Le differenziazioni fra le diverse età della vita umana

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 19.07.1924


 

Dalle osservazioni fatte nel corso degli ultimi due giorni si sarà potuto vedere che le singole età della vita presentano una differenza essenziale nell’intima costituzione dell’essere umano. Le attuali considerazioni della psicologia e della fisiologia ne tengono pure conto. Si hanno queste differenziazioni nel periodo dalla nascita fino alla seconda dentizione, poi in quello che arriva alla maturità sessuale, e da questa fin dentro al terzo decennio della vita. Queste differenziazioni sono però più profonde di quanto possiamo ricavare oggi dalle concezioni abituali, ottime ma non sufficienti. Si tratterà ora di esaminare queste differenziazioni fra le diverse età della vita umana, partendo dal punto di vista messo in evidenza dalla scienza dello spirito. Verranno dette molte cose già note, soltanto in modo più approfondito.

 

Allorché il bambino, dallo stato embrionale, entra nel mondo esterno, quando – se vogliamo considerare un segno esteriore – inizia il processo respiratorio esteriore, egli non si trova fisiologicamente preparato per essere accolto immediatamente nel mondo esterno; infatti, normalmente, egli riceve il latte materno; dunque, non un alimento preso dal mondo esterno, ma proveniente dalla medesima fonte da cui egli stesso proviene. Oggi si considerano le sostanze che si trovano nel mondo, più o meno, soltanto a seconda delle loro caratteristiche esteriori, chimiche e, fisiche, e non già in base alle più sottili proprietà che esse hanno grazie al loro contenuto spirituale. Oggi tutto vien considerato in tal maniera. Con questo modo di considerare le cose – che non dobbiamo criticare, ma riconoscere nella sua fondatezza – volendo studiare il mondo esterno come non potevano farlo le passate civiltà, si è però giunti ad una notevole esteriorizzazione. Oggi si osservano le cose, per dirlo con un paragone, nel modo seguente: consideriamo la morte, il morire; muoiono le piante, muoiono gli animali, muoiono gli uomini. Resta però da vedere se il morire, la cessazione delle forme di vita quali ci si presentano, sia il medesimo processo nelle tre specie di esseri viventi, oppure se tale si mostri soltanto esteriormente. Possiamo valerci del seguente paragone. Quando ho in mano una lama, sarà pur cosa diversa se con essa io taglio dei cibi o se con essa mi rado; è sempre una « lama », ma le sue qualità, come lama, vanno differenziate; tale distinzione, oggi, per molte cose, non si fa; non la si fa per il morire di una pianta, di un animale o dell’uomo.

 

La cosa ci si presenta anche in altri campi. C’è chi vuol essere filosofo della natura e che, aspirando ad essere assolutamente idealista, persino spiritualista, asserisce che anche le piante possono essere dotate di anima; ricerca quindi esteriormente nelle piante i contrassegni che parlano in favore della presenza in esse di un elemento animico. Ne osserva alcune che, all’avvicinarsi di un insetto, in certo qual modo aprono le loro foglie; l’insetto vi si impiglia, attirato dallo odore della pianta — per esempio la dionea, che chiude le sue foglie — e vi resta imprigionato. Ciò si considera manifestazione animica della pianta. Certo io conosco anche una altra specie di essere che agisce in modo analogo. Lo si potrà trovare posto in un luogo qualsiasi: quando un topo gli si accosta, attirato forse dall’odore del cibo da lui preferito, ed incomincia a roderne qualche boccone… paffete, l’ordigno si chiude: è una trappola! Sarebbe possibile, seguendo pensieri analoghi a quelli osservati per la pianta, dire della trappola che anch’essa è dotata di anima.

 

Questo modo di pensare che, sotto certi riguardi, può anche venire apprezzato, non conduce però in profondità, ma li limita più o meno ad un’osservazione superficiale. Ora, chi vuole conquistarsi la conoscenza dell’uomo deve assoluta- mente penetrare nella piena profondità della natura umana. Dobbiamo perciò avere la possibilità di considerare spassionatamente anche quel che sembra paradossale ad un’osservazione esteriore. È pertanto necessario considerare la piena e totale organizzazione dell’uomo.

