La vita umana alla luce della scienza dello spirito

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 18.07.1924


 

In questo corso di conferenze vorrei dire, per cominciare, come la conoscenza dell’uomo possa fecondare l’arte pedagogica; e come ho già accennato nella conferenza d’introduzione, penserei di mostrare anzitutto come l’antroposofia possa diventare pratica mediante una conoscenza reale dell’uomo, non soltanto del fanciullo, ma di tutto l’uomo, come, appunto perché insegna a conoscere tutto l’uomo, vale a dire tutta la vita umana dalla nascita alla morte in quanto si svolge sulla terra, l’antroposofia possa anche additarci in modo giusto quanto è necessario per l’educazione e l’istruzione del fanciullo.

 

Si è portati spesso a credere che il fanciullo si possa educare ed istruire semplicemente osservando soltanto lo scorrere della vita nell’età infantile o giovanile. Ma ciò non è sufficiente. Come nella pianta, quando si inserisce nel germe qualche processo o sostanza, questo fatto si palesa in seguito nella formazione del fiore o nel frutto, così anche nella vita umana quanto si radica in essa nella prima infanzia e vien fatto sorgere dalla vita infantile si palesa talvolta soltanto nella più tarda età. Spesso ignoriamo che se, sulla cinquantina, l’uomo è soggetto a qualche malattia o infermità, la causa risale ad un’educazione o ad un’istruzione sbagliata, da lui subita intorno ai setto o agli otto anni. Oggi avviene che il fanciullo sia studiato — anche se non così esteriormente, come accennai ieri — per tentare di scoprire come si possa aiutarlo; ma ciò non basta.

 

Oggi vorrei perciò porre delle basi che ci siano di guida per osservare la vita umana tutta intera sulla scorta della scienza dello spirito.

Ho detto già ieri che l’uomo va osservato nella sua partizione in corpo, anima e spirito. In una conferenza pubblica tenuta ieri, ho fatto notare come soltanto il primo elemento soprasensibile dell’uomo, un uomo superiore nell’uomo stesso, sia l’elemento durevole che va da nascita a morte, mentre la parte esteriore fisica si rinnova incessantemente. Ora si tratta appunto di conoscere la vita umana in modo da vedere che sulla terra si svolge ciò che proviene dalla vita preterrena. Noi non abbiamo soltanto la parte animica che inizia con la nascita o con la concezione, ma portiamo in noi una parte animica preterrena; anzi, portiamo in noi i risultati di vite terrene da lungo tempo trascorse. Tutto ciò opera, vive ed agisce in noi; durante la vita terrena dobbiamo invece predisporre quello che poi passa attraverso la porta della morte e che, dopo la morte stessa, vivrà ancora, fuori nel mondo spirituale animico. Dobbiamo dunque comprendere come nella vita fisica agisca la parte soprasensibile, poiché essa esiste pure tra nascita e morte; solo essa lavora in modo nascosto nella parte corporea, e non si comprende affatto quest’ultima se non si considera attiva in essa la parte spirituale.

 

Cerchiamo ora di vedere con esempi concreti ciò cui ho accennato: quella concezione dell’uomo, cioè, che risulta dalle considerazioni pubblicate nella letteratura antroposofica, come per esempio nei miei libri Teosofia, La scienza occulta e L’iniziazione. Partiamo da una conoscenza dell’uomo vera e concreta, basata su quello che l’antroposofia in generale può far conoscere sull’uomo e sul mondo. Vorrei premettere due esempi, anche qui certamente già noti. Li premetto, perché lo studio delle due personalità, dalle quali vorrei prendere le mosse, mi occupò intensamente per molti anni. Scelgo ora due personalità geniali, ma parleremo poi anche di altre meno geniali. Questo ci mostrerà come l’antroposofia non si accontenti di discorsi astratti e generici, ma come essa sia in grado di occuparsi e di comprendere a fondo esseri umani concreti, in modo che la conoscenza dell’uomo si dimostri veramente inserita nella vita pratica. Scelgo quali esempi Goethe e Schiller e vorrei, attraverso di essi, mostrare come, dalla scienza dello spirito, risulti la conoscenza dell’uomo.

 

