La vita giuridica: compiti e limiti della democrazia. Diritto pubblico e diritto penale

O.O. 332a – Cultura, politica, economia – 26.10.1919


 

Sommario: La vita giuridica: compiti e limiti della democrazia. Diritto pubblico e diritto penale

Sono gli uomini a creare le istituzioni, non viceversa. Nelle classi dirigenti la morale e il diritto sono diventati sempre più impotenti. La classe operaia ne ha tratto il dogma che sono per natura impotenti e che l’economia è onnipotente. Il diritto è scomparso: oggi l’uomo che pensa e vuole non incontra mai l’altro sulla base del sentimento – cioè da pari a pari in quanto esseri umani. Il fattore democratico vale per tutti gli aspetti della vita in cui ogni individuo maggiorenne ha la stessa capacità di giudizio dell’altro. I parlamenti – vedi l’impero austroungarico – sono composti perlopiù da rappresentanti di interessi economici. I diritti pubblici sorgono attraverso deliberazioni prese a maggioranza di voti e si esprimono sotto forma di leggi. È necessario ricostituire un terreno giuridico su cui gli uomini si incontrino unicamente come uomini, a prescindere dal talento individuale e dal potere economico. Nel lavoro, il soddisfacimento per il proprio prodotto – che non può più essere provato – dev’essere sostituito dall’interesse per l’uomo. In sede di giudizio è determinante il talento individuale del giudice. Come gli insegnanti, anche i giudici devono essere assegnati dalla libera vita culturale. Dato che la giustizia è stata fatta scomparire dall’economia, il sistema giuridico va ricreato di sana pianta.

 

Cari ascoltatori!

Per crearsi dei concetti giusti sulla vita sociale bisogna capir bene che rapporto c’è tra gli uomini – che nella loro convivenza danno origine alla vita sociale – e le istituzioni nelle quali vivono.

Chi osservi con spassionatezza la vita sociale, scoprirà che in fin dei conti tutto ciò che ci circonda in fatto di istituzioni esterne proviene dai provvedimenti e dalla volontà degli uomini stessi.

E chi giunge a questa convinzione finirà per dirsi che nella vita sociale tutto dipende in primo piano dal fatto che gli uomini si rivelino individui sociali o asociali in base alle loro forze, alle loro capacità e alla loro mentalità nei confronti di altre persone. Gli individui con una struttura mentale sociale, con una visione comunitaria della vita, daranno origine a istituzioni che favoriscono la socialità.

 

E su vasta scala si può dire che il fatto che il singolo sia in grado di avere le entrate adeguate al proprio sostentamento dipende da come i suoi simili gli forniscono gli strumenti per questo mantenimento, se sanno lavorare per lui in modo che possa mantenersi con questi mezzi. Per essere del tutto concreti: che il singolo possa comprare pane a sufficienza dipende dal fatto che gli uomini adottino misure tali per cui chiunque lavori, chiunque faccia qualcosa, possa ottenere un’adeguata quantità di pane in cambio del proprio lavoro, della propria prestazione.

D’altro canto, il fatto che il singolo sia in grado di dare efficacia al proprio lavoro, di occupare effettivamente il posto in cui gli è possibile procurarsi i mezzi necessari al suo sostentamento, dipende a sua volta dal fatto che gli uomini fra i quali vive abbiano o meno adottato delle misure sociali che gli consentano di occupare un posto di lavoro adeguato ai suoi talenti.

 

Cari ascoltatori, basta un’osservazione un pochino spassionata della vita sociale per rendersi conto che quanto ho appena detto è una sorta di assioma, una specie di massima fondamentale evidente da sé, nei confronti della questione sociale. E sarà difficile dimostrare un tale principio a chi non lo riconosce, poiché tali persone non sono disposte a guardare la vita senza pregiudizi – e lo si può fare in ogni ambito della vita – per convincersi che le cose stanno davvero così.

Però, cari ascoltatori, per l’uomo moderno questo concetto ha qualcosa di molto spiacevole, per il fatto che per lui la cosa più importante è che non lo si chiami in causa personalmente. Accetta senza problemi che si parli della necessità di migliorare le istituzioni, di trasformarle, ma quando il discorso si sposta sull’esigenza che lui stesso cambi qualcosa nella propria disposizione d’animo, nel proprio modo di vivere, allora lo sente come un attacco diretto alla sua dignità di persona umana. Non ha problemi a sentir dire che le istituzioni devono ricevere un’impronta di solidarietà sociale, ma non sopporta che si chieda a lui di comportarsi in modo sociale.

 

E così nella recente evoluzione storica dell’umanità è subentrato qualcosa di molto singolare. Durante il secolo scorso, come ho già esposto nella prima conferenza, la vita economica ha lasciato dietro di sé tutte le convinzioni, giuridiche e culturali, che gli uomini hanno elaborato su di essa.

Nella prima conferenza ho richiamato la vostra attenzione su come proprio la critica sociale di Woodrow Wilson arrivi a fargli affermare che la vita economica ha imposto le proprie esigenze, è progredita, ha assunto determinate forme. La vita giuridica, invece, e quella culturale, con le quali cerchiamo di governare questa vita economica, non hanno tenuto il passo con essa, sono ancora ferme su vecchie posizioni. Ma in tal modo, cari ascoltatori, si tocca una realtà molto importante dell’evoluzione umana più recente.

 

Con l’apparizione di complesse strutture tecniche e dell’inevitabile assetto capitalistico e imprenditoriale dell’economia, la vita economica ha continuato a far valere le sue esigenze. Oserei dire che le realtà della vita economica sono gradualmente sfuggite di mano agli uomini, assumendo più o meno un andamento autonomo.

