La fraternità come principio regolatore della vita economica

L’uomo, il lavoro e la fraternità


 

La visione antroposofica rivaluta profondamente, nell’ambito della questione sociale,

i tre grandi ideali della rivoluzione francese – Liberté, Fraternità, Égalité –

ma riconosce anche la grandissima difficoltà a realizzarli, a viverli contemporaneamente

in modo che si armonizzino e non producano, come storicamente invece è già avvenuto,

una situazione di caos e di violenza.

La riflessione sul valore cristiano di questi tre ideali, malgrado la loro cattiva applicazione storica,

caratterizza il pensiero sociale di Rudolf Steiner.

 

Oggi siamo in una situazione di grande difficoltà perché da un lato mancano dei modelli a cui rivolgersi per pensare il futuro della vita sociale, e dall’altro la vita economica prosegue in modo inarrestabile investendo tutte le sfere, non solo quelle della vita sociale ma anche gli Stati.

La vita economica si è spinta verso una sorta di globalizzazione delle sue logiche e delle sue azioni; c’è qualcosa che spinge in maniera molto forte senza però essere diretto. Molti economisti hanno la percezione di una mancanza di una guida, di una direzione; mancano mete che abbiano davvero un carattere universale, come invece universale è la diffusione delle azioni economiche. C’è quindi una grande difficoltà data da una intensissima vitalità nella vita sociale e nello stesso tempo da una mancanza di modelli. I vecchi modelli sono caduti e ciò si nota anche nei numerosi scritti che oggi vengono pubblicati da sociologi ed economisti in merito a questi problemi.

Vorrei ricordare alcuni titoli che dicono molto, perché in essi compaiono spesso gli ideali della rivoluzione francese, ma raramente tutti e tre insieme – anche uno dei gruppi della resistenza, attivo alla fine della Seconda guerra mondiale in Italia, portava il nome di «Giustizia e libertà». Un filosofo e sociologo come Norberto Bobbio si riferisce ai valori di giustizia e libertà, ma non insiste sul terzo termine, la fraternità, pensando che la giustizia sia l’ambito del diritto, del riconoscimento dell’uguaglianza di ogni uomo.

 

Per portare un altro esempio, è uscito di recente un piccolo scritto dal titolo Libertà, uguaglianza, efficienza1: anche qui compare una sensibilità verso il problema della libertà, dell’uguaglianza, cioè del diritto e là dove si tocca la vita economica emerge piuttosto il concetto di efficienza.

Ancora, il tedesco Ralf Dahrendorf2, nel suo piccolo scritto Quadrare il cerchio, si pone il problema di come mettere insieme libertà politica, successo nella vita economica e solidarietà sociale. Egli dice che riuscire a contemperare queste tre esigenze è come quadrare il cerchio, un’operazione notoriamente impossibile che ha affascinato per secoli matematici e occultisti, finché non si è giunti all’idea che si possa quadrare il cerchio solo in modo simbolico, facendo intervenire qualcos’altro che non sia la geometria.

Vedete come intorno a questi temi e valori sia diffuso un cercare, un analizzare, ma come sia altrettanto caratteristico il silenzio proprio sul tema della fraternità. Si parla piuttosto di efficienza o di competitività – che è un po’ un analogo – che portano come conseguenza uno scenario sociale di desertificazione, angoscia e dolore, perché generano emarginazione, producono una società di esclusi accanto a una società di pochi appartenenti. Si crea un criterio di esclusione e di appartenenza molto forte che favorisce i modelli in cui la competitività domina in assoluto, favorendo la desertificazione della vita umana e la sua degradazione.

 

Non c’è dubbio che il modello della competitività venga presentato soprattutto in Occidente, negli Stati Uniti, come vincente e d’altra parte proprio lì assistiamo al massimo della ricchezza, dell’efficienza e della potenza tecnologica, ma anche ai minimi terribili della povertà e della degradazione delle condizioni umane. Si direbbe che la vita economica venga concepita secondo dei criteri in cui manca la riflessione sull’ideale che dovrebbe esserne la guida, il regolatore: quello della fraternità. Non se ne parla perché si dice che la fraternità sia un ideale morale, un’aspirazione etica e quindi non possa essere oggetto di una trattazione scientifica. Oggi si vogliono trattare le cose sempre in modo scientifico, e quindi diventa necessario interrogarsi se la fraternità costituisca davvero solamente un ideale morale, di che tipo sia, e se non sia possibile un approccio scientifico a essa. Bisognerebbe chiedersi se essa non sia una forza operante nel processo economico, anche se in modo non palese, perché in realtà nel processo economico vigono delle leggi entro cui la fraternità opera, magari non ancora come meta morale, ma come una sorta di norma del farsi stesso dell’economia.

 

Si potrebbero formulare due ordini di domande,

• il primo: nell’ambito del processo economico si può riconoscere l’operare di un principio oscuro, incosciente, di fraternità, o no? Esistono solamente la competitività, l’efficienza, o esistono altri motori? Il motore è solamente il profitto, il desiderio di guadagno, di denaro e di potenza? Oppure nel processo economico sono presenti altri motori riconoscibili come espressione di una sorta di presupposto, incosciente, latente della fraternità, che invece può essere concepita anche, giustamente, come un cosciente ideale morale?

• Il secondo ordine: l’ideale morale della fratellanza non ha nessuna base scientifica, o può averne una? E di che tipo? Qual è il fondamento del valore della fraternità? Ha senso che l’uomo esamini questo ideale come cosa che lo riguardi e verso la quale può assumere un atteggiamento sicuro? Quello che ci fa tremare, che ci indebolisce nei confronti degli ideali, è il sospetto che essi siano chimere, illusioni o, peggio, proiezioni più raffinate del nostro egoismo, della nostra pretesa di difendere interessi privati.

 

Questi sono i due ordini di domande.

LA FRATERNITÀ è realmente presente nel processo economico o lo è solo in virtù delle buone intenzioni degli individui? Qualora gli individui abbiano queste buone intenzioni possono cercare un fondamento a esse che non abbia carattere di velleità, di moralismo, di ingenuità, ma scientifico, cioè con un fondamento nella realtà? O è solamente una pia aspirazione che, proprio perché così difficile da realizzare, è facile da denigrare e di cui è facile non parlare? Questo accade perché in genere se ne parla in termini di sollecitazione morale. Si è detto all’uomo: «Tu devi essere fraterno, è un tuo dovere, è una legge morale a cui devi obbedirei». Non si è cercato di capire se ci sia una relazione fra l’azione fraterna e la libertà.

Nel campo dell’antroposofia sappiamo che alla domanda su quale sia l’azione degna dell’uomo, la risposta è che l’azione con il massimo valore in senso umano è quella libera. L’azione più alta è l’azione libera che non è definita nel suo contenuto, non è un sacrificio, se proprio ci si volesse confrontare con il sacrificio come contenuto elevato di un’azione umana, ma è il sacrificio liberamente offerto. In Filosofia della libertà3 R. Steiner risponde a questa domanda riconoscendo che la libertà rappresenta ciò che rende degno dell’uomo la sua azione. Perché l’uomo possa essere libero, perché possa sperimentare la libertà, innanzitutto deve riconoscere che questo non gli è dato in totale interezza; l’uomo non è libero in ogni caso, dovunque e comunque, ma spesso la sua libertà è limitata. Per questo l’uomo è un essere in cammino, in divenire, non possiede ancora una libertà totale, ma possiede dei gradi di libertà.

 

È nel campo della vita di pensiero che l’uomo può scoprire se stesso come essere libero, può scoprire la realtà del mondo delle idee, dei pensieri, può scoprire che i pensieri non sono parole, non sono convenzioni arbitrarie per denominare le cose, ma che corrispondono a delle realtà che sono il fondamento del suo stesso essere come persona. È nel campo del pensiero che l’uomo si scopre libero. Per dirlo banalmente, ognuno di noi può pensare tutto quello che vuole intorno alle cose, può muovere i suoi pensieri secondo le proprie capacità in qualunque direzione. La sua vita di pensiero non si muove se non è lui, se non è l’io stesso a muoverla; non c’è ambito in cui l’uomo si sperimenti totalmente libero come in quello della capacità di pensare.

 

Ciò che guida l’azione è l’IDEA e le idee sono delle realtà con cui l’uomo viene a contatto pensando,

cioè compiendo quell’operazione libera che è il pensare.

La CONDIZIONE INIZIALE, se si vuole agire, è che prima si deve conoscere, si deve capire quello che si fa,

quindi se si vuole intervenire nella vita sociale se ne devono conoscere le leggi;

vi è priorità della CONOSCENZA rispetto all’azione.