 

Prima di tutto abbiamo nell’uomo il vero e proprio organismo fisico. L’uomo lo possiede come tutti gli esseri sulla terra, soprattutto come i minerali. Dobbiamo pure distinguere nettamente nell’uomo il suo organismo fisico da quello eterico. Questo l’uomo non lo possiede in comune con i minerali, ma soltanto col mondo vegetale. Un essere che avesse soltanto un organismo eterico, non giungerebbe però mai alla sensazione, alla coscienza interiore. L’uomo possiede quindi, in comune col mondo animale, il proprio corpo astrale (tutto ciò può sembrare ima divisione esteriore, ma nel corso di queste conferenze vedremo come essa sia cosa intima). Inoltre egli ha la propria organizzazione egoica che non si trova nel regno animale e che, fra tutte le creature della terra, è propria soltanto all’uomo. Quanto si è detto non è affatto un mero schema esteriore; anche se per esempio parliamo di « corpo eterico o vitale » non intendiamo rifarci a ciò che una scienza naturale sorpassata chiamava « forza di vita », « forza vitale » eccetera, ma riportiamo il risultato di osservazioni. Se si considera il fanciullo fino alla seconda dentizione, si constata che il suo sviluppo dipende prevalentemente dall’organismo fisico ; questo deve per prima cosa adattarsi al mondo esteriore. Ma non può farlo subito, neppure nel significato fisicamente più grossolano. Poiché contiene in sé quanto porta seco dal mondo spirituale, ove soggiornava nella vita preterrena, l’uomo non può, così senz’altro, accogliere le sostanze del mondo esterno; egli deve accoglierle preparate nel latte materno. Egli deve, per così dire, attenersi a ciò che gli è affine; deve crescere adattandosi man mano al mondo esterno. Questo adattamento dell’organismo fisico al mondo esterno si conclude con la seconda dentizione, intorno al settimo anno di vita. In certo modo, questo è il punto d’arrivo del processo che ha portato l’organismo fisico del fanciullo ad inserirsi nel mondo esterno.

 

In questo periodo, in cui l’organismo è rivolto principalmente alla conformazione dello scheletro, il fanciullo ha interesse soltanto per date cose del mondo esteriore, non per tutto. Egli ha interesse soltanto per quanto può chiamarsi gesto, atteggiamento, movimento. Occorre considerare che all’inizio lo stato di coscienza del bimbo è sognante, crepuscolare, che egli percepisce dapprima tutto ottusamente e che soltanto man mano viene chiarendosi la sua facoltà percettiva. In sostanza resta il fatto che nel periodo fra la nascita e la seconda dentizione il bambino resta legato con la sua percezione a quanto è gesto, atteggiamento e movimento, ed in modo che, nell’attimo in cui egli percepisce un movimento, prova la spinta interiore ad imitarlo. Esiste nella natura umana una ben determinata legge di evoluzione che posso descrivere nel modo seguente.

 

Mentre l’uomo, crescendo, si inserisce nel mondo fisico, terreno, la sua parte interiore si evolve a tutta prima in modo che lo sviluppo prenda le mosse dall’atteggiamento, dal movimento. Nell’organismo, dal movimento si sviluppa quindi il linguaggio, e dal linguaggio il pensiero. Questo sta come una legge importantissima alla base dello sviluppo dell’uomo. Tutto ciò che si manifesta nel suono, nel linguaggio, trasmesso attraverso l’intima organizzazione umana, è il risultato di gesti.