Osserviamo dapprima Goethe e Schiller esteriormente, nel corso della loro vita, ma rintracciando l’intera loro personalità. Goethe già entra nella vita in un modo singolare: nasce cioè completamente nero, bluastro. Con ciò egli palesa, a tutta prima, la sua estrema difficoltà di immergere la sua parte spirituale in quella fisica corporea. Quando poi Goethe ebbe preso possesso di questa sua scontrosa parte corporea fisica, ecco che vi s’immerge completamente. E’ quasi impensabile una natura più sana di Goethe ragazzo. Egli è incredibilmente sano, tanto sano che i suoi educatori incontrano parecchie difficoltà con lui. Ragazzi che non ci fanno tribolare affatto, di regola non risultano i più sani, con l’andare degli anni. Invece quei fanciulli che riescono alquanto scomodi per i loro educatori, più tardi, nella vita, sono i più utilizzabili, perché sono le nature maggiormente energiche. Perciò l’educatore ragionevole si compiacerà di quei fanciulli che tendono all’osservazione critica, anche nei suoi. Sguardi (in tedesco è detto letteralmente: « gli osservano le dita »). E a ciò Goethe aveva assoluta disposizione, sin dalla più tenera infanzia; tendenza che si esplicava per esempio nell’osservare l’abilità delle dita di chi gli insegnava il pianoforte e nel chiamare un dito « Pollicino », l’altro « Indicatore », eccetera. E non soltanto osservava i suoi educatori in questo aspetto esteriore, ma già fin da bambino era talmente sveglio che il compito degli educatori non era sempre facile. Più tardi subì a Lipsia una malattia grave. A questo proposito conviene pur dire che per trasformare una salute buona come la sua in una malattia tanto grave, come gli occorse a Lipsia, furono necessari strapazzi e sregolatezze. Goethe fu poi sano per tutta la sua vita e straordinariamente sensibile, tanto da lasciar agire intensamente su di sé ogni singolo avvenimento, senza per altro che il suo organismo ne venisse profondamente influenzato; egli cioè non si ammala subito di cuore sperimentando fatti sconvolgenti, pur sperimentandoli con impensabile acutezza d’animo. Così è durante l’intero corso della sua vita: Goethe soffre nell’anima, senza che questa sofferenza animica provochi subito in lui una malattia fisica. La sua salute è cioè straordinariamente salda.

 

E ancora; Goethe ci impone un modo di considerare le cose che non sfuma subito spiritualmente nel mistico col ripetere sempre: Ah, non conta, non conta niente tener d’occhio la figura fisica esteriore, è cosa volgare! bisogna considerare lo « spirito ». In un uomo sano come Goethe, spirito e fisico sono una cosa sola; lo spirito opera attraverso il fisico. Riconosce una personalità siffatta soltanto chi è capace di vedere lo spirito attraverso l’immagine fisica.

 

Quando era seduto, Goethe appariva alto; in piedi invece, si vedeva che aveva le gambe corte. Questa è una peculiarità importante, specie per chi consideri l’uomo nella sua unità. Perché mai Goethe aveva le gambe corte? Le gambe corte determinano una data andatura, ed egli infatti camminava a passi brevi, poggiando energicamente sul terreno a motivo del busto lungo e pesante. Quali educatori dobbiamo osservare queste cose per poterle studiare nei ragazzi. Che vuol dire se un uomo ha le gambe corte e il tronco molto grande? Vuol dire che, nella sua esteriorità, ci sta di fronte un uomo che, nella sua vita terrena attuale, in quella cioè che ora esaminiamo, può esprimere karmicamente in modo armonico ciò che egli visse in una precedente vita terrena.

 

In Goethe tutto era straordinariamente armonico, anche per il fatto che aveva potuto dar forma a tutto ciò che stava nel suo karma fino all’età più tarda. Egli raggiunse un’età così avanzata, per la ragione che potè realmente esternare tutto quello che in lui era predisposto karmicamente. In Goethe, che dopo aver abbandonato il suo corpo, aveva conservato appunto in esso una grande bellezza, tanto che tutti lo ammiravano da morto, si ha la seguente impressione: in questo caso si è veramente esplicato in pieno tutto quanto era predisposto karmicamente; nulla è rimasto, e Goethe dovrà ricominciare da principio, allorché riapparirà sulla terra in un’altra vita, in condizioni totalmente nuove. Tutto questo si esprime appunto in un corpo conformato così come lo aveva Goethe. Poiché la predisposizione che l’uomo porta seco da una vita terrena precedente, infatti, si manifestano innanzi tutto quali cause nella formazione del capo. E Goethe, fin da giovane, aveva quella stupenda testa apollinea che irradiava nella corporeità soltanto forze di armonia. Ma aveva pure il corpo caratterizzato dal peso del tronco sovrastante le gambe troppo corte, da cui gli derivava quell’incedere speciale che egli ebbe durante tutto il suo pellegrinaggio terreno. Tutto in quest’uomo fu premessa e poi compimento karmico, e sempre in mirabile armonia. Ogni particolare della vita di Goethe è proprio l’espressione di questo fatto.

 

In un uomo che così armonicamente si inserisce nella vita e diventa tanto vecchio, è immancabile che la parte mediana della vita terrena presenti degli avvenimenti di speciale risalto. Goethe nacque nel 1749 e morì nel 1832; raggiunse dunque l’età di circa 83 anni. La metà della sua vita è perciò a circa 41 anni, ossia nel 1790. Se prendiamo ora il perioda dal 1790 al 1800, abbiamo dunque il decennio che forma il centro della vita di Goethe. E nel decennio prima del 1800 Goethe visse effettivamente gli eventi più notevoli della sua vita. Prima di allora egli non potè arrivare a certe conclusioni su importanti concezioni della vita e delle scienze. La Metamorfosi delle piante appare soltanto nel 1790; e tutto ciò che vi si riallaccia avviene nel decennio dal 1790 al 1800. Nel 1790 Goethe aveva ancora concluso così poco del suo Faust, che lo pubblicò quale frammento, e non credeva affatto di venirne più a capo. Nello stesso decennio, sotto l’influsso dell’amicizia di Schiller, Goethe forma l’ardita idea di continuare il Faust. Nascono così le grandi scene, il prologo in cielo, eccetera. Come si è detto, in Goethe abbiamo a che fare con una vita eminentemente armonica, con una vita che trascorre in pace, che non viene turbata da nulla che sorga dall’intimo, ma che può abbandonarsi libera e pensosa al mondo esteriore.

