La prima Beatitudine come via del destino futuro dell’umanità, resa possibile dal corpo fisico

Il figlio dell’uomo


 

La relazione cosciente dell’umanità con il corpo fisico

è stata soggetta, negli ultimi duemila anni, a gravi equivoci.

 

Da una parte si guardava ad esso come al maggiore impedimento sulla via della devozione dell’anima allo spirito, d’altra parte veniva addestrato ai rudi esercizi del combattimento e della resistenza fisica. Il monachesimo e la cavalleria medievali sorsero in seguito a quelle concezioni unilaterali – in quanto frutto di un fraintendimento – del significato del corpo fisico per l’essere umano.

La cavalleria del Graal, che si fondava su una terza concezione del significato del corpo fisico, fu compresa solamente in una cerchia ristretta. L’aspetto principale di questa concezione era che il corpo fisico rappresentasse il luogo in cui può essere realizzata l’unione completa del cielo con la terra.

 

Infatti quando l’Io dell’uomo si congiunge coscientemente con lo Spirito, si ha solo il primo stadio di quell’unione;

quando questo congiungimento include anche il corpo astrale, si ha il secondo stadio;

ma quando l’unione dell’Io con lo Spirito estende la sua forza

non solo al corpo astrale, ma anche al corpo eterico, scendendo fino al fisico, si compie allora la comunione.

 

Per questo motivo, nelle cerchie in cui la tradizione del Graal era compresa, il corpo fisico veniva visto come corpo di comunione, ossia come la più alta possibilità offerta all’uomo di comunione con lo Spirito.

Quella che, in riferimento alla tradizione del Graal, viene qui chiamata comunione, fa parte delle esperienze più significative che si possano compiere in quello stadio d’iniziazione della coscienza, chiamato da Rudolf Steiner lo stadio dell’intuizione – o del ‘lavoro alla pietra filosofale’. Questo stadio della conoscenza iniziatica è reso possibile dall’esistenza del corpo fisico.

 

Il corpo fisico

non è solo uno strumento che permette di inserirsi nel mondo fisico,

ma anche una scuola in cui si possono apprendere, mediante l’esperienza,

alte verità morali e spirituali.

 

L’esperienza che può trasmettere all’uomo tali verità consiste essenzialmente in due aspetti:

• uno relativo a tutte le vicissitudini attraversate dall’anima, in conseguenza del ritirarsi del mondo spirituale dal campo dell’esperienza umana;

• l’altro relativo alle esperienze compiute dall’anima durante il processo della presenza immediata, della partecipazione alla realtà del mondo spirituale.

 

I due aspetti del cammino di esperienza che l’anima può intraprendere grazie al corpo fisico,

sono contenuti nelle due parti in cui consiste la prima Beatitudine:

“Beati i mendicanti dello Spirito, poiché di essi è il regno dei cieli”.

 

La prima parte di questa formula contempla la ‘via dell’impoverimento’ che, tanto l’umanità nel suo complesso, quanto le singole individualità, sono chiamate a percorrere.

La seconda parte, invece, mostra la via per partecipare interiormente al regno dei cieli. La frase “di essi è il regno dei cieli” non significa che il regno dei cieli è destinato loro, ma si riferisce alla relazione intuitiva concreta con il mondo spirituale. Ciò è chiaramente espresso dal caso possessivo nella lingua greca “di essi” (autòn estin hebasiléia tori ouranòn).

 

La prima Beatitudine contiene dunque la formula morale-spirituale della conoscenza intuitiva, e presenta nello stesso tempo una figura che riunisce le due direzioni di movimento morale-spirituale espresse nelle due parti della formula.

