Risposte a domande dopo la conferenza

O.O. 73 – L’antroposofia e le scienze – 12.11.1917


 

Dopo la conferenza di Zurigo del 12 novembre 1917

 

Se la coscienza è correlata con la morte, come mai essa avviene anche negli animali nei quali la coscienza va comunque intesa in modo diverso che negli uomini?

 

Quando dopodomani parlerò di problemi pratici penso anche, e ne ho sempre un po’ timore, di potermi occupare di alcune questioni che si riferiscono a un concetto che oggi si presenta molto spesso, al concetto di “inconscio” che anche qui a Zurigo è abbastanza conosciuto grazie alla psicoanalisi, alla psicologia analitica*. In questo campo si presentano importanti e incisivi problemi, e dopodomani vedremo, almeno per accenni, quale relazione abbia con tali problemi ciò che viene elaborato da parte della psicoanalisi per dare una risposta in merito. Con riferimento alla domanda posta, oggi vorrei solo parlare del concetto dell’inconscio. Eduard von Hartmann propose anche filosoficamente il concetto dello “spirito inconscio” e per così dire pose quindi alla base dell’esistenza anzitutto la natura, poi lo spirito cosciente, che comunque deve sempre avere una base naturale, e infine lo spirito inconscio che è puro spirito, ma appunto inconscio.

 

Il punto è che la scienza dello spirito non sa che farsene del concetto di “inconscio” comò tale. Per essa lo “spirito inconscio” è press’a poco come dire “uomo senza testa” nel campo della natura. E ovviamente possibile pensare allo “spirito” in modo astratto, senza coscienza, come è possibile pensare alla testa in modo astratto; si può anche disegnare un organismo privo di testa. Vi sono anche persone cieche in modo isterico e parziale, cioè non cieche organicamente ma istericamente, affette da un disturbo tale a seguito del quale per la strada vedono solo i corpi dei passanti, ma senza testa.

 

Esistono persone del genere che soffrono di questa particolare forma di isteria: vedono solo i corpi e non le teste, vedono la gente senza testa. L’apparenza visiva potrebbe persino dare la prova, per singoli soggetti d’eccezione, come sia pensabile una realtà di uomini privi di testa. Ma appunto non è la realtà.

 

Così è per lo “spirito inconscio” che non è una realtà e mai potrà esserlo. Dopodomani ne vedremo poi le conseguenze, ma ora veniamo alla domanda che è stata posta; senz’altro gli animali non hanno la coscienza umana, ma hanno tuttavia una coscienza. Anche oggi avevo fatto notare in un altro contesto che la scienza dello spirito non ha vita altrettanto facile della scienza ufficiale che esamina le cose solo in modo più comprensibile e meno in una prospettiva reale; anche nella direzione del pensare la scienza dello spirito deve procedere in modo diverso da come oggi si è abituati. Avevo detto che nei libri di fisica si legge che i corpi sono impenetrabili, vale a dire che nello spazio occupato da un corpo non può esservene un. altro. La scienza dello spirito non può accettare questa definizione così com’è, ma secondo il proprio orientamento deve dire: un corpo o un essere che riempie uno spazio in modo che in pari tempo nello stesso spazio non ve ne possa essere un altro, quel corpo è appunto impenetrabile. Un pensiero, preso magari come definizione, si trasforma per lo scienziato dello spirito in un postulato o in qualcosa di analogo.

 

Occorre comunque avere ben chiaro che gli animali non hanno certo la coscienza umana, ma hanno tuttavia una coscienza. Il problema è dunque che chi pensa nel senso odierno, con le attuali abitudini di pensiero afferma che la morte è appunto la morte. Gli uomini muoiono, gli animali muoiono, e muoiono persino le piante. La cosa non è altrettanto semplice per la scienza dello spirito. Per essa non è lecito dedurre l’uguaglianza della realtà sulla base dell’uguaglianza di un contenuto concettuale. Considerata interiormente, secondo la realtà, la morte dell’uomo è del tutto diversa dalla morte di un animale. Così il problema è considerato in concreto! Parlare di morte per una pianta in sostanza ha per la scienza dello spirito lo stesso senso che parlare di morte per un orologio che una volta o l’altra anche “muore”; anch’esso può una volta “morire”. Non è questo il concetto di morte, andrebbe cambiato! Questo concetto racchiude molte cose che lo rendono diverso nell’uomo.

