Causalità e finalità


 

1. I limiti logici della conoscenza concettuale

Dalla considerazione del mondo dei fenomeni il pensiero fa sorgere due grandi categorie concettuali:

quella della causalità e quella della finalità.

Il pensiero esige che ogni fenomeno osservato sia determinato da una causa o sia volto ad un fine;

in altre parole, il pensiero vuole collegare ogni fenomeno con il complesso di tutti gli altri fenomeni.

Un fenomeno stante a sé, isolato, senza nesso è incomprensibile per il pensiero.

 

Causa e fine sono i due anelli di congiunzione che saldano il singolo fenomeno con l’insieme degli avvenimenti universali. Si tratta di una saldatura puramente concettuale che avviene nel campo della conoscenza umana; nulla dimostra a priori che il mondo sia tenuto assieme da ciò che nell’intelletto umano si rispecchia come concetto di causa e fine. Potrebbe benissimo darsi che nella realtà obiettiva l’unione delle cose universali fosse determinata da un ordine di fatti che sfugge al pensiero. È però certo che nella sfera del pensiero umano i concetti di causa e di fine rappresentano l’unico modo possibile di congiungere un dato percepito con un nesso logico.

Causalità e finalità sono le rotaie obbligatorie per le quali il pensiero passa da un contenuto concettuale ad un altro contenuto concettuale. Causa e fine costituiscono la forma necessaria del pensiero concettuale umano. Per il fatto che l’uomo pensa in concetti non può unificare il contenuto della sua conoscenza che con le due categorie concettuali più generali che conosca: la causalità e la finalità.

Causa e fine sono due concetti così generali che affettano e conformano ogni altro concetto. Non vi è formulazione concettuale, non vi è legge fisica tradotta in pensiero, non vi è definizione conoscitiva che non contenga palese o sottintesa la categoria concettuale della causalità o della finalità.

 

Se la scienza mi dice che l’asse terrestre è inclinato, il mio pensiero non s’appaga di questa semplice constatazione e si sforza di conoscere ciò che ha determinato quella inclinazione e a quale scopo sia avvenuta. Questa necessità conoscitiva di collegare ogni fenomeno con una causa e un fine deriva dalla impossibilità del pensiero concettuale di concepire una forma d’essere a sé.

Facciamo l’ipotesi che solo la terra esista nello spazio cosmico. In questo caso, non potrei mai sapere che il suo asse è inclinato e non mi sognerei di chiedere il perché di tale fatto. Ciò che può essere concepito come solo, come unico, non ha bisogno di una causa che ne spieghi l’esistenza e di un fine che giustifichi il suo modo di essere. Ma nulla vi è nell’universo che possa essere concepito a sé; ogni cosa si presenta come parte di un tutto, come singolo frammento di un grande insieme. Con i dati sconnessi della percezione, con i minuscoli frammenti offerti dai sensi, il pensiero si sforza di ricomporre l’immagine dell’insieme. E nel far ciò, nel soddisfare il suo anelito di conoscenza, lega i pezzi distaccati della percezione del mondo con il filo logico della causalità e della finalità.

 

La causa ed il fine rappresentano il massimo sforzo spirituale per superare l’isolamento delle cose determinato dalla percezione sensoria. Quando il pensiero ha ricongiunto il dato percepito con la realtà generale del mondo, lo spirito umano è soddisfatto. Esso in verità, nell’atto della conoscenza, ha compiuto il suo massimo sforzo, ha raggiunto il limite estremo non più superabile. E poiché per l’intelletto umano il nesso unificatore della realtà è rappresentato dal concetto di causa e di fine, la causalità e la finalità segnano i limiti logici della conoscenza concettuale.

 

Il pensiero per sua natura non può superare questi limiti da esso stesso stabiliti. Di tre singoli oggetti considerati – A, B, C – il pensiero riesce bensì a scoprire il rapporto che li unisce, ma non arriva mai ad afferrare l’intimo contenuto dell’oggetto in sé, la sua natura individuale.