 

La CONOSCENZA precede l’azione

e l’uomo è libero solo nella misura in cui, agendo, ha potuto prima pensare, scegliere i motivi della propria azione.

La LIBERTÀ nell’esperienza dell’azione è collegata al fatto che prima ci si sia sentiti liberi nel pensiero

e che quindi si sia provato, come motivo della propria azione,

qualche cosa che si è liberamente colto nel mondo delle idee.

 

Questo, che ora vi ho descritto in poche parole, è il contenuto della Filosofia della libertà a cui vi rimando,

perché costituisce il fondamento di tutto il lavoro antroposofico.

 

LA FRATELLANZA COME IDEALE MORALE

è quindi qualcosa che riguarda l’agire umano, la volontà dell’uomo.

 

Essa può costituire un ideale di questo agire solo nella misura in cui l’uomo la concepisce da io libero, intuisce, raccoglie dal mondo delle idee i motivi per la sua azione, i motivi per la fraternità che vuole esplicare nelle proprie azioni. Chiunque voglia essere fraterno verso un’altra persona non può credere che la fraternità si esplichi semplicemente attraverso una corrente di sentimenti; questo non sarebbe ancora sufficientemente chiaro, né sufficientemente libero per colui che ha questo sentimento e per colui che riceve l’azione che da esso scaturisce. Con ciò non voglio diminuire il valore di azioni fraterne che scaturiscono da sentimenti benevoli, ma voglio dire che questa azione non è ancora totalmente libera come lo è quella che si voglia fraterna proprio in virtù di una libera adesione a questo valore e in virtù di una capacità – sentendo e riconoscendo questo valore – di portarlo nella vita reale, nella vita concreta.

• Si dice che l’azione dell’uomo è libera, quando egli riesce ad avere, come motivo di essa, un’idea formulata in libertà, quando egli agisce in virtù di un’intuizione e di una fantasia morale. R. Steiner chiama fantasia morale l’equivalente, se volete, della fantasia dell’artista; l’artista ha un’intuizione e l’abilità tecnica di tradurla in colori e forme, o parole e rappresentazioni.

Questa abilità, coltivata, fa sì che la sua intuizione di qualcosa che nel mondo fisico non c’è, possa realizzarsi proprio in virtù di questa tecnica, che è la fantasia artistica.

 

Ogni uomo è artista nei confronti della realtà, in quanto può trovare ed educare dentro di sé

la capacità di tradurre un’intuizione ideale, un’idea, un valore,

in una realizzazione pratica nel contesto concreto in cui si trova.

L’intuizione dell’idea e la fantasia morale combinate producono l’azione libera.

 

L’AZIONE LIBERA scaturisce quindi da questi elementi:

• un io che si sia riconosciuto come libero nella vita di pensiero,

• un io che sia in grado di intuire, di cogliere idee nel mondo delle idee,

che è un mondo comune a tutti gli uomini.

 

IL MONDO DELLE IDEE non è nella testa di ciascuno di noi

– da questo punto di vista saremmo come una sorta di bottiglia che si riempie –

ma è un mondo di realtà universali.

 

Un cane è un cane, una pianta è una pianta per tutti gli uomini che li conoscano e un triangolo è tale per tutti gli uomini che lo pensino. Noi disponiamo di una serie di concetti e di idee che hanno valore universale, legati tra loro in modo organico, non sono vicini l’uno all’altro alla rinfusa, ma sono un mondo che costituisce un’unità: il mondo delle idee.

 

L’ESERCIZIO DELLA LIBERTÀ quindi non è un atto che scaturisce spontaneamente dal corpo umano,

come possono essere il movimento o il parlare da una certa età in poi

ma, come l’apprendimento della parola nel bambino,

RICHIEDE UN’INTENSA ATTIVITÀ INTERIORE.

 

Non si è liberi semplicemente perché si fa quello che si vuole;

si è liberi perché si è trovato un rapporto con il mondo delle idee,

ci si è riconosciuti come esseri spirituali e si è in grado di intuire, di volta in volta,

l’idea nei confronti della quale si acquisisce un motivo di agire.

• Non si agisce quindi perché si ha voglia di fare una cosa o un’altra, questa non è libertà,

ma perché si è intuita una giusta idea, ci si è fatta una rappresentazione di essa

e in virtù di un elemento di fantasia creatrice di tipo morale

la si porta nella pratica, nella concretezza, agendo nella vita di tutti i giorni.

 

Questo significa che LA FRATERNITÀ COME IDEALE, come idea guida dell’uomo

è qualche cosa che può essere portata nel mondo da un io che si riconosca come tale, che si riconosca come libero

e che in modo del tutto individuale promuova a motivo della propria azione, dell’agire, proprio questa idea.

 

LA FRATERNITÀ non è qualcosa che sia dato come obbligo astratto,

non è una regola – in questa situazione si fa così… –

ma ogni uomo è chiamato, di volta in volta, di momento in momento, rispetto a qualunque problema della vita,

a chiedersi, a intuire, per attività interiore, in che modo gli sia possibile incarnare nella sua azione questo ideale.

 

L’IDEALE è incarnato in alcuni momenti dell’esistenza e non in altri;

alla libertà di ogni uomo, di ogni io, è lasciato di riconoscere in che modo,

nel contesto pratico e concreto della vita,

si possa con la propria fantasia dare corpo al valore della fraternità,

posto che liberamente lo si giudichi tale. Questo è un lato del problema.

 

È possibile un’azione fraterna motivata se abbiamo un io libero,

un io che si riconosca come spirito e che riconosca che il mondo delle idee

da cui trae, di volta in volta, i motivi per la sua azione,

è un mondo comune a tutti gli uomini, non un mondo relegato alla sua testa;

non si tratta, lo ripeto, delle proprie idee, si tratta di un rapporto con il mondo oggettivo delle idee.

 

Questo è estremamente importante perché costituisce, da un certo punto di vista,

un elemento che unifica le azioni umane.

Oggi ciò che unifica le azioni umane non è l’appartenenza a una confessione religiosa;

si può appartenere a una religione o avere una disposizione atea o irreligiosa della vita

e tuttavia, in alcune situazioni, avere l’intuizione morale della fraternità

e la capacità creativa di riconoscere in che modo la si possa realizzare nel contesto concreto in cui si opera.

Le condizioni dell’agire fraterno sono le stesse dell’azione libera dell’uomo,

quando l’ideale della fraternità motiva le sue azioni.

 

L’uomo che voglia essere fraterno deve sceglierlo, volerlo e pensarlo, deve avere la capacità di interrogarsi e di osservare quante volte, nell’impostare le sue scelte, le sue azioni, i suoi programmi, quest’idea compaia in essi, quante volte l’io libero ponga davvero quest’idea a motivo del proprio agire, nell’infinità delle azioni che lo riguardano. Solo se mette se stesso liberamente in rapporto con questa idea, se ne riconosce il fondamento nel mondo spirituale e non in se stesso, allora è possibile che nasca un’azione fraterna.

Ciò è qualche cosa che ha a che fare con il fondamento oggettivo della fraternità come ideale. Il suo fondamento non riguarda una religione o un’altra, ma la condizione stessa dell’uomo che, scopertosi libero, si voglia libero anche nell’agire, voglia cioè impostare il proprio modo di agire secondo un criterio di libertà, così che i valori morali non suonino come leggi a cui sottomettersi, ma come un richiamo di forze creatrici verso le quali dirigere il proprio destino.

Questo risponde alla seconda delle due domande che ho posto, se sia possibile pensare di riconoscere l’ideale morale della fraternità come scientificamente fondato.

 

La risposta si può trovare nel percorso della Filosofia della libertà.

L’ideale stesso raggiunge il suo culmine quando ispira l’azione libera, individuale dell’uomo.

 

Spesso gli uomini si sono associati in nome di grandi ideali per poi fare delle cose terribili, spesso gli ideali diventano un motivo per opprimere il prossimo che non li condivida o abbia diversi modi di immaginarne la realizzazione.

Il fondamento della fratellanza, della fraternità, sta in due capisaldi:

io libero • e mondo delle idee unico per tutti gli esseri umani.

 

Se abbiamo chiaro ciò, allora la fratellanza che, come dice la parola stessa, è un legame di sangue tra discendenti dallo stesso partner, scopre di poter essere vissuta in un contesto che si è come traslato.