 

Se si osserva attentamente un bambino mentre impara non soltanto a parlare, ma anche a camminare, a poggiare il piede, si nota che un bimbo poggia più fortemente sulla parte posteriore del piede, sul tallone, un altro sulle punte dei piedi. Alcuni bambini, mentre imparano a camminare, hanno la tendenza a spingere avanti le gambe, mentre In altri prevale la tendenza a puntare i piedi, direi quasi ad indugiare fra un passo e il successivo. E’ enormemente interessante vedere un bimbo che impara a camminare! Bisogna imparare ad osservarlo. Ma molto più importante ancora – e ancor meno vi si bada – è osservare come il bambino impara ad afferrare le cose, a muovere le mani. Ci sono bambini i quali, allorché vogliono una cosa, muovono le manine in modo da mettere in movimento appunto le dita; altri tengono le dita ferme e afferrano con le dita ferme. Ci sono bambini che tendono la mano e il braccio, mentre il busto rimane immobile; altri invece accompagnano subito con il busto il gesto del braccio e della mano. Conobbi un piccolino che, seduto a qualche distanza da un tavolo, se sopra vi stava posato un cibo cui voleva arrivare, addirittura « remava » in quella direzione; metteva cioè in moto tutto il corpo. In genere quel bambino non faceva alcun movimento con le braccia o con le gambe senza che il corpo intero si mettesse in movimento.

 

È questa la prima cosa da osservare nel bambino; poiché il modo in cui egli si muove è il primo intimo segno di vita, il primordiale manifestarsi della vita. Appunto nel suo muoversi appare subito la tendenza ad adeguarsi agli altri, a fare movimenti analoghi a quelli che fanno padre, madre o altri membri della famiglia. Il principio dell’imitazione si palesa nel gesto, nell’atteggiamento. Poiché qualsiasi gesto è la prima cosa che esiste nello sviluppo umano. E il gesto si trasmuta interiormente nella particolare disposizione dell’organismo umano: fisico, animico e spirituale, si trasmuta nel linguaggio. Chi è in grado di osservare tutto questo, sa esattamente che un fanciullo parla a frasi scandite se nel camminare poggia sul calcagno, che un altro parla facendo fluire le frasi l’una nell’altra se nel camminare si appoggia sulle dita dei piedi, che un terzo, se afferra subito con le dita, dà risalto alle vocali, che un altro ancora, infine, ha maggiore disposizione ad accentuare le consonanti quando si serve del braccio intero per afferrare una cosa qualunque. Il linguaggio reca l’impronta esatta delle disposizioni del fanciullo. E comprendere il mondo, comprenderlo sensatamente, pensatamente, è cosa che a sua volta si sviluppa dal linguaggio. Non il pensiero crea il linguaggio, bensì il linguaggio crea il pensiero. Altrettanto è per l’umanità intera, nel suo sviluppo culturale; prima gli uomini parlarono, poi pensarono. Così accade anche nel bimbo: anzitutto egli impara a parlare, ad articolare, partendo dal movimento, e soltanto poi, dal linguaggio, scaturisce l’attività pensante. Dovremo perciò considerare come cosa importante questa successione: gesto – linguaggio – pensiero o attività pensante.

 