L’uomo non ha trovato la forza di padroneggiare la vita economica a partire dalle proprie idee, dalle proprie convinzioni. L’uomo d’oggi ha voluto formare sempre più i suoi concetti giuridici e i suoi progetti culturali muovendo da rivendicazioni economiche, dall’osservazione della vita economica così com’è di fatto.

 

Si può quindi dire che l’elemento caratteristico nell’evoluzione dell’umanità degli ultimi secoli sta nel fatto che sia i concetti giuridici, tramite i quali gli uomini tendono a vivere in pace fra di loro, sia quelli della vita culturale, mediante i quali vogliono sviluppare e organizzare i propri talenti, sono diventati sempre più dipendenti dalla vita economica.

Non si nota affatto quanto in quest’epoca le idee e il trattamento vicendevole degli uomini siano diventati dipendenti dalla vita economica. È ovvio che anche le istituzioni degli ultimi secoli sono state create dagli uomini stessi, ma non le hanno create tanto a partire da nuove visioni o idee, quanto piuttosto da istinti inconsci, da impulsi involontari.

 

In tal modo si è prodotto qualcosa che in realtà potremmo definire una certa anarchia nella struttura dell’organismo sociale. Nelle prime due conferenze ho già delineato questa fisionomia anarchica da diversi punti di vista. Ma all’interno di questa struttura sociale odierna si sono per l’appunto sviluppate le condizioni che hanno poi portato alla forma moderna della questione proletaria.

Che cosa ha visto in primo piano l’operaio che, strappato al suo mestiere, è stato inchiodato alla macchina, stipato in una fabbrica, mentre osservava la vita che si svolgeva intorno a lui?

Nella sua vita ha potuto più che altro vedere come qualsiasi cosa egli sia in grado di pensare, o qualunque diritto egli abbia nei confronti di altri uomini, come tutto ciò dipenda e sia determinato da quei rapporti di potere economici in cui per lui si evidenzia la sua impotenza economica rispetto a chi è economicamente forte.

 

Si può allora dire che nelle cerchie dirigenti, dominanti, è nata una certa negazione della verità fondamentale secondo la quale le istituzioni umane hanno origine dalla vita cosciente degli uomini stessi. Gli uomini hanno dimenticato di far valere questa verità nella vita sociale. Le classi dirigenti si sono abbandonate a poco a poco, direi istintivamente, ad una vita – se non proprio ad una convinzione – che ha reso la cultura e il diritto dipendenti dai mezzi di potere economico.

Da questo però ha avuto origine un dogma, una concezione della vita di pensatori socialisti e dei loro seguaci, secondo la quale nell’evoluzione umana le cose devono stare necessariamente così, in base alla quale non è possibile che l’uomo organizzi i rapporti giuridici e la vita culturale a partire dalle proprie convinzioni. È nato il dogma secondo il quale la vita culturale e quella giuridica non possono che essere un’appendice delle realtà economiche, dei rami economici di produzione e così via.

 

E così in vasti ambienti la questione sociale è sorta sotto forma di una rivendicazione precisa che aveva alla base la convinzione: la vita economica crea la vita giuridica, la vita economica decide della vita culturale – quindi bisogna trasformare la vita economica in modo che produca una vita giuridica e una vita culturale adeguate alle esigenze di queste cerchie.

Dalle abitudini di vita delle cerchie dominanti, la classe operaia ha imparato a portare a coscienza quello che gli altri vivevano a livello istintivo, trasformandolo così in un dogma.

E noi oggi ci troviamo di fronte alla questione sociale in maniera tale per cui c’è in tantissime persone l’idea che basti trasformare la vita economica, le istituzioni economiche, perché tutto il resto – la vita giuridica e quella culturale – cambi da solo; l’idea che istituzioni economiche, tutte perfette da un punto di vista sociale, automaticamente forgino diritto e cultura a loro immagine.

 

Come conseguenza di questo modo di vedere non si è capito intorno a che cosa verte in realtà la questione sociale dei nostri tempi. In un certo senso questo dogma ha celato, ha velato la realtà vera della questione sociale con un grande inganno, con una grossa illusione.

E la realtà è che la dipendenza della vita giuridica e culturale da quella economica è un fatto della storia più recente, e che si tratta proprio di superare questa dipendenza diventata sempre più reale.

E mentre oggi in molti ambienti socialisti si pensa che per prima cosa vada modificata la vita economica, dopo di che tutto il resto seguirà automaticamente, bisogna porsi la domanda: quali condizioni vanno create dapprima in ambito giuridico e culturale affinché da un nuovo tipo di diritto e di cultura possano sorgere delle condizioni economiche che corrispondano alle esigenze di un’esistenza degna dell’uomo?

 

Quindi la prima domanda che dobbiamo porci non è: in che modo rendiamo la vita giuridica e quella culturale sempre più dipendenti dalla vita economica?, bensì: come possiamo uscire da questa dipendenza?

Queste riflessioni sono estremamente importanti, poiché ci mostrano quali sono gli ostacoli per una comprensione spregiudicata dell’attuale questione sociale, come uno degli ostacoli principali sia un dogma formatosi nel corso degli ultimi secoli. Questo dogma si è radicato al punto che al giorno d’oggi numerose persone colte e incolte, operai e non operai, deridono chiunque creda che un risanamento della vita giuridica e culturale possa aver luogo senza essere la conseguenza inevitabile di una trasformazione della vita economica stessa.

Il mio compito oggi è quello di parlarvi della vita giuridica, dopodomani vi parlerò di quella culturale.

 

Cari ascoltatori, la vita giuridica ha posto gli uomini, nella sua essenza e nel suo significato, a più riprese di fronte alla domanda: qual è la vera origine del diritto? Qual è l’origine di ciò che gli uomini ritengono legale e giusto nei loro rapporti interpersonali?

