Il bambino dopo i 9 anni

O.O. 311 – L’educazione come arte – 14.08.1924


 

Sommario: Il bambino dopo i 9 anni. La botanica e la zoologia, e il loro effetto educativo. Il racconto delle favole e dei miti. La storia in immagini. Considerazioni causali solo dopo i 12 anni. Le punizioni. Autoeducazione.

 

Oggi caratterizzeremo ancora in generale l’arte dell’educazione durante il periodo fra il cambio dei denti e la pubertà, in modo da poterci addentrare nelle prossime conferenze nel trattamento speciale di singoli casi e condizioni di vita.

 

Il bambino attorno ai 9 e i 10 anni distingue per la prima volta se stesso dal suo ambiente. La differenza fra soggetto e oggetto (soggetto = se stesso; oggetto = tutto quanto è fuori del proprio sé) sorge in realtà solo in questo periodo, e possiamo allora cominciare a parlare delle cose fuori di noi, mentre prima dovevamo considerarle come se fossero una cosa sola con il corpo del bambino. Ieri ho detto che dovevamo trattare le cose esteriori come se fossero uomini che parlano e agiscono. Il bambino ha così l’impressione che il mondo esterno sia semplice- mente la continuazione del proprio essere.

 

Appena il bambino ha superato i 9 o i 10 anni, occorre introdurlo in alcuni elementari fatti ed entità del mondo esterno, nei fatti dei regni vegetale e animale. Parleremo più avanti di altri fenomeni, ma proprio su questi argomenti dobbiamo fare in modo di interessare il bambino come richiede la natura umana.

 

La prima cosa da fare a questo proposito è di gettare tutti i libri di testo, perché come oggi sono fatti nulla contengono in merito ai due regni citati che possa essere esposto ai bambini. I libri di testo oggi vanno bene per procurare agli adulti nozioni su piante e animali, ma rovinerebbero l’individualità del ragazzo se li portassimo nella scuola. Si può dire che oggi non esistono libri o manuali che diano indicazioni sul modo di insegnare nella scuola.

 

Se presentiamo ai bambini una singola pianta e lasciamo che ne osservino i particolari, li induciamo in sostanza a un’azione che non risponde a realtà. Una pianta di per sé sola non ha realtà. Un capello strappato non va considerato come cosa in sé, non ha realtà. Nella vita ordinaria si dice che ha realtà tutto quanto ci viene posto davanti agli occhi ed è in sé limitato; ma è diverso giudicare di un sasso, di un capello o di una rosa. Fra dieci anni il sasso sarà ancora esattamente uguale a come è oggi, mentre la rosa non sarà più la stessa fra due giorni; essa é una realtà soltanto unita al rosaio. Il capello non ha alcuna realtà in se stesso, ma l’ha soltanto con tutta la testa, con tutto l’organismo umano. Andare su un prato a cogliere fiori è come strappare capelli, perché le piante sono parte della terra, proprio come i capelli sono parte dell’organismo umano. Non ha senso considerare un capello di per sé, come se potesse crescere da sé.

 

Allo stesso modo non ha senso raccogliere piante, portarle a casa e considerare ogni pianta a sé. Non corrisponde alla realtà, e con questi metodi non è possibile acquisire una giusta conoscenza della natura e dell’uomo.

 

Quando si ha una pianta (vedi disegno), non è solo la pianta che conta, ma ne fa parte anche ciò che è sotto il terreno per una vasta zona, forse anche molto vasta. Vi sono piante che irradiano le loro radicole anche molto lontano.

 

Che della pianta faccia parte anche una vasta zona del terreno nel quale è radicata può insegnarlo il fatto che bisogna mettere concimi nel terreno, se si vuole che essa cresca bene.

 

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Non vive solo la parte visibile della pianta, ma anche ciò che ne è parte, seppur nascosto nel terreno (vedi disegno a lato). Il terreno partecipa alla vita della pianta.

 

Vi sono piante che fioriscono in primavera, germogliano in maggio o giugno e portano frutti in autunno. Poi appassiscono e muoiono. Il terreno in cui sono piantate è parte di esse. Ci sono però piante che prendono le forze dal terreno circostante; (vedi disegno) la radice accoglie in sé le forze che stanno nel terreno circostante. Le forze del terreno assorbite salgono per il tronco e si forma un albero.