Immagino di possedere due anelli, uno di ferro e l’altro d’oro. Dopo qualche tempo osservo che l’anello di ferro si copre di macchioline rossastre, cioè arrugginisce, mentre quello d’oro rimane inalterato. Questa osservazione permette al pensiero di stabilire un rapporto tra il ferro, l’oro e l’ossigeno. Il ferro si ossida facilmente, l’oro è inossidabile. Posso dire: l’ossigeno è la causa dell’ossidarsi del ferro. E quale è la causa del non ossidarsi dell’oro? Il chimico risponderà: la sua struttura atomica che non gli permette di combinarsi con l’ossigeno. Questa però non è che una parvenza di risposta, perché non tocca la causa e ci dice solo che l’oro non si ossida perché è oro. Difatti quando di un oggetto A possiamo dire soltanto che la sua causa è ancora A, eliminiamo in verità il concetto di causa e costatiamo con ciò che il pensiero concettuale non ha più modo di svolgersi e si arresta.

Il pensiero è atto a stabilire un rapporto tra il ferro, l’oro, l’ossigeno, ma è incapace di rivelarci qualche cosa sul ferro come ferro, sull’oro come oro, sull’ossigeno come ossigeno. Da tale constatazione dobbiamo trarre due leggi fondamentali per la conoscenza umana.

 

La prima è: il pensiero concettuale stabilisce rapporti complessi tra i singoli oggetti della realtà, ma non raggiunge la natura della cosa in sé.

La seconda è il corollario della prima: la causa riguarda soltanto il reciproco affettarsi delle cose, cioè il fenomeno accidentale, non mai la loro essenza ed esistenza.

 

Con ciò il problema dei limiti della conoscenza è posto in maniera ben diversa dal come lo espresse il Du Bois Reymond con i suoi sette grandi enigmi del mondo. Questo scienziato, come del resto tutti gli scienziati materialisti, vorrebbe trovare nel pensiero non soltanto le leggi dei fenomeni, ma anche quelle dell’essere. Ciò però è impossibile. Il pensiero concettuale per sua natura non può dare nulla di più che il rapporto intercorrente tra le cose, cioè la spiegazione del fenomeno che è atto d’intelletto e la sua connessione con il tutto universale che è atto di ragione.

La conoscenza umana non ha limiti quantitativi, come crede il Du Bois Reymond, ma limiti qualitativi. Cioè vi sono più specie di conoscenza, più gradini di conoscenza ciascuno diversamente conformato.

Anche l’animale ha la sua conoscenza del mondo, che non è naturalmente quella logico-intellettuale. Il pensiero concettuale è proprio dell’uomo, perciò l’uomo vede nel suo intelletto tutta la realtà entro i limiti logici della causalità e della finalità che escludono la conoscenza più profonda dell’essere e dell’esistere.

 

2. Critica del concetto di finalità

L’uomo è un essere eminentemente finalistico. Fa parte della sua natura di indirizzare ogni atto che promana dalla sua personalità verso un determinato fine. Anzi, detto con più vigore, l’uomo non agisce mai senza uno scopo. Quale questo sia non ha importanza. Anche l’azione sconclusionata del pazzo è diretta ad un fine prestabilito non meno che quella lungimirante del genio.

Ciò dipende dal fatto che l’uomo è un essere pensante. Egli trasporta ogni estrinsecazione della sua natura nella sfera del pensiero. Passioni e impulsi volitivi non vivono in lui in modo indipendente, ma s’alzano alla coscienza solo per mezzo del pensiero.

 

Il pensiero crea concetti e rappresentazioni.

La rappresentazione è un concetto congiunto con un dato sensibile.

In essa l’universale si congiunge con l’individuale, la natura cosmica dell’uomo con quella terrestre.

Un uomo che vivesse unicamente nei concetti non sarebbe un essere terrestre.

Il mondo dei sensi non esisterebbe per la sua coscienza.

 

La rappresentazione mette lo spirito umano a contatto con la materia,

allo stesso modo che l’attività dei sensi pone sulla terra il suo corpo.

L’uomo dunque è uomo sulla terra per il fatto

che il suo corpo percepisce con i sensi e che il suo spirito si forma rappresentazioni relative.

 

In questo senso pietre, piante e animali non sono esseri terrestri: vivono ancora nel cosmo. La pietra non percepisce e non pensa; l’animale bensì pensa ma non nella forma delle rappresentazioni. Non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che la mirabile e sapiente attività delle api, delle formiche, dei castori promani dalla rappresentazione. Essa parte dall’istinto della specie, cioè da una volontà collettiva che per esplicarsi non ha bisogno di passare attraverso la trafila della rappresentazione individuale.