Se pensiamo alla via dell’impoverimento come a un graduale processo che conduce fino al ‘punto-zero’ – la ‘porta della morte’, secondo l’espressione dei misteri -, e alla via della partecipazione al regno dei cieli, come a un processo che segue immediatamente l’oltrepassamento del punto-zero, otteniamo la figura di un cerchio, che conduce dalla ricchezza di spirito, attraverso la povertà di spirito, fino al ‘possesso’ del regno dei cieli. La figura corrispondente alla formula sarebbe la seguente:

 

 

 

Tanto la via dell’impoverimento qui indicata, quanto quella dell’ascesa nel regno dei cieli, rappresentano l’oggetto dell’ultima scena del Faust. L’intera composizione del Faust – quale è risultata di fatto – è contenuta nella figura della prima Beatitudine qui sopra tracciata. Infatti la via di Faust, dopo che si era allontanato dall’astrazione, conduceva attraverso l’esperienza della colpa (parte I), a quella del bisogno, nelle vesti del denaro e dell’antichità classica, per elevare infine colui che era stato accecato dalla preoccupazione e dopo il passaggio per la morte, fino ai regni dell’amore celeste. Il Tentatore aveva intenzione di condurre Faust, mediante il falso calore – la tragedia di Gretchen – alla falsa luce – quella del passato -, e da questa, attraverso la falsa ispirazione del futuro – la preoccupazione in senso materiale -, in un falso ambito di esistenza – l’Inferno’.

 

A quel punto avvenne però che la potenza dell’etere del calore, suscitata dal Tentatore, lo condusse alla conoscenza della colpa, ossia dell’esperienza morale opposta, quella del freddo, e che le figure seducenti del passato, intessute nell’etere della luce, destarono in lui il ricordo – nella figura del velo della bella Elena -, in conseguenza del quale sorse la coscienza del bisogno del presente, la consapevolezza di ciò che si è perso, ossia l’incontro con l’immagine inversa, moralmente oscura, del luminoso passato. Le suggestioni di un falso futuro, veicolate dall’etere del suono inverso, lo condussero alla conoscenza dell’immagine morale contraria – la grigia figura della preoccupazione. Il calore e la luce interiori accesi da queste esperienze condussero allora l’anima di Faust attraverso la morte, quale porta d’accesso al mondo della vera vita, non al regno della falsa esistenza.

 

Steiner caratterizza le scene della morte e dell’ascesa al cielo di Faust come una descrizione esatta dell’iniziazione. Da questo comprendiamo quanto sia importante comprendere l’iniziazione anche alla luce della colpa, del bisogno, della preoccupazione e della morte.

Non meno importante è comprendere che il passo culminante della descrizione goethiana dell’iniziazione: “Chi si sforza anelando senza posa, lui lo possiam redimere”, ripete solamente, con parole diverse, il contenuto della prima Beatitudine. Infatti uno che “si sforzi anelando senza posa” nel regno della colpa, del bisogno, della preoccupazione e della morte, è appunto un ‘mendicante dello spirito’, quale è inteso nel Vangelo. Che egli possa essere ‘redento’ e possa quindi diventare un makàrios, ossia un uomo beato, viene espresso tanto dalla prima frase del Sermone della montagna, quanto dall’intera vita di Goethe.

 

Le esperienze che conducono alla conoscenza

• della colpa umana,     • dei bisogni umani,     • della preoccupazione     • e della morte,

possono essere sperimentate unicamente nel corpo fisico.

• Sono esse per l’appunto a poter destare nell’uomo la forza del coraggio e l’umiltà,

indispensabili per passare attraverso la ‘cruna dell’ago’ dell’iniziazione.

 

Solo chi è cosciente della portata della colpa umana e del bisogno umano che ne risulta, può sviluppare quell’umiltà di fronte al mondo spirituale, necessaria per essere accolto da quel mondo e non esserne respinto come moralmente estraneo. D’altra parte potrà trovare il coraggio per immergersi nell’oscurità del nulla, quale si mostra il mondo spirituale nell’ora decisiva, colui che ha visto, senza restarne paralizzato, non solo la vita quotidiana, ma anche quella cosmica nella pallida luce della preoccupazione, che non si è sottratto alla vista di tutto ciò che muore nel cosmo, nell’umanità e in se stesso.

 

Solo alla scuola del corpo fisico possono essere appresi l’umiltà e il coraggio

richiesti all’uomo libero, all’iniziato, per realizzare una libera alleanza con il mondo spirituale.