 

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Che cos’è un albero? È una colonia di molte piante. Avere una collina sulla quale vi siano numerose piante, o avere un tronco di un albero nel quale con una vita intensa il terreno vi sia inserito, è in fondo la stessa cosa. Davvero non si può considerare una pianta di per sé.

 

Si viaggi per una contrada, o ancora meglio si vada in una contrada dove ci siano determinate formazioni geologiche, per esempio della sabbia rossa, e si guardino le piante: avranno in genere fiori giallo-rossi. I fiori fanno parte del terreno. Terreno e pianta sono un’unità, come la sono il cuoio capelluto e i capelli che lo ricoprono.

 

Non si può quindi insegnare ai bambini geografia e geologia da un lato e botanica dall’altro; sarebbe senza senso. Tuttavia la geografia, la descrizione della terra, e lo studio delle piante devono formare un tutto unico, perché la terra è un organismo, e le piante sono come i suoi capelli. Il bambino deve poter avere l’idea che terra e piante sono parte di un tutto, che ogni pezzetto di terra dà vita alle piante che sono parte di quel terreno.

 

È quindi giusto considerare la botanica solo in relazione con la terra e suscitare nel bambino la precisa immagine che la terra è un organismo vivente che ha “capelli” che sono le piante. Si attribuisce alla terra una forza di gravità, e occorre tenerne conto, ma anche le piante con la loro forza di crescita fanno parte della terra. Non c’è terra a sé e pianta a sé, cosi come nella realtà non ci sono capelli a sé e uomini a sé. Sono parte di un tutto.

 

Esaminando le piante raccolte all’aperto, e dando loro il nome, non presentiamo ai bambini una realtà. Le conseguenze si avvertono poi per tutta la vita, perché i bambini, dalla botanica insegnata in quel modo, non otterranno ad esempio una comprensione per come si debba trattare un terreno e renderlo vivente col concime. Potranno comprendere come trattare un terreno solo sapendo che il terreno e la pianta sono parte di un tutto. Poiché gli uomini del nostro tempo non hanno più alcun senso per la realtà (già nella prima conferenza avevo detto che i pratici l’hanno meno di tutti, e che oggi tutti sono teorici), considerano tutto separatamente, come a sé stante.

 

Per questo è avvenuto che in molte, moltissime zone a partire da cinquanta o sessant’anni fa i prodotti della terra sono diventati di bassa qualità. Nell’Europa centrale s’è tenuto or non è molto un congresso agricolo, e in quell’occasione gli agricoltori stessi hanno ammesso che i prodotti sono tanto cattivi da non lasciar sperare che fra cinquant’anni possano ancora essere usati dagli uomini.

 

Perché? Perché la gente non capisce in che modo si può rendere vivente il terreno con il concime. Non lo può capire se non accettando concetti come questo: le piante non sono qualcosa a sé stante. Se il capello fosse qualcosa di per sé, lo si potrebbe piantare in un poco di cera o di sego! Invece cresce solo sul cuoio capelluto.

 

Per riconoscere che la terra e le piante sono un tutto unico occorre conoscere il tipo di terreno di cui una pianta è parte e come lo si debba concimare; lo si può veramente riconoscere solo considerando la terra e il mondo vegetale come un’unità, guardando la terra come un organismo e le piante come qualcosa che cresce in quell’organismo.

 

Così il bambino fin dall’inizio ha l’impressione di stare su di un terreno vivente, e questo ha una grande importanza per la vita. Secondo l’opinione corrente, come si sono formati gli strati geologici? Sovrapponendosi l’uno all’altro! Tutti gli strati geologici visibili sono invece piante indurite, cose vitali indurite. Non fu solo il carbone ad essere dapprima pianta radicata di più nell’acqua che nel terreno solido, pur appartenendo alla terra; anche il granito, lo gneiss e così via ebbero natura vegetale e animale.

 

Con ciò si arriva a una reale comprensione considerando terra e piante come una cosa sola. Il punto non è solo che il bambino acquisti nozioni, ma giusti sentimenti; ci se ne rende conto soltanto osservando queste cose nella prospettiva della scienza dello spirito.

