L’azione di forze soprasensibili attraverso le imprese di Giovanna d’Arco

O.O. 126 – Storia occulta – 28.12.1910


 

Sommario: L’azione di forze soprasensibili attraverso le imprese di Giovanna d’Arco che resero possibile l’individualizzarsi dei popoli europei dando un nuovo volto alla storia moderna. Scotus Eriugena. Aspetti occulti dietro le figure di Gilgamesh e di Eabani. L’immagine del centauro.

 

Ieri, in via d’introduzione, ho fatto anzitutto notare come una giusta comprensione di certi antichi eventi storici dell’umanità si ottenga solamente se non si guarda solo alle forze e alle facoltà delle persone stesse, ma se si premette che date personalità sono come strumenti attraverso i quali operano entità spirituali che, da mondi superiori, riversano i loro influssi nel nostro. Dobbiamo pensare che queste entità non possono intervenire direttamente qui nel nostro mondo, nei nostri fatti fisici, poiché, dato il grado attuale della loro evoluzione non possono incarnarsi in un corpo fisico che trae i suoi elementi dal nostro mondo fisico. Se dunque vogliono agire nell’ambito di questo nostro mondo fisico, sono costrette a valersi dell’uomo fisico, della sua mano, ma anche del suo intelletto, delle sue facoltà di comprensione. Quanto più retrocediamo nell’evoluzione umana, tanto più evidenti ci appaiono l’influenza e l’azione di tali entità dei mondi superiori. Non dobbiamo però credere che questo fluire, attraverso gli uomini, di forze e di azioni dai mondi superiori nel mondo fisico, sia mai cessato fino ai nostri tempi.

 

Questo fatto, come ora è stato esposto, sarà certo facilmente comprensibile per l’indagatore dello spirito il quale, nell’ambito della vita antroposofica che da anni ormai stiamo svolgendo, ha accolto in sé gli impulsi che guidano il nostro sentire e il nostro pensare a presuppone l’esistenza dei mondi superiori; egli è infatti abituato a tendere sempre quei fili di congiunzione, se così possiamo chiamarli, grazie ai quali la nostra conoscenza, il nostro pensare e il nostro volere si ricollegano con le entità delle gerarchie superiori.

 

Ma succede a volte anche all’indagatore dello spirito di doversi difendere contro i concetti materialistici che sono invalsi ormai nel presente e che rendono impossibile alle persone lontane dallo sviluppo spirituale di ammettere qualsiasi discorso sulle azioni che dai mondi superiori discendano nel nostro mondo fisico.

 

In fondo oggi è già antiquato il parlare anche solo dell’esistenza di idee astratte dominanti gli eventi umani nella storia; è già proibito affermare, di fronte alla vera scienza, che date idee, idee astratte, le quali in fondo non possono vivere che nel nostro raziocinio, si esplicano nel susseguirsi delle epoche storiche. Un’ultima parvenza di fede in tali idee astratte (delle quali in verità non si può comprendere come agiscano dato che sono idee astratte) si ritrova ancora, nel secolo diciannovesimo, nei testi storici di Ranke. Ma anche questa fede nelle idee attive della storia viene a poco a poco buttata a mare dalla nostra progrediente evoluzione materialistica, e oggi, anche riguardo alla storia, è segno di mente illuminata la persuasione che tutti gli eventi storici, tutti i tratti caratteristici che distinguono fra loro le epoche, quel che compare nelle diverse epoche, sono in fondo un semplice risultato della combinazione di fatti esteriori fisici visibili, di necessità esteriori, di interessi esteriori, appunto di idee dell’uomo fisico. È passato il tempo in cui certi spiriti, come per esempio Herder, esponevano ancora, come per ispirazione, l’evoluzione della storia dell’umanità in modo da sentire almeno il presupposto di potenze vive, di potenze soprasensibili viventi che si manifestano attraverso le azioni e attraverso la vita degli uomini. Invece oggi chi vuol dar prova dei suoi lumi, dirà: “Non c’è dubbio che un uomo come Lessing abbia parecchie idee ragionevoli; ma alla fine della sua vita si è perso in certe idee confuse come quelle che espone nel suo scritto L’educazione del genere umano, dove alla fine, per trarsi d’impaccio, non trova di meglio che ricorrere all’idea della reincarnazione per spiegare le leggi severe del divenire storico”. E veramente, nelle ultime righe della sua Educazione del genere umano Lessing ha portato ad espressione quello che la scienza dello spirito descrive sulla base di fatti occulti dicendo che le anime, che vissero in epoche antiche e ivi accolsero viventi forze attive, trasportano poi queste forze nelle loro nuove incarnazioni; dietro allo svolgersi materiale dei fatti non vi è dunque una corrente d’idee meramente astratte, bensì un vero e reale fluire dello spirito. Ripeto, una testa fina dirà che Lessing era ormai vecchio, che perciò gli vennero in mente certe idee confuse come la reincarnazione, ma che non bisogna prenderle in considerazione. Mi ricordo a questo proposito di una noticina così amaramente ironica eppur così sagace nel diario di Hebbel; egli dice che sarebbe un bel fatterello se un professore del liceo spiegasse Platone ai suoi scolari, uno dei quali fosse Platone reincarnato; e che il professore dovesse poi punirlo severamente perché, come egli spiega Platone, lo scolaro non riesce a capirlo.