L’uomo invece per agire deve prima rappresentarsi la sua azione.

 

Immagino di voler fare una passeggiata lungo la riva del mare. Nell’atto stesso di muovere il primo passo devo vedermi presso la riva, devo immaginarmi il mare, le navi ancorate, i palazzi prospicienti e ogni altro particolare che mi è già noto. Questa rappresentazione mi accompagnerà per tutto il mio cammino e determinerà a priori ogni mio passo. Farà sì che giunto ad un determinato incrocio stradale volterò a destra e non a sinistra.

• In ciò sta la caratteristica dell’azione teleologica.

La rappresentazione di un fatto successivo determina il concretarsi di un fatto antecedente.

 

Allo stesso modo dell’azione, così pure l’opera umana è immersa nella finalità. Alla presenza di un qualsiasi prodotto dell’attività umana posso dire che esso risponde ad un preciso fine. Non si può costruire una casa senza tracciarne in precedenza il progetto, ma questo prima di essere sulla carta è nella mente dell’architetto. Qui ogni particolare viene ordinato in modo da servire ad uno scopo preciso.

La macchina è l’espressione massima di questo finalismo umano. Nella macchina ogni singola parte, per minuta e trascurabile che possa apparire, è ordinata ad un fine. E ciò perché prima della macchina c’è stata l’idea della macchina nella mente di un uomo sotto forma di concetto e di rappresentazione. Teniamo ben presente dunque che la finalità è stabilita dalla rappresentazione di un fatto o oggetto successivo che concretamente agisce per mezzo dell’attività umana a determinarlo nel suo divenire.

Quando manca questo elemento rappresentativo, non si può parlare di finalità. Ma l’uomo pensa e vede la realtà antropomorficamente.

 

Il mondo ed ogni cosa del mondo sono ordinati ad un fine. Il toro ha le corna per poter dare cornate, la giraffa ha il collo lungo per poter brucare le alte foglie delle palme, il grano cresce perché gli uccelli lo possano beccare e gli uomini farne il pane, e così via.

Superare questa concezione finalistica della realtà universale è altrettanto difficile che necessario. Essa ha portato tanto la teologia che la scienza ai più gravi errori.

 

La teologia attribuisce alla creazione divina un fine, alto ed imperscrutabile quanto si voglia, ma preciso e stabilito ab aeterno. Ricordiamo il verso di Dante che esprime questa concezione teologica: “Termine fisso d’eterno consiglio”

Qui si fa Dio simile all’uomo e gli si attribuisce una forma d’essere tipicamente umana. Dio in un apriori assoluto si forma delle rappresentazioni della sua opera e poi la realizza nel tempo prestabilito. Ma questo è appunto un modo di agire umano determinato dal fatto che l’uomo è un essere pensante.

Una falsa concezione finalistica dell’universo ha portato la teologia ad umanizzare la divinità.

 

La scienza invece con il suo finalismo riduce tutto l’universo a pura funzione umana. E poiché l’uomo vive sulla terra ed è un essere terrestre, tutta l’esistenza cosmica extra-terrestre viene praticamente negata o ignorata dalla scienza.

Perché c’è l’aria? Perché l’uomo possa respirare. Dunque, dove non c’è aria non c’è possibilità di vita umana. Sulla luna, sul sole l’uomo non può vivere; Saturno ed Urano sono immersi in un gelido crepuscolo che impedisce ogni manifestazione di vita; più lontano ancora, fuori dalla sfera solare, tutta la realtà si riduce a un caotico turbinio di atomi. Così l’universo si riduce a un surplus che potrebbe anche non esistere.

 

Noi dobbiamo correggere questi assurdi concetti finalistici della scienza e della teologia.

Il finalismo è giustificato e valido soltanto nell’ambito dell’azione e dell’opera umana.

• Noi dobbiamo conquistarci questo concetto essenziale e fondamentale per la comprensione della realtà:

l’universo non è e non può essere ordinato finalisticamente.

Non è, perché non è una macchina;

non può essere, perché la divinità sta su un piano infinitamente più elevato che l’umanità.