 

Quello che si sperimenta in forma altamente concentrata e in tempi relativamente brevi nel corso dell’iniziazione, deve venire sperimentato progressivamente dall’umanità sulla via del suo destino storico-spirituale.

L’umanità deve frequentare la scuola del corpo fisico,

e di essa non può esserle risparmiato alcun gradino.

A questa necessità del destino si oppose l’antica coscienza indiana. Essa sentiva il corpo fisico come un’illusione e l’unione dell’anima con esso come qualcosa di degradante. Fu questa la ragione per cui la civiltà indiana fallì ed una nuova, quella persiana, dovette essere fondata.

 

Ci si può ora chiedere: perché l’antica coscienza indiana respinse il corpo fisico? Qual era la ragione profonda di questa avversione? Ebbene, il motivo dell’avversione dell’antica India per la natura fisica dell’uomo era lo stesso che, nell’uomo moderno, provoca avversione per il mondo spirituale concreto.

 

• Come esiste oggi una paura subcosciente che trattiene l’uomo dalla ricerca del mondo spirituale concreto,

• così nell’antica epoca indiana era una specie di paura subcosciente a causare il disprezzo per il mondo fisico.

 

• Come l’uomo odierno fugge dal mondo spirituale, perché spaventato dal risveglio della coscienza

che deve compiersi sulla sua soglia – ossia dall’incontro con il Guardiano della soglia -,

• così l’indiano antico provava paura di fronte alla tenebra del corpo fisico – ossia al conflitto diretto con Arimane.

 

Il confronto con Arimane che avviene nell’oscurità è però anche la scuola del corpo fisico, i cui gradi sono la colpa, il bisogno, la preoccupazione e la morte. Di fronte a questa scuola l’antica coscienza indiana provava sgomento e per questo non fu in grado di conoscere le grandi verità della colpa e del karma primordiali dell’umanità.

Ciò che mancava a quella saggezza indiana, per altri versi meravigliosamente sublime, era la conoscenza delle verità della genesi e del destino dell’umanità, le quali apparvero solo più tardi nel popolo israelita, grazie al primo libro di Mosè.

 

• Agli Israeliti era generalmente preclusa la conoscenza del karma e della reincarnazione individuali,

come lo era agli antichi indiani la conoscenza del karma e del futuro storico dell’umanità.

 

La totalità della saggezza si manifesta dunque frammentata in diversi luoghi e in diverse epoche,

e solo la coscienza capace di innalzarsi al di sopra dello spazio e del tempo

è in grado di incontrarla come realtà unitaria.

 

L’affermazione di San Paolo, “ora conosciamo parzialmente” (I Cor 13:9), contiene da un lato il riassunto della storia dei misteri, dall’altro l’invito ad innalzarsi al Mistero che riunisce in sé tutti i frammenti, ossia il Mistero di Cristo.

 

Il fatto che la conoscenza della colpa primordiale dell’umanità, del ‘peccato originale’ secondo la Bibbia, restasse estranea alla coscienza indiana, non ebbe come conseguenza la libertà dal karma generale dell’umanità, bensì un atteggiamento di riluttanza verso di esso. Il pessimismo nei confronti della vita, subentrato relativamente presto nella civiltà indiana, non dipendeva solo dall’anelito della coscienza indiana allo Spirito, ma anche dal suo anelito a liberarsi dalle necessità terrene.

Dunque, l’antica civiltà indiana divenne un’espressione dello struggimento interiore, non perché quella parte dell’umanità fosse stata più sfortunata o avesse ricevuto dal destino un’esistenza più dura degli altri uomini, ma perché era scontenta della propria sorte. Lo era poiché non fu in grado di conoscere il segreto di quella sorte, il suo senso e la sua importanza per il futuro. Avvenne così che l’antica India dovette assaporare la realtà del peccato originale, senza però riconoscerla.