 

Riguardo all’interpretazione storica dell’evoluzione dell’umanità, sta il fatto che molto è andato perduto dell’antica concezione spirituale, e che la scienza dello spirito dovrà strenuamente difendersi contro l’assalto del pensiero materialistico che urge da ogni parte e trova semplicemente assurde le comunicazioni derivanti da fatti spirituali. In fondo, si crede di aver conseguito dei progressi mirabili, anche perché ad esempio tutte quelle immagini grandiose, quelle possenti rappresentazioni simboliche fluite dall’antica chiaroveggenza, ed espresse nelle mitologie, nelle figure di eroi, nelle leggende e nelle fiabe, vengono oggi spiegate nel modo più singolare. Il libretto Orfeo di Salomon Reinach, che ai nostri tempi ha sollevato un certo rumore in alcuni circoli francesi, è forse quanto di più curioso si può segnalare in questo campo. Tutto quello da cui dovrebbero essere scaturite le idee di Demetra, di Orfeo, di altri cicli mitologici, viene ricondotto da Salomon Reinach ad avvenimenti puramente materiali; talvolta è incredibilmente grottesco il modo con cui egli fa derivare l’esistenza storica di questa o quella figura che sta, mettiamo, dietro a Ermete o a Mosè, il modo triviale con cui cerca di spiegare queste figure facendole derivare dalla libera poesia dell’umanità, dalla fantasia. Secondo i metodi di Salomon Reinach, fra 60 o 70 anni, vale a dire quando sarà un po’ sbiadito il ricordo esteriore della sua esistenza, sarebbe facile provare che un certo Reinach non è mai esistito, ma che la fantasia poetica popolare ha soltanto trasferito su Salomon Reinach l’antico concetto di Reinecke Fuch. Seguendo i suoi metodi sarebbe assolutamente possibile. È assurdo tutto il contenuto del libretto che, come è spiegato nell’introduzione, fu scritto «per la vasta cerchia delle persone colte e anche per i giovani». «Per i giovani», perché egli sottolinea di aver tralasciato tutto quanto avrebbe potuto disturbare specialmente le giovani, malgrado non abbia omesso di far risalire al maiale l’idea di Demetra. Egli promette anche, se il suo libro avrà il successo che spera, di fame una speciale edizione per le madri, contenente tutto quanto ha stimato di saltare oggi per le figlie. A questo punto siamo arrivati!

 

Noi vorremmo invece far osservare ai cultori della scienza dello spirito che veramente l’azione di potenze spirituali, di forze spirituali operanti attraverso gli uomini fino nel secolo nostro, si può dimostrare in base a motivi razionali meramente esteriori, e astraendo del tutto dall’indagine esoterica-occulta di cui qui prevalentemente ci occupiamo. Ma per intenderci sul come la scienza dello spirito possa conquistarsi una certa possibilità di sostenere in modo puramente esteriore il fatto che nella storia operano delle potenze soprasensibili, mi sia lecito accennare a quel che segue.

 

Chi penetra un poco nell’evoluzione dell’umanità moderna, quale si è sviluppata diciamo nei secoli quattordicesimo, quindicesimo e sedicesimo, saprà la profondissima importanza che ebbe in quell’evoluzione esteriore dell’umanità moderna l’intervento storico di una personalità di cui si può veramente provare, in base a motivi esteriori, che attraverso ad essa agirono potenze spirituali soprasensibili. E potremo chiederci, al fine di gettare un po’ di luce sulla concezione occulta della storia, che cosa sarebbe accaduto dello sviluppo dell’Europa moderna, se Giovanna d’Arco non fosse apparsa agl’inizi del secolo quindicesimo. Chi infatti considera anche del tutto esteriormente lo sviluppo di quell’epoca, deve dirsi che, cancellando dal divenire storico le gesta di Giovanna d’Arco, sarà chiaro, anche secondo i dati dell’indagine storica puramente esteriore, che senza l’attività di potenze soprasensibili superiori attraverso Giovanna d’Arco, la Francia, anzi l’Europa intera, avrebbe dovuto assumere nel secolo quindicesimo una diversa configurazione. Tutto quello infatti che si svolgeva allora negli impulsi volitivi, nei cervelli delle teste fisiche, tendeva a diffondere su tutta l’Europa una generale concezione dello Stato tendente a cancellare e a spegnere le individualità dei popoli, un influsso che certo avrebbe reso impossibile gran parte di quanto si è venuto conformando in Europa negli ultimi secoli, grazie alla reciproca azione delle individualità dei popoli europei.

