L’azione arimanica e luciferica.

O.O. 166 – Necessità e libertà – 27.01.1916


 

Sommario: L’azione arimanica e luciferica. L’orologio di Praga e la famiglia di Goethe: influssi karmici. Il Faust. Simpatia e antipatia, elementi luciferici e arimanici. Eventi fisici manifesti ed eventi spirituali occulti.

 

L‘altro ieri accennai al problema, ugualmente importante nei suoi aspetti, della necessità e della libertà negli eventi universali e nell’azione umana. Per cominciare, e dovrò seguire la stessa via anche nelle considerazioni odierne, provai a mettere in luce tutta l’importanza e tutta la difficoltà di questo problema universale e umano; con un esempio ipotetico cercai d’indicare come questo problema possa presentarcisi nello svolgersi degli avvenimenti del mondo. Dissi: supponiamo che una comitiva si disponesse ad attraversare in carrozza una gola alpestre, sovrastata in un certo punto da una roccia pendente, che il momento della partenza fosse stato fissato esattamente, ma che per negligenza del cocchiere la partenza fosse stata poi ritardata di cinque minuti; la comitiva viene così a passare da quel dato punto proprio nell’istante in cui la roccia precipita. Secondo un giudizio esteriore (e dico espressamente « un giudizio esteriore »), dovremmo dunque dire che tutta la comitiva è perita a causa della negligenza del cocchiere, per un fatto che appare dunque accaduto per colpa di un uomo.

 

L’altra volta cercai di mostrare specialmente che non dobbiamo aver troppa premura nell’affrontare col nostro pensare comune simili enigmi, e credere senz’altro di poterli risolvere. Feci notare come il pensare umano, di cui innanzi tutto ci serviamo solo per il piano fisico, si sia abituato a tener conto unicamente delle necessità del piano fisico, e come questo nostro pensare umano si confonda, non appena è costretto a varcare, anche di poco, quei limiti.

Oggi vorrei continuare a mostrare principalmente la grave importanza del problema, perché solo dopo averlo afferrato nel suo complesso, in tutta la sua portata e in tutto il suo significato, anche di fronte alla stessa conoscenza umana, potremo poi la volta ventura, anche per altre considerazioni approssimarci a una specie di soluzione. Dovremo per esempio anche riconoscere pienamente come, appunto di fronte ai problemi più ardui della vita, sia facile irretirsi in un groviglio di speculazioni che in certo modo ci sviano e ci fanno come smarrire in un bosco dove, camminando, c’illudiamo di procedere, mentre in verità non facciamo che girare in tondo. Ce ne avvediamo poi solo al momento in cui ci troviamo al punto di prima. Lo strano è che, quando si tratta del pensiero umano, non ci si accorge di ritornare sempre da capo al medesimo punto, ma riparleremo anche di questo.

 

Accennai che tale importante problema si ricollega a quelle che chiamiamo le forze di Arimane e le forze di Lucifero, operanti nello svolgersi degli eventi del mondo e in ciò che ci si avvicina in tutto l’agire, in tutto il pensare, sentire e volere umani. Osservai come fino nel secolo quindicesimo esistesse un vivo senso di che cosa sono Arimane e Lucifero. Pur non pronunciandone i nomi, la gente vedeva l’azione di queste entità nello svolgersi degli eventi mondiali; sapeva che esse operavano, come opera nel campo naturale l’elettricità positiva e negativa, di cui nessun fisico ha difficoltà a parlare. Citai un esempio, un po’ remoto in apparenza: parlai dell’orologio nell’antico palazzo municipale di Praga, costruito con tant’arte da non essere solo un semplice orologio, ma una specie di calendario, informatore di ogni avvenimento; dissi che vi si osserva anche il corso dei pianeti e che vi si legge la data delle eclissi solari e lunari. E’ insomma il capolavoro d’un uomo capace d’un arte finissima. Soggiunsi che i documenti provano come quest’opera artistica sia dovuta a un professore dell’Università di Praga, ma che di questo non dovevamo occuparci, poiché è un fatto del piano fisico. Accennai invece a una semplice leggenda popolare nata dal sentimento di come agiscono anche in avvenimenti simili le forze arimaniche e luciferiche.

 

La leggenda narra che chi costruì con tanta arte codesto orologio nell’antico palazzo municipale di Praga era un uomo semplice, un uomo a cui la facoltà di compiere tale lavoro era stata concessa da un’ispirazione divina. Ma il sovrano allora regnante volle avere quest’orologio tutto per sé, non tollerando che altrove, in un’altra città, potesse venir costruito nulla di simile; per ciò fece accecare l’abile artefice e lo costrinse a ritirarsi in solitudine. Soltanto quando l’artefice si sentì vicino alla morte, gli fu consentito di avvicinarsi al suo orologio: egli allora, con abile mossa, gli diè un urto in seguito al quale nessuno potè mai più riaccomodarne il meccanismo.

 

In questa leggenda popolare si sente che da una parte vive appunto il senso del principio luciferico, dominante nel sovrano il quale vuole l’orologio tutto per sé; quell’orologio che era stato fatto soltanto per un dono della Grazia, che era dunque opera delle forze buone, progredienti, divine. E si sente d’altra parte come non appena Lucifero riesce ad affermarsi, gli si aggiunga Arimane; è infatti arimanico che l’artefice cieco, con la sua abilità, abbia poi rovinato l’orologio. Nell’istante in cui si evoca Lucifero, sorge sempre per contraccolpo anche Arimane e viceversa.

 

Da un altro tratto della leggenda, cioè dalla descrizione dei dettagli singolari dell’orologio, risulta che il senso dell’esistenza di Lucifero e Arimane non viveva soltanto nel popolo, ma che lo stesso artefice intendeva rilevare, mediante la struttura dell’opera sua, il significato delle forze arimaniche e luciferiche. Oltre alle cose già descritte, oltre al quadrante, all’orbita dei pianeti e a tutto il resto, in quell’orologio si vedono infatti applicate ai due lati delle figure. Da un lato la morte, e dall’altro lato due uomini: uno che stringe in mano una borsa piena di quattrini ch’egli fa sonare; l’altro a cui si para davanti uno specchio in modo che vi si possa rimirare di continuo.