 

Consideriamo invece la vita di Schiller. Fin dal principio egli si trova posto in una condizione di vita che palesa una disarmonia continua tra il suo elemento spirituale animico e quello fisico corporeo. La testa di Schiller non si presenta con una struttura armoniosa come quella di Goethe. In fondo egli è brutto; brutto, quantunque esprima pienezza di spirito. Ma nella sua fisionomia c’è anche un atteggiamento forte, personale, energico che si esprime specialmente nella formazione del naso. Schiller non è alto quando è seduto, ma ha delle gambe lunghe. Invece tutto ciò che sta fra la testa e le membra, dove risiedono cioè i centri della circolazione e del respiro, è in lui realmente ammalato, gracile fin dalla nascita; egli soffre di crampi per tutta la vita, dapprima a lunghi intervalli, poi quasi ininterrottamente. I suoi crampi divennero più tardi talmente forti che egli non poteva accettare inviti ad un pasto qualsiasi; per esempio capitò una volta a Berlino e chiese di essere invitato per una giornata intera al fine di poter scegliere il momento in cui egli fosse libero dai crampi. Tutto ciò proviene dal deficiente sviluppo dei sistemi circolatorio e respiratorio.

 

Qui nasce la domanda: che cosa proviene karmicamente da vite terrene precedenti, in un uomo che debba soffrire così gravemente di crampi? Allorché i crampi intervengono nella vita dell’uomo, sono un indice fortissimo del karma umano. Se si considera l’apparizione di crampi da un punto di vista spirituale, con un esame serio, responsabile e scientifico, si scopre immancabilmente che nel soggetto esaminato si ha un determinato karma, cioè risultati di fatti, pensieri e sentimenti che risalgono a vite terrene anteriori. Ora esaminando l’uomo, nella sua vita attuale, si presentano due possibilità: o tutto si svolge armoniosamente, come in Goethe, in modo da potersi dire che tutti i risultati karmici vengono a manifestarsi completamente, oppure può accadere anche diversa- mente, e cioè che condizioni speciali, intervenute durante la discesa dal mondo spirituale nel mondo terreno, mettano l’uomo in condizione di non poter sempre sviluppare a fondo ciò che karmicamente grava su di lui. L’uomo discende dal mondo spirituale portando in lui determinate premesse karmiche. Supponiamo che ad un certo punto della sua vita un uomo debba realizzare in un modo qualsiasi il proprio karma, ma che sopravvenga uh impedimento a rendere la cosa ineffettuabile. Allora costui sospende la realizzazione del proprio karma, e deve trascorrere un breve tempo durante il quale il suo karma resta sospeso; egli deve allora rimandarlo alla vita terrena seguente. Poi la sua vita continua. Viene quindi di nuovo un momento in cui egli dovrebbe realizzare una parte del suo karma, ma l’interruzione si replica, e di nuovo egli è costretto a rimandare alla prossima vita terrena una parte della realizzazione di esso. Ora, ogni qual volta sia necessaria una tale sospensione del proprio karma, si producono nella vita dei fenomeni convulsivi. Non si riesce a realizzare completamente nella propria vita qualche cosa che si porta nell’intimo. E’ appunto una caratteristica della scienza dello spirito di non vagare nel fantastico, di non parlare solo genericamente delle quattro parti costitutive dell’uomo: corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale ed io, ma di addentrarsi invece nella realtà della vita per indicare qualcosa nella vita fisica dove risiedono le reali cause spirituali di avvenimenti esteriori, in modo da sapere come l’uomo si estrinsechi nella vita esteriore. Questo deve poter fare una vera scienza dello spirito.

 

In proposito mi si presentò appunto il quesito: Come opera il karma, quale conformatore della vita intera, in una vita come quella di Schiller allorché esistono condizioni come le sue, per cui il suo karma non può agire, ed egli deve incessantemente ricorrere a degli sforzi per conseguire ciò che gli preme di raggiungere? In fondo Goethe ha una strada facile per realizzare le sue grandi creazioni poiché esse sono il risultato del suo karma. Schiller invece incontra sempre difficoltà per creare le sue opere mirabili; egli deve lottare contro il proprio karma, e il modo in cui lo fa verrà ad espressione soltanto nella vita terrena seguente. Mi si presentò dunque il quesito: Proprio una vita come quella di Schiller, in che rapporto sta con le condizioni generali della vita? Se dovessimo rispondere con leggerezza a una tale domanda, anche nella seria ricerca scientifica spirituale, non ne risulterebbe nulla di buono; qui non si possono arzigogolare giudizi, ma occorre osservare. Se poi ci si arresta al primo fenomeno considerato è anche facile che esso passi inosservato. Perciò io mi posi il quesito nel modo seguente: Come si svolge una vita, quando vi siano degli ostacoli al karma o ad altre condizioni preterrene?