Tutto ciò ha il suo speciale carattere nella prima parte della vita, fino alla seconda dentizione. Allorché il bambino via via si inserisce nella vita, nel primo, secondo, terzo e quarto anno di vita, egli lo fa appunto mediante il gesto; tutto dipende dal gesto. Direi che, in alto grado, il parlare e il pensare avvengono incoscientemente, si adeguano cioè al gesto. Approssimativamente possiamo perciò dire che nel periodo di tempo intercorrente fra il primo e il settimo anno, la vita del bambino è basata in prevalenza sul gesto — ma « gesto » inteso nel significato più vasto, gesto che nel bambino vive nell’imitazione. Questa è cosa di cui dobbiamo esattamente tener conto per l’educazione, perché fino alla seconda dentizione veramente il fanciullo nulla accoglie all’infuori del gesto; si chiude verso tutto il resto. Quando diciamo al bambino di fare una cosa o un’altra, in realtà egli non ascolta, non ci bada; soltanto se ci mettiamo davanti a lui e facciamo quel che vogliamo da lui, egli allora ci imita. Poiché il bimbo agisce nel modo in cui io stesso mi muovo, guarda una cosa nel modo come io la guardo; non in base a quanto io gli dico. Egli imita tutto. Questo è il segreto dello sviluppo infantile fino alla seconda dentizione: il bimbo vive tutto nell’imitazione, vive imitando in tutto ciò che, nel più ampio significato della parola, gli si presenta da fuori come gesto. Da qui le sorprese che risultano quando si devono educare dei bambini nell’età infantile. Per esempio, una volta venne da me un padre e mi disse: Che debbo fare? mi succede un fatto terribile! il mio ragazzo ha rubato! ▸ « Prima di tutto — risposi — vediamo se ruba davvero; che cosa ha fatto? » E il padre raccontò che il ragazzo aveva preso denaro dall’armadio e si era comperato dei dolci distribuendoli fra i suoi amici. Gli feci notare che probabilmente da quello stesso armadio il ragazzo aveva visto spesso sua madre togliere i denari per la spesa e che, naturalmente, il ragazzo imitava la azione vista. Così era infatti. Seguitai col dire che questo non è « rubare », ma che il processo di sviluppo del bimbo, fino alla seconda dentizione, porta con sé, in via naturale, che egli Imiti ciò che vede fare; e così deve essere. Di conseguenza, In presenza del bimbo, si deve evitare qualsiasi cosa che egli non debba imitare; in questo modo lo si educa. Il dire: « questo lo devi fare e quest’altro no », fino alla seconda dentizione, non esercita influenza alcuna sul bambino. Tutt’al più l’ammonimento può servire, se lo si riveste nel gesto, dicendo per esempio: « Tu ora hai fatto una cosa che io non farei mai! », perché queste parole sono come un gesto rivestito.

 

Importa rilevare con tutto il proprio essere come il bambino, fino alla seconda dentizione, sia un essere che tutto imita. Durante questo periodo esiste proprio un certo intimo collegamento del bimbo col suo ambiente, con quanto di attivo lo circonda, collegamento che più tardi va perduto. Infatti, per quanto possa sembrare strano e paradossale agli uomini di oggi che pensano allo spirituale non come esistente nella realtà, ma soltanto come un’astrazione, avviene proprio che l’intero rapporto del fanciullo con ogni gesto del suo ambiente, abbia un carattere per sua natura religioso. Il bambino, mediante il suo corpo fisico, è dedito a tutto ciò che è gesto, non può fare assolutamente altro che abbandonarsi ad esso. Ciò che noi, più tardi, facciamo mediante l’anima, e più tardi ancora mediante lo spirito, vale a dire il darci all’elemento divino, al mondo esteriore di nuovo sentito come pervaso di spirito, il bambino lo fa col suo corpo fisico, appunto mettendosi in movimento. Con le sue qualità buone o cattive, egli è propriamente tutto quanto immerso nell’elemento religioso. A noi, più tardi, non resta che la parte animica spirituale, che il fanciullo ha pure nel suo organismo fisico. Perciò se vicino al fanciullo vive un padre di natura leonina che si lascia spesso andare a delle sfuriate e sfoga i suoi moti interiori in presenza del bimbo, ci dobbiamo render conto che, interiormente, il bimbo non comprende ancora quanto vive nei moti dell’anima, ma in ciò che vede egli sperimenta qualcosa che non è morale. Insieme con l’ira, il fanciullo vede così, inconsapevolmente, l’elemento morale perché non gli perviene soltanto l’immagine esteriore del gesto, ma ne accoglie intero il valore morale. Se faccio un gesto di rabbia, esso scende fin dentro nell’organismo sanguigno del fanciullo, e se questi gesti si ripetono, diventano espressione della sua stessa circolazione sanguigna. Il suo corpo fisico si organizza in base ai gesti, agli atteggiamenti del suo ambiente. Oppure, se vicino al fanciullo non mi comporto amorevolmente, se, senza badare a lui, compio una cosa conforme soltanto all’età matura, se non ho sempre presente che il bambino è attorno a me, allora può accadere che il bimbo si dedichi con amore a cose non infantili, adatte soltanto ad adulti; su questi elementi si organizzerà allora il suo corpo fisico. Chi osserva tutto il corso della vita umana, dalla nascita fino alla morte, tenendo presente quanto ho detto, vede che un fanciullo, nei cui confronti ci si è comportati in tal modo, lasciandogli cioè imitare anche le cose adatte soltanto ad un’età più tarda, dopo i cinquant’anni soffrirà di sclerosi. Occorre rendersi conto di ciò in tutto il suo insieme; le malattie che insorgono in vecchiaia, spesso non sono che la conseguenza di errori di educazione commessi nel periodo della prima infanzia.