Con queste due figure ci è data dunque una bellissima immagine dell’uomo che si abbandona con tutto l’essere suo al mondo esteriore: sia il riccone avaro, arimanico, sia l’uomo luciferico nella figura che si rimira nello specchio e vuol sentire continuamente stimolate in sé le forze della sua vanità. Così l’artefice medesimo contrappone l’uno all’altro il principio arimanico e luciferico, e dall’altro lato pone la morte, vale a dire colei che porta il pareggio (anche di questo riparleremo) e sta ad ammonire che, con l’incessante avvicendarsi della vita tra morte e nascita, e della vita tra nascita e morte, l’uomo vien condotto appunto oltre la sfera in cui dominano Lucifero e Arimane. Vediamo dunque rappresentato in modo mirabile nell’orologio stesso il fatto che, ancora in quell’epoca, viveva il sentimento dell’esistenza dei princìpi arimanico e luciferico.

 

Se vogliamo arrivare alla soluzione del nostro arduo problema, bisognerà che in certo modo vivifichiamo in noi il sentimento del principio arimanico e di quello luciferico. In fondo, il mondo ci appare veramente sempre come una dualità. Osserviamo la natura.

 

Tutto ciò che è soltanto natura, possiamo dire che ci appare sempre sotto il segno della necessità,

come l’espressione e la rivelazione di una necessità inflessibile.

 

Sappiamo anzi che per il naturalista l’ideale è poter calcolare matematicamente i fatti futuri da quelli antecedenti, di poter applicare a tutte le manifestazioni della natura lo stesso metodo con cui si calcolano dalle costellazioni celesti le future eclissi del Sole e della Luna. L’uomo sente dunque che, in quanto fronteggia i fatti naturali, egli fronteggia una necessità rigida, una necessità assoluta. Dal secolo quindicesimo gli uomini si sono anzi abituati a prendere in genere tale rigida necessità proprio come un modello per ogni considerazione sul mondo. A poco a poco, ne è derivato l’uso di compenetrare di tale rigida necessità persino gli eventi storici.

 

D’altra parte, riguardo alla storia, bisogna invece considerare anche dell’altro. Prendiamo per esempio un fatto che sia indipendente da ogni situazione della vita in cui possiamo trovarci. Prendiamo per esempio il fatto storico: « Goethe ». Anche di fronte a una manifestazione come la vita e l’opera di Goethe, noi proviamo in certo modo il bisogno di considerarla fondata sopra una certa rigida necessità. Tuttavia si può dire: Goethe è nato il 28 agosto 1749; che cosa sarebbe accaduto se quel ragazzo non fosse nato in quella famiglia? avremmo ugualmente avuto le opere di Goethe? Goethe medesimo ci racconta d’essere stato educato in modo singolare da padre e madre, ciascuno dei quali contribuì a formarlo quale egli divenne poi.

 

Se egli fosse stato educato diversamente, avrebbe ugualmente prodotto le sue opere? Osserviamo ancora l’incontro di Goethe col duca Carlo Augusto di Weimar. Se questi non lo avesse chiamato presso di sé, se non gli avesse dato quel che determinò il corso della vita di Goethe dal 1770 in poi, non sarebbero forse venute alla luce opere del tutto diverse? Oppure: se Goethe avesse ricevuto nella casa paterna tutt’altra educazione, se fin d’allora non avesse dominato in lui un estro poetico tanto vivo, non avrebbe potuto darsi perfino che egli divenisse un ministro qualunque? se tutto avesse preso un’altra piega, quale aspetto avrebbero avuto la letteratura e l’arte germanica sviluppatesi da Goethe in poi?

 

Sono tutti quesiti che è lecito porre e che ci mettono sotto gli occhi la profondissima importanza del problema. Tuttavia una soluzione profonda non si presenta ancora chiaramente ai nostri occhi. Possiamo andare più a fondo, e porci altre domande. Pensiamo per esempio ancora all’artista che costruì l’orologio del palazzo municipale di Praga. Egli vi pose le figure che abbiamo descritte: da una parte il riccone avaro col sacco pieno di quattrini e il vanitoso, e di contro la morte. Ora è certo che, collocando quelle figure, l’artista ha compiuto un’azione; ma tale azione fu la causa di un numero infinito di possibili effetti. Si pensi infatti quante mai persone si saranno fermate davanti a quel ricco avaro, davanti a quel vanitoso a cui vien mostrata la propria immagine, davanti alla morte. Si pensi quanti avranno inoltre osservato una ancor più squisita combinazione artistica immaginata da quell’orologiaio: il congegno per cui ad ogni ora, mediante una suoneria, la figura della morte accompagnava il rintocco e si metteva in moto; dopo di che si moveva l’altro gruppo, la morte faceva un segno all’avaro e questi le faceva un cenno di rimando. Tutto ciò si poteva vedere, ed era un complesso di segni importanti per la vita, capaci di fare impressione a chi li guardava. E facevano anche un’impressione profonda! Lo si può rilevare da un altro particolare che venne ad aggiungersi alla leggenda popolare. A ogni rintocco dell’ora, la morte, lo scheletro, spalancava la bocca, e la leggenda popolare diceva: ogni volta che si guarda la figura della morte, si vede un passero scapparle di bocca, un passero che smania di tornarsene all’aria libera; ma sul punto in cui sta per fuggire, la bocca si richiude e il passero rimane prigioniero per un’altra ora. All’aprirsi e al chiudersi della bocca il popolo riallacciava una leggenda molto spirituale: voleva mostrare quanta importanza vi sia in quello che noi chiamiamo astrattamente il « tempo », il « progredire del tempo ». Il popolo voleva indicare che in tutto ciò vi sono misteri profondi.