 

Il nucleo dell’antica cultura persiana era, al contrario, costituito da uomini pronti ad accettare il confronto con Arimane. Erano uomini che non disprezzavano il corpo, ma che, accettandolo com’era, erano risoluti a farne l’uso più nobile possibile nel campo dell’azione. Questa disposizione d’animo si rivelò feconda non solo nell’ambito dell’agire, ma anche in quello del conoscere. Fu infatti in seno alla comunità persiana che avvenne la grande scoperta di Arimane, rimasta celata alla coscienza indiana.

Per l’antica coscienza persiana non si trattava di opporre all’impuro mondo fisico quello puro dello Spirito, ma piuttosto di distinguere il puro dall’impuro, tanto in questo mondo, quanto in quello sovrasensibile. Ciò condusse l’antico persiano ad una visione più profonda della natura del corpo fisico. Egli riconobbe il corpo come teatro del conflitto di due potenze, e recante quindi dal passato sia purezza che impurità.

In seguito a questa visione, l’antico persiano ebbe la conoscenza del peccato radicato nella natura umana, senza per questo rifiutare tale situazione – anzi affrontando il conflitto tanto nel mondo delle azioni esteriori, quanto in quello interiore del superamento di sé.

 

Il passo che l’antica coscienza indiana non potè compiere, lo compì quella persiana.

Per essa, quindi, non si trattava più di superare la paura di riconoscere il peccato originale – la colpa primordiale dell’umanità – ma di qualcos’altro. La prova con la quale la comunità dell’antica Persia dovette confrontarsi risultava dalla situazione in cui essa si trovava nel suo ambiente. Era una comunità relativamente piccola, rifugiatasi nelle montagne e negli altipiani dell’Iran, per sfuggire alle numerose ed ostili popolazioni turaniche e semituraniche che la circondavano.

A quel tempo, quando lo stesso grande Zarathustra guidava ed ammaestrava il popolo persiano, questo versava in una situazione di estrema angustia e povertà. Chi pensasse il periodo della massima fioritura dell’antico spirito persiano in qualche modo simile al regno dei Medi e dei Persiani sotto Serse, Cambise e Dario – quando a Persepoli, Ectabana e Susa, i re trascorrevano le diverse stagioni dell’anno in splendidi palazzi e circondati da migliaia di cortigiani e valorose guardie del corpo – incorrerebbe in un equivoco radicale.

 

È difficile pensare un contrasto maggiore di quello tra la piccola popolazione dei primi Persiani – i quali riuscivano appena a sopravvivere nella massima povertà tra montagne e dirupi, e alla loro guida, il grande Zarathustra, potevano offrire solamente la totale fiducia delle loro anime e il loro sangue nelle incessanti battaglie – e l’Impero persiano fondato da Ciro.

Il grande Zarathustra non ebbe né corte né palazzi; non esisteva neanche un tempio presso quel popolo di poveri pastori, che aspirava all’agricoltura, ma a malapena poteva dedicarsi ad essa. Il luogo dove si compiva il mistero del rapporto tra Zarathustra e Ahura Mazda e dove questi istruiva i suoi discepoli, non era un tempio, bensì una nuda montagna, mentre i luoghi di residenza dello stesso Zarathustra erano i piccoli accampamenti ai piedi di quella montagna.

 

L’antico popolo persiano, non solo ebbe da lottare per il bisogno materiale, ma dovette anche, in una condizione di estremo disagio, difendersi per conservare la propria esistenza fisica e spirituale contro un nemico di molto superiore. Dovette quindi, per molte generazioni, far fronte al bisogno sotto molteplici forme. L’antico popolo persiano dovette bere fino in fondo alla coppa del bisogno, al fine di immettere come esperienza valida per il karma futuro dell’umanità quella della lotta, non solo per la sopravvivenza materiale o per quella spirituale, ma per entrambe. Quell’esperienza ebbe un’importanza fondamentale per l’intero futuro dell’umanità.

Esperienze di tal genere, quali quelle della colpa e del bisogno sul piano umano, passeranno in incarnazioni successive, non però come semplici idee, ma come forze morali. Per esempio, l’esperienza della colpa umana – del peccato originale in senso biblico – diverrà una forza capace di contrapporsi al superbo distanziarsi del singolo dal corpo globale dell’umanità.