 

Pensiamo per un momento di cancellare dalla storia le gesta di Giovanna d’Arco, immaginiamo la Francia abbandonata al suo destino senza l’intervento di lei, e domandiamoci che cosa sarebbe stato della Francia. Consideriamo poi quale parte ebbe la Francia nei secoli che seguirono, in tutta la vita culturale dell’umanità! Accanto a questo poniamo il fatto inoppugnabile, anzi attestato da documenti esteriori, della missione avuta da Giovanna d’Arco; rendiamoci conto che questa giovinetta, non ancora ventenne nell’autunno del 1428, di una istruzione esteriore in verità non rilevante neppure per i suoi tempi, sente improvvisamente che delle potenze spirituali dei mondi soprasensibili le parlano, potenze a cui, beninteso, ella presta le forme che le sono familiari, potenze che ella vede attraverso gli occhi delle sue rappresentazioni, ma che sono nondimeno una realtà. Rendiamoci conto che ella sa che potenze soprasensibili guidano la forza della sua volontà verso un punto ben definito; e io non vi narro nulla per ora di quanto può dire la cronaca dell’akasha di questi fatti; dico solo quello che è stabilito da dati puramente storici.

 

Sappiamo che Giovanna d’Arco si confidò all’inizio con un suo parente presso il quale, si direbbe quasi per caso, trovò comprensione; che dopo molte e varie peripezie e difficoltà venne condotta nell’accampamento di re Carlo, giunto, con tutto l’esercito francese, a non saper più dove batter la testa. Sappiamo come, dopo che tutti gli ostacoli possibili erano stati messi sulla sua via, ella scoperse re Carlo tra una folla di gente in mezzo alla quale egli era assolutamente irriconoscibile alla vista esteriore, dirigendosi rapida e sicura verso di lui. È risaputo inoltre che ella – messa dal Re alla prova – gli confidò qualcosa che soltanto lui e i mondi soprasensibili potevano sapere. Si sa anche dalla storia esteriore che ella, sotto gli impulsi continui e l’impressione continua della sua energica fede – meglio si direbbe, grazie alla sua diretta veggenza – fra le massime difficoltà condusse gli eserciti alla vittoria e il Re all’incoronazione.

 

Chi intervenne allora nel corso dell’evoluzione storica? Certo non altri che esseri appartenenti alle gerarchie superiori. Giovanna d’Arco fu uno strumento esteriore di quelle entità, e furono esse, quelle entità delle gerarchie superiori, a guidare gli eventi della storia. Non nego che qualcuno possa dire: “Se fossi stato io a guidarli avrei fatto le cose meglio”, poiché gli parrà forse poco conforme al suo pensare questo o quel fatto verificatosi con l’intervento di Giovanna d’Arco. Ma i seguaci della scienza dello spirito non devono voler correggere le azioni degli spiriti superiori col loro giudizio umano, ciò che peraltro succede oggi dovunque nella nostra sedicente civiltà. Naturalmente c’è stato anche chi, proprio come si usa oggi, ha voluto purgare la storia del mondo moderno dalle gesta di Giovanna d’Arco. In questa direttiva materialistica Anatole France scrisse un’opera caratteristica per i nostri tempi. Sarebbe certo interessante sapere come se la cava il pensare materialistico di fronte a documenti in verità ben fondati, e qui parlo ancor sempre di documenti della storia esteriore. Poiché siamo qui, e a volte mi piace riferirmi a condizioni locali, desidero citare un documento che qui è già stato richiamato un’altra volta.

 

Il pubblico di Stoccarda sa di certo che in questa città visse un noto studioso dei Vangeli. Quali seguaci della scienza dello spirito non occorre certo essere d’accordo con quello che Gfròrer – così si chiama lo studioso in questione – espose nei suoi libri sui Vangeli, anche se a volte sono esposizioni intelligenti; si può anche essere sicurissimi che Gfròrer, se ascoltasse quello che ora vien detto dalla scienza dello spirito, userebbe l’espressione che spesso usava per i suoi avversari, non sempre trattati con delicatezza data la sua cocciutaggine; avrebbe cioè detto che gli antroposofi sono persone «non tutte giuste sotto il loro cappello». Allora peraltro non era ancora venuto il tempo, come si fa oggi, in cui si potesse sorvolare in modo puramente materialistico su documenti storici, quando essi riguardano fatti che sono scomodi, quando mostrano l’evidente azione di viventi forze superiori nel nostro mondo fisico.

 

Cosi oggi desidero citare di nuovo un piccolo documento, una lettera pubblicata nella prima metà del secolo diciannovesimo. Vorrei leggerne solo il passo al quale allora si era richiamato Gfròrer a giustificazione della sua opinione, il passo che si riferisce a Giovanna d’Arco, per chiedere poi che cosa significhi una simile vivente descrizione.

 

Lo scrittore di quella lettera, dopo aver enumerato le gesta di Giovanna d’Arco, così prosegue:

• «Questo e altro ha compiuto Giovanna d’Arco, e con l’aiuto di Dio compirà imprese anche maggiori. La giovinetta è di soave bellezza e ha portamento virile; parla poco e mostra una meravigliosa sagacia; nei suoi discorsi ha voce piacevole, fine, come sogliono avere le donne. È parca nel mangiare e ancor più nel bere vino. Si compiace assai nel vedere bei cavalli e belle armi; e ha molto caro veder uomini nobili ed eletti in armatura. L’incontro e la conversazione con molti le è sgradito; sovente si scioglie in lacrime, le piacciono volti lieti, regge a inaudito lavoro, e sostiene sì bene il peso delle armi che senza sosta rimane in arnese sei notti e sei giorni consecutivi.