 

Figuriamoci ora qualcuno davanti a quell’orologio. Toccando questo nuovo particolare della leggenda, volevo appunto far notare quante riflessioni potesse suscitare; e non riflessioni soltanto, ma immaginazioni, poiché un passero così non lo si inventa. Naturalmente vi fu chi vide il passero quale immaginazione, e qui ho voluto soltanto accennarvi. Ma prendiamo la cosa, diciamo, razionalmente. Può darsi che si fermi a osservare quelle figure qualcuno che è in procinto di deviare moralmente dal retto sentiero. Stando davanti all’orologio, egli vede come ad ogni ora la morte faccia un cenno al ricco, resosi schiavo del proprio denaro, e anche all’uomo vano e ambizioso; può darsi che l’impressione che ne riceve, lo distolga dalla possibilità di errare moralmente, a cui prima si trovava esposto.

 

Ma possiamo pensare anche altre cose. Per esempio si potrà dire: chi costruì quell’opera d’arte, per ispirazione spirituale divina, fece veramente del gran bene, perché molte persone possono essersi soffermate davanti a quell’opera d’arte ed esserne state moralmente migliorate. Si potrà dire: è un karma propizio quello di chi potè suscitare effetti psichici buoni nell’anima di tante persone. Se ne potrebbero dedurre i numerosi effetti psichici suscitati da quell’orologio col dare forma a quel gruppo di figure. E speculando sul karma di quell’artefice, si potrebbe rilevare il punto di partenza per un karma infinitamente felice per aver creato quell’orologio, con la morte, Arimane e Lucifero. Ci si potrebbe abbandonare a simili considerazioni e dire che vi sono persone le quali, con un’unica azione, compiono tutt’una serie di buone azioni. Tale serie di buone azioni deve dunque venir segnata tutta sul loro karma. Tutto ciò potrebbe indurci a pensare: « Come potrei io regolare ogni mia azione affinché potesse derivarne una tale corrente di buone azioni? »

 

Ecco qui il principio di un pensare che può smarrirsi, deviare. Il tentativo di pensare: « Come dovrò regolarmi nel mio agire, affinché ne fluisca soltanto una corrente di azioni buone », sarebbe un assurdo, se lo si volesse elevare a principio di vita. Se infatti qualcuno asserisce che da quell’azione compiuta scaturisce una corrente di buone azioni, altri potrebbe replicare: « Niente affatto! io sono persuaso del contrario! Ho proprio seguito fatti riguardanti quest’orologio e a dir il vero di effetti buoni ne ho visti ben pochi ». Se fosse pessimista, potrebbe soggiungere: « Sono tempi troppo brutti perché le cose vadano così! La gente non si converte tanto a buon mercato. Ho veduto tutt’altro io! Molte volte ho veduto ferma davanti a quell’orologio gente con un certo sentimento democratico, piena di odio contro i ricchi non ancora espresso. Un giorno, ne vidi uno assorto a contemplare il cenno che fa la morte all’avaro e il cenno di rimando dell’avaro alla morte. Anch’io lo voglio fare! esclamò; andò a cercare il primo riccone avaro che trovò, e l’uccise. Anche in altri individui furono suscitati simili sentimenti di odio, e ne va data colpa a quell’artefice e al suo capolavoro. Ecco quel che dovrà essergli messo in conto nel suo karma! »

 

Senza riflettere su tutto, qualcuno potrebbe dire di nuovo: « Dunque non è forse lecito nemmeno eseguire un’opera d’arte di gran valore, dato che essa potrebbe anche produrre dei risultati cattivi con tutta una sequela di tristi conseguenze che poi ricadono sul karma! »

Siamo così messi in guardia contro una tentazione infinitamente seduttrice per la nostra anima e per tutta la nostra conoscenza. Basta infatti un po’ di auto-osservazione per accorgersi fino a che punto siamo portati a chiederci ad ogni proposito: « Che cosa ne ricaviamo? » e a valutare il nostro operato alla stregua dei risultati ottenuti. Ma come ci perdiamo in speculazioni se, nell’esempio dato, ci mettiamo a riflettere se i numeri doppi a destra siano esattamente pari oppure solo metà di quelli a sinistra, così dovremo per forza smarrirci in un labirinto col nostro pensare, se prendiamo a norma del giudizio di una qualsiasi azione la domanda: « Che effetto produrrà? che risultato avrà per il mio karma? ».

 

Qui la leggenda popolare è più avveduta, si può persino dire più scientifica, nel senso della scienza dello spirito perché, per quanto il dirlo possa sembrare un luogo comune, la leggenda insiste sul fatto che il costruttore dell’orologio era un uomo semplice, alla buona, che seguì solo la sua ispirazione, senza stillarsi il cervello intorno alle possibili conseguenze della sua azione.

Certo non si può negare, e questo appunto seduce e travia, che qualcosa si ricava davvero scavando nel modo che ho detto, quando, di fronte a qualsiasi azione, ci si chiede per prima cosa: « Che conseguenze ci porterà? ». È facile lasciarci fuorviare tanto più che nel mondo esistono veramente anche azioni a proposito delle quali è necessario esaminare le conseguenze, e sarebbe naturalmente molto unilaterale concludere da quel che ho detto che si dovrebbe fare sempre come quell’artefice, e non preoccuparsi mai delle conseguenze! Se invece picchiamo un ragazzo perché è stato negligente, dovremo pur pensare alle conseguenze! Va da sé che a questo mondo vi sono cose riguardo alle quali bisogna assolutamente tener conto delle conseguenze. Ma qui sta il punto che dobbiamo metterci ben chiaro davanti all’anima, ed è che in verità negli eventi di questo mondo noi riceviamo impressioni da due parti: riceviamo da un lato impressioni dal piano fisico, e dall’altro ne riceviamo dal mondo dello spirito; questo appunto la leggenda popolare indicava dicendo che l’artefice era un uomo semplice, che la sua ispirazione gli era venuta per grazia dalle potenze divino-spirituali. Quando ci vengono date tali impressioni dal mondo dello spirito, quando dal mondo dello spirito giunge alla nostra anima qualcosa che la incita a compiere un’azione, allora, in tali momenti della vita, noi possediamo una sicurezza tutta diversa, una verità di altro ordine: sono momenti nei quali, non in senso oggettivo, ma soggettivo, ci lasciamo guidare dalla verità con una certezza diversa dalla solita poiché è diretta e come tale ci avvince. Di questo si tratta.