 

Consideriamo ora che l’animale ha una coscienza, in sostanza fatta in modo che (a differenza di come avviene nell’uomo che invia nella zona dei sensi, di cui oggi ho parlato, ciò che sperimenta, ivi enucleandolo senza però sperimentarlo in quella zona) nell’animale ciò che sperimenta nella zona dei sensi è della stessa natura della sua vita rappresentativa. La netta separazione fra percezione e rappresentazione, che esiste nell’uomo, non è giustificata nell’animale. Lo si rileva anzitutto con quanto si vede direttamente grazie alla coscienza veggente, ma lo si può anche sapere con l’anatomia e la fisiologia. Ricordo soltanto che ad esempio l’occhio dell’animale ha un’organizzazione interna del tutto diversa rispetto a quella umana. Nell’uomo alcuni contenuti dell’occhio sono trattenuti nell’organizzazione interiore, nell’organizzazione dei nervi, e nell’animale sono diffusi nell’occhio. In alcuni animali si trovano antenne a ventaglio e appendici xifoidee: è la più esterna formazione anatomica che potrebbe mostrare quanto nell’animale penetri l’elemento vitale nella zona dei sensi. Nell’uomo l’elemento vitale si ritira e così egli sperimenta la presenza dell’anima nella zona dei sensi (lo si noti espressamente) in modo del tutto diverso da quanto faccia l’animale in quella zona. Ciò che dunque l’uomo sperimenta nella zona dei sensi e il cui ulteriore sviluppo è nelle coscienze immaginativa, ispirativa e intuitiva e che comunque continua nella vita del pensiero e del ricordo, ha nella coscienza umana una tutt’altra colorazione (se posso usare l’espressione) di quella esistente nella coscienza degli animali.

 

Occorre soprattutto rettificare molti concetti. Chiedendo oggi quali siano le rappresentazioni spirituali che meno di tutto siano collegate con la base corporea, credo moltissimi converranno dicendo che i concetti filosofici sono i più spirituali. Per la scienza dello spirito fra tutti i pensieri proprio quelli filosofici, anche i più astratti, quelli matematici, sono legati al massimo al corpo fisico! Se esistessero solo pensieri filosofici potremmo essere materialisti assoluti, perché quei pensieri sono solo legati al corpo e hanno importanza solo fra nascita e morte. Quel che di solito si considera quanto di più spirituale esista ha il suo fondamento nel mondo fisico, nel corpo fisico.

 

Essenziale è che l’uomo partecipa in quanto essere animico alla vita dei sensi in cui la natura esterna si estende come un golfo perché la vitalità si è ritirata, tanto che in essa sperimenta in effetti di continuo già la morte. In quanto la zona dei sensi si rispecchia verso l’interno, il risultato cosciente di questa zona compenetra appunto verso l’interno la vita dell’anima con quella che ho chiamato morte atomistica.

 

Il processo va inteso nel senso che nell’uomo, alla vita nella zona dei sensi, si frammischia il fenomeno della morte, giustificando il nesso fra morte e coscienza; nell’animale invece vanno unite non la morte naturale con la coscienza (come a volte può avvenire nell’uomo), ma vanno uniti lo spegnersi graduale della forza riproduttiva con quella che è la coscienza. Quando poi negli animali è spenta la forza riproduttiva interviene la morte, mentre nell’uomo interviene più tardi il fenomeno della morte, a differenza di quanto si riscontra negli animali. L’uomo è posto su un tutt’altro terreno.

 

Vorrei sottolineare in modo speciale che si riesce ad avere una giusta visione della relazione fra nascita e morte solo collegando la specifica proprietà della coscienza umana, legata con la particolare esperienza nella zona dei sensi, con l’esperienza molto più vitale che l’animale ha nella stessa zona; in effetti nella coscienza animale non si mescola, se così posso dire, ciò che in quella umana è mischiato e che in quest’ultima determina la morte. Ciò è illuminato anche dall’altro lato, perché nell’animale non si unisce polarmente dall’altro lato un’anima immortale nel fenomeno della morte come invece è per l’uomo.

 

 

• La scienza dello spirito può dirci qualcosa in merito al moderno concetto fisico dell’entropia?

 

In proposito va detto anzitutto che il contenuto di questo concetto viene preso dai concetti della scienza inorganica. Se formuliamo il concetto dell’entropia nel senso che lo stato finale del divenire sarebbe determinato dalla trasformazione dell’energia meccanica in energia calorica con un costante residuo di calore, in modo che alla fine la consistenza cosmica sia solo uno stato di calore, abbiamo a che fare con un’astrazione tratta solo da leggi inorganiche. In quella prospettiva la scienza dello spirito nulla ha da eccepire. Gli stessi sostenitori del concetto dell’entropia sanno che l’affermazione di uno stato finale rende necessario presupporre anche uno stato iniziale; sia per la logica, sia anche per la scienza è infatti necessario che, se tutto porta in questo modo alla morte per calore, si presuma uno stato iniziale.