 

Da questo punto di vista, studiai allora gli uomini osservando come il fenomeno si attui nella realtà, e qui voglio citare un esempio (potrei citarne molti, ma ora ne scelgo uno che posso descrivere con perfetta esattezza). Avevo un conoscente, personalità a me notissima nella sua attuale vita terrena, e potevo constatare come nella sua vita non ci fossero ostacoli allo svolgersi del suo karma; ce n’erano invece in relazione a quanto avviene nell’esistenza fra morte e rinascita, vale a dire in ciò che a questa personalità era occorso nella vita soprasensibile fra l’ultima vita terrena e la presente nella quale io la conoscevo. In questo caso non c’erano quindi, come invece in Schiller, ostacoli all’attuazione del karma; ce n’erano invece per un giusto inserimento nel corpo di quanto da lui vissuto fra la morte e la rinascita, ossia nel mondo soprasensibile. Lo si vedeva: quest’uomo ha sperimentato cose importanti fra morte e rinascita, ma non gli riesce di esternarle. Egli si era collocato in rapporti umani karmici, in un’epoca in cui non poteva esplicare ciò che egli, fra la morte e la concezione, aveva accumulato di intimo carattere animico. E come si manifestava fisicamente questa incapacità di esternare le qualità soprasensibili presenti in quest’uomo? Si palesava nel fatto di essere balbuziente, di avere dei difetti di pronuncia. Quando si approfondisce l’indagine e si esaminano le cause organiche animiche di difetti di pronuncia, si scopre sempre che esiste un impedimento a trasportare nel mondo fisico, mediante la corporeità, le esperienze vissute in quello soprasensibile fra morte e rinascita. Bisogna ora chiedersi: come si spiega il fenomeno di una tale personalità che, indubbiamente anche grazie al suo karma precedente, molto ha in sé, accumulato nell’esistenza fra morte e rinascita, ma non riesce ora ad esternarlo, mostrando quest’impossibilità nella balbuzie? In questa vita, quali cose sono connesse a una personalità siffatta?

 

Veniva fatto di dirsi continuamente: Quest’uomo ha in sé molte grandi cose, conquistate durante la vita prenatale, ma non può farle discendere. Egli potè benissimo far discendere quanto si manifesta nella conformazione del corpo fisico sino alla seconda dentizione; espresse pure in modo eccellente quanto avviene fra la seconda dentizione e la maturità sessuale; diventò quindi un artista, un letterato di vaglia, esprimendo e dando forma a quanto si può creare fino al trentesimo anno di età. Ma dopo – per chi sa acquistarsi una reale conoscenza dell’uomo – dopo nasce una preoccupazione intensa: che cosa avverrà di questa individualità una volta entrata nella trentina, quando dovrà sviluppare sempre più, oltre l’anima razionale, quella cosciente? Chi possiede cognizioni in questo campo è preso allora da estrema preoccupazione, poiché non può pensare che possa svilupparsi appieno l’anima cosciente, la cui formazione esige la perfezione di tutto quanto nasce nella testa. E che in quella persona, proprio nella testa, tutto non fosse normale lo mostrava la balbuzie! Esteriormente, se si eccettui la balbuzie, egli era sano come un pesce. Peraltro, che oltre la balbuzie non tutto fosse normale nel suo capo risultava anche dal fatto che egli era pure affetto da strabismo. Anche questo è un segno che non si può portare ad espressione, nell’attuale vita terrena, tutto ciò che si è accolto fra morte e nuova nascita, nel mondo soprasensibile. Un giorno costui venne da me dicendomi che aveva intenzione di farsi operare per lo strabismo. Non potevo che rispondergli che al suo posto io non Io avrei fatto. E feci di tutto per distoglierlo dal suo proposito. Quanto racconto risale a più di vent’anni or sono, ed io allora non vedevo le cose con l’esattezza con cui le vedo oggi; però quell’operazione mi preoccupava molto. Egli non mi diede retta e si fece operare ugualmente. Subito dopo l’operazione mi venne a trovare: l’operazione in sé – come spessissimo accade – era riuscita magnificamente, ed egli era pieno di gioia e mi disse: « Ora non sarò più strabico ! » Un tantino di vanità l’aveva, come avviene in molte personalità celebri! Io ero però profondamente preoccupato. Pochi giorni dopo egli moriva, appena compiuti i trent’anni!

I medici diagnosticarono il tifo, ma egli era morto di meningite e non di tifo.

 

Non è affatto necessario che l’investigatore dello spirito divenga insensibile quando studia una vita come questa! Anzi, la compartecipazione umana ne diviene maggiormente approfondita, ed egli intravvede in pari tempo la vita nelle sue grandi correlazioni. Si intravvede che quanto, delle esperienze vissute spiritualmente fra morte e nuova nascita, non si riesce a realizzare nella vita presente, viene ad espressione in deficienze corporee. Se allora l’educazione non interviene in modo giusto – e nel caso ora riferito non era stato possibile – non viene superato un determinato momento della vita. (Con questo non si deve però pensare che io sostenga che chiunque sia strabico debba morire a trent’anni – non ho mai inteso fare generalizzazioni a carattere negativo – perché infatti può sempre avvenire karmicamente qualcosa per cui uno strabico giunga a tarda vecchiaia.) Nel caso citato la testa era stata presa di mira, e questo si rivelava nella sua singolare organizzazione, nello strabismo e nella balbuzie, tanto da preoccupare: come farà quest’organizzazione a superare i trentacinque anni di vita? E’ questo infatti il momento della vita dal quale è giusto volgersi indietro a considerare il karma dell’uomo, e allora si vede che non è affatto necessario morire a trent’anni quando si sia strabici. Se cioè consideriamo un uomo che nella vita preterrena si sia preparato in modo da aver accolto molto fra morte e nuova nascita, ma che non riesca poi a trasportare ciò entro la vita fisica, osservando cioè il suo karma completo, constateremo che egli avrebbe potuto benissimo vivere oltre i trentacinque anni, ma sarebbe allora stato necessario che egli, oltre le altre sue caratteristiche, portasse in sé l’impulso a giungere ad una concezione spirituale della vita e del mondo. E l’uomo di cui parlo aveva rare disposizioni per la vita dello spirito; ma poiché i forti impulsi spirituali provenienti da anteriori vite terrene erano unilaterali, non poteva arrivare ad una concezione spirituale.