 

Da un lato noi viviamo nel mondo fisico. In esso tutto ci appare come se ogni fatto susseguente derivasse in modo del tutto naturale da quello precedente. Ma noi viviamo anche nel mondo spirituale. Ho cercato di spiegare l’altro giorno che dentro tutta la corrente degli avvenimenti fisici si svolge una corrente di avvenimenti soprasensibili, così come nel nostro corpo fisico vive il nostro corpo eterico. Noi siamo inseriti anche nella corrente del divenire soprasensibile; di là ci vengono gli impulsi originari che dobbiamo seguire, senza preoccuparci affatto delle conseguenze che potranno risultare, specie nel mondo fisico. L’uomo, in quanto è collocato nel mondo, possiede un genere di sicurezza che deve venirgli dall’esame delle cose esteriori. Così fa lo scienziato. Egli non può per altra via conseguire alcuna certezza su cause ed effetti, se non abbracciando con lo sguardo i fatti naturali. Ma d’altro canto ci è data anche la possibilità di ottenere un altro genere di certezza, una sicurezza diretta, purché la vogliamo, purché apriamo veramente la nostra anima a tale certezza diretta. Allora si tratta di sostare davanti a un fatto e di giudicarlo secondo il valore che ha in sé, secondo il carattere che gli è proprio.

 

Questo è beninteso difficile. Ma gli avvenimenti, e specialmente quelli della storia del mondo, ci danno continuamente l’occasione determinante di giudicare secondo il loro valore fatti e processi storici che si svolgono fuori di noi. Ed è necessario farlo di continuo. Ma qui, addentrandoci nelle cose (il che ci condurrà molto lontano), qui salta agli occhi la confusione in cui cade la gente. In fondo, non è sempre possibile a tutti controllarla direttamente. Prendiamo il fatto del Faust di Goethe. Il Faust e certo una creazione importante. E ci saranno in questa sala poche persone le quali, specie dopo le numerose conferenze sul Faust da noi tenute, non divideranno l’opinione che col Faust di Goethe è stata donata all’umanità una grande opera d’arte, in verità dovuta anch’essa a un’ispirazione della grazia.

 

Con il Faust di Goethe la vita spirituale tedesca ha in certo modo conquistato anche la vita spirituale di altri popoli. Il Faust di Goethe, anche durante la vita del poeta, esercitò un forte influsso su molte persone che stimarono il Faust una somma opera d’arte, unica nel suo genere. Vi fu però un tale in Germania che s’irritò moltissimo del giudizio favorevole dato sul Faust da Madame de Staél. Voglio ora leggere le parole stesse di quel tale, affinché si veda come, di fronte a qualcosa che va giudicato in modo individuale, possano sorgere opinioni ben differenti da quelle che forse si ritengono le sole ammissibili in merito al Faust di Goethe.

 

L’autore, un certo signor von Spaun, prendendo le mosse dal « Prologo in cielo » scriveva nel 1822: « Già il prologo mostra che il signor von Goethe è un pessimo versificatore: il prologo è un tipico esempio di come non si deve scrivere in versi. I tempi passati non ci offrono un solo esempio degno di stare a confronto con la presuntuosa miseria di questo prologo… Ma cercherò di essere breve, essendomi accollato un lavoro lungo e purtroppo anche noioso. Debbo provare al lettore che il famigerato Faust gode di una celebrità usurpata e immeritata, unicamente dovuta al dannoso spirito di corpo di un’ Ajsoriatio obscurorum virorum… Non è la rivalità della celebrità che mi muove a riversare sul Faust del signor Goethe gli acri flutti di una critica severa. Io non mi avvio sulle sue orma al Parnaso e mi rallegrerei s’egli avesse arricchito la nostra lingua tedesca di un capolavoro Può darsi che la mia voce si perda nel clamore delle lodi, ma mi basta di aver fatto il mio possibile; se mi riuscirà di convertire anche un solo lettore, facendolo recedere dall’adorazione per questo mostro, non mi pentirò della mia ingrata fatica… Il povero Faust parla un gergo incomprensibile, nelle rime più trite che mai abbia scritto alcuno di quinta ginnasio. Il mio professore me le avrebbe suonate ben bene, se avessi fatto dei versi malvagi come questi:

 

Oh, fosse questo l’ultimo tuo sguardo

nella mia pena,

chiaror di dolce luna,

ch’io già vegliando oltre la mezzanotte

tante mai volte attesi

presso questo leggìo…

 

«Tacerò in seguito della dizione ignobile, del verseggiatore meschino: quel che il lettore ha visto, basta a provargli che in quanto ad arte poetica il signor autore non potrebbe misurarsi nemmeno coi poeti mediocri della vecchia scuola…

Mefistofele stesso riconosce che Faust, già prima del contratto, era posseduto da un diavolo; ma noi crediamo che il suo posto non sia all’inferno, ma al manicomio; là deve andare, con tutto ciò che gli appartiene: mani e piedi, testa e deretano. Molti poeti ci hanno fornito esempi sublimi di galimatias, di pasticci, di balordaggini altisonanti; ma quello di Goethe son tentato di chiamarlo un genere nuovo, il pasticcio popolare, perché viene declamato nel gergo peggiore e più volgare.