Possiamo essere fratelli nella misura in cui apparteniamo ad un elemento comune, abbiamo un sangue comune, ma il sangue comune verso cui l’umanità si muove non è più semplicemente il sangue di una razza o di un popolo, è quello dell’umanità intera che non è più immaginabile come una mescolanza di succhi, anche se inevitabilmente diventerà così con il passare dei secoli.

 

L’elemento comune, che rende fratelli e fraterni,

è l’essere il mondo delle idee unico per tutti gli uomini.

 

Questo è l’elemento accomunante, esattamente come è stato accomunante per l’umanità antica la discendenza da uno stesso sangue. Siamo quindi vicini a un concetto di sangue che fonda una fraternità che non è più quella biologica, ma è basata su un sangue di tipo spirituale, non più fisico, che appartiene ad una realtà soprasensibile.

Abbiamo detto che la vita economica si dirige verso un elemento di globalizzazione, di universalità, in essa si compiono sempre più delle operazione che riguardano tutta l’umanità, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dalle nazioni o dagli stati; ovvero, dal mondo dell’economia ci viene spinto innanzi, con forza, il fatto che le parentele di sangue, in senso biologico, non hanno più rilevanza o ne avranno sempre meno.

 

Le operazioni economiche cosa muovono?

Il mondo dell’economia è il mondo delle merci, del denaro, della circolazione dei beni.

 

• Il DENARO, in un certo senso, è il campione, l’espressione più tipica del mondo economico e nella sua tipicità rappresenta una realtà composita che nella sua complessità presenta aspetti diversi: ha il carattere di un essere in divenire, di un essere in continua trasformazione, la cui identità non è totalmente definita.

Il denaro si muove come una forza elementare, difficile da domare, è spesso più potente di chi crede di possederlo e di governarlo. È qualcosa la cui diffusione, la cui capacità di agire nel mondo è estrema, energica, sfuggente, difficilissima da controllare.

Il denaro si presenta oggi con dei caratteri che qualche studioso di economia ha definito come divini, perché è immateriale, smaterializzato; non c’è più l’oro, non c’è più l’argento; da un altro punto di vista è immanente, è ubiquitario, pervade l’intero pianeta e in un certo modo la sua attività è irrefrenabile, nel tempo le sue operazioni sono diventate incessanti.

 

In virtù dei mezzi di comunicazione – che sono un’altra forma di denaro, un parente stretto, espressione di come il denaro stesso sia solo segno – le operazioni economiche possono non conoscere più tregua. Si potrebbe seguire il movimento del denaro indipendentemente dal ritmo del sonno e della veglia. Il denaro segue dei canali, delle vie in cui i ritmi del sonno e della veglia possono essere totalmente annullati.

L’economista che descrive questi caratteri del denaro è un uomo di visione materialistica del mondo, ma ritiene che se potessimo ancora credere alle divinità potremmo dire che il denaro si presenta come una di esse: è operante ovunque sul pianeta, in un modo che non ammette riposo o tregua, giorno e notte continuano le trattazioni, i movimenti e la sua circolazione; è immateriale, si è quasi del tutto smaterializzato, è un segno di operazione, è una firma, è un numero, non ha più bisogno di essere rappresentato in moneta, in pietre preziose, in metalli.

Questo carattere del denaro ne fa una presenza che oggi si muove con la potenza di un serpente che circola per tutto il pianeta, difficilmente guidato, difficilmente dominato.

 

Un’ulteriore caratteristica del denaro è una certa segretezza – altro aspetto della sua invisibilità – dei suoi movimenti repentini. Inoltre non ci si può trovare in tasca una grande cifra senza avere immediatamente un problema: si può sprecare o usare bene. Nel momento in cui avete, per ragioni di eredità o di commercio, del denaro in quantità rilevante, quello che ne farete decide ciò che questo denaro diventerà nel giro di breve tempo. Il denaro non ammette di essere fermato, ciò accade solo se lo si investe in proprietà, in possedimenti terrieri che in qualche modo arrestano la sua irrequietezza, la sua vitalità. Davanti a tutto questo sorge la questione di che cosa l’uomo possa fare e che cosa significhi per lui la realtà del denaro.

Da dove viene l’estrema vitalità del denaro?

Le risposte possono essere in parte di tipo moralistico, non del tutto sbagliate. Il denaro, per esempio, è mosso dall’interesse, dal profitto, dalla brama, dal desiderio di accumulo. È come se ci fosse una cascata di denaro che spinga a produrne, a generarne altro, è una forza che si muove un po’ al di sopra della volontà, e che possiamo definire di tipo egoistico; ma è relativamente facile dire che il denaro è mosso dalla brama, dal profitto, dal desiderio di ricchezza. Sono solo questi i suoi motori?

 

Se si guarda con attenzione, si può ammettere che la circolazione del denaro nel mondo ha come forza motrice, come spinta, il profitto. Non vi è dubbio che il profitto sia una sua forza sua motrice, toglierlo totalmente, come è capitato in certi esperimenti di alcuni Stati, rende l’economia stagnante: si perde quasi la capacità di produrre, l’unico stimolo diventa il creare un grande potere militare e politico. Non si può semplicemente eliminare il profitto credendo così di moralizzare l’uso del denaro. Bisogna invece ammettere che il profitto non è la sola forza motrice del denaro.

R. Steiner, nel suo corso sull’economia, ci indica che nei movimenti che fanno circolare il denaro nel mondo opera non solo la forza propulsiva del profitto, ma anche un’altra forza, che egli chiama aspirante. Indica nel capitale di prestito la forza di aspirazione – parliamo di grandi prestiti di tipo bancario in cui si dà ad una persona un capitale perché possa mettere in moto delle iniziative, delle imprese. Nel CAPITALE DI PRESTITO vediamo comparire la potenza del denaro mossa non solo da un elemento che cerca profitto, ma anche dal rapporto tra uomini; nel prestito deve intervenire per forza un elemento di FIDUCIA QUALE IL CREDITO. Chiedendo denaro a una banca si chiede di avere fiducia nelle proprie iniziative, nella propria capacità di intraprendere una qualunque operazione economica.

 

Nel movimento del denaro, nel prestare e nel ricevere, opera l’elemento del credito, della fiducia che a sua volta ha a che fare con l’accumulo di denaro; la formazione di capitale ha introdotto il concetto d’interesse. R. Steiner dice che l’interesse è come una rinuncia a una sorta di diritto, il diritto del prestatore a vedersi non solo restituita la somma, ma anche la fiducia, l’atto di generosità.

Chi presta denaro compie un’azione di fiducia e quindi si aspetta che colui che riceve un prestito sia pronto a ricambiare questa fiducia qualora si trovasse lui nella necessità e nel bisogno.

La rinuncia a questo diritto di reciprocità si è espressa nell’idea dell’interesse: io non avanzo più delle pretese su di te a cui ho prestato denaro, ma tu, nel momento in cui me lo restituisci, pagherai un certo interesse sul denaro che ti ho prestato, e questo ci svincola da un obbligo morale reciproco.

 

L’INTERESSE, che è una delle matrici della formazione di capitale, nasce da questo principio di reciprocità. Questo principio di reciprocità opera nella vita economica, opera, per esempio, anche nello scambio, nell’acquisto di una merce per denaro. Nel caso del prestito operava come principio di debito morale reciproco, ma la reciprocità nella vita economica compare già in un punto che addirittura precede queste operazioni, nella divisione del lavoro.

Un tempo l’interesse era condannato dalla Chiesa e dal senso morale.

Abbiamo potuto fare questo percorso: il denaro di prestito, l’interesse relativo a esso, la reciprocità come fondamento, come elemento intrinseco alla divisione del lavoro, che è uno dei motori della vita economica.

Il motore della vita economica non è allora solo il profitto, ma anche il lavoro e nel lavoro la reciprocità, che viene chiamata divisione del lavoro.

 

LA DIVISIONE DEL LAVORO presuppone, da un certo punto di vista, un elemento di solidarietà, potremmo chiamarlo così, che fa sì che l’individuo possa cooperare con altri. Il dividersi i compiti, sostituibili o non sostituibili che siano, consente e ha consentito il grande sviluppo della vita economica.

L’elemento aspirante della circolazione del denaro abbiamo visto essere il principio di reciprocità, il principio di credito e della fiducia, il principio di scambiabilità fra uomini che ha il suo punto di partenza nella divisione del lavoro.