 

Posso assicurare di essere in grado di parlare di questo argomento. Ero molto amico di quest’uomo e sapevo dunque quale abisso ci fosse tra la mia concezione del mondo e la sua. Intellettualmente ci si poteva intendere benissimo, ed anche con una certa simpatica familiarità; ma era cosa impossibile avvicinargli alcunché di spirituale. E poiché a trentacinque anni egli avrebbe dovuto pervenire ad una vita spirituale per render possibile sulla terra quanto era predisposto in lui fino al suo trentacinquesimo anno di vita, non essendovi invece pervenuto, dovette morire. Si può cioè benissimo essere strabici e balbettare, e continuare a vivere. Dunque, se si vuole continuare a vivere come un uomo comune, naturalmente è possibile. Non bisogna spaventarsi di cose che una volta van pur dette, se non ci si vuole perdere in vuote frasi, ma prospettare delle realtà. Questo esempio mostri come uno sguardo spiritualmente acuto ci permetta di osservare la vita umana.

 

Ma ora ritorniamo a Schiller. Se consideriamo la sua vita, appaiono in essa due fenomeni molto notevoli. Di Schiller è rimasto un dramma incompiuto, un abbozzo: I Maltesi.

Da tale abbozzo si capisce che, se Schiller avesse voluto portare a compimento i suoi Maltesi, avrebbe potuto scrivere il dramma soltanto se fosse stato iniziato. Diversamente non sarebbe stato possibile. Schiller portava in sé, per lo meno fino ad un certo grado, le condizioni necessarie all’iniziazione. Ma quanto egli aveva in se stesso non poteva estrinsecarsi perché era ostacolato dal rimanente del suo karma; un crampo lo paralizzava anche animicamente. Questo carattere convulso appare già nell’abbozzo dei Maltesi; incontriamo periodi lunghi, grandiosi, che non giungono mai ad un punto fermo. Quello che vive in Schiller non può esplicarsi.

 

E’ interessante che anche di Goethe abbiamo abbozzi simili; ma in Goethe si vede che quando egli si ferma lo fa per pigrizia, ma che avrebbe potuto proseguire. Soltanto in tarda età, allorché già in lui vi era qualche sintomo di sclerosi, egli non avrebbe potuto proseguire. Schiller ci presenta invece un quadro differente: in lui, quando inizia l’abbozzo dei Maltesi, c’è la ferrea volontà di andare avanti; ma non può, non arriva che a una prima fugace stesura. I Maltesi, guardati nella loro realtà, contengono ciò che, dalle crociate in poi, era stato conservato di occulto, di mistico, di scienza iniziatica. E Schiller si accinge a scrivere un tale dramma per la cui stesura avrebbe dovuto realmente portare in sé esperienze iniziatiche; veramente un tale destino commuove chi vede dentro la cosa stessa e permette di guardare l’entità di quest’uomo! Da quando si seppe che Schiller pensava ad uno scritto come I Maltesi, in Germania aumentò straordinariamente il numero dei suoi avversari. Si ebbe timore di lui, si temette che nei suoi drammi potessero venir traditi molti dei segreti dell’occultismo.

 

Il secondo fenomeno del quale voglio parlare è il seguente: Schiller dunque non termina I Maltesi, non ne viene a capo. Egli lascia passare qualche tempo e lavora attorno a vari componimenti poetici, certo mirabili; tali che anche i conformisti sono in grado di ammirare. Se egli avesse potuto terminare I Maltesi, l’opera sarebbe stata di grande valore per uomini dotati di alta sensibilità spirituale! Ma egli è costretto a lasciarli riposare. Di lì a qualche tempo, riaffiora di nuovo in lui ciò che gli ha dato l’impulso per gli scritti successivi. Non può più riprendere I Maltesi, ma inizia il suo Demetrio: singolare problema il destino di questo falso Demetrio che è subentrato al posto di un altro. Tutti i conflitti del destino che sorgono come dalle cause più nascoste, con tutte le emozioni umane, avrebbero dovuto trovar posto in questo dramma, se esso fosse stato condotto a termine. Schiller vi lavora febbrilmente. Si viene a saperlo — e vi è chi ha una paura anche maggiore che egli palesi cose che a molti premerebbe restassero occultate all’umanità ancora per un poco.