Chi abbia sperimentato a fondo la natura umana, dovrà riconoscere con Goethe di portare in sé i germi di ogni male. Per quanto grandi possano essere le sue doti positive e le sue opere, non guarderà mai dall’alto al resto dell’umanità, poiché non potrà mai dimenticare che, davanti agli occhi del supremo Giudice del mondo, vi è uguaglianza nella natura umana. Di un’ineguaglianza rispetto al bene si può parlare in senso proprio solo per chi è passato attraverso la porta della morte e si è lasciato alle spalle il periodo del kamaloka.

 

Solo per la condizione del devachan si può dunque parlare di una reale diversità qualitativa.

Ma quella condizione è tale che in essa ciò che conta è il reale grado di esistenza, non la valutazione altrui.

 

• L’esperienza della colpa sul piano umano diviene così la forza morale dell’umiltà,

nella quale il singolo uomo si riconosce come membro pari degno o pari indegno dell’umanità.

• Similmente, l’esperienza del bisogno diviene una ben precisa forza morale:

la forza della perseveranza, della costanza, della fedeltà nei confronti di uomini, idee e scopi.

• L’esperienza della preoccupazione, in cui operano le forze congiunte del dubbio e della paura,

conduce alla forza morale del coraggio,

• mentre l’esperienza della morte, essa sola si trasforma nella forza dell’amore, che è più forte della morte.

 

Le esperienze che hanno condotto allo sviluppo di quelle forze, costituirono le prove alle quali fu dato risalto in ciascuna delle successive epoche di civiltà. Invero l’epoca di civiltà egizio-caldaica, seguita a quella protopersiana, fu per l’umanità post-atlantidea l’epoca della preoccupazione.

Se, ad esempio, consideriamo da questo punto di vista la grandiosa epopea caldaica – quella di Gilgamesh – possiamo avvertire come fosse sentita la preoccupazione proprio dalle personalità più rappresentative di quell’epoca. L’intero racconto di Gilgamesh è essenzialmente un’epopea della preoccupazione: la sicurezza e la certezza avute in passato riguardo alla sorte dell’anima umana sono scomparse per l’eroe dell’epopea, la cui trama deriva interamente da quell’incertezza e preoccupazione.

 

Considerando d’altra parte la civiltà sacerdotale egizia, incontriamo uno stesso clima di preoccupazione. I ‘Figli della vedova’, ossia i sacerdoti iniziati egizi, piangevano Osiride smembrato. Infatti il mistero integrale di Osiride, che da solo avrebbe potuto dare sicurezza e certezza, non era per loro raggiungibile. Anche gli edifici sepolcrali, il culto delle mummie, le numerose formule magiche del Libro dei Morti, parlano, a loro modo, della grande preoccupazione dell’Egitto: la preoccupazione per la conservazione e salvezza dell’anima, della figura, del nome, della tradizione.

 

L’oscuro abisso della morte e della caducità stava innanzi alla coscienza dell’uomo egizio-caldaico, colmandola di preoccupazione per il futuro della sua anima. Ma il ‘pungiglione della morte’ tuttavia non penetrò nella coscienza delle anime che durante l’epoca di civiltà greco-latina. Allora non si trattò soltanto di un’incertezza riguardo al futuro dell’anima, ma della certezza che l’esistenza dell’anima dopo la morte sarebbe stata, in ogni caso, qualcosa di più scialbo rispetto a quella incarnata. Un’esistenza disincarnata doveva, secondo il loro sentire, essere una esistenza di mera ombra, appunto perché disincarnata.

 

Il coraggio della disperazione proprio di Empedocle di Agrigento (quinto secolo a.C.), che si gettò nel cratere dell’Etna, non fu un’espressione di tedio o disprezzo della vita, e neanche di brama per l’esistenza incorporea dell’anima, bensì la risoluzione disperata di morire in modo diverso dagli altri uomini. Empedocle voleva sfuggire all’esistenza umbratile dell’anima disincarnata sperando, con il suo atto – l’atto magico di volontà della sua morte -, di congiungersi agli elementi della Terra restandovi intimamente legato, e in quel modo di essere liberato dalla solitudine dell’esistenza umbratile dell’anima.