 

Si pensi ora di essere animati dalla migliore buona volontà e di dire: lo scolaro deve accogliere tutto, anche le piante, in modo visivo. Lo si esorta quindi a raccogliere piante per una sua bella collezione, e gli si fa vedere tutto, perché quella è la realtà. Si crede cioè che quella sia la realtà e che questo sia davvero un “insegnamento visivo”. Però così il bambino vede solo qualcosa che non è realtà. Con un insegnamento visivo del genere oggi si fanno i più grandi errori.

 

Così i bambini imparano a conoscere le piante, come se fosse indifferente che un capello cresca sulla cera o sulla pelle umana. Sulla cera però non cresce. Se i bambini acquisiscono concetti del genere si trovano in contraddizione con ciò che avevano sperimentato nel mondo spirituale, prima di scendere sulla terra. Da là la terra appariva in tutt’altro modo. Nel mondo spirituale si faceva incontro in modo vivente ai bambini, vale a dire alle loro anime, l’appartenenza reciproca del mondo minerale e vegetale. Perché? Perché un’anima, per potersi incarnare, deve assorbire qualcosa che non è ancora minerale, ma che è sulla via di diventarlo, cioè qualcosa di eterico; essa deve crescere nell’elemento vegetale che è imparentato con la terra.

 

Tutta questa serie di processi che un’anima sperimenta scendendo nel mondo terreno da quello prenatale, tutto questo mondo così ricco, le diventa confuso e caotico, se si indirizza il bambino a studiare la botanica come in genere viene fatto oggi. Al contrario egli esulta interiormente se impara a conoscere il mondo vegetale nel suo rapporto con la terra.

 

Analogamente bisogna fare attenzione a come si presenta ai ragazzi il mondo animale. Per l’animale già un’osservazione superficiale ci dice che esso non è legato alla terra. Cammina sulla terra, si muove da un posto all’altro. Vi sono quindi tutt’altri rapporti con la terra che per la pianta. Nell’animale si possono fare anche altre osservazioni.

 

Osservando secondo le loro caratteristiche animiche i diversi animali che vivono sulla terra, troviamo feroci animali predatori, docili agnelli e anche animali coraggiosi. Per esempio fra gli uccelli ci sono alcuni coraggiosissimi lottatori; anche fra i mammiferi vi sono animali coraggiosi. Troviamo animali maestosi, come i leoni, troviamo insomma le più diverse caratteristiche animiche. Diciamo che ogni singola specie animale ha la sua specifica caratteristica. Diciamo che la tigre è feroce e che la ferocia è la sua più saliente e notevole caratteristica. Diciamo che la pecora è paziente e che la pazienza è la sua più importante caratteristica. Diciamo che l’asino è lento, anche se in effetti non lo è poi tanto; pure nel suo modo di fare ha qualcosa che ricorda la lentezza. In realtà l’asino è lento nel cambiare la sua andatura; se ha voglia di andare adagio non lo si può spingere a correre. Ogni animale ha la sua speciale caratteristica.

 

Per gli uomini non possiamo pensare allo stesso modo, non possiamo pensare che un uomo sia solo mansueto e paziente, un altro solo crudele e un terzo solo coraggioso. Troveremmo la cosa unilaterale, se gli uomini fossero distribuiti in tal modo sulla terra. In un certo senso hanno anch’essi sviluppato in modo unilaterale determinate caratteristiche, però mai nella stessa misura degli animali. Nell’uomo, specialmente se lo vogliamo educare, troviamo ad esempio che in certe circostanze della vita dobbiamo spingerlo alla pazienza; in altre al coraggio, e in altre ancora magari a un po’ di crudeltà, sebbene sempre in dosi omeopatiche. In certe circostanze qualcuno mostrerà davvero anche qualche crudeltà, a seguito del suo naturale sviluppo.