Questa domanda è sempre stata di estrema importanza per gli esseri umani. È invece molto strano che oggi in un’ampia cerchia di persone interessate al sociale la questione giuridica vera e propria sia come caduta in un buco, sia praticamente sparita. Certo, anche oggi ci sono molte discussioni accademico-teoriche sull’essenza e il significato del diritto eccetera, eccetera. Ma è caratteristica nella discussione effettuata da vaste cerchie proprio la scomparsa più o meno totale della questione giuridica.

Per spiegarlo devo richiamare la vostra attenzione su qualcosa che al giorno d’oggi si manifesta sempre più chiaramente, mentre fino a poco tempo fa veniva ancora ignorato del tutto.

 

Gli uomini hanno visto sorgere delle condizioni sociali insostenibili, e anche quelli che non sono stati sfiorati esistenzialmente da queste condizioni in contrasto con le esigenze della vita sociale hanno cercato di rifletterci sopra.

E mentre fino a poco tempo fa le cose erano davvero così radicali come vi ho appena detto, al punto che si veniva derisi se ci si aspettava qualcosa per le condizioni economiche dall’assetto giuridico e da quello culturale, oggi si sente fare sempre più spesso – ma si potrebbe dire da oscure profondità dell’anima – questa affermazione: «Sì, in fondo nell’atteggiamento sociale degli esseri umani gli uni verso gli altri giocano un ruolo anche questioni psicologiche e giuridiche.»

E gran parte della confusione che regna nelle condizioni sociali deriva dal fatto che i rapporti psicologici degli uomini e quelli giuridici sono stati tenuti troppo poco in considerazione nella loro fisionomia autonoma. Ora si comincia ad accennare, dato che la cosa è ovvia, al fatto che la salvezza dovrebbe venire da un’altra parte che non sia quella puramente materialistica dell’economia. Ma quando poi se ne parla a livello concreto, questo viene messo ancora troppo poco in evidenza.

 

È come un filo rosso che si snoda attraverso tutto ciò che hanno da dire i nuovi pensatori socialisti, e cioè che occorre instaurare una struttura sociale in cui tutti gli uomini possano vivere secondo le loro capacità e i loro bisogni. A loro non importa che quanto ho appena detto venga più o meno attuato – in maniera grottescamente radicale o più in linea con una mentalità conservatrice.

Sentiamo dire dappertutto che i danni dell’attuale ordinamento sociale derivano soprattutto dal fatto che all’interno di quest’ordinamento l’uomo non è in grado di esplicare pienamente le proprie capacità, e dall’altra parte che questo ordinamento sociale è tale per cui l’uomo non è in condizione di soddisfare i propri bisogni – in pratica che non c’è uguaglianza nella possibilità che si ha di soddisfare i propri bisogni.

 

Dicendo queste cose, ci si rifà a due elementi fondamentali della vita umana:

Le capacità sono qualcosa che si pone maggiormente in relazione con l’intelletto umano, poiché in definitiva tutti i talenti dell’uomo, che deve agire consapevolmente, hanno origine dal suo pensiero, dal suo raziocinio.

È vero che le capacità della mente devono essere costantemente incoraggiate, spronate dal sentimento, ma questo da solo non può fare nulla se manca l’idea di fondo, il genio conoscitivio. Quindi quando si parla di talenti, anche di abilità pratiche, bisogna rifarsi alla vita intellettiva, allo stato di coscienza. Perciò diverse persone si sono rese conto che bisogna fare in modo che l’uomo possa valorizzare la propria vita intellettiva all’interno della struttura sociale.

 

L’altro fattore che vuole esprimersi riguarda maggiormente l’elemento vitale della volontà. Il volere, che nasce dal desiderio, dalla necessità che si ha di questo o quel prodotto, è una forza basilare della natura umana. E quando si dice che l’uomo deve poter vivere in una struttura sociale in base ai propri bisogni, ci si riferisce alla sfera del volere.

Ecco quindi che, pur senza accorgersene, anche i marxisti parlano dell’uomo quando sollevano la loro questione sociale, anche se vorrebbero far credere di star parlando solo di istituzioni. È vero che parlano di istituzioni, ma le vogliono organizzare in modo tale che la vita intellettiva dell’uomo, le capacità umane, possano essere valorizzate così che i bisogni umani possano essere soddisfatti equamente così come si presentano.

Solo che in questa visione c’è qualcosa di molto particolare: manca del tutto un elemento umano altrettanto essenziale, e cioè la vita emotiva, la sfera del sentimento.

 

Vedete, se si dicesse che si vuole instaurare una struttura sociale nella quale gli uomini possano vivere in base ai loro talenti, ai loro sentimenti e ai loro bisogni, allora si avrebbe l’uomo nella sua totalità. E invece è strano, ma anche tipico, che mentre si vuole descrivere la meta sociale complessiva dell’uomo si tralasci la sua vita emotiva.

Ma chi, nella sua osservazione dell’umanità, ignora la vita emotiva, omette di prendere in considerazione i reali rapporti giuridici nell’organismo sociale, poiché nella convivenza fra esseri umani tali rapporti possono svilupparsi solo in base al modo in cui interagiscono fra loro i sentimenti umani. Il diritto pubblico risulta dai sentimenti che gli uomini vivono gli uni nei confronti degli altri.

E siccome nella fondazione del movimento sociale si è ignorato l’elemento vitale del sentimento, la questione giuridica è piombata per forza, come vi ho detto, in un buco: è sparita. Si tratta di rimettere questa questione giuridica nella sua giusta luce. Certo, si sa che esiste un diritto, ma lo si vorrebbe come una semplice appendice delle condizioni economiche.

 

E come si sviluppa il diritto nella convivenza umana? Vedete, si è cercato più volte di dare una definizione del diritto, ma non si è mai riusciti a trovarne una davvero soddisfacente. E anche quando si è analizzata l’origine del diritto non ne è risultato nulla. Volendo rispondere a questa domanda, non è mai emerso niente. Perché?