 

Nella vita di Schiller avvengono ora fenomeni tali che chi è a cognizione di queste cose non può attribuirle soltanto ad una normale malattia. Schiller ci presenta un singolare quadro patologico. Succede cioè una cosa imponente; « imponente » non già come grandezza, ma nel senso che essa ci fa fremere. Schiller si ammala mentre compone il Demetrio e, malato, recita nel letto incessantemente, con febbre altissima, quasi per intero tutto il suo dramma. Opera in Schiller qualcosa che è quasi come una potenza estranea che si esprime attraverso il suo corpo. Si intende bene che non se ne fa carico a nessuno. Ma ad onta di tutto quel che se ne scrisse, non si può fare a meno di rilevare, dallo sviluppo complessivo della sua malattia, che qualcosa contribuì in qualche modo, anche se del tutto occulto, alla sua rapida morte. E che ci fosse chi poteva aver sentore che si era contribuito alla morte di Schiller, lo prova il fatto che Goethe – il quale non poteva farci nulla, ma sospettava molte cose – negli ultimi giorni di Schiller, e nemmeno dopo la sua morte, non osò manifestare quella partecipazione immediata e personale che egli veramente provava, secondo il suo cuore, per la dipartita di Schiller. Egli non osava esternare quanto portava in sé.

 

Con questo intendo soltanto far rilevare che, per chi sia in grado di vedere queste cose, Schiller era indubbiamente predestinato ad esprimere dal suo intimo cose altamente spirituali, ma che, per cause interiori ed esteriori, karmicamente interiori ed esteriori, ciò venne impedito, ricacciato indietro. Oserei dire che nulla presenta un così grande interesse per l’indagatore dello spirito che porsi il seguente problema: studiare cioè che cosa produsse Schiller negli ultimi dieci anni della sua vita, dalle Lettere estetiche in avanti, e proseguire poi ad esaminare come la sua vita sia decorsa dopo la morte. Se ci si approfondisce nell’anima di Schiller dopo la morte, si ricevono in abbondanza ispirazioni spirituali dal mondo spirituale. Qui sta il motivo per cui Schiller morì intorno ai quarantacinque anni: come dimostrano i suoi crampi, la sua costituzione, e segnatamente il suo capo brutto e mal formato, egli non poteva penetrare nella sua corporeità con la sua parte spirituale animica, profondamente inserita nell’esistenza spirituale.

 

Se riflettiamo su queste cose ci dobbiamo dire che la conoscenza della vita umana viene davvero approfondita applicando ciò che l’antroposofia può donare! Si impara cioè a guardare nella vita dell’uomo. Gli esempi che ho portato a null’altro miravano se non ad indicare come, mediante l’antroposofia, si apprenda a contemplare la vita umana. Riconsideriamo ora tutto quanto abbiamo esposto: non ci si può forse approfondire, nella nostra anima, riguardo a tutto quanto è umano, per il fatto di considerare semplicemente in tal modo qualche singola vita? Quando l’uomo può dire a se stesso in un determinato punto della sua vita: così stavano le cose per Schiller, così per Goethe, così stavano per un altro che morì giovane, come abbiamo visto, ebbene, non dovrà tutto questo poter agire nell’anima dell’uomo in modo che si impari a guardare anche ogni fanciullo con maggiore profondità, in modo che ogni vita umana divenga un sacro enigma? Non si impara forse a contemplare ogni vita umana ed ogni essere umano con attenzione molto più grande, intima? E non possiamo, appunto inserendo in tal modo nell’anima la conoscenza dell’uomo, approfondire in noi anche l’amore umano? Arricchiti da tale amore, che si allarga mediante questa profonda e amorevole contemplazione dell’uomo, mediante questa partecipazione agli intimi e sacri enigmi dell’anima umana, come potremo meglio accingerci al compito di educatori, quando la vita ci è diventata così sacra? Appunto con questo mezzo non potrà trasformarsi la vocazione dell’educatore, non in una fraseologia misticamente sognatrice, ma in quella vocazione veramente sacerdotale che sorge quando la grazia divina fa discendere gli uomini nella vita terrena?

 

Ciò che importa è lo sviluppo di tali sentimenti. L’essenziale dell’antroposofia non è la teoria secondo la quale l’uomo consiste di corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale ed io, secondo la quale esiste un karma, si hanno ripetute vite terrene, e così via. Si può essere eruditissimi e conoscere a menadito tutto questo, ma antroposofi nel vero significato della parola non si è perché si conoscono queste cose nel modo solito, come il contenuto di un libro di cucina. L’importante è invece che la vita dell’anima umana venga afferrata e approfondita dalla concezione universale antroposofica, che si impari ad operare partendo da una vita animica in tal modo compresa ed approfondita.