 

Come stanno in effetti le cose, se osserviamo le caratteristiche animiche dell’uomo e degli animali? Troviamo che l’uomo può avere tutte le caratteristiche, almeno quelle che gli animali hanno nel loro insieme, mentre gli animali ne hanno una sola. L’uomo ne ha un po’ di tutte. Non è maestoso come il leone, ma ha qualcosa di maestoso, non è crudele come la tigre, ma ha un po’ di crudeltà, non è paziente come la pecora, ma ha anche un po’ di pazienza, non è lento come l’asino, ma ha in sé un po’ di lentezza (chi più chi meno). Considerando bene il fenomeno si può dire che l’uomo ha in sé la natura di leone, di pecora, di tigre e d’asino; ha in sé di tutto, però armonizzato. Ogni qualità si adatta alle altre; l’uomo è la confluenza armonica o, per esprimerlo in modo più dotto, è la sintesi di tutte le diverse caratteristiche animiche degli animali. Si è quindi raggiunto il giusto nell’uomo se egli ha nella sua qualità complessiva la dovuta dose del leone, della pecora, della tigre, dell’asino, e se ogni cosa sta in giusta misura e in giusto rapporto con tutte le altre caratteristiche.

 

Già un vecchio proverbio greco diceva molto bene: il coraggio unito all’intelligenza ti porterà benedizione, ma se usi il coraggio da solo avrai rovina. Se l’uomo fosse solo coraggioso, come certi uccelli che sempre combattono e sono solo coraggiosi, non ci sarebbe per lui gran che di bene nella vita. Se invece il coraggio è unito nell’uomo all’intelligenza, egli è nel giusto, mentre certi animali sono solo astuti.

 

Nell’uomo dunque abbiamo una sintesi, un’armonia di tutte le qualità che troviamo distribuite nel regno animale. Possiamo quindi descrivere il rapporto altrimenti: immaginiamo tante forme di animali, una figura per ogni animale sulla terra.

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Che relazione hanno con l’uomo? L’uomo ha in sé qualche elemento caratteristico di un animale, ma attenuato, non completo; aggiunge qualche elemento di un’altra specie, di nuovo non completo; compenetra il tutto con una piccola parte di un’altra ancora e così via (ultima figura, a destra nel disegno). L’uomo ha così in sé qualcosa di tutti gli animali. Il regno animale è un uomo allargato, e l’uomo è un regno animale condensato e rimpicciolito. Tutti gli animali sono sinteticamente riuniti nell’uomo. Analizzato, l’uomo è l’intero regno animale.

 

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Altrettanto lo è la sua figura. Disegniamo un momento il viso di un uomo (vedi disegno a lato); se togliamo la parte di sopra e aggiungiamo qualcosa sul davanti, se viene meno l’armonia di tutto il viso e la fronte diventa sfuggente, avremo la testa di un cane. Formando la testa in un altro modo, avremo la testa di un leone, e così via.

 

Anche per gli altri organi si trova che l’uomo, nella sua figura esteriore, ha in forma attutita e armonizzata ciò che è distribuito tra tutte le specie di animali.

 

Si pensi ora un’anatra che nuota sull’acqua: ciò che le permette di nuotare l’abbiamo anche noi fra le dita, anche se in misura ridotta. Così è presente nell’uomo, anche nella sua figura, ciò che vi è nel regno animale. Troviamo in tal modo il nostro rapporto col regno animale e impariamo a riconoscere come tutti gli animali insieme siano un uomo, un uomo che è presente nei 1800 milioni di specie animali, di più o meno grande valore, che vivono sulla terra. L’intero regno animale è un uomo gigantesco, solo non riassunto in piccola sintesi, ma analizzato in vari particolari.

 

Se nella figura umana le singole parti fossero ancora plasmabili e su ognuna di esse si esercitasse una dilatazione in modo da esagerarne le proporzioni rispetto all’armonia del tutto, da tale deformazione risulterebbe una figura animale. Se ad esempio la parte così deformata coincidesse con le orbite e con tutto l’apparato visivo, ne risulterebbe una speciale figura animale. Abbiamo dunque in noi tutto il regno animale. Così nei tempi antichi si insegnava la storia del regno animale. Era una buona e sana conoscenza che è andata perduta; ma ciò è avvenuto relativamente tardi. Ad esempio ancora nel secolo diciottesimo si sapeva perfettamente che prolungando all’indietro e ingrossando il nervo olfattivo che abbiamo nel naso, ne sarebbe risultato un cane. Viceversa, il nostro nervo adatto alla vita dell’intelletto consiste in un nervo olfattivo rattrappito, di cui conserviamo solo una parte come olfattiva, mentre l’altra è metamorfosata.