La divisione del lavoro presuppone una forma di percezione dell’altro, di reciprocità, e la capacità di sostituirsi all’altro, di cogliere la visione d’insieme riconoscendo che l’operazione che io faccio deve inserirsi, armonizzarsi con l’operazione che fa l’altro, e l’operazione dell’altro deve inserirsi e armonizzarsi con la mia. Questo, che sembra una banalità, una cosa ovvia, è invece ciò che abbiamo chiamato l’elemento latente, dormiente, nel processo economico: la fraternità. Si riconosce che nella vita economica non si procede se ognuno vuol fare tutto, ma se si accetta di fare insieme agli altri e di dividere con essi il lavoro.

 

LA DIVISIONE DEL LAVORO

è quindi una latente espressione del principio di fraternità, cioè di reciprocità nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, e una delle forze motrici della circolazione del denaro.

Non è forza motrice solo perché crea lavoro, che a sua volta crea merce, ma perché crea la formazione del capitale e l’interesse, elemento che affiora nella circolazione del denaro là dove esso venga prestato. Non voglio ora esaminare il criterio con cui una banca valuti l’affidabilità dei suoi clienti, ma ciò che importa è cogliere questo elemento di fiducia che deve operare nelle transazioni economiche: senza fiducia le transazioni stesse e la circolazione del denaro si corromperebbero.

 

Ci sono quindi due aspetti nella vita economica, uno che spinge, il profitto con il suo aspetto egoistico, e uno che tira, aspira, il principio di reciprocità, di solidarietà o fraternità. Nei processi economici è presente una fraternità dormiente. È una fraternità di cui si è anche fatta esperienza; circa un secolo fa, nel 1848, Karl Marx nel Manifesto del Partito Comunista4 fece un singolare appello alla fraternità, che suona pieno di contraddizioni perché rivolto all’interno di una classe sociale e per di più in nome dell’odio, mettendo in moto un processo i cui esiti sociali si misurano solo a cento anni di distanza. Questo è estremamente importante: ciò che l’uomo fa nella vita sociale non si può vedere immediatamente nei suoi effetti, non se ne possono misurare le conseguenze immediate come quando un ingegnere, che non conosca le leggi della statica – l’esempio è di R. Steiner – costruisca un ponte che crolla al passaggio di un carro o di una macchina. Esistono delle leggi sociali precise che è necessario conoscere, il rispetto o il mancato rispetto delle quali ha degli effetti, ma non così immediati come nel caso del ponte. Tuttavia queste leggi esistono, non si può credere che la vita sociale sia una specie di caos che germina, in cui non si sa cosa stia succedendo. La vita sociale è guidata anch’essa dal mondo delle idee che ha guidato l’intera evoluzione del cosmo e dell’umanità.

 

Perché oggi tutto appare così difficile? Perché questa saggezza che ha guidato l’umanità oggi subisce il passaggio più delicato che si potesse concepire, attende di essere riconosciuta da ciascun uomo, in libertà.

Nella misura in cui gli uomini invece ritengono e riterranno che non esistano leggi sociali, che ognuno possa fare quello che vuole del tutto arbitrariamente e che l’unica cosa che conti sia il servire il proprio profitto, inevitabilmente si produrrà e si produce caos nella vita sociale. Ma non perché il mondo delle idee non esista o manchi la sua unità, ma perché, come ha detto con parole diverse R. Steiner, l’intelligenza celeste è stata ceduta agli uomini, sono gli uomini, ciascuno con la propria intelligenza, che oggi devono riportare al cielo i frutti del proprio lavoro.

Non ci si può più aspettare una regolazione che venga da fuori; detto con le parole immaginifiche di R. Steiner, il reggente spirituale dell’intelligenza, Michele, ha assistito al fatto che la sua proprietà celeste ha abbandonato le sue mani ed è scivolata verso la Terra. Egli vive sul Sole, dal Sole l’intelligenza è scesa sulla Terra e ormai diventa sempre più proprietà degli uomini. Agli uomini oggi il compito, con la loro capacità di conoscere le leggi del mondo, di riportare a Michele, al Sole se volete, la saggezza che con la loro stessa intelligenza possono conoscere.

 

La vita economica si struttura con tutta la sua potenza non solo in nome del profitto,

ma anche in nome di un principio di solidarietà, la divisione del lavoro,

che non è solo un principio di efficienza meccanica, ma anche un principio di reciprocità morale;

abbiamo quindi due forze della circolazione del denaro.

A questo punto non sarà così difficile concepire il denaro come una specie di sangue dell’umanità.

Il denaro non è solo un serpente che si muove selvaticamente nel mondo,

dotato di una vitalità incredibile, difficile da guidare, domare e incantare.

 

Il denaro non è solo la contabilità delle ricchezze che l’umanità crea e di cui dispone, del rapporto che esiste

tra la natura, la sua capacità di produrre, e il lavoro umano che trasforma la natura in ricchezza.

Il denaro è, come abbiamo detto poco fa, paragonabile a una specie di sangue dell’umanità.

 

La circolazione del denaro, che paragoniamo quindi alla circolazione del sangue, come si presenta oggi? Caotica, dominata da un principio di disordine. Se dall’alto del Sole si guardasse verso la Terra si dovrebbe dire che l’umanità non sta costruendo un grande, stupendo organismo, ma sta combinando delle cose pazzesche… Il sangue, nella sua unità – perché di unità pur si tratta, siamo tutti esseri umani – viene versato nei modi più violenti, copiosi e tragici, dovunque ci siano delle linee di confine tra una cultura e un’altra, tra una religione e un’altra.

Il principio della tolleranza si sviluppò in Europa nel XVII secolo, quando la Guerra dei Trent’anni, una guerra di religione, aveva prodotto tra i cristiani – protestanti e cattolici – tanti morti come allora non s’immaginava. Su queste stragi durate trent’anni ci si sollevò dicendo «Tolleriamoci, perché non viene altro che sangue», una specie di tolleranza ben educata… Oggi viene sangue da terre che una volta sembravano dei paradisi, pensate allo Sri Lanka dove i bambini di dieci, undici anni sono mandati, con bombe in tasca, a morire pur di colpire l’altro gruppo etnico-religioso, i buddhisti. Questo avviene oggi sulla faccia della Terra!

 

Pensate a quello che succede sulle linee di confine tra IsIam e mondo cristiano nella ex Jugoslavia o a quello che succede tra il mondo arabo e quello ebraico. Dovunque ci siano linee di confine tra culture e popoli, viene versato sangue proprio perché non ha più senso cercare un primato della propria origine e fondare su questo una nuova cultura.

Il sangue – potremmo dire il denaro – circola nell’umanità muovendosi caoticamente e quindi distruttivamente. Oggi nel mondo non c’è la minima armonia nel movimento del denaro, c’è caos e in questo caos c’è lo scandalo incredibile di queste morti, di queste guerre, in cui il denaro entra a sua volta, che lo sappiamo o no, magari anche il nostro – infatti non è escluso che una parte del nostro denaro si muova là dove noi non vorremmo mai.

 

Abbiamo detto che due forze lo muovono: la forza propulsiva del PROFITTO e la forza aspirante del PRESTITO, della FIDUCIA, della DIVISIONE DEL LAVORO, ma oggi lo scenario mondiale del movimento del denaro è uno scenario allarmante, caotico, per nulla risuonante con le armonie cosmiche della natura, con la saggezza solare.

Si ha letteralmente l’impressione di un sangue che si muova con il massimo della violenza e del disordine per espellere parti dell’organismo di cui è formato, una sorta di follia di questa parte dell’organismo dell’umanità.

Anche la distribuzione delle ricchezze corrisponde a una disequità, a una disparità; il paesaggio che una volta si vedeva nell’ambito di una società, nella divisione tra le classi superiori e inferiori, oggi lo si vede tra i popoli nord-occidentali e il cosiddetto Terzo mondo. È evidente che questi sono i poveri dell’umanità. Ciò significa che non abbiamo ancora trovato forze capaci di guidare la circolazione di questo sangue, il denaro, di imprimergli movimenti giusti, armonici, non abbiamo trovato la capacità di indirizzarlo in modo che esso entri nell’umanità portando altri caratteri e altre forze, generando un organismo.

 

Dove c’è sangue si genera un organismo, nel feto il sangue è guidato da una saggezza straordinaria e alla fine si ha la nascita di un bambino roseo, sorridente, meraviglioso. Se questa saggezza viene disturbata, nasce una figura repellente, che non sopportiamo.