 

Per arrivare subito al concreto, va detto anzitutto che in base alle osservazioni della scienza dello spirito essa non sa che farsene delle idee che oggi sono correnti nel settore della speculazione sulla natura inorganica, quale quella della dispersione dell’energia, per cui si pensa che la dispersione vada sempre all’infinito. Parlando dunque di energia nel senso della scienza odierna, si pensa sempre a qualcosa che va all’infinito. In base alle proprie esperienze la scienza dello spirito non ricava nulla da un concetto del genere, perché per essa tutte le energie, considerate nella loro morfogenesi, si presentano in qualche modo elastiche. In altre parole le energie che si diffondono non si disperdono all’infinito, ma solo fino a un certo limite per poi ritornare su se stesse. Ciò avviene comunque in tempi tanto lunghi che il problema non riguarda il periodo della vita terrestre che ci sta davanti. Si vede in effetti nel campo della scienza dello spirito che il concetto della dispersione all’infinito è nebuloso, e che ogni energia che si diffonde non si disperde all’infinito, ma ritorna in se stessa. Applicando questo concetto nel campo dell’entropia, abbiamo alla fine un altro stato contrapposto polarmente, e cioè che le energie disperse possano rientrare in se stesse. Questo è un aspetto del problema.

 

Un altro è esposto nella mia Scienza occulta: in base alle osservazioni spirituali che richiedono ulteriori elaborazioni oltre a quello che oggi ho solo esposto in modo elementare, risalendo nel tempo e costruendo uno stato iniziale (che peraltro non è costruito, ma visto) che ho chiamato “Saturno” con un termine tecnico, si arriva a uno stato di puro calore. Da quello stato di calore deriva tutta l’evoluzione successiva. Se ora la fisica arriva col suo concetto di entropia a uno stato finale di calore, perviene a uno stato che io ho presentato come iniziale. La conseguenza ne è che si deve di nuovo ricominciare da dove si finisce. Non si arriva quindi a un “inizio” e a una “fine”, ma i due termini sono solo un aspetto di una continua evoluzione. Lo stato finale sarebbe dunque il punto di partenza per un’ulteriore evoluzione.

 

 

• Non sarebbe possibile far nascere l’essere umano come organismo semplice, senza che sia necessario farlo nascere prima come essere della testa alla quale si aggiunge poi un’appendice? Anche la scienza lavora comunque su tempi lunghissimi e su periodi evolutivi infinitamente lunghi; credo quindi che l’essere umano potrebbe altrettanto bene nascere come organismo unitario.

 

Quando si presentano le questioni nella forma generica in cui il signore ha esposto questa, naturalmente si può sempre dire quello che egli ha detto. Faccio espressamente notare che oggi per me il problema era esporre risultati positivi e concreti della scienza dello spirito antroposofica, cioè singoli esempi di risultati positivi. Uno di essi è appunto che l’uomo, a meno di non volerlo considerare solo in teoria come un essere naturale (e in proposito rinvio alla mia conferenza di oggi) non può essere compreso se lo si riguarda nel modo oggi corrente. “L’essere unitario” non è poi una contrapposizione anche se si considera ovviamente l’uomo come una testa con appendice, ne ho comunque parlato per approssimazione. Quel che in proposito è importante è dove vada cercato il punto di partenza per l’evoluzione umana e non se si considera l’uomo un “essere unitario”, dove si ricerca ciò che vi è in precedenza in lui. Occorre risalire a ciò che ora si presenta metamorfosato nella testa e vedere il resto come un’acquisizione: così l’uomo, quale essere naturale, diventa diverso da quello che teoricamente nell’evoluzione del mondo ci presenta il darwinismo corrente e la teoria della discendenza.

 

I lunghi periodi di tempo non sono rilevanti, e anche per le prospettive di oggi sono qualcosa di puramente ipotetico. Il tempo può avere qualche significato nell’ambito di una spiegazione solo quando si sia in grado di ricavarlo da altre e concrete premesse, quando per così dire si possa strutturare il prima e il dopo da qualcosa di concreto, e non quando si presenta semplicemente una corrente evolutiva e vi si pone il tempo come qualcosa di esterno. Gli stessi teorici della discendenza dicono che il tempo è a disposizione senza limiti, e di certo è così, ma ci si chiede se quello di cui si dispone per i pensieri ha nella realtà la stessa concreta funzione quando si consideri veramente l’essere umano.