 

In un cane che annusa, il nervo olfattivo si allunga all’indietro. Il cane annusa le caratteristiche delle cose; non le pensa, le annusa. Non ha una volontà e una rappresentazione, ma una volontà e un odore per ogni cosa. Ha un olfatto meraviglioso! Per il cane il mondo è più interessante che per noi. Noi possiamo farci una rappresentazione di tutto, mentre il cane distingue tutto con l’olfatto. Per noi pochi sono gli odori simpatici o antipatici, ma per il cane ve ne sono moltissimi. Pensiamo un momento quanto sia differenziato l’olfatto del cane! Si hanno ora cani poliziotto: si porta il cane sul luogo dove è stato commesso un furto; il cane percepisce subito l’odore del ladro, ne segue le tracce e lo trova. Tutto perché ha la facoltà di percepire un ricco mondo di odori differenziati come conseguenza del nervo olfattivo che in lui si estende verso la parte posteriore della testa, nella scatola cranica (vedi disegno precedente).

 

Per disegnare il nervo olfattivo del cane dobbiamo andare ben oltre dietro il naso. Nell’uomo ne è rimasta solo una piccola parte nel naso, il rimanente si è trasformato ed è sotto la fronte; è un nervo metamorfosato, trasformato, col quale formiamo le nostre rappresentazioni. Non possiamo perciò più annusare come il cane, ma possiamo avere rappresentazioni. Abbiamo in noi il cane che annusa, ma trasformato. Abbiamo in noi tutti gli animali.

 

Bisogna suscitare un’immagine di tutto ciò. Il filosofo Schopenhauer scrisse il suo Il mondo come volontà e rappresentazione per gli uomini. Se lo avesse scritto un cane geniale lo avrebbe intitolato: “Il mondo come volontà e come odore”; son sicuro che il libro sarebbe stato molto più interessante di quello scritto da Schopenhauer.

 

Si osservino le diverse forme degli animali e le si descriva agli alunni, però non come se ogni animale esistesse di per sé nel mondo, ma facendo la seguente considerazione: osserva l’uomo; se lo immagini modificato in una particolare direzione, semplificato, ottieni l’animale. Se invece aggiungi qualcosa a un animale qualsiasi, se per esempio a un animale inferiore come la tartaruga metti vicino un canguro, se anzi metti la tartaruga sopra il canguro, in modo da avere sopra come una specie di testa indurita (in certo senso è la forma della tartaruga) e sotto il canguro, quale rappresentante in certo senso delle membra umane, ottieni una figura somigliante all’uomo.

Nell’ampio mondo si può ovunque trovare un rapporto fra l’uomo e i diversi animali.

 

Ora si può ridere di tutto ciò, e va benissimo. E bene che in una classe anche si rida, perché niente è meglio che portare dell’umorismo in classe. Se possono ridere anche gli alunni, se non vedono sempre il maestro con una faccia serissima, tanto da credere che sui banchi di scuola anche loro devono avere visi imbronciati, che sui banchi di scuola bisogna avere sempre la faccia seria, se dunque questo non è il caso, ma se si fa tutto con umorismo e si fa ridere la classe, si ha il miglior mezzo di insegnamento. Maestri seri, sempre seri, non ottengono molto dai bambini.

 

Ho esposto cosi il principio cui deve informarsi l’insegnamento sul regno animale; entreremo nei particolari se ce ne sarà tempo. Dunque, chi insegna deve trattare il regno animale come se fosse un uomo esteso in tutte le direzioni.

 

Questa impostazione dà al bambino un fine e bel sentimento, perché come ho detto egli impara che il mondo vegetale è parte della terra e che gli animali fanno parte dell’uomo. Il bambino cresce così in unione con tutta la sfera terrestre. Non è più solo su un morto terreno terrestre, ma è su un terreno vivente e sente la terra come qualcosa di vivente. A poco a poco egli ha l’impressione di stare sulla terra come se stesse su un grande organismo, ad esempio su una balena; ed è anche la giusta sensazione, che porta alla comprensione del mondo umano.