È come se si volesse far sviluppare il linguaggio solo e soltanto dalla natura del singolo uomo. Spesso è stato detto, e a ragione, che un uomo cresciuto su un’isola deserta non giungerebbe mai a parlare, poiché il linguaggio si attiva nel contatto con gli altri esseri umani, all’interno della società umana.

Allo stesso modo, cari ascoltatori, il diritto si sviluppa a partire dal sentimento che si prova nell’interazione col sentimento dell’altro all’interno della vita pubblica.

Non si può dire che il diritto scaturisca da questo o da quell’angolo dell’uomo o dell’umanità, ma si può dire soltanto che, attraverso i sentimenti che vengono vissuti gli uni per gli altri, gli uomini entrano in relazioni reciproche che poi sanciscono a livello giuridico. Il diritto è perciò qualcosa che va studiato soprattutto nel suo formarsi all’interno della società umana.

 

Per l’uomo moderno la riflessione sul diritto viene così a coincidere con ciò che si è sviluppato sotto forma di rivendicazione democratica nella storia più recente dell’umanità.

Ci avviciniamo all’essenza di rivendicazioni come quella democratica solo se consideriamo l’evoluzione dell’umanità come quella di un grande organismo, ma i modi attuali di vedere le cose sono ben lontani da questo modo di vedere spirituale.

Vedete, di sicuro ognuno troverebbe ridicolo e assurdo il voler spiegare come l’uomo si sviluppa dalla nascita alla morte in base all’influenza dei prodotti alimentari, se si volesse cioè affermare che il modo del suo sviluppo dalla nascita alla morte sia dovuto al fatto che il cavolo è così, il frumento è così, la carne di manzo è così, e via dicendo.

No, nessuno ammetterà che questo sia un modo ragionevole di vedere le cose. Chiunque riconoscerà invece che bisogna chiedere: qual è il motivo per cui intorno al settimo anno di vita dalla natura umana stessa si sviluppano quelle forze che danno origine alla seconda dentizione? Non è possibile dedurre dal cavolo o dalla carne di manzo il fatto che si verifichi il cambio dei denti!

 

Allo stesso modo bisogna chiedere: come si sviluppa a partire dall’organismo umano stesso ciò che per esempio rappresenta la maturità sessuale? E via dicendo. Bisogna cioè indagare la natura interiore dell’organismo che è in via di sviluppo.

Provate un po’, fra le opinioni odierne, a cercarne una che possa essere applicata alla storia e all’evoluzione dell’umanità, una che per esempio abbia ben chiaro che, mentre l’umanità si evolve sulla Terra, di epoca in epoca sviluppa a partire da se stessa, dalla natura del proprio organismo vivente, determinate forze e prerogative, determinate qualità.

Chi, osservando la natura, impari ad essere oggettivo, potrà trasferire questa obiettività anche all’osservazione della storia.

E in quell’ambito si scopre che dalle profondità della natura umana a partire dalla metà del quindicesimo secolo si è sviluppata, trovando una corrispondenza più o meno soddisfacente nelle varie zone della Terra, proprio questa esigenza di democrazia, la richiesta che, nei suoi rapporti con i propri simili, l’uomo faccia valere ciò che egli stesso sente come giusto, come adeguato a lui.

 

Il principio democratico che scaturisce dal profondo della natura umana è diventato il tratto distintivo dell’anelito umano nei rapporti sociali dell’era moderna. Quella dell’umanità odierna nei confronti della vita democratica è dunque un’esigenza elementare.

Chi si rende conto di queste cose deve però anche prenderle del tutto sul serio, e deve porsi la domanda: qual è il significato e quali sono i limiti del principio democratico?

 

Il principio democratico – l’ho appena descritto – consiste nel fatto che gli individui che vivono insieme in un organismo sociale circoscritto devono prendere decisioni che provengano dalla partecipazione di ogni singolo. Tali decisioni possono diventare vincolanti per la società solo se si formano delle maggioranze. Ciò che rientra in tali deliberazioni prese a maggioranza dei voti sarà democratico solo se

• ogni singolo individuo in quanto tale si trova

• di fronte all’altro singolo individuo

• come suo pari.

 

Ma allora, cari ascoltatori, è possibile deliberare democraticamente solo su quelle cose in cui il singolo individuo è realmente pari ad ogni altro uomo nella sua capacità di giudizio. Cioè, sul terreno democratico possono essere prese unicamente decisioni in merito alle quali ogni individuo maggiorenne è in grado di esprimere un giudizio suo proprio per il fatto stesso di essere maggiorenne.

E con questo, credo che siano indicati nel modo più chiaro possibile i limiti della democrazia. Sul terreno della democrazia si può deliberare solo ciò che può essere giudicato ugualmente da ognuno per il semplice fatto di essere maggiorenne.

Così si esclude dalle deliberazioni democratiche tutto ciò che ha a che fare con lo sviluppo dei talenti umani nella vita pubblica. Tutto quello che è educazione e pubblica istruzione, tutto ciò che fa parte della vita culturale, richiede l’intervento dell’individuo – ne parleremo dettagliatamente dopodomani –, richiede soprattutto la conoscenza dell’individuo, esige che l’insegnante, l’educatore, sia dotato di particolari capacità individuali che non vengono dati all’uomo semplicemente grazie al raggiungimento della maggiore età.

O non si prende sul serio la democrazia, e allora la si lascia decidere anche su tutto quello che dipende dalle capacità individuali; oppure la si prende sul serio e allora si deve escludere dalla democrazia, da un lato, l’amministrazione della vita culturale.