Quello che l’umanità fa del proprio denaro è qualcosa che va nella direzione di un profondo caos, ma se il denaro è il sangue dell’umanità, non abbiamo noi una responsabilità verso di esso? Non possiamo concepire che la soluzione del problema sia semplicemente quella di non guadagnare, non risparmiare e non acquistare più ma, pur continuando a fare queste operazioni in qualche modo ineluttabili, bisognerebbe assumere verso il denaro una nuova responsabilità pari a quella che si assume, per esempio, nei confronti delle persone che ci sono legate per via di sangue, sentendo che nel denaro ci parla il sangue dell’umanità.

 

Non ci parla il nostro guadagno, quello che abbiamo acquistato, meritato o che ci spetta, ma ci parla il lavoro degli uomini che lo hanno generato e quindi, nel momento in cui abbiamo del denaro in tasca, abbiamo una responsabilità verso di esso, esattamente come abbiamo una responsabilità verso l’essere umano che abbia il nostro stesso sangue.

Il denaro è l’espressione della fatica di uomini che magari neppure conosciamo, e non è necessario conoscerli per riuscire a indirizzarlo secondo l’intuizione morale della fraternità. Non occorre usare il denaro in senso anti-economico, ma vedere se sia possibile immettere nella vita economica dei moti, delle spinte al movimento che nascano dall’intuizione della fraternità. O è impossibile che tali moti nascano dal sentimento di responsabilità verso il denaro come manifestazione del sangue spirituale dell’umanità? Questa è la domanda.

 

Se avete ancora la pazienza e l’energia di seguirmi, perché vedo un discreto numero di persone stanche,

me compreso, vorrei proporvi un piccolo intermezzo di tipo storico che lasci un po’ riposare i pensieri…

Siamo arrivati a due gruppi di pensieri. La prima domanda che ci eravamo posti era:

• la fratellanza opera nell’organismo sociale in modo latente, incosciente?

Sì, opera come una delle forze che muovono il denaro, la forza della aspirazione, della divisione del lavoro,

della reciprocità, del prestito.

 

L’altra domanda era se si possa arrivare alla fratellanza sulla base non solo di una confessione religiosa, di una generosità d’animo, di un sentimento di bontà, ma anche sulla base di una fondata antropologia, di un fondato senso scientifico dell’uomo.

Sì, perché l’uomo libero è in grado di vivere questo ideale

e la libertà è ciò che rende l’agire umano caratteristico e degno dell’uomo stesso.

L’intermezzo storico è ricordarvi il tempo beato in cui la circolazione del denaro, preso come emblema della ricchezza generata dall’uomo, era regolata da principi di tipo celeste, principi cosmici. Un tempo c’era la divisione in caste, che rispettava un principio cosmologico, non era una divisione nata per sfruttare le persone. Il popolo ebraico, che con il denaro ha un rapporto piuttosto significativo, anche nel presente, aveva come sua tradizione spirituale il fatto che ogni quarantanove anni cadeva un anno di giubileo.

 

Posso spiegarvelo così: il computo del tempo nel mondo ebraico era basato sulla Luna – Jahvè è un Dio lunare, notturno – l’anno veniva calcolato in trecentocinquanta giorni circa ed era sempre un po’ più corto dell’anno solare. Il computo dell’anno ebraico comportava quindi ogni anno, un piccolo resto per cui, dopo quarantanove anni, il cinquantesimo, chiamato giubileo, annullava la differenza tra anno lunare e anno solare.

Nel GIUBILEO i conti tra anno lunare e solare venivano armonizzati, in esso, potremmo dire, i diritti della solarità si facevano sentire; ogni quarantanove anni se ne inseriva uno «rispettoso» della solarità, poi si tornava agli anni lunari.

 

I giubilei erano due in un secolo e in un secolo ci sono tre generazioni, quindi ogni tre generazioni c’erano due giubilei. Un uomo sapeva che nella sua vita ci sarebbe stato almeno un giubileo, se uno lo aveva visto da bambino, l’altro lo avrebbe visto da vecchio. Ciò che è interessante non è accorgersi che la vita sociale del popolo ebraico, ancora in epoca storica, era regolata secondo le stelle, la Luna e il Sole, ma cogliere quali conseguenze venissero desunte da questo processo di regolazione. La Bibbia dice: «Il Signore disse ancora a Mosè sul monte Sinai: “Parla agli Israeliti e riferisci loro: quando entrerete nel paese che io vi do, la terra dovrà avere il suo sabato consacrato al Signore. Per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma al settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore; non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna5».

 

Il riposo della terra, voi lo sapete, ha molta importanza dal punto di vista agricolo; poi dice: «Conterai anche sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni6».

Compare sempre il tema lunare, come c’è il sabato ci sarà, dopo quarantanove anni, un anno un po’ speciale, del Signore. «Al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba dell’acclamazione; nel giorno dell’espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare i prodotti che daranno i campi. In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo7».

 

Il «suo» era ciò che era stato diviso tra le dodici tribù quando fu conquistato il territorio di Israele.

«Quando vendete qualche cosa al vostro prossimo o quando acquistate qualche cosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di rendita. Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo; perché egli ti vende la somma dei raccolti8. […] Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini. Perciò, in tutto il paese che avete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo. Se tuo fratello, divenuto povero vende una parte della sua proprietà, colui che ha il diritto di riscatto, cioè il suo parente più stretto, verrà e riscatterà ciò che il fratello ha venduto9».

 

Quindi, se un uomo in quei quarantanove anni ha dovuto vendere la sua terra per vivere, in quel momento ha diritto a riscattare la sua proprietà e a essere aiutato in questo, se non ne ha i mezzi, dai parenti più prossimi.

«Se uno non ha chi possa fare il riscatto, […] conterà le annate passate dopo la vendita, restituirà al compratore il valore degli anni che ancora rimangono e rientrerà così in possesso del suo patrimonio. Ma se non trova da sé la somma sufficiente a rimborsarlo, ciò che ha venduto rimarrà in mano al compratore fino all’anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio10».

 

È chiaro che cosa significhi sul piano sociale? Ogni cinquantanni, durante l’anno «solare» dell’espiazione, tutte le operazioni economiche precedenti – operazioni lunari – potevano essere ricomposte in modo che si ricreasse quel rapporto tra la terra e l’uomo, la comunità, che Iddio aveva voluto al momento dell’assegnazione della terra a quel gruppo. Mi sembra particolarmente significativo che ci fosse una norma celeste che interveniva nella vita economica e regolava, due volte in un secolo, tutte le transazioni economiche, ricreando una specie di sabato in cui si celebrava qualche cosa dove non valevano le leggi del profitto, ma quelle più ampie della comunità.

Oggi la comunità non è più quella del Dio di Israele, ma l’umanità intera. Nella tradizione ebraica si faceva un conto del tempo per cui, passato un certo numero di giubilei, era prevista l’incarnazione del Messia, mi sembra di ricordare nel quattromilacento e qualcosa dopo l’inizio della creazione del mondo. Nelle tradizioni esoteriche ebraiche l’anno di attesa del Messia era contato sui giubilei. L’anno di incarnazione del Cristo corrisponderebbe, se volete dirlo così, a un giubileo dei giubilei, così come i giubilei sono un sabato dei sabati, ovvero la venuta del Cristo era attesa per un tempo in cui si esprime, come vi avevo detto prima, la solarità. Il Messia doveva essere colui che porta nella comunità il principio solare, che ridistribuisce le ricchezze e le proprietà tra gli uomini in base a un criterio che non è quello inventato dagli uomini nelle loro operazioni economiche di mercato, nei quarantanove anni di vita lunare, ma obbedisce a un criterio più alto, spirituale.

 

Osservate, cosa non trascurabile, che il sangue di Cristo venne venduto, il Cristo venne venduto da Giuda ai sacerdoti, per trenta denari d’argento. Trenta è anch’esso un numero lunare, trenta sono i giorni del mese sinodico. In modo quasi simbolico, al comparire dell’incarnazione di Cristo, il mondo lunare – mondo dell’uso del denaro in virtù di principi non ancora totalmente «solarizzati» – si esprime ancora una volta comprando e vendendo, in un’operazione di mercato tra Giuda che tradisce e i sacerdoti che pagano con una moneta, potremmo dire così, calcolata sulla Luna, sul periodo lunare.

Possiamo osservare, nei termini della tradizione ebraica, il modo con cui l’elemento solare entra nella vita dell’umanità celebrando una sorta di giubileo dei giubilei, di compimento dei tempi. Il compimento dei tempi si realizza perché le forze solari del Cristo si sono unite al sangue terreno di Gesù e che questo sangue è stato versato. Che questo sangue sia stato versato è, in un certo modo, la garanzia o la forza che ci consente di concepire che il denaro, come sangue dell’umanità, attende la sua regolazione.