 

Dagli animali il bambino trae il sentimento che essi abbiano una parentela con l’uomo, ma anche l’idea che questi abbia in sé qualcosa che lo fa emergere su tutti gli animali perché li riunisce tutti in sé. Da uomini che siano stati educati in questo modo verrà derisa come una frottola scientifica la concezione secondo cui l’uomo deriva da un animale; riconosceranno invece che l’uomo riunisce in sé l’intero regno animale, sintetizzandone in sé i singoli componenti.

 

Ho già detto che fra i 9 e i 10 anni il bambino distingue se stesso come soggetto, e il mondo esterno come oggetto. Si distingue cioè dal mondo circostante. Prima si potevano raccontare soltanto favole, leggende, nelle quali le pietre e le piante parlavano e agivano come esseri umani, perché il bambino non distingueva ancora se stesso dal mondo. Ora che se ne distingue dobbiamo allacciarlo al mondo su un gradino superiore, dobbiamo mostrargli il terreno sul quale cammina, in modo che le piante siano un tutto unico col terreno nel modo più ovvio. Così ora il bambino acquista anche un senso pratico per l’agricoltura, come avevo detto. Saprà che si concima perché occorre avere un terreno vitale per ogni determinato tipo di pianta. Non considererà le singole piante come prese dalla sua collezione, come cose a sé, non considererà ogni singolo animale a sé, ma l’intero regno animale come un uomo gigantesco che si manifesta diffuso su tutta la terra in singoli elementi differenziati negli animali. Conosce allora come l’uomo stia sulla terra e come gli animali siano in relazione con lui.

 

È di enorme importanza risvegliare nel fanciullo fra i 10 e i 12 anni in immagini le relazioni fra pianta e terra, animali e uomo. Così il fanciullo si inserisce in un ben determinato modo nel mondo con tutta la sua vita animica, corporea e spirituale.

 

Poiché suscitiamo nel fanciullo la sensazione dell’appartenenza reciproca fra piante e terreno, e dobbiamo farlo con fine sensibilità artistica, egli diventa intelligente e abile, pensa secondo natura. Poiché cerchiamo di fargli sentire la sua relazione con l’animale (anche se solo nell’insegnamento, la cosa risulta lo stesso), rivive in lui in modo differenziato, individualizzato, la volontà complessiva del mondo animale; tutte le caratteristiche e le forme che si manifestano nell’animale rivivono nel fanciullo. Gli si dà così un impulso alla volontà, ed egli viene immesso nel mondo secondo gli elementi essenziali della propria natura.

 

Perché gli uomini girano per il mondo come fossero sradicati da tutto? A ben vedere, oggi essi girano per il mondo in modo disordinato, senza controllo nei loro movimenti. Qualcosa hanno imparato dallo sport, ma è qualcosa di innaturale. E soprattutto pensano da sfiduciati! Non sanno che cosa fare di giusto nella vita. Sanno fare qualcosa se messi davanti a una macchina da cucire o a un telefono, oppure se devono organizzare un viaggio in treno, o un viaggio intorno al mondo, ma non sanno che cosa fare di se stessi, perché non sono stati immessi nel mondo col giusto metodo d’insegnamento. Cosa che però non si ottiene predicando che bisogna educare bene i giovani, ma soltanto se in concreto, nei casi specifici, si trova qualcosa che dia una base, ad esempio mettendo nella giusta relazione la pianta col terreno, o l’animale con l’uomo. Così essi si sentiranno bene sulla superficie della terra e avranno un giusto rapporto con tutto. È importante, è essenziale che tutto ciò sia raggiunto con l’insegnamento.