 

Quanto più rifletto su questa lunga filastrocca di spropositi, tanto più mi appare probabile doversi trattare di una scommessa; la scommessa cioè, che quando salti il ticchio a un uomo celebre di mettere assieme le sciocchezze più scipite e più noiose, si troverà sempre una legione di letteratucoli sciocchi e di lettori imbroglioni capaci di fare un’esegesi di tali dabbenaggini e di escogitarvi una profonda sapienza e una mirabile bellezza. Gli uomini hanno in comune, col principe Piripicchio e con l’immortale Dalai Lama, il privilegio che i loro escrementi vengono serviti come leccornie e adorati come reliquie. Se l’intenzione del signor von Goethe è stata questa, può dire di aver vinto la scommessa…

 

Possono esservi nel Faust talune lodevoli intenzioni; però un buon poeta non deve farne un imbratto, ma conoscere l’arte di disegnarle e illuminarle come va. Non è facile trovare un argomento più ricco per un poema, si serba rancore al poeta per averlo straziato così miserevolmente…

Questa diarrea d’idee non digerite non deriva da un’esuberanza di succhi salubri, ma da un rilassamento dello sfintere dell’intelletto, ed è una prova di debole costituzione. Vi è gente dalla quale i versi cattivi fluiscono come l’acqua: ma un buon poeta non si ammala mai di questa incontinentia urinaepoeticele, di questo diabetes mellitus di scipite tiritere… Se il genio di Goethe si è svincolato da tutti i ceppi, non può tuttavia il flusso delle sue idee far breccia nelle dighe dell’arte: la breccia è già aperta. Se non disapproviamo che un autore prevarichi le regole convenzionali del comporre, esigiamo però che mantenga sacre le leggi del sano criterio, della grammatica e del ritmo. Anche nei drammi in cui funziona la bacchetta magica, l’ipotesi non gli è consentita se non come meccanismo, e ad essa deve rimaner fedele. Ciò ch’egli stringe dev’essere un dignus vindice nodus, e le stregonerie debbono condurre a grandi risultati. Nel Faust il risultato è d’indurre il paziente a delitti volgarissimi, e non son necessarie le arti magiche al suo seduttore. Di ciò ch’egli fa, sarebbe stato capace un miserabile mezzano senza stregonerie. Egli è sordido al par di uno strozzino, sebbene abbia a disposizione i tesori nascosti…

 

In breve, è un diavolo da poco che può andare a scuola dal Marinelli * di Lessing. In nome del sano criterio umano io cancello quindi il giudizio di Madame de Staèl a favore del sullodato Faust, e lo condanno non già all’inferno, che potrebbe essere un refrigerante per questa gelida composizione in cui il diavolo stesso ha addosso i brividi invernali, ma ad essere precipitato nella cloacamparnassi. Tanto per la giustizia ».

 

Come si vede, anche un giudizio simile è stato fatto una volta! Dal suo insieme non risulta che fosse pronunciato da qualcuno in mala fede; al contrario, è uno che crede a quello che scrive. Pensiamo ora che quest’uomo, il quale afferma che già il suo professore di quinta ginnasio gli avrebbe proibito di scrivere della roba simile al Faust, pensiamo che lui stesso sia diventato professore e abbia istillato queste idee ai suoi numerosi allievi. Pensiamo che quei ragazzi alla loro volta siano diventati insegnanti, e non abbiano dimenticato completamente quel giudizio sul Faust. Continuando, si può speculare all’infinito sulle conseguenze karmiche prodotte dal giudizio di quell’uomo. Ma non tanto mi premeva dir questo, quanto rilevare che, di fronte agli avvenimenti che valgono in sé, per il loro valore, è difficile formarci un giudizio che in certo modo possa reggersi sempre tal quale. In varie conferenze, proprio qui, ho fatto notare come più d’uno che passò per una cima nel secolo diciannovesimo, non sarà più reputato tale nei secoli venturi; mentre altri, che oggi sono completamente dimenticati, saranno allora considerati grandi, importanti. Certo il tempo rimette queste cose a posto. Volevo solo far notare come sia arduo, infinitamente arduo, arrivare a un giudizio di fronte a un fatto che vale per quello che è, per il suo valore. Ma perché mai è tanto difficile?

 

Dobbiamo proprio chiederci che cosa ce lo rende tanto difficile. Il nostro esame dovrà innanzi tutto venir posto nel senso che il giudicante sia diverso dal giudicato. Oggi potremo dire: chi a suo tempo proclamò il Faust di Goethe un’opera d’arte somma, giudicò in maniera oggettiva, astraendo da se stesso. L’autore del giudizio citato, non faceva invece astrazione da se stesso. Ma come si giunge in genere a giudicare non oggettivamente? La gente giudica non oggettivamente con tanta frequenza che neppure si chiede che cosa la porti a giudicare senza oggettività. A giudicare non oggettivamente siamo portati da simpatia e antipatia. Se simpatia e antipatia non esistessero, non si avrebbero mai dei giudizi non oggettivi.

 

La simpatia e l’antipatia esistono per offuscare la serenità di un giudizio. Ma sono esse per questo forse cattive? sono forse tali da doverle addirittura escludere dalla vita umana? Basta riflettere un poco per vedere che non è così. Proprio considerando il Faust esso ci riesce simpatico; noi viviamo sempre più nella simpatia. Dobbiamo avere in noi la possibilità di sviluppare simpatia. Se in definitiva non potessimo sviluppare anche l’antipatia, non potremmo nemmeno farci una giusta opinione sul critico che abbiamo appena citato. Mi figuro infatti che contro quell’uomo possa esser nato un certo senso di antipatia e che esso possa forse essere giustificato. Anche qui torniamo a vedere come non convenga prendere queste cose in modo troppo assoluto; ma come importi considerale in tutto il loro assieme. Non è solo il vario aspetto delle cose a suscitare nell’uomo la simpatia e l’antipatia; egli trascorre la vita con la simpatia e l’antipatia, le porta incontro alle cose, tanto che le cose non agiscono direttamente su di lui, ma sulle sue simpatie e antipatie. Ma che significa il metterci di fronte a un oggetto o a un processo qualsiasi, portandogli incontro la nostra simpatia o la nostra antipatia? Naturalmente il critico di cui ho parlato non portava già in sé l’antipatia contro il Faust, ma portava in sé dei sentimenti che dovevano appunto rendergli antipatico quello che gli si manifestava nel Faust. Era la direttiva dei suoi istinti che dava norma al suo giudizio.