 

Il coraggio magico di Empedocle

non fu però sufficiente a liberarsi dal ‘pungiglione della morte’, dall’isolamento dell’anima.

• Non fu sufficiente neppure il coraggio conoscitivo di Socrate,

ma una forza ancora superiore doveva rivelarsi alla coscienza dell’uomo.

• Questa forza fu quella dell’amore rivelatosi al mondo per mezzo del Cristo Gesù.

 

Passato attraverso la morte e la resurrezione, restituì a molti la radiosa certezza, in virtù della quale Paolo potè esclamare : “O morte, dov’è il tuo pungiglione?” (I Cor 15:55). Gli uomini che avevano sentito la realtà dell’impulso del Cristo, riebbero per ciò stesso la certezza che l’isolamento dell’anima, l’esistenza umbratile, può essere vinta, e che dove prima ci si poteva aspettare solo un impoverimento e svuotamento dell’esistenza, poteva ora fiorire una vita rigogliosa, non meno calda del calore del sangue e non meno chiara della chiarezza dei sensi corporei.

 

Durante l’epoca greco-latina però non tutti gli uomini poterono sentire incondizionatamente la realtà dell’impulso del Cristo. Lo poterono dapprima solo quelli che adempivano una certa condizione. Questa consisteva nel fatto, che l’incontro con l’impulso del Cristo doveva essere preceduto dalla conoscenza della colpa umana. L’esperienza che Giovanni il Battista aveva suscitato negli uomini mediante il suo battesimo d’acqua, doveva essere attraversata da ogni uomo in una forma a lui adatta, al fine di renderlo ricettivo all’impulso del Cristo.

 

Il pentimento, o ‘conversione’, al quale il Battista esortava gli uomini,

comportava, come suo momento essenziale,

la conoscenza della natura umana qual è divenuta in conseguenza del peccato originale.

 

Questa conoscenza, che genera nell’anima una disposizione di fondo improntata alla coscienza della colpa,

era, nella quarta epoca post-atlantidea,

la condizione sufficiente, ma anche necessaria per incontrare l’impulso del Cristo.

Tale condizione vale anche per il ventesimo secolo, quantunque da sola non sia più sufficiente.

 

Oggi se ne aggiunge un’altra: insieme con la colpa deve essere conosciuto il bisogno umano.

È qualcosa di molto serio il dire a se stessi:

la coscienza della colpa di fronte al mondo spirituale, all’umanità e alla natura,

è la prima condizione per incontrare nel presente l’impulso del Cristo,

• ma la seconda è il riconoscere nell’uomo il bisogno dello spirito, dell’anima e della natura.

 

Gli uomini contemporanei

che, come disposizione fondamentale dell’anima, vivono con la coscienza della propria rettitudine,

non portano incontro all’impulso del Cristo ciò che è necessario

affinché esso, per loro tramite, possa manifestarsi nel mondo come forza di fratellanza sociale.

 

D’altra parte coloro che adempiono questa condizione devono affrontare, in accordo col proprio destino, le esperienze connesse a quelle tre forme di bisogno, per imparare a conoscere ancora un altro aspetto della verità contenuta nella frase: “Beati i mendicanti dello Spirito”.

• Oggi è importante essere pienamente coscienti del fatto che l’umanità deve attraversare una grave malattia spirituale, un fatto tanto più tragico in quanto, dalla stragrande maggioranza dell’umanità, non viene affatto notato e tanto meno accettato e approfondito.

Quanti ai giorni nostri sentono pienamente il ‘bisogno’ della coscienza, che si estingue ogni notte, che è chiamata a giudicare e ad agire senza la memoria del passato karmico, senza la conoscenza dei nessi karmici, necessaria per poter giudicare con rettitudine?

 

Il bisogno spirituale dell’umanità

– il tragico fatto della sua cecità e quello ancor più tragico del suo voler restare tale –

è una realtà che va ai giorni nostri conosciuta.