Ella dice che gli inglesi non hanno alcun diritto sulla Francia, e che perciò Iddio l’ha mandata per scacciarli e vincerli, tuttavia dopo una preventiva ammonizione. Dimostra al Re somma venerazione; dice che è amato da Dio e nella Sua special protezione, e che perciò sarà salvaguardato. Di vostro nipote, il duca d’Orleans, dice che sarà liberato in modo miracoloso, ma non prima che sia stato rivolto agli inglesi, che lo tengon prigione, un monito affinché lo rimettano in libertà.

E per chiudere, eccelso Principe, questa mia relazione, dirò che accadono e sono accadute cose più meravigliose di quanto io vi scriva o possa esprimere a parole. Mentre vi scrivo Giovanna d’Arco si è già diretta verso la regione della città di Rheims nella Champagne, là dove accorre in fretta il Re, sotto l’egida di Dio, per essere unto e coronato. Illustre e potente Principe e mio venerato Signore! mi raccomando a voi umilmente, pregando l’Altissimo che vi protegga ed esaudisca i vostri desideri.

Scritto a Biteromis addì 21 di giugno.

Il vostro umile servo Percival, Signore di Bonlaninth, Consigliere e Ciambellano del re dei Francesi e del duca d’Orleans,

Siniscalco del Re, nativo del Berry».

 

Uno che conosce la giovane scrive questa lettera dalle immediate vicinanze del Re. In verità è meraviglioso ritrovare tutte queste cose coi mezzi occulti – poiché sono rintracciabili nella cronaca dell’akasha – e vedere come in questi casi si abbiano anche dei documenti della storia esteriore. In breve, sembra quasi pazzia dubitare di ciò che agiva attraverso Giovanna d’Arco. E se consideriamo inoltre che grazie alle sue gesta tutta la storia moderna ha cambiato aspetto, possiamo affermare a buon diritto che qui si vede un intervento diretto dei mondi soprasensibili, attestato da documenti esteriori. Se poi l’investigatore dello spirito va più oltre e si guarda intorno a suo modo per cercare il vero e proprio ispiratore che agì su Giovanna d’Arco, nell’esplorare le epoche che si susseguono, trova un fatto ben singolare. Trova cioè che il medesimo spirito che a suo tempo agì attraverso Giovanna d’Arco come attraverso un suo strumento, agì pure in tutt’altro modo, ispirandolo, anche in un altro personaggio, un filosofo vissuto alla corte di Carlo il Calvo: Scotus Eriugena, le cui idee teologico-filosofiche esercitarono in Europa, in un’epoca anteriore, un influsso tanto profondo. Così vediamo come, in epoche diverse, le medesime potenze agiscano in modo diverso attraverso gli uomini come attraverso a loro strumenti, come in quella che chiamiamo storia vi sia una continuità, un divenire consecutivo.

 

Ho mostrato ieri come in un mito importante del periodo babilonese-caldaico si accenni all’influsso dei mondi spirituali su certi uomini dai quali molto dipese nella storia del nostro terzo periodo postatlantico, per tutto lo svolgimento storico dell’antica Caldea, dell’antica Babilonia. Ora dobbiamo peraltro considerare anche dal punto di vista della scienza occulta le due personalità che si nascondono sotto i nomi leggendari di Gilgamesh e di Eabani. Secondo la storia occulta dobbiamo vedere in loro delle personalità vissute all’inizio di quella che chiamiamo la civiltà babilonese-caldaica. Ritroviamo gli impulsi che da loro poterono derivare nello sviluppo della civiltà spirituale vera e propria dell’antica Babilonia, dell’antica Caldea. Gilgamesh era una personalità che aveva dietro a sé molte incarnazioni, e tali da poterlo designare nell’evoluzione dell’umanità come un’anima antica.

 

Dalle descrizioni della mia Scienza occulta si ricorderà che durante il periodo lemurico ben pochi uomini sostennero sulla terra medesima le vicende della sua evoluzione; che ben pochi rimasero sulla terra durante il periodo lemurico; che la maggior parte delle anime, prima che cominciasse il pericolo della mummificazione di tutto l’elemento umano, salì dalla terra verso altri pianeti e continuò a vivere su Marte, Saturno, Venere, Giove e così via. Si ricorderà che dalla fine del periodo lemurico in poi e durante il periodo atlantico, queste anime via via ridiscesero sulla terra, per incarnarsi in corpi umani nelle mutate condizioni terrestri, e riapparire in incarnazioni sempre nuove. Abbiamo così delle anime discese relativamente presto dal mondo dei pianeti, e altre che ne discesero soltanto tardi, in periodi avanzati dell’evoluzione atlantica. Le prime anime, quelle che discesero prima, hanno dietro di loro un maggior numero di incarnazioni sulla terra che non le anime discese dopo; possiamo chiamare queste, in confronto alle prime, anime giovani, anime dunque che hanno accolto in sé minor copia di esperienze.