 

Che cosa vi è in sostanza in tutto questo? Vi è che simpatia e antipatia sono anzitutto solo parole che rappresentano fatti reali dello spirito, e questi reali fatti spirituali sono le azioni di Arimane e di Lucifero. In ogni simpatia si occulta in certo modo l’elemento luciferico, in ogni antipatia l’elemento arimanico. Mentre nel cammino della vita ci lasciamo condurre dalla simpatia e dall’antipatia, ci lasciamo condurre da Lucifero e da Arimane. Non dobbiamo però di nuovo cadere nell’errore (che già spesso ho caratterizzato come tale) di concludere: « Lucifero! Arimane! Luggiamoli per carità! Vogliamo essere brava gente, noi! Non vogliamo saperne di Lucifero e di Arimane! Via da noi costoro, via, via! » Allora dovremmo anche andar via da questo mondo perché, come esiste l’elettricità positiva e negativa e non solo l’equilibrio tra luna e l’altra, così esistono Arimane e Lucifero da qualunque parte noi guardiamo. Tutto sta in quale posizione ci mettiamo di fronte ad essi. Le due forze devono esserci, e occorre che nella vita noi sappiamo sempre metterle in equilibrio. Se per esempio non esistesse Lucifero, non vi sarebbe arte. Sta in noi di non fare dell’arte un’espressione del solo elemento luciferico. Occorre dunque renderci conto che, mentre ci muoviamo nel mondo con simpatia e antipatia, agiscono in noi Lucifero e Arimane; dobbiamo cioè conquistare la possibilità che Lucifero e Arimane spieghino veramente la loro azione in noi. Rendendoci però coscienti delle loro azioni in noi, dobbiamo conquistare la facoltà di affrontare nondimeno le cose oggettivamente. Potremo arrivarci solo ponendo mente non soltanto a come giudichiamo il resto del mondo, ciò che accade fuori di noi, ma ponendo anche mente a come giudichiamo noi stessi entro il mondo. Questo « giudicare noi stessi entro il mondo » ci porta di nuovo un po’ più addentro nel nostro problema, in tutto il suo insieme. Per giudicarci entro il mondo, occorre che nel giudicare applichiamo a noi stessi un modo unitario di osservazione. Ecco il problema che dobbiamo ora sollevare.

 

Guardando la natura, noi vediamo da un lato dominare un’ineluttabile necessità: una cosa scaturisce dall’altra. Guardando invece le nostre azioni, queste ci appaiono libere e connesse soltanto con l’idea di colpa, castigo e simili. Entrambe queste opinioni sono unilaterali; che entrambe lo siano, per la qual cosa non giudichiamo nel giusto modo la posizione di Lucifero e di Arimane, ci apparirà chiaro da questa considerazione.

 

Se come uomini del piano fisico noi guardiamo nella nostra anima, non possiamo scorgervi solo ciò che si svolge direttamente in noi. Chiedendoci che cosa avviene in noi in un dato momento, noi facciamo certamente un atto di auto- conoscenza. Ma è un’autoconoscenza che non ci dà nemmeno lontanamente tutta la somma di quel che possiamo chiedere a un’autoconoscenza sia pur superficiale poiché, sia detto senza offendere nessuno e prendendoci tutti come siamo, qui riuniti: io che parlo e voi che ascoltate, è pur certo che io non potrei parlare come parlo, se prima non si fossero svolti tutti i fatti antecedenti della mia vita attuale e di altre mie precedenti incarnazioni. Se dunque considerassi unicamente quello che sto dicendo ora, riguardo alla mia autoconoscenza sarebbe un modo di procedere molto unilaterale. Con buona pace di tutti, è pur chiaro che anche ciascuno dei presenti mi ascolta in maniera differente, sente e afferra quel ch’io dico con una sfumatura sua particolare. Questo va da sé. Va da sé che ognuno accoglie quel che ascolta a seconda della sua vita precedente e delle sue incarnazioni passate; dovrebbero proprio non esser uomini quelli che stan qui seduti, se ciascuno non dovesse accogliere in modo diverso quel che viene detto. Questo fatto ci conduce molto più in là: ci porta in genere a costatare in noi una dualità. Riflettiamo infatti che quando diamo un giudizio, lo diamo in una data maniera. Prendiamo ad esempio una rappresentazione di Reinhardt: « Io ne sono incantato! » dice l’uno. Un altro invece: « Ecco la rovina di ogni arte! » Qui non si tratta di criticare né l’uno né l’altro, ma vedere che entrambi sono possibili. Ma da che cosa può dipendere che l’uno giudichi in un modo e l’altro in un altro? Dipenderà da quel che già prima è in lui, dalle premesse con cui egli si accosta alle cose.

 

Riflettendo ora su queste premesse, dovremo dire: « Sta bene, ma una volta queste premesse non esistevano nemmeno! ». Sul giudizio che si formula ora, influirà per esempio ciò che si sarà visto a diciotto anni o imparato a tredici. Tutto questo si è insinuato in noi, è intessuto in tutta la sostanza dei nostri pensieri, è in noi, giudica insieme a noi. Ognuno, se vuole, può notarlo in se stesso. Chiediamoci un po’ se saremmo capaci di cambiare quello che sta così radicato in noi, se potremmo sradicarlo? Chiediamocelo un po’! Tanto varrebbe strappare da noi tutta la nostra esistenza trascorsa sin qui, durante la nostra incarnazione presente; abolire noi stessi. Non si possono cancellare le proprie esperienze, le proprie passate deliberazioni di pensiero e di sentimento, come non si può cambiare il proprio naso se, guardandosi nello specchio, quello che si ha non garbasse più. t chiaro che non si può assolutamente cancellare il proprio passato.