 

Ma da questa democrazia si deve escludere, dall’altro lato, anche tutto quello che è vita economica. Tutto quello che ho esposto nella conferenza di ieri si basa sulla competenza e sulla specializzazione che il singolo acquisisce negli ambienti e nelle attività di tipo economico in cui è inserito. La maggiore età, la capacità di giudizio di ogni individuo diventato maggiorenne, non potrà mai stabilire se uno è un buon agricoltore o un bravo industriale e via dicendo. Quindi non è possibile usare le deliberazioni prese a maggioranza da maggiorenni per stabilire quello che deve succedere nell’ambito della vita economica.

Ciò significa che l’elemento democratico dev’essere reso autonomo sia dalla vita culturale sia dalla vita economica.

A quel punto fra le due sorge la vita statale prettamente democratica, in cui ogni uomo sta di fronte all’altro in qualità di individuo capace di giudizio, maggiorenne e con pari diritti e doveri, ma nella quale possono essere prese decisioni a maggioranza solo su ciò che dipende dall’uguale capacità di giudizio di tutti i soggetti maggiorenni.

 

Chi non si limita ad affermare in astratto queste cose che vi ho appena esposto, ma le valuta per il peso che hanno per la vita concreta, vede che gli uomini si ingannano su di esse perché sono scomode da immaginare, perché non si ha voglia di trovare il coraggio di seguire questo modo di pensare fin nelle sue ultime conseguenze.

Ma, cari ascoltatori, non averlo voluto fare, aver opposto cose del tutto diverse all’esigenza generale di democrazia ha avuto conseguenze del tutto concrete nella recente evoluzione dell’umanità. Preferisco descrivervi queste cose a partire dalla storia piuttosto che da principi astratti.

In questi anni abbiamo visto crollare uno Stato, si potrebbe dire che si è sfasciato a causa delle sue stesse condizioni. E questo Stato, il vecchio impero austroungarico che non esiste più, può anche diventare oggetto di un esperimento per questioni giuridiche.

 

Chi ha seguito gli anni della guerra, sa che alla fine l’Austria è caduta per via di eventi puramente bellici. Ma il dissolvimento dello Stato austriaco è avvenuto come un fenomeno a parte, come qualcosa che è risultato dalle sue condizioni interne. Questo Stato si è sgretolato, e si sarebbe probabilmente sgretolato anche se l’Austria se la fosse cavata meglio in guerra. È una cosa che può dire chi ha osservato obiettivamente per decenni le condizioni dell’Austria – ed io vi ho trascorso trent’anni della mia vita.

 

Negli anni sessanta del secolo scorso in quest’Austria è sorta l’esigenza della democrazia, cioè di una rappresentanza popolare. Che forma è stata data a questa rappresentanza popolare? È stata concepita in modo tale che i rappresentanti del popolo nel consiglio dell’impero fossero composti da quattro curie, da quattro curie di natura esclusivamente economica:

• in primo luogo la curia dei latifondisti – prima curia;

• in secondo luogo le città, i mercati e le zone industriali – seconda curia;

• in terzo luogo le camere di commercio – terza curia;

• la quarta curia era formata dai comuni rurali, ma anche lì venivano presi in considerazione solo gli interessi economici.

 

Quindi i rappresentanti nel consiglio dell’impero austriaco venivano scelti in base alla propria appartenenza ad un comune rurale, ad una camera di commercio e così via. In tale consiglio si riunivano i rappresentanti di interessi puramente economici. Le deliberazioni che prendevano a maggioranza provenivano ovviamente da singoli individui, ma quei singoli individui rappresentavano gli interessi che derivavano dalla loro appartenenza economica ai latifondi, alle città, ai mercati e alle zone industriali, alle camere di commercio o ai comuni rurali.

E che genere di diritti pubblici veniva alla luce in quel modo, quali diritti pubblici venivano sanciti per maggioranza? Dei diritti pubblici che altro non erano se non interessi economici camuffati!

 

È infatti evidente che quando per esempio le camere di commercio erano d’accordo con i latifondisti su qualcosa che procurava a entrambi dei vantaggi economici, si poteva prendere una decisione a maggioranza contro gli interessi di una minoranza, per la quale magari proprio quella cosa era importante. Quando nei parlamenti siedono delle rappresentanze di interessi di natura economica, è sempre possibile costituire delle maggioranze che deliberino a partire dagli interessi economici, creando così dei diritti che non hanno niente a che vedere con quella che sarebbe la coscienza giuridica che ha origine dal sentimento che vive nei rapporti interpersonali.

Oppure prendete il fatto che nell’antica assemblea nazionale tedesca c’era un grosso partito, che si chiamava “il centro” e rappresentava soltanto gli interessi culturali dei cattolici. Questo partito poteva allearsi con qualunque altro per raggiungere una maggioranza, e a quel punto dei bisogni puramente culturali-spirituali venivano trasformati in diritti pubblici. Questo è successo innumerevoli volte.

 

Si è spesso fatto notare che cosa vive nei parlamenti moderni che vogliono diventare democratici, ma non si è arrivati a capire che cosa deve accadere: una netta separazione fra la vita giuridica e la rappresentanza, l’amministrazione di interessi economici.

L’impulso alla triarticolazione dell’organismo sociale deve perciò esigere con la massima fermezza la separazione della vita giuridica, del terreno giuridico, dall’amministrazione del circuito economico.

Come vi dicevo ieri, all’interno del processo economico devono formarsi delle associazioni. Categorie professionali, produttori e consumatori si troveranno in esse gli uni di fronte agli altri. I fatti e i provvedimenti puramente economici che intercorreranno a quel livello saranno fondati su contratti stipulati fra le associazioni.

 

Nella vita economica tutto deve fondarsi su contratti, su prestazioni reciproche. Le corporazioni si troveranno di fronte a corporazioni; la competenza e la specializzazione costituiranno l’elemento determinante. Lì la mia opinione, poniamo, di imprenditore sul valore che deve avere il mio settore industriale nella vita pubblica non avrà alcuna importanza.