 

Ne risulta che il primo compito che si può porre una pedagogia a base antroposofica è quello di lavorare, in primo luogo, affinché i maestri, gli educatori siano dei profondi conoscitori di uomini e che, acquisito tale atteggiamento sulla base della giusta osservazione dell’uomo, si accostino ai fanciulli con l’amore determinato da questo atteggiamento. Perciò la prima cosa, in un corso per educatori che intendano lavorare in senso antroposofico, non è già dire: Tu devi fare questa o quella cosa, tu devi valerti di questa o quella pratica; ma la prima cosa consiste nello svegliare il modo di pensare pedagogico, attingendolo dalla conoscenza dell’uomo. Quando si sia portato questo atteggiamento, attinto dalla conoscenza dell’uomo, fino all’amore caratteristico di un maestro, fino al risveglio di tale amore, allora si potrà dire: Il maestro è maturo per educare, per insegnare. La prima cosa di cui si tratta, in una pedagogia basata sulla conoscenza dell’uomo, quale è la pedagogia della Scuola Waldorf, non è già di indicare delle regole, di prescrivere come si deve educare, ma la prima cosa sta nel tenere i corsi in modo da arrivare al cuore dei maestri, da approfondire i sentimenti a tal segno, da fame sorgere amore per il fanciullo. S’intende che ognuno crede di poter acquisire questo amore in modo esteriore, ma raggi unto così esso non serve a nulla; potrebbe essere anche pieno di buona volontà, ma non riesce a fare nulla. Arrivare a fare qualcosa può soltanto l’amore umano che scaturisce da un’approfondita attenzione, rivolta al caso singolo.

 

Se si porterà in sé la volontà di basare tutta l’educazione sulla conoscenza dell’uomo – sia che lo si conosca grazie a reale scienza dello spirito, oppure istintivamente, il che è pure possibile – allora si considererà il fanciullo in modo da chiedersi: Che cosa si sviluppa soprattutto nel fanciullo fino alla seconda dentizione? Poiché, penetrando con l’osservazione nell’intimo dell’uomo, il bambino è certo un tutt’altro essere prima della seconda dentizione oppure dopo. L’essere umano, con la seconda dentizione, subisce una potente trasformazione interiore, ed un’altra rilevantissima al momento dello sviluppo sessuale. Si rifletta sull’importanza della seconda dentizione per l’uomo in via di sviluppo. La seconda dentizione, come tale, non è che l’indice esteriore di cambiamenti profondi che avvengono in tutto l’essere umano, cambiamenti che hanno luogo un’unica volta, poiché una seconda dentizione non si verifica che una volta sola e non si rinnova ogni sette anni. Con la seconda dentizione la formazione dei denti risulta conclusa. Poi, i nostri denti dobbiamo tenerceli per tutta la vita; tutt’al più potremo farli otturare o sostituirli con altri finti, ma l’organismo non ce ne largisce mai più. Perché? Perché appunto con la seconda dentizione l’organizzazione della testa raggiunge una certa conclusione. Se si afferra questo ci si potrà chiedere per ogni singolo caso: In sostanza, con la seconda dentizione che cosa propriamente giunge alla sua conclusione? Proprio partendo da questo punto verremo guidati a concepire l’intera organizzazione umana nella sua partizione in corpo, anima e spirito. E se si osserva il bambino fino alla seconda dentizione, con lo sguardo approfondito dall’amore che sorge da una conoscenza dell’uomo quale ho descritto, allora si vede che il bambino, fino alla seconda dentizione, impara a camminare, a portare, ed infine a pensare. Queste sono le tre facoltà più salienti che vengono formate fino alla seconda dentizione.

 

Per « camminare » non intendo il semplice camminare, che costituisce soltanto una delle sue manifestazioni, ma piuttosto l’inserirsi equilibratamente nel mondo; il semplice camminare ne costituisce soltanto la manifestazione più grossolana. Prima si è al di fuori dì questo equilibrio; poi si impara a collocarsi nel mondo con equilibrio. Da che cosa proviene tutto ciò? Proviene dal fatto che l’uomo nasce con una testa che esige una determinata posizione di equilibrio. L’enigma della testa umana si manifesta anche fisicamente: il cervello umano medio pesa da 1200 a 1500 grammi. Se un tale peso gravasse sulle vene sottili situate alla base del cervello, le schiaccerebbe. Esse non restano schiacciate per il fatto che il cervello, pesante, nuota realmente nel liquido cefalo-rachidiano che riempie la scatola cranica. Dagli studi di fisica ricordiamo che un corpo, immerso in un liquido, perde tanto del proprio peso quanto è il peso del liquido spostato. Se si applica questa legge al cervello, ne risulterà che il nostro cervello grava sulla base cerebrale con un peso di circa 20 grammi; il peso rimanente va perduto perché il cervello è immerso nel liquido cefalo-rachidiano. L’uomo nasce dunque in guisa che il suo cervello debba situarsi in maniera da raggiungere un peso dal quale risulti proprio questo rapporto col liquido spostato. Così avviene mentre passiamo dal primo andare carponi fino al rizzarci in piedi. La testa deve stare appoggiata nel modo che noi effettuiamo col restante dell’organismo; il cervello, in una determinata posizione, richiede all’uomo di camminare e di afferrare. Il porsi in equilibrio dell’uomo proviene dunque dal cervello.