• È una conoscenza dolorosa, ma produce un frutto benefico:

se si sa veramente quanti e quali uomini non sono consapevoli di quello che fanno,

si diventa più tolleranti e si impara a rallegrarsi di quei singoli aspetti della vita,

che offrono l’occasione per superare le illusioni dominanti.

 

Quasi più serio del riconoscimento nell’uomo del bisogno dello spirito è quello del bisogno dell’anima.

Si tratta infatti di accorgersi, che ai giorni nostri

l’anima svanisce inarrestabilmente dalla coscienza e dall’attività dell’uomo,

come già era successo allo spinto durante il millennio precedente.

 

Il sole sta tramontando nella vita dell’anima umana, il cuore dell’uomo diventa sempre più lunare,

sempre più specchio per gli scopi della testa e gli istinti dell’uomo inferiore.

Ma né gli scopi della testa – e oggi quasi tutto viene governato da essi,

sicché anche quando uno non ne dovrebbe avere, il suo agire è tuttavia spiegabile in base a scopi segreti e nascosti –

né le brame hanno a che fare con la vera vita dell’anima.

 

La vera vita dell’anima è la sua luminosa forza creatrice,

che sola può dare al pensare e agli istinti una direzione davvero degna dell’uomo.

Che questa forza si vada a poco a poco esaurendo in tutti gli ambiti della vita umana,

è il sintomo palese dell’attuale bisogno dell’anima.

Il bisogno della nostra epoca non si esaurisce tuttavia nella vita interiore dell’uomo.

 

Il disagio sociale e le malattie del corpo in continuo aumento

offrono un quadro non meno impressionante di quello offerto dalla vita interiore dell’uomo.

• Proprio coloro che si occupano della scienza dello spirito

devono tenere presente questo aspetto del bisogno umano,

dal cui ambito provengono i più forti attacchi delle potenze arimaniche,

miranti ad oscurare lo spirito e dissolvere l’anima.

 

Come oggi è importante riconoscere il bisogno,

così in futuro – specialmente nella sesta epoca – sarà importante conoscere la preoccupazione.

Verrà un tempo in cui gli uomini avranno solo quel tanto di gioia di vivere,

che sarà resa loro possibile dal coltivare la conoscenza scientifico-spirituale.

L’umanità dovrà allora fare assegnamento esclusivamente sul rapporto verticale con il mondo spirituale,

mentre il suo rapporto orizzontale con il mondo dello spazio potrà di per sé darle solo preoccupazione.

 

Durante la settima epoca di cultura,

questa tensione cruciale non verrà prodotta dalla preoccupazione, ma dalla morte.

Forze induritrici della morte si opporranno alle forze di amore.

Si tratterà allora di conoscere la morte nella sua molteplice realtà, e in tal modo tenerle testa.

• Nella seconda metà dell’evoluzione post-atlantidea è soprattutto importante

la  c o n o s c e n z a  della colpa, del bisogno, della preoccupazione e della morte;

ma il vero superamento di queste forze è riservato ad un lontano futuro.

 

In realtà, il superamento definitivo della morte, quale si è realizzato nella resurrezione del Cristo Gesù,

non sarà possibile all’umanità nel suo complesso prima della settima fase planetaria, quella di Vulcano.

Solo allora, l’uomo sarà in grado di sviluppare pienamente il ‘corpo di resurrezione’.

 

Il primo versetto delle Beatitudini si amplia quindi per la coscienza, fino a diventare la storia cosmica della colpa, del bisogno, della preoccupazione e della morte, e si approfondisce fino alla visione dell’essere dell’iniziazione, che porta al conseguimento della conoscenza intuitiva del mondo spirituale, attraverso la consapevolezza della colpa, del bisogno, della preoccupazione e della morte.

La prima Beatitudine rappresenta la formula della conoscenza intuitiva sulla via dell’iniziazione cristiana, che d’altra parte non è altro se non un vivere anticipatamente e in forma concentrata il karma futuro dell’umanità.