No, se la vita economica è autonoma non potrò decidere niente in proposito, ma dovrò produrre qualcosa nel mio settore industriale, dovrò stipulare dei contratti con le associazioni di altri rami dell’industria, che a loro volta dovranno offrirmi in cambio le loro prestazioni. La possibilità che avrò di piazzare le mie prestazioni dipenderà dalla mia capacità di sollecitare le loro controprestazioni. A livello contrattuale si formalizzerà un’associazione in base alle capacità. Questi sono i fatti.

 

Diversamente dovranno svolgersi le cose sul terreno giuridico, dove sono gli individui a stare gli uni di fronte agli altri e dove ci si può occupare solo di deliberare sulle leggi che regolino i diritti pubblici attraverso decisioni prese dalla maggioranza.

Certamente molti dicono: «Ma in fin dei conti che cos’è il diritto pubblico? Non è nient’altro che ciò che esprime a parole e mette sotto forma di legge ciò che esiste nelle situazioni economiche.»

 

Sotto molti aspetti è senz’altro così, e come l’idea della triarticolazione sociale non trascura la realtà, così non trascura neppure questo aspetto. Ciò che risulta legittimo per via delle decisioni prese sul terreno democratico viene poi ovviamente introdotto nella vita economica da chi commercia. L’importante è che non venga estratto dalla vita economica per essere trasformato in diritto. Lo si introduce nella vita economica dopo che è stato deciso fuori di essa.

Quelli che pensano in astratto dicono: «Sì, ma quello che c’è nella vita esteriore, dove l’uno commercia con l’altro quando emette una cambiale o qualcosa di analogo, quello che emerge nel diritto cambiario, non fa pienamente parte della vita economica? Non è un’unità in tutto e per tutto? E adesso arrivi tu, triarticolatore, e vuoi separare ciò che nella vita è una perfetta unità». Come se nella vita – proprio quella a cui l’uomo non può accedere e a cui non può arrecare danno con le sue opinioni – non ci fossero molti settori in cui correnti di forze provenienti da parti diverse si uniscono formando un’unità.

 

Prendete l’essere umano in fase di crescita. Possiede varie qualità che ha ereditato, che si ritrova addosso, e altre che gli sono state trasmesse mediante l’educazione. L’individuo in crescita ottiene da due fonti diverse le proprie caratteristiche: dall’ereditarietà e dall’educazione che gli dà l’ambiente.

Se fate qualcosa a quindici anni, non potete dire che ciò che fate non è un’unità. In quello che fate, però, confluisce a costituire quell’unità da un lato il risultato della vostra eredità e dall’altro quello della vostra educazione. È così che in esso c’è unità, ma è un’unità solo per il fatto che vi si contribuisce da due provenienze diverse. L’unità che si forma è sana proprio perché c’è una confluenza di due realtà distinte.

 

Per quanto riguarda l’idea dell’organismo sociale triarticolato, dalla realtà della vita risulta non meno che una sana unità per l’agire in ambito economico può craersi solo nella misura in cui vi vengono inclusi anche dei concetti giuridici. Però si tratta di due fonti diverse: i provvedimenti economici vengono presi autonomamente in base a punti di vista economici e i diritti vengono sanciti a parte secondo i criteri della vita giuridica.

Poi gli uomini ne fanno un’unità. Solo in questo modo c’è armonia, mentre se si fanno derivare i diritti dagli interessi della vita economica, nascono delle caricature. In quel caso il diritto è solo una fotografia, solo una copia dell’interesse economico. Ma allora il diritto non esiste più. È solo facendolo nascere fin dall’inizio su un terreno democratico autonomo che si può introdurre il diritto nella vita economica.

 

Cari ascoltatori, dovremmo poter credere che si tratti di un concetto talmente chiaro da non aver bisogno di essere spiegato in lungo e in largo, ma la prerogativa della nostra epoca è che la vita recente ha oscurato e deformato proprio le verità più lampanti.

Al giorno d’oggi, nell’ambito in cui si sviluppano tante opinioni socialiste, si ritiene di dover tranquillamente continuare a far dipendere la vita giuridica da quella economica. Vi ho accennato al fatto che si pensa di fondare una sorta di gerarchia secondo il modello politico e che la vita economica debba essere da essa regolamentata e amministrata. Allora, si pensa, quelli che amministrano la vita economica svilupperanno automaticamente come realtà collaterale anche i diritti.

 

Sostenere una cosa del genere equivale a non avere nessun senso della vita concreta e reale. Non è di certo la vita economica, in cui bisogna essere soprattutto abili nell’organizzazione dei rapporti di produzione, che può creare i rapporti giuridici. Questi devono sorgere autonomamente accanto alla vita economica. Tali rapporti non possono instaurarsi in base a pii desideri, ma solo se accanto al circuito economico si sviluppa concretamente un elemento statale in cui il singolo individuo è posto sullo stesso piano di ogni altro singolo individuo.

Non si può, solo per il fatto di essere un economista, emanare anche delle leggi in ambito giuridico a partire da una qualsiasi coscienza originaria, ma quello che conta è creare prima il terreno concreto sul quale gli uomini si incontrino in base ai loro sentimenti, così che possano trasformare questi rapporti in rapporti di tipo giuridico. Si tratta di creare una realtà parallela alla vita economica.

Allora il diritto non sarà una semplice sovrastruttura della vita economica, ma un’entità che si plasma autonomamente.

 

Non è con una risposta teorica che si vince l’errore fondamentale, la grande superstizione della questione sociale moderna, che pensa sia sufficiente trasformare la vita economica per giungere a concetti giuridici diversi. Nell’organismo sociale triarticolato la realtà verrà creata realizzando un terreno giuridico autonomo, una realtà dalla quale grazie ai rapporti interumani ha origine quella grande forza propulsiva che è in grado di dominare e domare anche la vita economica.