 

Era un’anima antica l’individualità che si nasconde dietro il nome di Gilgamesh, e un’anima più giovane quella che, agli inizi della civiltà babilonese, era incarnata in Eabani. In relazione a questa minore o maggiore età delle anime umane troviamo un fenomeno assai singolare, un fenomeno che stupisce quasi gli occultisti medesimi. Chi per esempio è arrivato oggi ad ammettere in parte le verità della scienza dello spirito, rimanendo tuttavia legato ai giudizi e pregiudizi del mondo esteriore, sarà convinto che le anime dei filosofi o dei dotti del nostro tempo debbano esser annoverate fra le anime antiche. Per singolare che appaia, all’indagine occulta risulta precisamente il contrario, ed è sorprendente per l’occultista stesso che per esempio in Kant vivesse un’anima giovane. Non c’è niente da fare: i fatti lo dicono. Si potrebbe anche osservare che le anime più giovani si incarnano per la massima parte nelle razze di colore; che quindi le razze di colore, la nera soprattutto, portano a incarnazione in prevalenza le anime più giovani. E proprio la caratteristica della mentalità umana che vive nel dottrinarismo, nell’odierna scienza materialistica, esige anime giovani. Si può anzi rilevare che alcune personalità, delle quali certo non lo si penserebbe, nella loro vita precedente furono incarnate tra i selvaggi. Anche questo è detto dai fatti, va tenuto presente, è così. Naturalmente ciò non toglie nulla all’importanza, al valore dei giudizi che ci facciamo sul nostro mondo circostante: e tuttavia dobbiamo afferrare anche questo per arrivare a una comprensione complessiva dei problemi. In questo senso nell’antica Babilonia abbiamo a che fare con un’anima giovane in Eabani, con un’anima vecchia in Gilgamesh. Una tale anima antica sarà portata da tutta l’indole sua ad afferrare presto ciò che non è semplicemente elemento e fattore del presente, ma che vi penetra come impulso nuovo e apre vaste prospettive future.

 

Non mi nascondo che molti protesterebbero, se si volesse persuaderli che gli antroposofi, da essi così spesso considerati inferiori, sono per lo più anime molto più vecchie che non quelle di coloro che tengono conferenze accademiche. Ma 34 l’indagine lo mostra; e sebbene dell’indagine occulta non si debba abusare per rovesciare i valori o ridersi di quello che è ormai il carattere della nostra civiltà, pure bisogna guardare in faccia la verità. Gilgamesh era dunque una personalità che, grazie alla costituzione della sua anima, si atteneva agli elementi e ai fattori spirituali più progrediti del suo tempo; a quello che per i suoi tempi illuminava molto il lontano futuro, e che anche allora poteva venir raggiunto soltanto col passare attraverso una specie di iniziazione. Una certa iniziazione, la comunicazione di ciò che si può ricevere solo mediante l’iniziazione, doveva dare a Gilgamesh la facoltà di fornire dei fermenti alla civiltà babilonese. Egli doveva cioè venire iniziato fino a un certo grado.

 

Ora osserviamo un po’ quale dovesse essere l’atteggiamento di Gilgamesh nell’evoluzione dell’umanità, prima della sua iniziazione. Egli era un uomo del terzo periodo postatlantico; periodo in cui la chiaroveggenza umana naturale, quella di cui l’uomo era capace grazie alle sue forze naturali, era già arrivata al crepuscolo. Non esisteva più in misura tale da permettere a molti uomini una visione retrospettiva delle loro incarnazioni. Se retrocediamo maggiormente, nel secondo, nel primo periodo postatlantico, troviamo che moltissimi degli uomini sulla nostra terra erano ancora capaci di guardare indietro alle loro precedenti incarnazioni, al decorso della loro vita animica prenatale. Via via ciò si era venuto perdendo. Per Gilgamesh avvenne che l’entità che doveva manifestarsi attraverso di lui, e che poteva manifestarsi attraverso lui solo guidandolo a poco a poco a una specie di iniziazione, tenne per così dire sempre la mano su di lui. Lo collocò nel luogo dal quale egli potesse imparare a giudicare della propria posizione nella storia universale. A mezzo di avvenimenti soprasensibili, che nel mito descritto ci appaiono in immagini, gli fu posto a lato un amico di cui ci viene accennato lo stato di barbarie, d’inciviltà, nel suo aspetto esteriore a metà animale. Ci vien detto che questo amico indossava pelli d’animali, che era ancora peloso come gli uomini primitivi, che la sua anima era così giovane da costruirsi un corpo che mostrava l’uomo ancora in forma selvaggia. Così Gilgamesh, l’uomo maggiormente progredito, ha vicino a sé in Eabani un uomo che, mediante la sua anima giovane e l’organizzazione corporea da essa determinata, possedeva ancora un’antica chiaroveggenza. Questo amico gli era stato messo a fianco perché egli potesse orientarsi; per suo mezzo gli riuscì di eseguire date cose, come per esempio il ritorno dell’entità spirituale che è rappresentata nel mito sotto le sembianze di Ishtar, la dea patrona della città di Erek. Dissi che la statua della dea era stata rapita dalla città vicina, e che quindi Gilgamesh ed Eabani mossero guerra alla città, ne vinsero il Re e ricondussero in patria la dea.