Sarà sempre necessario far corrispondere ad ogni età ciò che quell’età stessa richiede seco

ndo lo sviluppo dello scolaro; per questo abbiamo proprio bisogno di osservazioni volte alla vera conoscenza dell’essere umano. Consideriamo le due cose che ho esposto: il bambino sino ai 9 o 10 anni richiede che la sua attenzione venga rivolta a tutta la natura come essere animato, perché non sa ancora distinguere se stesso dalla natura esterna; dovremo quindi raccontare favole, leggende, miti. Dovremo trovare noi stessi quanto occorre per presentare via via al bambino, in forma di racconti, descrizioni e immagini artistiche, ciò che la sua anima trae dalle nascoste profondità nelle quali si immerge quando entra nel mondo. Quando invece si troverà fra i 10 e i 12 anni lo avvicineremo al mondo vegetale e animale, come prima è stato descritto.

 

Bisogna che sia chiaro che nel bambino fino a 10 e 11 anni non esiste ancora il concetto di causalità, né la necessità di comprenderlo. Oggi siamo abituati a vedere ogni fenomeno nella prospettiva di causa ed effetto. Parlare a un bambino fino a 10 o 12 anni di causa ed effetto, come oggi si fa d’abitudine nella vita di tutti i giorni, è come parlare di colori a un daltonico. Non si sfiora neppure l’anima del bambino, quando si parla di causa ed effetto nel modo oggi in uso. Anzitutto il bambino ha bisogno di immagini viventi, per le quali non chiede mai i rapporti di causa ed effetto. Dopo i 10 anni gli vanno presentati solo in immagini.

 

Solo dopo i 12 anni il fanciullo è maturo per sentir parlare di cause ed effetti. Così le materie scolastiche che hanno a che fare con causa ed effetto, come oggi ad esempio soprattutto la fìsica, saranno messe nel piano di studi solo dopo gli 11 e i 12 anni. Prima non si dovrebbe parlare al bambino di minerali, di cose fìsiche e chimiche. Non sono adatte all’età.

 

Se passiamo a considerare la storia, al bambino sin verso i 12 anni bisogna presentare quadri, immagini di singole personalità, di avvenimenti: quadri complessivi e ben dipinti, dove le cose diventano viventi per l’anima; non racconti storici nei quali ciò che segue è sempre la conseguenza di quel che precede e dei quali l’umanità è oggi tanto orgogliosa. Racconti storici del genere, che sempre ricercano le cause e gli effetti nella storia, sono afferrate altrettanto poco dal bambino, quanto i colori dal daltonico. Gli si dà inoltre una falsa immagine della vita, di una vita che scorre ininterrotta, se gli si presenta tutto sempre secondo causa ed effetto. Vorrei chiarire meglio la cosa con un’immagine.

 

Pensiamo una corrente d’acqua sulla quale appaiano delle onde. Non è sempre vero che l’onda c nasca dall’onda b e questa dall’onda a, ovvero che c sia l’effetto di b, e b di a, nel fondo della corrente diverse altre forze producono onde, e lo stesso è nella storia: quel che avviene nel 1910 non è sempre l’effetto che di quel che era avvenuto nel 1909 e così via.

 

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Occorre acquisire molto presto un senso per gli effetti che sorgono dal fondo della corrente dell’evoluzione, formando eventi che affiorano poi alla superficie. Tale comprensione della storia si forma soltanto introducendo i concetti di causa ed effetto nell’insegnamento dopo i 12 anni. Prima vanno presentate solo immagini.

Anche per questo è necessaria la fantasia dell’insegnante, ed egli deve seguirla. Basterà che egli conosca l’essere umano.

 

Come si insegna ed educa secondo la natura umana, così all’insegnamento, come ora l’ho descritto, deve andare parallela l’educazione delle qualità morali. Al riguardo e come conclusione desidero ancora aggiungere dell’altro. Anche qui il punto è leggere nella natura del bambino il modo in cui lo si deve trattare. Insegnando al bambino già a sette anni il concetto di causa ed effetto, si agisce contro lo sviluppo della natura umana. Anche volendo punire il bambino con certe maniere, con certi castighi, si agisce contro lo sviluppo dell’entità umana.