In fin dei conti l’osservazione storica dell’epoca recente conferma da un’altra angolazione quanto ho appena esposto. Cari ascoltatori, ripensate agli impulsi che gli uomini hanno avuto fino al tredicesimo e al quattrodicesimo secolo per i loro lavori artigianali o di altro genere. Spesso i pensatori socialisti sottolineano che l’uomo d’oggi è separato dai suoi mezzi di produzione. Questa situazione ha raggiunto le proporzioni attuali solo da quando esistono le moderne condizioni economiche. L’uomo è stato separato particolarmente dal prodotto del suo lavoro.

 

Qual è la partecipazione dell’operaio che lavora in fabbrica a ciò che l’imprenditore poi vende? Che cosa ne sa? Che ne sa del percorso che il prodotto fa nel mondo? Conosce solo una piccola parte di un grande insieme, di cui forse non avrà mai coscienza! Pensate che differenza enorme rispetto all’antico mestiere, dove il singolo artigiano provava soddisfazione per le cose da lui realizzate. Chi conosce la storia sa che era davvero così, che l’artigiano provava grande soddisfazione nel produrre.

Pensate alla relazione personale fra un uomo e la realizzazione di una chiave, di una serratura e prodotti analoghi. Quando si va in posti all’antica è ancora possibile fare esperienze simpatiche sotto questo aspetto, ma nelle aree “progressiste” non si sperimentano più queste cose. Una volta – perdonatemi se vi racconto qualcosa di così personale, ma forse può servire alla descrizione – sono andato in una regione e sono rimasto straordinariamente affascinato quando, entrando nel negozio di un barbiere, ho visto la gioia provata dall’apprendista nel riuscire a fare un bel taglio di capelli ad un cliente. Ci provava un gusto da matti nel fare bene il suo mestiere.

 

È sempre più raro un simile rapporto personale fra l’uomo e ciò che fa. Il fatto che non ci sia più questo rapporto è ovviamente un’esigenza inevitabile della vita economica moderna. Le cose non possono andare diversamente, date le complesse condizioni in cui dobbiamo lavorare all’interno della divisione del lavoro.

Se non avessimo la divisione del lavoro, non avremmo la vita moderna con tutto ciò che ci occorre, non avremmo alcun tipo di progresso. L’esperienza dell’antico rapporto fra l’uomo e il suo prodotto non è più possibile averla.

Eppure, cari ascoltatori, l’uomo ha bisogno di un rapporto umano con il proprio lavoro, ha bisogno di provare gioia e anche una certa dedizione nei confronti del proprio lavoro.

 

L’antica dedizione, l’unione con l’oggetto prodotto, non esiste più, e perciò dev’essere sostituita da qualcos’altro. L’uomo non può fare a meno di un impulso al lavoro simile a quello procuratogli un tempo dalla gioia per la diretta realizzazione di un oggetto. Questo impulso dev’essere sostituito da qualcos’altro, ma da che cosa?

Può essere sostituito solo facendo in modo che l’orizzonte degli uomini si allarghi, attirandoli su un piano su cui si possano incontrare con i loro simili a raggio più vasto, con tutti coloro che fanno parte dello stesso organismo sociale, così che l’uomo senta sempre più interesse per l’uomo.

 

È necessario che avvenga quanto segue:

• perfino chi lavora nell’angolo più nascosto ad una singola vite per un grande contesto non deve ridursi al rapporto con questa vite, ma

• può invece portare nella sua officina ciò che ha dentro di sé sotto forma di sentimenti per gli altri esseri umani,

• lo può ritrovare quando esce dalla sua officina,

• può avere una coscienza vivace del proprio rapporto con la società umana,

• può lavorare con gioia anche se non prova soddisfazione immediata per il prodotto del suo lavoro,

• può lavorare perché si sente un membro degno nella cerchia dei propri simili.

 

Da questo impulso hanno avuto origine la moderna esigenza di democrazia e il modo moderno di sancire democraticamente il diritto pubblico. Queste cose sono intimamente connesse con la natura dell’evoluzione umana e possono essere capite a fondo solo da chi è disposto ad esaminare seriamente la natura dell’evoluzione dell’umanità nel suo svolgersi in ambito sociale.

Bisogna avvertire la necessità che gli uomini amplino i loro orizzonti, per far sì che ognuno dica a se stesso: «È vero che non so cosa sto facendo ai miei simili mentre sono qui a fabbricare questa vite, ma so che, per via dei rapporti di vita che instauro con loro grazie al diritto pubblico, sono un membro degno dell’ordinamento sociale, un membro che ha pari valore con tutti gli altri.»

 

Questo deve stare alla base della moderna democrazia e – agendo come sentimento vissuto da uomo a uomo – delle moderne norme giuridiche pubbliche. Solo osservando la struttura interiore dell’uomo si può concepire in maniera davvero moderna ciò che deve svilupparsi come diritto pubblico in tutti i campi.

Ne parleremo più dettagliatamente nella quinta conferenza, ma ora per concludere voglio ancora mostrarvi come l’ambito dell’accertamento del diritto sconfini dall’effettivo terreno giuridico in quello culturale.

 

Vedete, se si considerano i fatti che vi ho descritto ora, si può ben capire che sul terreno democratico sorgono leggi grazie ad un confronto di sentimenti fra uomini con gli stessi diritti, mentre sul terreno economico sorgono contratti fra le varie associazioni o anche fra i singoli individui.

Nel momento però in cui il singolo deve cercare o far valere il proprio diritto – civile, privato o penale che sia –, il diritto si sposta dal terreno propriamente giuridico a quello culturale.