 

Se vogliamo capire queste cose nel loro giusto valore storico, come ci vengono esposte da questi antichi miti, bisogna indagarne le basi occulte. Il ratto della dea nasconde per esempio qualcosa di simile al ratto di Elena, condotta a Troia da Paride. Quel che esposi nella mia conferenza Il sangue è un succo molto peculiare poggia su ragioni ben fondate. Dissi che nei popoli antichi dominava una certa coscienza collettiva, che entro la propria pelle l’uomo non sentiva soltanto il suo io personale, ma che si sentiva membro di una tribù, di una città.

 

Come la singola anima umana viene sentita come fattore centrale dalle dita, dalle mani, dai piedi, dalle gambe, insomma da tutto l’organismo, così l’uomo dei tempi antichi sentiva di appartenere qual membro all’anima del gruppo. Nei tempi passati ciò esisteva ancora nelle antiche comunità cittadine, persino in Grecia. Uno spirito comune, un io di popolo, un io di stirpe, viveva e dominava attraverso le singole personalità del popolo. Ma quel che di un tale io comune poteva giungere alla coscienza umana, in certo modo doveva venir amministrato nei misteri, in templi segreti. Ivi stavano gli antichi sacerdoti dei misteri e amministravano le questioni spirituali comuni di una città o di una stirpe. Non è soltanto metafora, ma in un certo senso è vero e reale il dire che un tempio siffatto era veramente come una dimora dell’io della città, dell’anima di gruppo. Ivi essa aveva la sua sede centrale, e i sacerdoti del tempio erano i suoi servi. Erano essi che ricevevano per ispirazione i messaggi di quell’anima di gruppo (lo si chiamava oracolo), e che li propagavano fuori nel mondo, affinché accadesse questo o quell’evento; gli oracoli di quei tempi vanno assolutamente compresi nel senso qui caratterizzato.

 

L’amministrazione di tali templi era collegata a certi segreti e molte lotte dei tempi antichi si svolgevano per il fatto che i sacerdoti del tempio di una città venivano imprigionati e portati nelle città vicine, affinché con i sacerdoti vi venissero portati anche i segreti più importanti dell’altra. Ecco il fatto reale, corrispondente all’immagine in cui la dea Ishtar, l’anima di popolo della città di Erek, viene rapita dalla città vicina. I sacerdoti del tempio, gli amministratori dei segreti del tempio, erano stati fatti prigionieri, perché la città vicina sperava così di impossessarsi dei sacri segreti e quindi della potenza della città. Questa è la sostanza che vi sta dietro.

 

Gilgamesh, data la disposizione animica in cui si trovava, non riusciva a scorgere da sé quei nessi, ma un’anima più giovane poteva per così dire mettere a sua disposizione la propria chiaroveggenza, per aiutarlo a riconquistare alla patria il tesoro del tempio. Gilgamesh venne condotto a rendersi conto di come nella vita umana, e specialmente in epoche di transizione, accade il fatto rispecchiato dalla leggenda del cieco e dello zoppo: ciascuno per sé, essi sono entrambi impotenti, ma unendosi si aiutano ad andare avanti, il cieco caricandosi sulle spalle lo zoppo, e lo zoppo prestando al cieco la sua facoltà visiva. In Gilgamesh ed Eabani appare cosi, tradotta in senso spirituale, la collaborazione di uomini che hanno doti completamente differenti. Ritroviamo ad ogni piè sospinto questo fenomeno nei fatti storici antichi, ed è importante comprenderlo, perché allora soltanto potremo capire come mai i miti e le leggende ci parlino così spesso di amici che devono compiere insieme qualche impresa; amici che di solito sono di una costituzione animica così diversa, come lo erano appunto Gilgamesh ed Eabani. Oltre a questo però, per mezzo del suo amico Eabani, Gilgamesh potè conquistare con la sua anima una propria forza chiaroveggente, ed essa gli permise di guardare nelle sue precedenti incarnazioni. Così Gilgamesh apprese veramente da Eabani a guardare nelle precedenti incarnazioni; qualcosa che già esorbitava dalle facoltà normali di Gilgamesh. Ed ora rappresentiamoci vivamente l’influsso che egli potè ricevere da questo suo guardare nelle sue incarnazioni passate.

 

Che cosa avrà mai potuto dirsi dal giorno in cui nella sua anima affiorò la possibilità di guardare alle esperienze vissute in precedenti incarnazioni? A tutta prima rimase perplesso. Non riusciva a ritrovare l’essere suo proprio quale era stato nelle vite passate; in un certo senso non si riconosceva. Questo accadrebbe in genere a tutti gli uomini, se cominciassero a guardare alle loro incarnazioni passate. Le cose si rivelerebbero ben diversamente da come di solito si fantastica a questo proposito, dicendo che il tale è la reincarnazione di questa o quella personalità. Può capitare di sentire taluno indicare per le sue incarnazioni precedenti tutta una serie di grandi nomi storici. Esiste perfino gente convinta di non essere mai stata nelle vite precedenti al di sotto del rango di una regina o di una principessa. Ma in queste cose, che andrebbero prese così sul serio, non è lecito sbrigliare la fantasia, e non si deve farne un uso sconveniente.

