intellettuali o se lo investo in banca così che possa essere usato per il processo economico. Anche quando lo investo in una banca faccio una specie di spesa, questa è naturalmente una cosa da tener presente.

 

Nel processo economico il denaro diventa qualcosa di reale nel momento in cui smette di essere di mia proprietà per immettersi nel processo economico stesso. Agli uomini basta ricordarsi di una sola cosa: non serve a niente incassare molto. Se uno mette il suo grande incasso sotto il materasso, se lo tenga pure, ma quel denaro non sarà di nessuna utilità per il processo economico. Un vantaggio lo si ha solo con la possibilità di spendere molto.

E per la vita pubblica, per la vita realmente produttiva, i molti incassi sono il segno della possibilità che si ha di spendere altrettanto. Se nel sistema tributario si vuole creare qualcosa di non parassitario per il processo economico, ma qualcosa che sia una vera dedizione del processo economico alla collettività, allora il capitale va tassato nel momento in cui viene immesso nel processo economico.

 

E allora, cari ascoltatori, emerge il fatto sorprendente che l’imposta sulle entrate dev’essere trasformata in un’imposta sulle uscite, che vi prego di non confondere con l’imposta indiretta.

Spesso al giorno d’oggi le imposte indirette emergono come brame di certi governanti solo per il fatto che di solito le tasse dirette, quelle sugli introiti, non bastano. Quando parlo di imposta sulle uscite, non intendo dire imposte indirette e neanche dirette. Si tratta del fatto che nel momento in cui ciò che ho acquistato viene immesso nel processo economico, nel momento in cui diventa produttivo, viene anche sottoposto a tassa.

 

Cari ascoltatori, proprio dall’esempio delle tasse si vede come sia necessario cambiare modo di pensare, come la convinzione che sia importante soprattutto un’imposta sulle entrate costituisca un fenomeno collaterale di quel sistema monetario che è sorto nella civiltà moderna a partire dal Rinascimento e dalla Riforma.

Se si mette la vita economica sulla sua base giusta, allora sarà ciò che realmente partecipa all’economia, ciò che si inserisce nel processo produttivo, a fornire gli strumenti per produrre ciò che è necessario per la collettività. Allora ciò che ci vuole è un’imposta sulle uscite, non sulle entrate.

 

Vedete, cari ascoltatori: come ho già detto ieri, occorre cambiare mentalità. Finora in queste due conferenze ho potuto solo accennare ad alcune cose per sommi capi, ma nelle prossime quattro molte cose troveranno una ulteriore spiegazione.

Chi oggi dice cose simili, sa bene di suscitare scalpore a sinistra e a destra, sa che all’inizio non ci sarà quasi nessuno a dargli ragione, poiché tutte queste questioni sono state inghiottite dalle opinioni di partito.

Ma non si può sperare in una qualche salvezza se prima queste questioni non riemergeranno dall’ambito in cui infuriano le passioni partitiche per far ritorno al campo del pensiero oggettivo, desunto dalla vita reale. E si vorrebbe che, nel loro accostarsi alla triarticolazione dell’organismo sociale, gli uomini non giudichino in base a schemi di partito, a principi di parte, ma che per emettere i loro giudizi si lascino ispirare dall’intuito per la realtà.

 

Per questo motivo si continua a fare l’esperienza che proprio coloro che oggi dipendono più o meno dal puro consumo capiscono in fondo istintivamente e con una certa facilità quello che vuole un’idea realistica come quella della triarticolazione dell’organismo sociale.

Ma poi arrivano i capi, soprattutto quelli delle masse socialiste. E oggi non si deve nascondere che questi capi delle masse socialiste non sono affatto propensi a tener conto della realtà. Oggi c’è purtroppo da notare una cosa che, soprattutto in ambito economico, fa parte degli elementi impellenti della questione sociale:

Lavorando per la triarticolazione, abbiamo fatto l’esperienza di parlare alle “masse” e che queste, grazie al loro innato intuito per la realtà, hanno capito bene quanto è stato detto. Poi sono venuti i capi e hanno decretato: «Questa è un’utopia». In verità era solo qualcosa che non quadrava con quello che da decenni rimestano nella loro testa, così dicono ai loro fedeli seguaci che si tratta di un’utopia, che non è realtà.

 

E purtroppo di questi tempi si è formata in questo campo una fede cieca, un andar dietro da pecoroni, un terribile senso di autorità, per cui bisogna dire: quello che un tempo è invalso come ossequio verso l’autorità dei vescovi e degli arcivescovi della Chiesa cattolica non è niente in confronto al senso d’autorità della moderna massa operaia nei confronti dei suoi capi. Perciò a questi corifei risulta così facile far passare quello che vogliono.

Quello che ci vuole è soprattutto di mostrare ciò che c’è di onesto in questo campo, non ciò che dice il cliché partitico. Se in queste conferenze dovessi riuscire a dimostrare che l’obiettivo della triarticolazione è davvero inteso per il bene complessivo dell’umanità, senza differenza di classe, stato sociale e così via, allora avrei ottenuto quello a cui, con conferenze di questo genere, si può solo aspirare.