• Solo se gli dei pensassero in concetti e in rappresentazioni propri dell’uomo, l’universo sarebbe diretto a un fine.

 

Domande di questo genere – Quale è lo scopo del mondo? Quale è lo scopo dell’esistenza? Perché Dio creò l’uomo? – non sono giustificate dall’esame della realtà.

Un campo dell’attività spirituale umana ce lo dimostra: quello dell’arte. Gli esteti di ogni scuola hanno ragione nel far risaltare che la caratteristica precipua ed essenziale dell’arte è la sua ateleologicità. Cioè l’arte, se è veramente tale, non è mai diretta ad un fine. L’artista crea senza scopo. Noi possiamo chiedere perché Edison costruì il fonografo e Marconi il telegrafo senza fili; ma non possiamo chiedere perché Raffaello dipinse la Madonna Sistina e Shakespeare scrisse l’Amleto.

 

La fonte della creatività artistica è del tutto particolare. L’artista non parte da concetti e rappresentazioni, ma da ciò che egli chiama ispirazione o intuizione. Vediamo dunque che quando l’opera creata non si basa sul pensiero concettuale e rappresentativo, anche se essa è opera umana, viene a cadere ogni possibilità di concepirla finalisticamente. Tanto più dunque l’universo – opera non umana, non concettuale – deve essere concepito come una realtà priva assolutamente di qualsiasi fine.

L’universo è senza finalità.

 

3. Critica del concetto di causalità

Più difficile è dimostrare l’infondatezza cosmica del concetto di causalità. Come prima cosa dobbiamo far notare che il concetto di causa nasce da quello di fine, più proprio all’uomo, per un processo di astrazione.

Un vasaio sta modellando un’anfora. Ciò che fa veramente sorgere l’anfora è il suo fine che vive come idea nella mente del vasaio. Ma un essere che considerasse la cosa del tutto esteriormente, potrebbe pensare che sono le abili mani del vasaio a far sorgere l’anfora. Così dal concetto di fine si passa quasi necessariamente a quello di causa. Questo è ancora più astratto, perché elimina ogni realtà e considera soltanto il puro fatto accidentale. Perché è vero naturalmente che sono le mani del vasaio a modellare l’anfora, ma ciò è un puro incidente che ben poco ha da fare con la realtà essenziale dell’anfora.

Prendiamo un altro esempio. Un commerciante va a Parigi per curare i suoi affari. Siccome ha una certa fretta prende l’aeroplano. È giusto dire: la causa dell’andare a Parigi di quel commerciante è l’apparecchio che lo trasporta? No, se non si vuol dar valore a un fatto puramente secondario.

 

Ciò è evidente; più difficile è far vedere l’incongruenza del concetto di causa quando si tratta di fenomeni naturali. Ma anche qui è sempre il concetto di fine che fa sorgere per astrazione quello di causa. Il ragionamento che si fa è presso a poco il seguente: Il fine del seme è di diventare fiore. La causa del fiore è il seme.

Il che è assurdo, perché abbiamo già visto che il concetto di finalità non è giustificato nell’ambito della realtà naturale.

 

Veniamo a fatti puramente fisici. Una palla è ferma sul tappeto verde del bigliardo. La urto con la stecca e la palla si mette in movimento. Dico: la causa del movimento della palla è il colpo di stecca che essa ha ricevuto.

Poi, al posto della palla metto un grosso cubo di piombo, lo urto con la stessa intensità e osservo che il cubo resta immobile. Posso dire: il cubo di piombo è rimasto fermo perché l’ho urtato con la stecca? No, neanche per sogno. È rimasto fermo perché è pesante e perché tocca il tappeto con più superficie, ciò che aumenta l’attrito.

Ma, allora, devo rivedere il mio ragionamento di prima. La palla si è mossa perché l’ho urtata con la stecca o perché è costituita in modo speciale ed ha in se le forze del movimento?

 

Io so che nel far questa domanda pecco contro la logica formale, ma la realtà è più forte che la logica e la realtà mi dice che il fisico, se vuole calcolare il movimento della palla, deve tener conto si dell’intensità dell’urto subito, ma anche di tanti altri elementi che appartengono alla stessa palla e al campo sul quale si muove. La logica formale andrebbe bene soltanto se una palla di bigliardo potesse esistere completamente isolata in mezzo allo spazio cosmico. Il che non è possibile.