 

La realtà si presenta in modo che nel processo evolutivo quello che ho chiamato organismo secondario, appendice (ed è appunto un’espressione approssimativa), si presenta come più giovane, mentre appare più vecchio l’organismo della testa. Così si struttura anche il tempo. La discendenza dell’organismo della testa risale a un tempo più remoto rispetto a ciò che è più giovane. Il punto è proprio che nel campo della scienza dello spirito si riconosca che il pensare è reale e concreto. Devo sottolineare di nuovo anche adesso che non è possibile progredire nella scienza dello spirito, se non ci si pone nella realtà in un modo del tutto diverso di quanto non faccia l’odierna cosiddetta scienza empirica che di certo non sottovaluto. Nessuno potrà rimproverarmi una simile sottovalutazione in base ai miei scritti. Occorre tuttavia porsi nella realtà in tutt’altro e concreto modo.

 

Dissi qui l’ultima volta, rispondendo a una domanda, che i concetti devono essere molto più reali e veri. Anche dopodomani ritorneremo a questo pensare aderente alla realtà con i problemi pratici umani e anche dell’anima che esamineremo. Aderente alla realtà è un pensare che in ogni pensiero che coltiva sia cosciente di quanto il pensiero stesso è inserito nella realtà. Considerata in astratto, una rosa che io abbia davanti a me è qualcosa di reale e va presa come tale, ma per il pensatore che si ponga con i suoi concetti veramente nella realtà il concetto della rosa non è valido se non si è consci che è qualcosa di astratto; è solo possibile legato al roseto, questo al terreno e così via. Quindi ciò che nella realtà è collegato a qualcosa e può esserne separato artificialmente non è visto dallo scienziato dello spirito come una rappresentazione separata, e di conseguenza, ogni volta che segue un suo pensiero egli è cosciente di quanto la sostanza interiore del pensiero stesso lo porti nella realtà. Per fare di nuovo un esempio paradossale, quando si mette il nucleo di una cellula sotto un microscopio, lo si osserva separato da tutto quanto gli è connesso, e lo scienziato dello spirito ne è cosciente; sa che è diverso osservare al microscopio il nucleo di una cellula oppure un animaletto: in quest’ultimo caso lo vedo nella sua interezza, ma se osservo una cellula non vedo una realtà nello stesso senso come nel caso dell’animaletto che non è ingrandito ed è in sé finito.

 

Essere sempre accompagnati dal carattere di realtà della vita del pensiero è una delle prime precondizioni per la coscienza veggente. Nel mio libro Enigmi dell’essere umano, pubblicato due anni fa, misi in rilievo il pensare aderente alla realtà contrapposto a quello non aderente ad essa, oggi tanto dominante. Ne va tenuto conto in problemi del genere.

 

Dissi quindi che la dottrina scientifica evoluzionistica del secolo diciannovesimo rese e rende ancora oggi grandi servigi, ma che essa non tratta il problema in modo abbastanza concreto. Volendo studiare l’evoluzione umana non è indifferente da dove si parta nell’uomo. Nulla si può obiettare se qualcuno fa l’esempio di esseri viventi che nella forma attuale sono dotati di zampe atte ad arrampicare. Vi sono animali del genere, e mi si scusi se li confronto con l’uomo, ma lo si fa in campo scientifico; vi sono dunque insetti, pidocchi ad esempio, che hanno zampe atte ad arrampicare; quelle zampe sono il prodotto di una tarda evoluzione, perché le forme originarie non avevano quelle zampe che sono l’adattamento a condizioni successive. L’essenziale è dunque riconoscere che le forme originarie non avevano in altre condizioni le zampe atte ad arrampicare e che i pidocchi le svilupparono a seguito di condizioni successive. Si potrebbero fare molti altri esempi, e il problema è sempre di vedere le condizioni concrete. Se ora si passa all’uomo, il punto è stabilire che nella forma originaria sia predisposto ciò che nella discendenza diretta porta all’organo della testa, e che il resto è un’acquisizione successiva. Occorre osservare le condizioni concrete. Senza studiare l’essere umano in questo modo non è possibile comprenderlo nella sua relazione con la complessiva evoluzione naturale.

 

Ovviamente posso solo accennare a queste cose, e come ho detto sarebbe necessario un lungo corso se dovessi presentare tutti i particolari. L’antroposofia è comunque oggi in divenire, e non si consideri una sciocchezza se dico che non si è ancora tanto fortunati da poterla esporre in corsi che siano riconosciuti. La si può presentare solo come uno stimolo in singole conferenze nelle quali è solo possibile rinviare ad altri testi. Di conseguenza risulta sempre incompleto ciò che è possibile esporre in comunicazioni del genere. Quel che ho detto non è comunque contro la concezione dell’evoluzione dell’uomo quale essere unitario, o contro lo sviluppo del pidocchio dotato o meno di zampe atte ad arrampicare nelle diverse possibilità evolutive. Il problema è la caratterizzazione e la specificità del processo evolutivo, e questo è importante nel caso presente.