 

Eppure, quando ci si vuole alzare di buon mattino, osserviamo che siamo sempre costretti a prendere una decisione. Dipende davvero anch’essa dalle premesse della nostra incarnazione attuale. Dipende pure da altri fattori diversi. Quando però ci si sia detti che dipende da fattori diversi, ciò influenzerà forse il fatto che nondimeno si dovrà prender la decisione di alzarsi una buona volta? Forse sarà una decisione presa tanto silenziosamente da non accorgersene nemmeno. Ma sia pur silenziosa, una risoluzione deve esser presa; vale a dire che l’« alzarsi » deve essere un atto libero.

 

Tempo fa, nella nostra società c’era un tale che può servire come esempio a questo proposito, perché diceva di non aver mai sentito la volontà di alzarsi. Ne soffriva immensamente e se ne lamentava: « Come si fa! non mi riesce di alzarmi! Se non interviene qualche fatto esterno che mi obblighi a lasciare il letto, io vi rimarrei sempre ». Lo confessava senz’altro; Io confessava ravvisandovi un elemento terribilmente tentatore nella sua vita. Si vede dunque che balzarsi è proprio un atto libero. Nonostante determinate premesse che ci portano a fare una cosa piuttosto che un’altra, nei singoli casi possiamo benissimo eseguire un atto libero. Ecco dunque sorgere il quesito: vi è gente che si alza dal letto a stento, controvoglia, che ha bisogno di una decisione energica; per altri balzarsi è un piacere. Si potrà dire: da ciò si vede che quelle tali premesse significano che uno è stato educato bene, un altro male. Vi si potrà ravvisare una certa necessità, ma è pur sempre una decisione libera. Così vediamo in un unico fatto, nel fatto del nostro alzarsi, intessute luna nell’altra la libertà e la necessità. Sono assolutamente intessute luna nell’altra. Una sola e medesima cosa porta in sé libertà e necessità. Prego dunque di tener ben presente che, se si vuol considerare giustamente la cosa, non ha senso il dire che in qualcosa l’uomo è libero, oppure non libero. Ha senso soltanto dire che in ogni atto umano la libertà e la necessità sono a tutta prima mescolate insieme.

 

Da che cosa deriva ciò? Nella scienza dello spirito, non si arriva a nulla se non si considerano le cose umane al tempo stesso in rapporto con tutto l’insieme dell’universo. E perché? Perché quel che agisce in noi come necessità (e dico ora qualcosa di relativamente ovvio, ma di immensa portata) quel che riguardiamo come necessità, è il passato in noi. Ciò che agisce in noi come necessità, deve sempre appartenere al passato. Dobbiamo aver avute delle esperienze, e queste devono essersi depositate nella nostra anima; allora operano ulteriormente in essa come necessità.

 

Ora dunque possiamo dire che ognuno porta in sé il proprio passato, e con questo porta in sé una necessità. Invece le cose presenti non operano ancora come necessità, altrimenti non potremmo compiere l’atto libero, nel presente immediato. Tuttavia il passato insinua la sua azione entro il presente, e si connette con la libertà. Per il fatto che il passato continua ad agire, noi vediamo la necessità e la libertà intimamente unite in un solo e medesimo atto.

 

Se dunque guardiamo in noi stessi, se eseguiamo davvero questo auto-esame, concluderemo che la necessità non sta soltanto fuori nella natura esterna, ma che una necessità esiste anche dentro di noi. Considerando la necessità, dobbiamo però rivolgere lo sguardo al nostro passato; questo fatto fornisce allo scienziato dello spirito una prospettiva importantissima: egli impara a riconoscere il nesso fra passato e necessità. Comincia quindi a esaminare la natura e vi trova delle necessità; investigando così i fenomeni di natura, impara a capire che tutto quanto di necessario lo scienziato trova in essa è anche passato. Che cosa è infatti tutta la natura, la natura con la sua necessità?

 

 

Solo sulle basi della scienza dello spirito sarà possibile trovare una risposta a questa domanda. Noi viviamo oggi nello stadio Terra. Lo stadio Terra fu preceduto da quello di Luna, di Sole, di Saturno. Su Saturno (Io si può rileggere nella Scienza occulta *) il nostro pianeta non appariva quale oggi ci appare la Terra. Era tutt’altro. Esaminando Saturno, si vede che in esso non vi è altro che una sostanza affine al pensiero.

 

Non vi erano ancora sassi che cadessero a terra; non vi era nulla di denso, di fisico, ma solo effetti di calore. Tutto vi si svolgeva come nella stessa interiorità umana. Erano effetti animici, pensieri che gli spiriti divini avevano lasciato addietro e che erano rimasti. Tutta la natura odierna che abbracciamo con lo sguardo nella sua necessità fu un tempo libera, fu azione libera di esseri divini. E solo perché è passato ci appare necessario ciò che si era evoluto su Saturno, Sole, Luna e che ci fu tramandato. Come in noi continuano ad agire i pensieri della nostra fanciullezza, così sulla Terra continuano ad agire i pensieri pensati dagli esseri divini su Saturno, Sole, Luna; e noi li percepiamo come necessità, perché sono pensieri appartenenti al passato.