Devo concludere: il colpo di stecca non è la causa unica ed efficiente del movimento della palla. Esso è un puro incidente che chiama in giuoco un complesso di fatti ognuno dei quali determina parzialmente il divenire del fenomeno.

 

Ad uno che mi obiettasse, secondo la solita logica formale, che il colpo di stecca è la causa unica e efficiente del movimento della palla, perché senza il suo intervento nulla sarebbe avvenuto, risponderei ch’egli vede troppo corto. Il colpo di stecca non determina il movimento della palla, ma provoca l’insieme delle circostanze che intervengono nel fenomeno. Se anziché urtare la palla con la stecca, sollevo il bigliardo in modo da trasformarlo in un piano inclinato, la palla si mette ugualmente in moto. Qui dove sta la causa? Nel mio atto, o nella forza di gravità, o nella poca forza di adesione dell’avorio? Potrei chiamare in causa gli aristotelici e gli scolastici e, basandomi sulle loro sottili distinzioni, speculare all’infinito. Ma ciò gioverebbe ben poco di fronte alla realtà concreta. In ogni fenomeno intervengono sempre un complesso di fatti e ognuno di essi ha un suo certo valore causativo, ma del tutto esterno e accidentale.

 

Un vetro colpito da un sasso s’infrange. Qui dove sta la causa: nel sasso o nella fragilità del vetro? Una lastra di rame, colpita dallo stesso sasso, non s’infrangerebbe, ma darebbe un suono particolare. La causa del suono è il colpo ricevuto o la particolare natura del rame?

Nell’universo tutto è sempre collegato assieme e limiterei molto la mia visione della realtà se, nel costituire il concetto di causa, tenessi conto soltanto di una successione temporale di fatti. Consciamente si fa proprio così: la causa è ciò che precede l’effetto. In tal modo però non si fa altro che stabilire la successione dei fenomeni. Che questa successione ci debba essere, non è niente di straordinario, perché ogni fenomeno del mondo fisico si manifesta nel tempo, che è appunto caratterizzato dal prima e dal poi. Ciò però non mi autorizza a concludere che il prima è causa del poi. Tale conclusione avrebbe un valore puramente formale e non toccherebbe il fondo della realtà.

 

Si usa chiedere in modo scherzoso: c’era prima l’uovo o la gallina? Ma questa domanda può portare il pensiero a una concezione seria della realtà, se lo fa accorto che tali questioni non sono giustificate. L’uovo e la gallina sono un tutto con la specie gallinacea, con il regno animale, con la terra, con l’universo. Che in questo universo qualcosa si manifesti prima e qualcosa poi, è un fatto del tutto accidentale. Ma l’universo in sé è eterno, non conosce le distinzioni temporali del prima e del poi, e quindi non ha cause ed effetti separati. È concausato in se stesso.

 

Facciamo un ultimo esempio. Perché ai poli fa freddo? Perché i raggi del sole vi battono con un angolo d’incidenza molto acuto. Quale ne è la causa? L’inclinazione dell’asse terrestre. E la causa di tale inclinazione? Potrei continuare ancora con le domande, accordandomi di due fatti.

Primo: il più piccolo particolare della realtà è legato a tutto l’universo e non si spiega se non nell’insieme di esso.

Secondo: quanto più risalgo da causa a causa, tanto più perdo di vista l’essenza del fenomeno considerato. Difatti che cosa hanno da fare in realtà con l’assenza del calore gli angoli d’incidenza e l’inclinazione dell’asse? Ne permettono più o meno la manifestazione, questo « vero, ma niente più di questo.

 

L’essenza di una realtà non ha mai un perché.

Il “perché” mi dice soltanto la ragione per cui essa si manifesta in quel momento e in quel modo.

 

Sto ascoltando una sinfonia di Beethoven. Da che cosa è generato quel mare di suoni? Dagli strumenti dell’orchestra? Certo. Ma che cosa ha da fare ciò con l’essenza della sinfonia? Assolutamente nulla. Essa si manifesta attraverso gli strumenti in un particolare modo e in un particolare momento. Possiamo perciò dire che gli strumenti sono la sua causa? No; ma proprio per lo stesso fatto non possiamo dire che la causa dell’infrangersi del vetro sia il sasso che lo ha colpito. Il sasso ha soltanto aperto l’adito alla manifestazione di una essenzialità, cioè della fragilità del vetro.