 

Per tornare a Gilgamesh, chi come lui rivede la sequela delle proprie incarnazioni può davvero a tutta prima restarne sorpreso. Gli si svelavano infatti delle incarnazioni in cui era stato ancora intessuto in nessi determinati dall’appartenenza all’anima di gruppo. È vero che, quanto alla sua persona, egli si era in certo modo evoluto al di là di tali nessi e che per mezzo di Eabani aveva potuto conoscere tutto il valore di ciò che, attraverso la dea della città, veniva simbolizzato nel mito. Ma guardando indietro, molti aspetti delle sue precedenti incarnazioni gli dispiacevano, non erano di suo gusto. Scopriva per esempio che la sua anima aveva avuto in passato delle speciali amicizie, delle relazioni umane tutte speciali, di cui ora si vergognava. Ecco venirne fuori l’immagine del mito in cui vediamo che, di fronte a quanto gli rivela indirettamente la dea della città a mezzo di Eabani, Gilgamesh protesta, si inquieta, rimprovera la sua anima. Il mito dice che egli rimprovera alla dea le sue conoscenze, che ne è geloso. Gilgamesh guarda per così dire all’orizzonte della sua anima, e le sue visioni gli stanno dinanzi altrettanto vive quanto nel mondo fisico stanno intorno a noi le persone che ci ispirano più o meno simpatia o antipatia. In tutti i rimproveri che Gilgamesh muove alla dea, egli si riferisce veramente a ciò che si svolge nelle profondità della sua anima. Per esempio quando egli rimprovera alla dea la di lei precedente conoscenza con un tale chiamato nel mito Ishulanu, ciò significa soltanto che non gli piaceva la propria conoscenza con un tale che era stato il giardiniere del suo padrone in un’incarnazione precedente. In breve, tutto quello che si svolge nell’anima di Gilgamesh e che veramente gli conferisce quell’impulso, quella pienezza interiore dell’anima necessaria per far di lui l’inauguratore della civiltà babilonese, ci viene raffigurato nel ritorno a una certa chiaro- veggenza, nel suo elevarsi a mondi soprasensibili; facoltà che come anima vecchia egli aveva in certo modo già perduta. Questo ci viene esposto nel mito.

 

Dopo di ciò Gilgamesh doveva subire una specie di iniziazione, per venir ricondotto alla forma di veggenza che la sua anima aveva posseduto nelle incarnazioni atlantiche. Con tutti i viaggi, con tutte le disavventure di Gilgamesh nell’attraversare l’oceano verso occidente, il mito ci indica il viaggio interiore della sua anima verso l’iniziazione; con questa essa si eleva ad altezze spirituali da dove spazia con lo sguardo sugli eventi dell’epoca atlantica, quando l’anima guardava ancora chiaroveggentemente il mondo spirituale. Di conseguenza il mito racconta che nel suo viaggio spirituale Gilgamesh fu condotto ad avvicinare la grande personalità atlantica del sovrano Xisuthros*, personalità appartenente a date gerarchie superiori, la quale nell’epoca atlantica viveva fra gli uomini, ma che più tardi fu sottratta all’umanità terrestre e dimorò in regioni superiori dell’esistenza. Gilgamesh doveva imparare a conoscere quella personalità perché, osservandone la natura, gli riuscisse di conquistare quel che ci vuole per sapere come sono le anime, quando divengono atte a vedere nei mondi spirituali. Doveva dunque venir ricondotto nelle sfere spirituali mediante un ritorno della sua anima fino ai tempi atlantici. L’imposizione che gli viene fatta di non dormire per sette notti e per sei giorni è soltanto un esercizio grazie al quale l’anima doveva venir plasmata in modo tale da poter penetrare completamente nelle corrispondenti regioni spirituali ora caratterizzate. Se poi ci viene detto che Gilgamesh non vi riesce, anche questo indica un fatto importantissimo: significa che in Gilgamesh viene presentata una personalità che giunge fin proprio alle soglie dell’iniziazione, che doveva affacciarsi alle porte dell’iniziazione e guardare nei segreti spirituali, ma che tuttavia non potè penetrarne tutte le profondità a causa del complesso carattere dell’epoca. In breve ci mostra che l’inaugurato-re, l’organizzatore della civiltà babilonese rimase in certo modo alle porte dell’iniziazione, che non potè avere una visione chiara dei mondi spirituali superiori, e che diede perciò alla civiltà babilonese la speciale impronta che è il contrassegno di un semplice affacciarsi ai segreti dell’iniziazione.

 

Vedremo fra poco come la civiltà babilonese in verità sia tale da giustificare questo asserto. Mentre per esempio in Ermete ci è data una personalità che guardò profondissimamente addentro ai più sacri misteri dell’iniziazione, e potè quindi diventare il grande iniziatore della civiltà egizia, dobbiamo dire invece che la civiltà babilonese esteriore venne preparata nel modo che abbiamo caratterizzato or ora: cioè mediante la personalità-guida avente nell’anima tutte le qualità che si sviluppano quando non si penetra del tutto nell’intimo dei sacri misteri. Perciò nell’antica Babilonia abbiamo infatti un’evoluzione storica in cui scorgiamo distintamente, l’uno accanto all’altro, uno svolgimento esteriore della civiltà e uno interiore, esoterico. Mentre nella vita egizia queste due correnti si compenetrano maggiormente, nella civiltà babilonese antica esse si scindono del tutto. In seno alla civiltà che chiamiamo babilonese e che fu inaugurata da Gilgamesh visse il contenuto dei misteri più sacri e più occulti dei Caldei.