 

Da dove traiamo noi le forze per guidare, per imprimere armonia, ordine, sensatezza, ai movimenti di circolazione del denaro? L’ispirazione per concepirlo come armonicamente circolante nell’umanità ci viene dall’immettere nell’uso del denaro che ci riguarda l’ideale della fraternità che è in qualche modo garantito dal rapporto con questo Essere.

Il sangue versato sulla Terra oggi circola tra tutti gli uomini proprio perché è entrato nella Terra, perché il popolo d’Israele lo ha espulso da sé e lo ha riversato nel mondo. Il riversarlo nel mondo ha consentito la straordinaria trasformazione della realtà terrena per cui oggi ci è possibile parlare di fraternità al di fuori di ogni confessione religiosa, semplicemente come di una necessità dell’umanità. Ci è consentito di sperimentare il principio della fraternità, della divisione del lavoro, come dono della presenza del Cristo.

 

Si può quasi osare affermare che la divisione del lavoro non compare prima della venuta del Cristo. Il cosiddetto lavoro manuale veniva svolto dagli schiavi; la concezione che si aveva a quel tempo degli schiavi era duplice. Erano concepiti, in anticipo sui tempi, come mezzi di produzione, come macchine. Aristotele nel 300 a.C. condanna questo uso della schiavitù dicendo che attraverso di esso l’uomo degrada l’altro uomo e se stesso; gli schiavi vanno considerati come membri della famiglia, sono degli esseri che appartengono al corpo della famiglia, sono le sue membra, le mani. Aristotele non nega la necessità degli schiavi, ma ne ha una concezione profondamente diversa da quella che li vede come mezzi di produzione. Nel mondo antico non esiste ancora una vera vita economica organizzata secondo la divisione del lavoro, quale poi sarà dato di veder comparire, soprattutto in Europa, in virtù del superamento del principio delle caste; non avendo più le proprie membra negli schiavi, si deve riconoscere di averle entro di sé e quindi si devono usare, e utilizzandole si scopre la reciprocità. Questo è il presupposto perché la circolazione del denaro sia portata, da una situazione caotica e disordinata, a una dimensione sempre più organica, armonica e cosmica. Gli uomini dovranno inventarsi un altro giubileo, non costringendo tutti a fare delle cose particolari ogni cinquantanni, ma un giubileo che nasca da una coscienza libera, perché solo da un io libero può scaturire il risveglio della fraternità.

 

La fraternità ha un ruolo nella vita economica in entrambi gli aspetti considerati, in uno dormiente e nell’altro è invece l’ideale che ogni essere umano può concepire, per il quale può spendere la propria vita e nel quale può attivare la propria fantasia morale. Questi due aspetti attendono semplicemente di incontrarsi, esattamente come qualcosa d’inconscio attende di venir risvegliato da qualcosa di conscio; come il Cristo, presente nel corpo di ogni uomo, attende di venir riconosciuto dalla libera coscienza di ognuno.

Non si diventa cristiani perché si viene battezzati – quindi per un intervento comunque umano ed esteriore – perché questo tipo di assunzione del cristianesimo viene da noi totalmente dimenticata e giace in ognuno di noi come un elemento dormiente. La Chiesa cattolica dice che se un uomo non è battezzato gli spetta l’inferno e, se per caso è stato un uomo particolarmente buono, tutt’al più gli verrà donato il limbo, non c’è salvezza. È la dottrina: per chi non ha ricevuto il battesimo non c’è altro che l’inferno. Traducetelo in termini numerici: la massima parte dell’umanità, soprattutto se non si considera che ci si reincarni, vive all’inferno. Questa è la conseguenza letterale della visione terribile dell’elemento cristiano in cui si confonde la presenza del cristianesimo nel mondo con la propria capacità di testimoniarlo, peraltro altissima, nobilissima, ma una cosa è che io possa testimoniare il Cristo, un’altra è che il Cristo ci sia e faccia Lui quello che è nelle sue forze di fare. Egli si è unito alla Terra in modo che qualcosa del suo sangue, «omeopatizzato», se vi piace dire così, sia presente nel corpo di ogni essere umano.

 

Il problema è proprio IL RISVEGLIO DELLA COSCIENZA. Il battesimo, in un certo senso, aiuta l’uomo a scoprire quanto di cristiano è latente dentro di lui, ma questa scoperta non è affidata ad altri che alla sua libertà, non può essere imposta né dalla paura, né dall’autorità. Questo processo corrisponde esattamente al destarsi nella coscienza dell’ideale della fraternità, scoprendo che esso non ha bisogno di essere inventato totalmente ex-novo, ma attende nei substrati dormienti dell’organismo sociale. L’intera società si regge in virtù di questa forza.

Chi opera in questo senso non necessariamente deve immaginare che il proprio destino sia quello donchisciottesco di tentare degli esperimenti destinati a fallire, di mettere in piedi degli ideali sociali pieni di generosità, ma senza fondamento. Non si tratta di costruire fuori dalla realtà; l’ideale della fratellanza, che ogni uomo può concepire liberamente, chiede la forza di riconoscere dove esso già operi nel tessuto sociale; non bisogna credere di essere i colonizzatori di un mondo di individui ignavi e immorali, incapaci di concepire da sé.

Quasi tutto quello che in un paese sussiste è nato proprio dalle forze morali della divisione del lavoro, della fiducia, del prestito e così via. Questo è il compito. Non si può immaginare di sviluppare la fratellanza senza aver prima pensato se essa sia fondata e sia concepibile non come una battaglia persa, come l’ennesimo sogno perdente, ma come l’unico percorso sensato per gli individui dell’umanità.

 

Il cammino è quello di portare il sangue dell’umanità,verso cui si assume responsabilità,

di nuovo in armonia con i principi celesti o cosmici da cui noi siamo stati creati,

a cui apparteniamo e a cui siamo stati uniti in virtù dell’evento del Golgota

che ha così profondamente trasformato l’umanità.

 

Ho finito di enunciare questi pensieri… forse alla fine scivolo sempre un po’ in una specie di enfasi, di cui non c’è assolutamente bisogno. Il percorso non è da concepire con enfasi, piuttosto, se si vuole, con entusiasmo e con una certa coscienza delle responsabilità; così si vive, altrimenti si è vissuti da qualche cosa che non siamo noi stessi. Si tratta di trovare il modo, malgrado le difficoltà che non sono piccole, di portare queste idee nella realtà, misurandosi anche con il proprio piccolo campicello.

Per rimanere nell’esempio del sangue, non importa solo che ci sia un cuore – potremmo dire che l’evento del Golgota ha dato alla circolazione dell’umanità un cuore, un centro – ma che il sangue circoli bene in ogni punto del corpo. Non è necessario che voi muoviate improvvisamente grandi capitali, che magari non avete, l’importante non è la dimensione dell’azione, ma la qualità di essa. Se sulla punta di un dito il sangue non svolge il suo compito nel giusto modo, se le correnti non si combinano come dovrebbero, compare la cancrena, il dito marcisce, cade. Se questo accade nel cuore c’è un infarto, nel cervello c’è un ictus, eppure i vasi sono piccoli capillari. Ognuno di voi che amministri una certa quantità di questo sangue, piccola o grande, una rete capillare piccolissima o una bella arteria, non si sottragga al fatto che anche lì, nel piccolo o nel grande, nella propria dimensione capillare o arteriosa, valgono le leggi che valgono nella totalità. La fraternità si può portare anche nel piccolo, anche nel più piccolo dei piccoli e, se riflettiamo, questo tipo di azione non si perde, perché ha la garanzia di essere fondata sul cosmo. Ha la garanzia di essere fondata sull’unica cosa che dà senso alla natura, all’umanità, ai corpi umani e consente […](Manca parte del testo).