 

Procediamo. La testa dell’uomo è già relativamente molto ben organizzata quando l’uomo nasce, poiché essa si forma sino ad un certo grado già nel periodo embrionale; essa però è compiuta del tutto soltanto con la seconda dentizione. Quello invece che si organizza nel periodo fino alla seconda dentizione, che si forma anzi una specifica organizzazione esteriore, è il sistema ritmico dell’uomo. Se in questo campo si intensificassero le osservazioni fisiche e fisiologiche, si noterebbe la somma importanza che ha, nei primi sette anni di vita, l’organizzazione della circolazione e del respiro che può anzi venir danneggiata se non si fa sviluppare in modo giusto la vita corporea del bambino. Bisogna perciò tener conto del fatto che nei primi anni di vita vi è qualcosa, nel sistema circolatorio e respiratorio, che soltanto allora si inserisce in una sua regolarità. Il bambino sente inconsciamente come la forza vitale elabori il sistema circolatorio e respiratorio. E proprio come il cervello, vale a dire qualcosa di corporeo, deve mettersi in una posizione di equilibrio, così, nei primi anni di vita, la parte animica deve mettersi al servizio dello sviluppo del sistema respiratorio e circolatorio. La parte fisica deve occuparsi della conquista di una posizione di equilibrio, partendo dal capo; quella animica, per organizzarsi anche essa in maniera giusta, deve occuparsi della circolazione e della respirazione in via di trasformazione. Come in connesso con quanto si manifesta nel cervello si palesano l’incedere diritto e l’orientamento di mani e braccia, così, in connessione col regolarsi dei sistemi circolatorio e respiratorio, affiora dall’uomo il linguaggio. Nell’imparare a parlare, l’uomo regola i suoi sistemi circolatorio e respiratorio, altrettanto come regola l’incedere e l’afferrare quando assume la posizione eretta della testa in modo che il cervello perda del suo peso. Se si studiano queste cose, se si imparano a vedere queste relazioni, avendo poi davanti a noi un uomo che, per il suo modo di parlare a voce spiegata, appaia particolarmente dotato per la recita di inni o di odi – o anche di prediche morali – il quale insomma si distingua per un timbro di voce altisonante, sapremo pure che ciò è legato a condizioni specifiche del suo sistema circolatorio. Oppure, se osserviamo un tale che, già nell’età infantile, parli con voce rauca, come se sbattessero insieme ottone e latta, sapremo altresì che ciò è in rapporto col sistema respiratorio e circolatorio. Né ci si ferma a questo. Allorché in un bambino si impara ad ascoltare se la sua voce è armoniosa, dolcemente simpatica, oppure squillante, e si vede questo fatto in relazione ai movimenti dei polmoni, del cuore, e alla circolazione del sangue, facendo vibrare interiormente tutto l’essere umano fino alla punta delle dita di mani e piedi, allora vedremo anche l’elemento animico in quanto si esprime nel suo linguaggio. Ne sorge allora qualcosa come un uomo superiore che si esprime in tale immagine, nella quale il linguaggio si associa ai processi circolatori e respiratori del corpo. Da lì si risale quindi alla vita prenatale dell’uomo, regolata da quelle condizioni che abbiamo acquisito fra la morte e la rinascita. Qui agisce la esperienza vissuta dall’uomo nell’esistenza preterrena, e si impara a conoscere, se si intende afferrare l’essere umano con la vera conoscenza dell’uomo, come occorra disciplinare spiritualmente l’orecchio per ascoltare le voci infantili. Allora sapremo quanto si potrà fare per aiutare un fanciullo che, con la sua voce squillante, ci rivela un karma intoppato, per aiutarlo affinché questo karma riesca ad esplicarsi.

 

Vediamo così che per l’educatore è necessaria appunto la conoscenza dell’uomo. Non già una conoscenza che dica soltanto: questo è un uomo dotato, quest’altro è un buon diavolo, quello è un cattivacelo; ma una conoscenza che, nell’essere umano, osserva ciò che, per esempio, si esprime spiritualmente nel linguaggio e lo segue fin nella corporeità fisica; in modo dunque da non seguire ima spiritualità astratta, ma qualcosa di spirituale che si manifesta nell’immagine fisica dell’uomo. Allora è possibile intervenire sinché come educatore, intervenire secondo lo spirito e il corpo; allora è possibile venire in aiuto al fisico affinché possa fornire una base adatta allo spirito. Se quindi osserviamo un bambino di spalle e vediamo che egli ha le gambe corte, che la parte superiore del tronco grava troppo, che il suo passo è troppo forte e pesante — se avremo uno sguardo adatto a tali cose, sapremo che qui parla la vita terrena passata, che qui parla il karma. Oppure vedremo come si manifesta il karma se saremo davanti ad un uomo, come per esempio Johann Gottlieb Fichte, il filosofo tedesco, che incedeva poggiando per primo sempre sul tallone e che, anche nel parlare, pronunciava le parole come se anch’esse « battessero forte sul tallone ».

 

Così, mediante l’osservazione spirituale scientifica, impariamo a conoscere il karma nel fanciullo. Ed esso è quanto di più importante si debba osservare. Questa è la sola cosa che può esserci di aiuto: la possibilità cioè di osservare l’uomo, i corpi, le anime e gli spiriti infantili. In tal modo la conoscenza dell’uomo deve inserirsi nella pedagogia; ma deve essere conoscenza dell’uomo approfondita nell’anima e nello, spirito.

 

Ho voluto ora dare un’idea della pedagogia, una rappresentazione di ciò che vogliamo e di ciò che in pratica può veramente scaturire per l’educazione da ciò che molti reputano talmente poco pratico da considerarlo sogno e fantasticheria.