 

Nella Scuola Waldorf abbiamo fatto in proposito belle esperienze. Come si punisce solitamente un bambino nelle scuole normali? Se alcuni scolari non han fatto qualcosa come dovevano, li si fa restare anche dopo l’orario normale, per esempio a fare dei conti. Nella nostra scuola è successo qualcosa di molto speciale con tre o quattro bambini ai quali era stato detto che non erano stati bravi e che quindi sarebbero dovuti restare a fare i conti. Altri bambini allora dissero di voler anch’essi restare a far conti. Sono infatti educati in modo da considerare il fare conti qualcosa di piacevole e non una punizione. Non si deve suscitare nel bambino l’idea che il fare conti dopo la scuola sia una punizione. Per questo tutta la classe voleva restare a fare conti. Non bisogna scegliere cose che per se stesse non sono punizioni, se il bambino deve essere educato in una giusta vita animica.

 

Un altro esempio: il dott. Stein, un insegnante della Scuola Waldorf, ha via via trovato al momento giusto un ottimo modo per risolvere alcuni problemi relativi all’educazione. Aveva osservato una volta che i suoi scolari si indirizzavano a vicenda letterine che poi si passavano sotto il banco. Si scrivevano lettere e non stavano attenti; passavano le lettere sotto il banco del vicino e questi rimandava la risposta. Il dott. Stein non si mise a sgridarli per gli scambi di lettere, non disse loro di doverli punire o altro del genere, ma improvvisamente si mise a tenere una lezione sulla posta. I bambini rimasero colpiti dal fatto che d’un tratto l’insegnante venisse a parlare di posta, ma alla fine capirono il perché. Tale finezza nel trovare una soluzione al caso li fece vergognare e, a seguito dei pensieri suscitati in loro dall’esposizione dell’insegnante, lo scambio di lettere cessò.

 

Per guidare una classe occorre avere il dono dell’inventiva. Non bisogna esporre in modo stereotipato quel che si ha da dire, ma potersi immedesimare in tutto l’essere degli scolari. Occorre sapere che un miglioramento sarà possibile più che con una comune punizione (con la quale in fondo si vuole proprio un miglioramento), suscitando negli allievi uno spontaneo senso di vergogna, senza peraltro indirizzarsi al singolo, e facendolo in modo naturale. Proprio così, stando in classe con un dato spirito, si sistemano le cose che diversamente non raggiungerebbero un equilibrio.

 

L’educazione e l’insegnamento richiedono dall’insegnante soprattutto l’autoconoscenza. Ad esempio, il maestro non deve credere di educare un bambino sgridandolo perché ha fatto una macchia d’inchiostro sul foglio o sul banco, essendosi spazientito o inquietato a causa di un suo compagno; non gli deve dire: “Non arrabbiarti, l’ira non è la qualità di un bravo bambino! Non ci si deve adirare, ma sopportare tutto con calma. Se ti adirerai un’altra volta io, io… ti tiro un calamaio in testa!”

 

Si raggiunge ben poco con un’educazione del genere, che d’altra parte s’incontra molto di frequente. L’insegnante deve essere sempre padrone di sé, e soprattutto non deve fare gli stessi errori che rimprovera ai suoi allievi. Occorre anche sapere come agisce il subconscio dei bambini. L’intelligenza cosciente, l’indole e la volontà del bambino sono solo una parte della sua vita animica; nel suo subconscio domina già il corpo astrale con la sua immensa saggezza, intelligenza e ragionevolezza.

 

Vedo sempre con orrore insegnanti stare in una classe col libro davanti, per insegnare leggendo dal libro, oppure con un quaderno sul quale hanno segnato che cosa intendono chiedere e sul quale devono sempre guardare. Certo i bambini non lo notano subito con la loro coscienza normale, ma sono svegli nel subconscio e si vede, se lo si vuol vedere, che si dicono: l’insegnante non sa quel che io dovrei imparare, dunque perché dovrei imparare quel che lui non sa? Questo è sempre il giudizio subconscio di bambini ai quali il maestro insegni leggendo da un libro o da un quaderno.

 

Nell’insegnamento bisogna badare molto a questi imponderabili, a queste finezze, perché appena il subconscio del bambino, il suo astrale, nota che il maestro stesso non sa qualcosa e deve guardare nel quaderno, non trova più necessario impararlo a sua volta. Il corpo astrale opera in modo più sicuro che non la normale coscienza.

 

Volevo inserire queste osservazioni nella conferenza. Nei prossimi giorni esamineremo singole materie e tappe di insegnamento.