 

Che cosa significa il fatto che oggi si può porre la mano sopra un oggetto solido? Significa che un giorno, nel remotissimo passato, quel che è dentro all’oggetto solido fu pensato, e che quel pensiero è rimasto, come permane in noi il pensiero pensato nella nostra gioventù. Voltandoci a considerare il nostro passato e prendendolo come cosa vivente, vediamo in noi il divenire della natura. Come quello che pensiamo e diciamo oggi non è retto da necessità, ma è libero, così quello che oggi costituisce la condizione terrestre fu libertà in precedenti gradini dell’esistenza. La libertà continua ad evolversi, e permanendo si tramuta in necessità. Se fossimo capaci di vedere quello che succede oggi nella natura, non ci passerebbe per la mente di trovarvi la necessità. Della natura noi vediamo soltanto i residui del passato. Ciò che avviene oggi nella natura è spirituale, e noi non lo vediamo.

 

Su tali basi l’autoconoscenza umana acquista un’importanza cosmica tutta speciale. Noi pensiamo ora un pensiero, ed esso è in noi. Certamente potremmo anche non pensarlo, ma per il fatto di averlo pensato esso resta nella nostra anima. Ormai è cosa del passato, e agisce come necessità, come sottile necessità; non è ancora materia densa come quella che si trova fuori in natura, perché noi siamo uomini e non Dei. Arriviamo solo al punto da riconoscere in noi la natura interiore che in noi permane come memoria, come ricordo, ed agisce in ciò che in noi è necessità. Ma quel che in noi è ora pensiero, diventerà natura esterna negli stadi successivi di Giove, di Venere. Ivi agirà come ambiente esterno, come la natura che oggi percepiamo fuori di noi fu un tempo pensiero di esseri divini.

 

Gli angeli, gli arcangeli, le archai di cui oggi parliamo, tutti in passato pensarono così come ora pensiamo noi; e quello ch’essi pensarono è rimasto come loro ricordo ed è ciò che noi vediamo nel mondo esterno. Noi possiamo soltanto contemplare interiormente quel che ricordiamo della nostra esistenza terrestre; ma interiormente è già diventato natura. Invece ciò che fu pensato dagli esseri spirituali durante gli stadi planetari precedenti è divenuto fenomeno esterno, e noi lo vediamo ora nel mondo esterno.

È vero, profondamente vero: finché noi siamo uomini sulla Terra, noi pensiamo, e i nostri pensieri sprofondano per così dire nella nostra vita dell’anima. Ivi diventano l’inizio di uno stato di natura; tuttavia rimangono in noi. Ma quando passeremo allo stadio di Giove, usciranno da noi; ciò che oggi pensiamo, ciò che in genere sperimentiamo diventerà allora mondo esterno. Giunti così a un gradino più alto, guarderemo a ciò che costituisce oggi il nostro mondo interiore, e lo vedremo quale mondo esterno. Quello che un tempo fu sperimentato liberamente, si tramuta in necessità.

 

Sono prospettive molto ma molto importanti, e solo considerandole si può arrivare a capire il peculiare processo dei fatti storici che si svolgono oggi, degli avvenimenti presenti, perché questi c’inducono continuamente a cercar la via dal soggettivo verso l’oggettivo. In fondo, soggettivi possiamo esserlo solo nel presente. Non appena oltrepassiamo il presente e per così dire spingiamo il soggettivo giù nei recessi dell’anima, esso acquista un’esistenza indipendente; sebbene per ora solamente in noi, tuttavia acquista un’esistenza indipendente. E mentre seguitiamo a vivere con altri pensieri, i pensieri di prima vivono ancora, anche se per il momento solamente in noi. Noi diamo loro, per ora, quasi una veste esteriore; ma un giorno essa cadrà. Nel mondo spirituale la cosa è già diversa; si dovrà perciò considerare in questa prospettiva l’esempio portato più sopra come ipotesi. Guardando i fatti esteriormente, è franata una roccia ed ha sfracellato una comitiva di persone; ma questa è solo l’espressione esteriore di un evento che si compie spiritualmente, e ciò che si compie nello spirito è l’altro lato, esistente altrettanto oggettivamente del primo.

 

Oggi ho voluto parlare di queste cose per mostrare come libertà e necessità si compenetrino, sia nel divenire universale, sia nel divenire nel quale noi, uomini viventi, ci troviamo collocati; per mostrare come siamo intessuti nel mondo e come giorno per giorno, ora per ora, diventiamo quel che la natura ci mostra esteriormente. Il nostro passato è già in noi stessi un pezzo di natura. Continuando ad evolverci, noi oltrepassiamo questo pezzo di natura come gli esseri spirituali oltrepassarono il loro stadio evolutivo, la loro evoluzione naturale, divenendo gerarchie più elevate.

 

Abbiamo così percorso una tra le molte vie che si possono scegliere al line di comprendere come tutto ciò che avviene nel fisico non debba venir giudicato solamente da un lato, dall’aspetto fisico, ma come si debba tener conto che oltre all’aspetto fisico esso ha in sé una spiritualità occulta. Come è vero che il nostro corpo fisico racchiude anche il nostro corpo eterico, così è vero che a base di ogni fatto sensibile ve ne è uno soprasensibile. Di conseguenza, se consideriamo il mondo soltanto alla stregua di quel ch’esso rivela ai nostri occhi, che succede fuori, ce ne formiamo in fondo un concetto molto incompleto. Può darsi che, mentre un fatto avviene esternamente, ne avvenga in pari tempo interiormente un altro del tutto diverso con esso collegato e infinitamente più importante di quello che si rivela al nostro occhio fisico. Può darsi che alle anime di cui abbiamo parlato, colte esteriormente dalla sciagura, sia occorsa nell’ambito spirituale un’esperienza infinitamente più importante che il fatto apparente sul piano fisico. Ciò che esse incontrano così, avrà per quelle anime, come vedremo in seguito, vaste conseguenze future.

 

Ma qui interrompiamo oggi i nostri pensieri per riprenderli domenica prossima. Oggi mi ero prefisso soltanto di avviare i pensieri e le idee in modo da indicare come non si possano raggiungere concetti giusti su libertà e necessità, su colpa ed espiazione, se al fisico non aggiungiamo lo spirituale.