 

Ora dobbiamo trovare qualche conclusione.

L’universo come è senza scopo, così è senza causa.

La realtà è incausata o concausata in se stessa, che è la stessa cosa.

 

Forse per demolire questa nostra concezione qualcuno farà i nomi di due colossi del pensiero: Aristotele con le sue sottili distruzioni del concetto di causa e Tommaso d’Aquino con la sua famosa dimostrazione dell’esistenza di Dio basata su cause successive. Ci sembra che noi non contrastiamo con questi due Grandi, ma anzi concordiamo in pieno.

In alcune precedenti considerazioni abbiamo fatto la critica dei concetti di spazio e di tempo. Ci siamo sforzati di dimostrare che spazio e tempo sono concetti e non percezioni, non fenomeni della realtà. Ciò non toglie che ogni fenomeno della realtà fisica si manifesta nel tempo e nello spazio.

Lo stesso vale per quanto riguarda la casualità e la finalità. Queste due concezioni nascono dal pensiero e Aristotele le definisce, distingue e classifica appunto in quanto e come concetti.

 

Per il fatto che l’uomo pensa in concetti e in rappresentazioni la realtà del mondo giunge alla sua coscienza come se fosse ancorata nella causalità e nella finalità. La teoria della conoscenza deve tenere presente e spiegare perché lo spirito umano vede il mondo nella luce forse ingannevole della causalità e della finalità. Noi abbiamo dato soltanto dei cenni.

 

Ma non è lecito costruire una concezione del mondo fondata su causa e su fine appunto perché essi sono concetti del pensiero umano e non fenomeni della realtà. L’universo non ha causa e non ha fine.

Tommaso d’Aquino, risalendo il corso delle cause, giunge a una causa incausata. Egli afferma dunque che c’è una sfera della realtà nella quale il concetto di causa non è più valido, e chiama questa sfera Dio. Noi preferiamo chiamarla la sfera della spiritualità essenziale, ma i nomi poco importano. È invece importantissimo riconoscere che questa sfera della realtà divino spirituale è presente dovunque e che non possiamo pervenire ad essa se non abbandonando i concetti di causa e di fine. Questi due concetti ci legano alla non essenzialità, all’elemento accidentale e temporaneo della realtà transitoria.

 

4. I gradi della conoscenza superiore

In quanto essere pensante, l’uomo deve necessariamente vedere la realtà del mondo fisico attraverso le grandi leggi logiche della casualità e della finalità. Esse stabiliscono la connessione esteriore degli eventi e dei fenomeni per la quale l’universo assume una grandiosa armonia di pensiero. Però abbiamo già visto che con il pensiero non si può penetrare nell’essenza della realtà. E difatti questa interiorità delle cose è preclusa alla coscienza comune dell’uomo terrestre.

 

Prendiamo in mano un seme. Che cosa sappiamo di questo seme? Quello che ci dicono i sensi e il pensiero. Dalla sua particolare forma possiamo dire a che pianta esso appartenga; il pensiero ci svela i rapporti che lo legano alla sua specie e a tutto il regno vegetale. Ma che cosa vediamo della forza misteriosa che è racchiusa nel seme e che farà sorgere la pianta? Assolutamente nulla. Sappiamo solo che essa esiste. Non possiamo però giungere ad essa né con la percezione, né con il pensiero.

 

Queste considerazioni potranno ritenere giustificato tanto il kantismo con la sua irraggiungibile “cosa in sé”, quanto l’ignorabimus di Du Bois Reymond, e parrà forse strano che sia proprio la scienza dello spirito antroposofica a combattere queste concezioni limitative della coscienza umana. È perciò importante chiarire questo punto, sul quale fecero leva gli avversari di R. Steiner e lo accusarono di materialismo e di ateismo, quando egli si levò a difendere le idee di Haeckel.