 

Gli iniziati dei misteri erano certamente iniziati nei segreti più profondi, ma ciò fluiva soltanto come tenue rivo attraverso la civiltà esteriore che era il risultato degli impulsi di Gilgamesh. E tutte le nostre considerazioni ci hanno mostrato che in fondo la personalità di Gilgamesh non era ancor giunta a poter sperimentare un’iniziazione completa. Questo appunto lo rendeva specialmente atto a non esplicare nel tempo in cui agì la somma dei propri impulsi personali, a non partecipare al mondo ciò che era la forza sua, bensì a lasciar passare attraverso se stesso l’attività di una delle entità spirituali che annoveriamo tra gli spiriti del fuoco, ossia gli arcangeli. Una tale entità operava attraverso Gilgamesh, e dobbiamo ricercare in un tale spirito del fuoco gli impulsi che portarono all’ordinamento della società babilonese e le forze delle quali Gilgamesh era strumento. Così possiamo raffigurarci Gilgamesh in un’immagine che ci è data dal simbolo dell’antico centauro; questi simboli antichi corrispondono al vero più di quanto in genere non si creda. Un centauro, metà bestia e metà uomo, stava sempre a rappresentare come, negli uomini più possenti dell’antichità, si scindesse veramente in certo modo il sommo contenuto spirituale umano da ciò che collegava la personalità singola all’organismo animale. Gilgamesh agiva come un centauro su chi lo poteva giudicare, e così agisce ancora oggi su chi è in grado di giudicarlo.

 

È molto strano che nel campo del pensare scientifico moderno riaffiori oggi proprio questa immagine del centauro. Recentemente è apparso un libro che vuol fondarsi tutto sui dati della scienza moderna, ma che pure maneggia questi fatti spregiudicatamente, e procede quindi meno da dilettante, non confonde tutto in modo così poco sensato come fanno coloro che si chiamano monisti. L’autore si studia davvero di comprendere come l’uomo, quale entità spirituale-animica indipendente, stia di fronte all’organizzazione del corpo fisico. Appoggiandosi a premesse scientifiche, arriva così a un’immagine singolare. Nel rappresentarsi quell’immagine, non pensava certo al centauro; eppure, partendo da rappresentazioni scientifiche, come conclusione sui nessi dell’anima col corpo egli dice che si potrebbero confrontare con un cavaliere in groppa a un cavallo. I fatti scientifici veramente capiti ci costringono a dire che l’anima è indi- pendente e che si serve del corpo come di uno strumento, così come il cavaliere si serve del cavallo. Ecco di nuovo il centauro! In verità le cose procederanno rapidamente, e prima che gli uomini lo credano, le rappresentazioni della scienza dello spirito dovranno diventare familiari ai nostri contemporanei, appunto in forza dei fatti scientifici. Or non è molto, parlavo con un filosofo che teneva molto alle concezioni materialistiche e che, spinto da queste, mi disse: «L’immagine del centauro è nata naturalmente così: gli antichi abitanti della Grecia videro venire dal nord dei popoli a cavallo, e siccome per lo più l’orizzonte era nebbioso, ebbero l’impressione che cavalli e cavalieri fossero una figura sola. Nella loro superstizione era facile che se lo figurassero».

 

In verità è un’idea assai semplice, poco filosofica forse, ma certo assai semplice! La rappresentazione del centauro, nata non per il fatto che i greci non abbiano saputo distinguere il cavaliere dal suo cavallo, ma perché realmente i popoli antichi dovevano pensare l’entità spirituale umana come indipendente dalla natura fisica, riappare spontaneamente ai nostri giorni come risultato di concezioni scientifiche. Dobbiamo quindi dire che, nonostante tutte le rappresentazioni materialistiche, il materialismo medesimo, purché si appoggi soltanto ai fatti, a poco a poco conduce oggi alle conclusioni che la scienza dello spirito attinge alle sue sorgenti occulte. Ma se vogliamo, come dobbiamo, mettere a capo della nostra considerazione occulta una figura come quella di Gilgamesh, alla quale già si avvicina anche l’indagine esteriore, allora dovremo renderci conto che abbiamo a che fare con l’azione di un’entità delle gerarchie spirituali superiori. Sicché, per quanto veramente nell’immagine del centauro si debba vedere ogni uomo rispetto alla sua spiritualità, tuttavia, a proposito di un uomo che agisce come Gilgamesh, dobbiamo ancora ammettere in particolare che la parte spirituale del centauro viene diretta da potenze superiori che intervengono con le loro forze nel progresso dell’umanità. Questo ci apparirà tanto più evidente quanto più risaliremo nella storia; ne osserveremo poi le modificazioni avvicinandoci al presente, e vedremo come le forze spirituali, agendo attraverso gli uomini, assumano sempre altre forme quanto più ci avviciniamo all’immediato presente.