E qui troviamo di nuovo un punto, come ieri nella legislazione tributaria, in cui il moderno raziocinio umano non si è ancora adeguato a quello che risulta evidente se si prendono in esame gli elementi di fondo.

 

Vedete, quando si tratta di valutare come una data legge debba essere applicata al singolo individuo, subentra una valutazione del singolo individuo stesso. E per questa valutazione è decisivo il talento che sa cogliere l’indole propria del singolo.

La giustizia penale e civile non può quindi restare sul terreno giuridico generico, ma dev’essere trasferita sul piano il cui carattere specifico vi verrà illustrato più a fondo dopodomani a proposito della vita culturale. La giurisdizione può diventare un fatto di giustizia solo se chi diventa giudice ha la possibilità reale di giudicare in base alle sue facoltà individuali, in base al rapporto individuale che ha con la persona che deve giudicare.

Si può pensare che una cosa simile sia realizzabile nei modi più diversi. Nel mio libro I punti essenziali della questione sociale ho messo in evidenza uno dei modi possibili.

 

Nell’organismo sociale triarticolato esiste l’amministrazione autonoma dell’economia come ve l’ho descritta ieri. C’è poi l’ambito giuridico, che ho delineato oggi e di cui mi occuperò ancora nella quinta conferenza per quanto riguarda la sua interazione con gli altri campi. Ma c’è anche la vita culturale autonoma, in cui soprattutto la pubblica istruzione viene amministrata nel modo a cui ho accennato ieri e che descriverò ulteriormente dopodomani.

Ma coloro che sono gli amministratori della vita culturale dovranno nel contempo fornire i giudici, ed ogni uomo avrà il diritto e la possibilità di decidere lui stesso da quale giudice vuol essere giudicato – diciamo addirittura per un certo periodo di tempo – nel caso in cui debba essere giudicato per faccende civili o penali. L’uomo designerà così il proprio giudice in base alle effettive condizioni di vita individuali.

E il giudice, che non è un burocrate legale ma che viene designato dall’organismo culturale in base al rapporto che stabilisce con il proprio ambiente, sarà anche in grado di giudicare nel contesto del suo ambiente sociale colui che gli sta di fronte in attesa di giudizio.

 

Si tratta di nominare i giudici non a partire da esigenze statali, ma in base a motivi simili a quelli in vigore nella libera vita culturale, che consentono di mettere in un dato posto il miglior maestro. Il diventare giudice sarà qualcosa di analogo al diventare insegnante o educatore.

Naturalmente, in tal modo il far giustizia si discosta dal legiferare, che avviene in modo democratico. Proprio nel caso della giustizia penale vediamo come ciò che riguarda il singolo esuli dal diritto – che è uguale per tutti – e può essere perciò valutato solo a livello individuale.

L’accertamento del diritto è una questione eminentemente sociale, ma nel momento in cui si ha necessità di rivolgersi a un giudice, si ha di solito a che fare con una questione asociale o antisociale, con qualcosa che trasgredisce il sociale. Tutte queste questioni sono perciò in sostanza individuali, come lo sono i rami amministrativi della vita culturale, in cui rientra pure la giurisprudenza, la giurisdizione, che va al di là dei confini della democrazia.

 

Vedete quindi, cari ascoltatori, che si tratta in effetti di attuare nella sua realtà ciò che fra gli uomini dà origine alla vita giuridica.

Allora questa vita giuridica non sarà una pura sovrastruttura della vita economica, ma potrà agire in essa e su di essa. Per capire cosa deve accadere in questo campo non basterà affatto una visione puramente teorica, ma occorrerà osservare la vita pratica e dirsi: una vera vita giuridica con un’adeguata forza propulsiva può nascere solo se viene creato un terreno giuridico autonomo.

Questo terreno giuridico è oggi scomparso, sommerso dalla vita economica che ha fagocitato ogni cosa. La vita giuridica si è trasformata in un’appendice della vita economica; deve tornare ad essere indipendente, così come anche la vita culturale deve emanciparsi da quella economica.

 

Per vederci chiaro nella questione sociale, è necessario superare il grave errore, l’idea sbagliata secondo la quale è sufficiente trasformare le istituzioni economiche perché tutto il resto venga poi da sé. Questa convinzione illusoria è sorta perché negli ultimi tempi la vita economica è diventata prepotente.

Ci si lascia influenzare in maniera suggestiva dal solo potere rimasto, quello della vita economica, ma così non si arriva mai a risolvere la questione sociale. Gli uomini, specialmente gli appartenenti alla classe operaia, si culleranno in illusioni; vorranno ricavare dalla vita economica quella che chiamano equa distribuzione dei beni. Ma questa equa distribuzione dei beni potrà essere realizzata solo se nell’organismo sociale ci saranno gli uomini capaci di promuovere le dovute misure per soddisfare le esigenze economiche.

 

Questo potrà accadere soltanto se ci si renderà conto che la soddisfazione delle rivendicazioni sociali non dipende unicamente dalla trasformazione della vita economica, ma anche dalla risposta alla domanda: che cosa va posto accanto alla vita economica affinché questa possa essere resa sociale dagli uomini che diventano essi stessi sociali grazie alla vita giuridica e a quella culturale? È questo che deve contrapporsi come verità ad una superstizione, a un dogma.

 

E coloro che cercano nella sola vita economica i rimedi atti a far guarire l’organismo sociale devono venir rinviati alla cultura e al diritto. Non devono sognare, affermando che il diritto è solo un fumo che esala dalla vita economica, ma devono imparare a pensare in modo aderente alla realtà che, proprio per il fatto che il diritto e la coscienza del diritto sono passati in secondo piano in quanto sommersi dalla vita economica, per la socializzazione della vita pubblica abbiamo bisogno che venga creato veramente un organismo giuridico dotato dell’adeguata forza propulsiva.