 

Mi auguro che qualcuno riesca e mi piacerebbe saperlo; non perché lo voglia leggere sui giornali o vederlo in televisione, non mi aspetto che ciò sia la riprova. La riprova è la creazione di un nuovo tessuto. Quando nell’embrione compare il sangue non si manifesta dentro il corpo, ma un po’ fuori da esso, dove ci sono dei piccoli vasi, il cuore non c’è ancora. Manca il cuore e tuttavia questi piccoli vasi pulsano, cominciano a battere secondo un ritmo. I battiti fetali sono circa centoventi al minuto, tantissimi, però, una volta nato il bambino, si regoleranno secondo il ritmo di circa settanta al minuto e questo è un ritmo cosmico, celeste. Quando quel piccolo capillare fuori dal corpo del feto comincia la pulsazione, inizia il battito della vita, dell’essere; comincia da un nulla, siamo in dimensioni infinitesime, sotto il millimetro. Se uno di voi compie delle giuste azioni, queste preparano un organo o un organismo vivente. Se uno di voi compie delle azioni sbagliate, purtroppo distrugge quest’organismo vivente. Il giusto o lo sbagliato non nascono dalla dipendenza timorosa da una legge: qualcuno punta il dito e dice: «Hai fatto giusto, hai fatto sbagliato». Il giusto e lo sbagliato si misurano nel massimo ideale che un uomo può concepire: l’essere capace di un’azione libera.

 

Bene, grazie… Se qualcuno desidera andare avanti – c’è chi inveterato ama la notte di discussione – noi non abbiamo niente in contrario. Se qualcuno è disposto ad ascoltarmi ancora, se lo desidera…

Intervento: Se prima di questa sera avevamo qualche dubbio, adesso ce ne ha aggiunti altri per cui stanotte avremo di che meditare.

Intervento: Secondo me ha inserito un elemento consolatore, perché è riuscito a fare un esempio bellissimo, valorizzando le azioni minime che noi possiamo fare. L’esempio del feto mi è sembrato molto appropriato: i piccoli movimenti di denaro che io posso fare sono nulla rispetto al movimento di denaro che può fare per esempio, una multinazionale, ma lei è riuscito a dimostrare come anche un piccolo movimento di denaro ha la sua valenza, la sua importanza per tutto l’organismo. Gli esempi dei capillari che pulsano, dell’infarto o dell’ictus – effettivamente sono patologie di dimensioni microscopiche – sono di grande consolazione, nel senso che, anche nel nostro piccolo, tutti abbiamo una grande responsabilità, possiamo fare qualcosa. Poi ognuno troverà la sua strada.

 

Intervento: Dottore, per uscire dall’ovvietà, ci dice che cosa è la fratellanza?

 

È il sentimento di appartenere a qualche cosa di comune, si è fratelli in virtù della discendenza da un unico sangue. È portare nell’azione amore, agire nei confronti dell’altro non solo in base alla somiglianza o al diritto, non solo in base alla necessità, al bisogno, ma agire in base a un impulso. Ho voluto sottolineare come l’amore non sia solo sentimento, ma ciò che scaturisce da un giusto rapporto tra le idee. Se io porto delle idee dentro la volontà allora vado nella direzione dell’amore. Da esso deriva il senso della fratellanza; fratelli vuol dire che si ha lo stesso sangue, che ci si rapporta all’altro non solo sulla base di un criterio di diritto, ma anche di reciprocità. Però parlare di reciprocità è ancora giuridico, se vogliamo usare l’espressione giusta possiamo dire che trasformo la mia capacità di agire in una capacità di Agire Per Amore.

 

Intervento: Questo però non c’entra con il sangue, si può essere assolutamente non fraterni con il proprio fratello di sangue.

Che questo sia accaduto, che oggi i legami di sangue diano molto spesso luogo a grandi dissidi tra gli uomini, è una pura conseguenza del fatto che non poggiano più sul sangue fisico ma sulla capacità di trasformarlo, che è un’altra cosa. Oggi la forza umana non è di essere quello che il sangue ci fa essere, ma di poterlo trasformare a nostra volontà.

Però capisco bene il suo dilemma.

 

Intervento: Mi pare che da un certo punto di vista sia tutto talmente scontato… la fratellanza è una specie d’impulso di bontà, siamo tutti fratelli, bisogna volersi bene e invece questo non ha da essere e non può essere.

Perché non può essere? Non in questi termini certo, il problema è che a quanto lei dice va aggiunto un pezzo, manca la fantasia morale, il trasferire questo ideale elevato, ma ancora molto generale, nella specificità della propria condizione di vita, tra le persone che ho intorno, con cui lavoro, nella vita che conduco.

Per esempio, se sono un commerciante e mi interrogo su come portare l’elemento della fraternità nel mio lavoro, senza smettere di fare il commerciante, devo chiedermi dove riconosco quest’idea e in che modo posso inventare azioni capaci di far sì che essa, di cui mi sono fatto una rappresentazione, entri nel mio lavoro; non è quella di regalare tutte le merci, questo sarebbe un errore… non è fratellanza, ma agire ciecamente. Francesco d’Assisi, è vero, ha agito ciecamente, ma quanti Francesco contiamo sulla Terra? Non tanti, in realtà Francesco ha agito nell’ambito di un compito spirituale che aveva nell’umanità del suo tempo. Una singola azione non può mai diventare una norma per tutti gli altri. Ognuno deve scoprire con il proprio io dove le norme diventano vive nella sua esperienza. Non si tratta di dire: «Devo tornare a una condizione paragonabile a quella di Francesco» perché bisogna vedere, lì dove sono, dov’è il divino, dov’è la mia possibilità di realizzare questo ideale.

 

Intervento: Quindi, in realtà, non si può dire che cosa sia la fratellanza, è come se ognuno dovesse cercare da sé come questa si manifesti, lì dove lui opera, nell’assoluta, irripetibile specificità e unicità di quella situazione, di quell’evento.

Sì, però questa, una volta trovata, agisce come la creazione artistica: la somma delle creazioni artistiche genera un patrimonio spirituale per l’umanità.

Sarebbe più comodo avere delle garanzie, qualcuno che ci dica come fare. È chiaro che per un imprenditore il problema della fratellanza si pone in modo molto complesso. «Come tratterò i miei dipendenti? Li tratterò o non li tratterò? Rinuncio ad avere dipendenti oppure mi pongo il problema di come entrare in rapporto con essi?» Questa è una domanda. Non voglio indicare delle risposte, ma posso farvi degli esempi storici: Adriano Olivetti, Giovanni Pirelli, personalità che in modi diversi hanno concepito il tentativo di realizzare un ideale. Giangiacomo Feltrinelli è un altro esempio, noto a tutti, di un modo di cercar di tradurre gli ideali in un qualcosa di reale. In lui si vede la tragedia di un ideale che scaturisce da un sentimento, ma non da una maturazione della conoscenza, per cui Feltrinelli si trova a sposare l’odio di classe rivolgendolo, in un certo senso, contro se stesso; si mette nella più terribile delle contraddizioni, si può comprenderne lo sforzo. Non è detto che tutti questi sforzi siano emersi nella vita pubblica, ce ne sono migliaia sommersi che noi non conosciamo e che potrebbero benissimo aver trovato di volta in volta delle soluzioni. Non c’è un giudice delle altrui soluzioni ma, fintanto che le cose vanno così male, vuol dire che non c’è ancora abbastanza fiducia nelle singole persone, nella possibilità di immettere impulsi sani nella circolazione del denaro o dei beni. Le soluzioni totalizzanti sono fallite e quindi il problema è aperto.

 

Intervento: Si potrebbe quindi dire che la fratellanza possa essere raccontata, ma non possa essere precostituita, preproposta, è un qualche cosa che deve prendere forma, deve incarnarsi e poi può essere raccontata.

Sì, e quando viene raccontata entusiasma.

Quando Francesco butta via tutte le sue vesti, compie un atto di fraternità, ma suo padre non lo vive come tale, lo vive come un’offesa, un insulto. Francesco, in quel momento, si sente di testimoniare così la propria fraternità verso le persone diseredate e così la vive. Di fronte a uno che ha forza di agire, chi non si toglie tanto di cappello? Se uno di noi avesse l’energia di fare un gesto simile, gli diremmo che è un folle o che è bravo, ma non diremmo che con questo ha risolto i problemi del Terzo mondo, perché, lì per lì, non ha risolto niente. Non c’è mai una piena possibilità di giudicare in modo sentenzioso; l’effetto di queste azioni si misura su un’immagine molto più grande che è quella di tutta l’umanità. Francesco ha offeso suo padre, ha guarito alcuni lebbrosi, si è immedesimato con alcune persone, ma non ha impedito le crociate, la guerra con i turchi, di guai ne sono avvenuti lo stesso, e tuttavia la sua azione non si può negare che nel tempo sia stata potente, più potente di quella di molti Papi. È un discorso sull’azione umana, la libertà dell’agire umano.