 

Un punto fermo della teoria della conoscenza antroposofica è rappresentato dalla dimostrata asserzione che la conoscenza è data dall’unione della percezione con il pensiero e che non vi è assolutamente nulla nella realtà che sia al di là della percezione e del pensiero. Degli avversari poco perspicaci hanno fatto su ciò della facile critica, dicendo: “Voi parlate degli Angeli. Se li vedete, come è poco probabile, le basi filosofiche della vostra concezione vengono a cadere e l’antroposofia non è una scienza ma una mistica. Se non li vedete, come è probabilissimo, siete degli sfacciati ciarlatani.”

 

Questa obiezione dimostra quanto superficiale sia il pensiero degli uomini e come sia difficile comprendere l’antroposofia. Che cosa significa l’affermazione: per la coscienza dell’uomo terrestre non vi è nulla al di là della percezione e del pensiero? Significa che la totalità del mondo dei sensi si esaurisce in ciò che percepiamo e nelle leggi del mondo che il pensiero ci rivela. Nel mondo fisico non vi è assolutamente nulla più di questo. Ma Kant concepisce appunto la sua cosa in sé come un ente fisico spettrale e il Du Bois Reymond cerca, e non può trovare, nell’ambito della realtà fisico-sensibile la risoluzione per i suoi enigmi. Si commette così il grossolano errore – e questa è la vera essenza del materialismo dichiarato o larvato – di voler trovare lo spirito nella materia fisica e di concepirlo con tutti i caratteri della materialità.

L’antroposofia s’oppone a questa concezione materializzante della realtà e dice che nel mondo dei sensi è presente soltanto il fisico-materiale e che lo spirito va cercato altrove e concepito in modo soprasensibile. Ma ciò non implica una distinzione spaziale o quantitativa della realtà, sebbene una distinzione essenziale-qualitativa.

 

Gli angeli non si trovano nel mondo dei sensi e nessuno può percepirli come si percepisce un albero o un essere umano. L’uomo però può elevarsi a gradini superiori di conoscenza. La Scienza dello Spirito parla di “immaginazione”, di “ispirazione” e di “intuizione”, che sono tre forme di conoscenza superiore alla conoscenza oggettiva e concettuale propria dell’uomo terrestre. Esse danno all’uomo una conoscenza qualitativamente diversa da quella fisica. Cioè dietro una cosa l’immaginazione non fa vedere un suo doppione spettrale, la cosa in sé, ma la sua forma d’essere soprasensibile.

Arriviamo in tal modo a gradi sempre più alti di essenzialità e di spiritualità. E poiché in queste forme di conoscenza non si fa ricorso al pensiero concettuale, la realtà universale che in tal modo ci si appalesa perde tutte le caratterizzazioni datele dalla conoscenza sensibile-concettuale, come la temporalità, la spazialità, la causalità, la finalità. Dietro a questi concetti appare allora, nella sua alta forma soprasensibile e sopraconcettuale, la realtà divino-spirituale che essi adombrano.

 

Sono cose che a noi è dato soltanto di intuire pallidamente. Sta invece nella nostra possibilità, e in ciò dobbiamo sforzarci quanto più possiamo, di comprendere che il mondo dello spirito presenta una forma d’esistenza per la quale non possiamo applicare i concetti tratti dal mondo dei sensi.

Questa verità così semplice e così facile a formulare, è tuttavia la più difficile a raggiungere e a realizzare nella vita pratica e conoscitiva.

Tutta l’immensa somma d’errori in cui finora è caduta l’umanità, ha avuto per origine la dimenticanza di questa così semplice e ovvia verità: le leggi del mondo fisico non sono valide per il mondo dello spirito.

 

S. Paolo dice la stessa cosa, quando afferma: la saggezza divina è stoltezza presso gli uomini.

Il materialismo è penetrato così profondamente in noi che dobbiamo raccogliere tutte le forze per superarlo.

Le considerazioni che abbiamo svolte oggi sulla causalità e sulla finalità hanno avuto appunto l’intento

di superare le concezioni materialistiche della teologia e delle scienze naturali.

L’universo non ha causa e non ha scopo.

 

Per l’uomo ciò è pazzia; ma ciò che è pazzia presso gli uomini si rivela in una sfera superiore di conoscenza come sublime ed ineffabile saggezza divina.

22 aprile 1948