 

Intervento: Ho conosciuto degli uomini d’affari che, proprio grazie alle loro intuizioni, hanno molto successo; io ammiro molto questa capacità di afferrare il momento giusto. Lei parlava prima dell’Intuizione, della fantasia morale; quando sento questo termine c’è sempre un po’ di vuoto intorno e volevo pregarla di parlarmi un po’ dell’intuizione.

C’è un’intuizione che abbiamo tutti e che fa da modello all’idea di che cosa l’intuizione sia: il cogliere noi stessi come io. Cogliere se stessi è cogliere qualcosa nel presente che non è esistito prima, che non ha uguali; è una sensazione molto diversa dal cogliere che le piante sono piante, gli animali animali, le galline galline; è qualcosa che va ancora al di là dal dire: «lo sono un uomo», perché descrivo qualcosa di cui non posso dire: «Questo è quello». Quando parlo dell’io devo dire «Io sono», non posso dire «Io sono quello» perché non ho termini di confronto, nessuno di noi ha termini di confronto se non nella periferia del proprio essere: io sono un uomo, lei è una donna, ma questo caratterizza l’io? No. Io ho cinquant’anni, lei ne ha forse meno di trenta, ma questo non caratterizza l’io; se ciascuno di voi cerca di cogliere dove stia la propria unicità si accorge che deve servirsi di un concetto che non può ricavare da null’altro che dall’unicità stessa. Questo significa che io colgo quell’essere che sono per intero, grazie a un processo d’immedesimazione, cioè di intuizione, di essere.

Nell’intuizione io non descrivo dicendo: «Questo è quello, un fiore, una pianta», ma devo dire «io», devo entrare. Quando il processo di «entrare dentro» che ognuno di noi compie nei riguardi di se stesso, viene esplicato anche nei riguardi di altri esseri, allora abbiamo un’intuizione della loro esistenza. Per esempio, nel caso delle piante io posso descriverne alcune caratteristiche: fiore, foglia, appartenenza, nome, cognome, tuttavia devo dirvi che, se ho studiato le idee di Goethe, so bene che quello che vedo non è la pianta per intero, ma la pianta potrebbe benissimo essere stata, in un altro momento, un seme, un oggetto che stava nella mia mano, eppure era sempre lei, mentre la pianta in mano ora non ci sta. Quando capisco che quello che vedo è mosso da qualcos’altro d’invisibile che è dentro e che io colgo con il pensiero, sono in una dimensione intuitiva perché colgo l’essere.

Vi faccio un esempio molto bello, che in parte si riferisce al denaro e che ho sentito fare dal professor Alessandro Sbardelli, circa il culto dello scarabeo nel mondo egizio. Lo scarabeo compare sempre sui sarcofagi ed è posto in corrispondenza del cuore. Sapete che cosa fa lo scarabeo: prende una pallina di escrementi, la forma perfettamente rotonda e la spinge con le zampe posteriori fin dentro al proprio piccolo nido nella sabbia. Il gesto dello scarabeo di costruire una sfera perfetta e di spingerla, magari in salita, sulla sabbia con le sue zampette suscitò nella mente dell’egizio l’immagine che questa pallina si potesse benissimo paragonare al Sole e lo scarabeo che la muove, la fa rotolare, fosse l’immagine della forza che muove il Sole. Il Sole è come una pallina che gira e si muove nel cielo, ma chi la muove? Chi la spinge? La spinge uno scarabeo celeste, un elemento divino che è la vera forza del Sole, il vero Sole. Lo scarabeo era sacro perché immagine della forza che fa muovere nello spazio le sfere celesti. Questo ha il carattere di un’immagine primitiva a cui oggi potrebbe corrispondere un’intuizione di tipo spirituale: quando io guardo una cosa vedo ciò che la fa essere.

 

Quando lei mi guarda non vede il mio io, vede semplicemente l’immagine che il mio io ha costruito nel corpo, destinata a mutare, a cambiare e prima o poi a sparire, lei vede l’esterno. L’intuizione le consente di avvicinare quello che sta dietro l’apparenza, l’essenza spirituale degli esseri. Il pensiero è una forma di intuizione che ha infiniti gradini, dal gradino in cui io non sono più io, ma sono l’essere che intuisco, sono diventato tu, al gradino più basso in cui dico che questa è una sedia oppure un pavimento. Se dico: «Ho davanti a me cinquanta persone», compio un atto in cui vado al di là della percezione dei corpi, e collego un pensiero, un numero alle persone. Questo pensiero da dove l’ho tratto? L’ho preso dal mondo delle idee e questo atto di prendere è l’azione verso quel mondo equivalente di quello che, verso il mondo fisico, è il prendere con gli occhi o con le orecchie. Attraverso gli organi di senso le cose del mondo entrano in me e io percepisco. L’uomo è capace di fare anche un’altra operazione, ha un cervello fatto in modo tale che per mezzo di esso percepisce idee, concetti, cioè percepisce qualcosa che non è del mondo fisico. Questo diventa particolarmente evidente quando percepisco qualche cosa che fisicamente proprio non c’è. È dato all’uomo di pensare delle cose che non hanno nessun correlato percepibile, cioè sono puri pensieri. Un esempio tra tutti: provate a pensare i pensieri. Noi abbiamo adesso sviluppato dei pensieri, immaginatevi di non pensare più alle cose dette, ma di chiedervi: «Che tipo di ragionamento ha fatto? Come ha concatenato le cose?». Non state più pensando a una cosa materiale. Se poi foste voi a pensare e se vi chiedeste: «Come ho pensato?» percepireste che siete fuori dalla fisicità, siete nell’ambito di un’intuizione. Quello che rende l’uomo libero è questo.

Abbiate pazienza, le conferenze servono a poco, perché queste cose non si possono apprendere così, sarebbe comodo. Queste cose si devono sperimentare, solo provando, confrontandosi si può scoprire qual è la realtà dello spirito.

 

Intervento: E lavorando su te stesso.

Sì, lavorando su se stessi. Il primo passo è proprio il lavoro che l’uomo può fare sui suoi pensieri, perché lì è libero. Lì si deve fare il lavoro da sé, si possono comunicare i risultati e allora diventa interessante ciò che succede; se due o tre persone hanno realizzato queste esperienze, si capiscono perfettamente e da loro potrebbe nascere un’azione sociale comune. Buona parte del movimento antroposofico ha ancora una certa struttura intellettuale perché ci si unisce in base alla gestione intellettuale delle idee, ma questo, come avete visto, porta poco lontano, anzi se ne vedono i fasti e i nefasti: «Ho ragione io! Hai torto tu!». Si tratta pur sempre di lotte di religione…

 

Occorre vedere che il pensiero non è una serie di etichette, di frasi, di formule di salvezza.

Il pensiero è vita, è un’esperienza, ognuno dovrebbe incominciare a sperimentarsi nel pensiero.

Se questo accade, se qualcuno giunge con molta più sicurezza ad avere quest’esperienza,

ecco che gli si configura un modo di pensare che crea delle nuove premesse per un operare sociale.

 

Perché? Perché in questo caso l’elemento della comune matrice nel mondo delle idee diventa particolarmente chiaro.

Si scopre che improvvisamente non sono io nell’altro o l’altro in me,

ma che entrambi siamo esattamente nello stesso mondo,

altrimenti è come se si stesse in mondi separati, ognuno nella propria monade.

 

Uscire dalla monade in cui ognuno di noi è,

è un atto paragonabile a quello del pulcino che deve rompere il guscio:

c’è poco da fare, lo deve rompere da sé; a un certo punto becchetta, colpisce,

esce e il guscio è rotto.

 

L’operazione di cui abbiamo parlato questa sera è identica a quella di rompere un guscio. Si spezza un guscio e ci si sperimenta in una dimensione che ha mutato il proprio aspetto. Tutto questo nel pensiero.

Ancora da soli, nessuno può farlo per noi. Abbiate fiducia.

 


 

Note:

1 – James E. Meade, Libertà, uguaglianza, efficienza, Milano, Feltrinelli, 1995.

2 – Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Bari, Laterza 2006.

3 – R. Steiner, Filosofia della libertà, Milano, Editrice Antroposofica, 2013.

Se applichiamo tutto questo alla vita sociale, significa che l’uomo è in grado di dare alle sue azioni, alle cose che fa, dei motivi, delle mete che egli stesso ha per primo elaborato nel mondo dei pensieri.

4 – Karl Marx, Manifesto del Partito Comunista, Torino, Einaudi 2005.

5Levitico 25,1-5.

6 Levitico 25,8.

7Levitico 25, 9-13.

8 – Levitico 25,14-16.

9 – Levitico 25, 23-25.

10Levitico 25, 26-28.