 

Un’educazione realmente fondata sulla conoscenza dell’uomo deve dunque osservare tutto l’uomo dalla nascita alla morte; l’essenza della conoscenza antroposofica sta appunto nell’osservare l’uomo intero. Si scopre allora che esiste un collegamento molto forte tra il bambino ed il suo ambiente; direi quasi che l’anima infantile si immedesima nel proprio ambiente, lo sperimenta nell’intimo, con un rapporto molto più intenso di quanto non avvenga in età successive. Da questo punto di vista, il bambino, che però è compenetrato di spirito e di anima, è ancora assai vicino all’animale; sia pure in modo più grossolano, anche l’animale è in rapporto con l’ambiente. Per non aver osservato bene i particolari, molti fenomeni recenti sono rimasti inesplicabili, come per esempio « i cavalli che fan di conto », fenomeno che negli ultimi tempi ha suscitato tanta curiosità: si tratta di cavalli che eseguono semplici operazioni aritmetiche con lo scalpitare dei piedi. Io non ho visto i famosi cavalli di Elberfeld, ma quello di von Osten. Anche quel cavallo eseguiva dei conteggi apprezzabili. Il signor von Osten domandava per esempio: quanto fa la somma di sette più cinque? e poi incominciava a contare dall’uno in avanti; al dodici il cavallo batteva la zampa in terra. Sapeva fare addizioni, sottrazioni eccetera. Vi fu anche un libero docente che studiò il problema e scrisse sull’argomento un libro oltremodo interessante. Egli parte dal concetto che il cavallo veda certi lievissimi gesti del signor von Osten che gli è sempre accanto; pensa cioè che quando il suo padrone conta fino a dodici, e il cavallo batte la zampa appunto al dodici, il signor von Osten, pronunciando il dodici, faccia un piccolo gesto, rilevato dal cavallo che perciò scalpita. Egli è dell’opinione che tutto vada fatto risalire a qualcosa di visivo, e solleva egli stesso il quesito: perché non lo vediamo tutti, quel gesto, eseguito così finemente dal signor von Osten, quel gesto che il cavallo scorge e che lo fa scalpitare al numero dodici? Risponde lo stesso libero docente che quei gesti sono talmente sottili che l’uomo non può scorgerli. (Ciò permetterebbe tra l’altro di concludere che un cavallo vede meglio di un libero docente!)

 

Per conto mio, tutto ciò non calza assolutamente. Io vedevo il miracolo del cavallo intelligente, il suo nome era Hans, con accanto il signor von Osten nella sua palandrana. E vedevo anche che nella tasca destra del suo mantello vi erano molte zollette di zucchero; durante l’esperimento egli offriva al cavallo, una dopo l’altra, zollette di zucchero, sicché l’animale sentiva che qualcosa di dolce partiva dal suo padrone: si formava una specie di « amore » tra padrone e cavallo. Solo quando ciò esista, quando, in certo modo, l’intimo del cavallo sia inserito nell’intimo del signor von Osten — grazie a quel fiume di dolciumi che da lui scorre — allora il cavallo fa i conti, in quanto effettivamente accoglie in sé qualcosa; non attraverso dei gesti, ma attraverso ciò che il suo padrone pensa. Il padrone pensa: cinque più sette è uguale a dodici, e il cavallo rimane come suggestionato da questo pensiero, sì da formarne in sé effettivamente come un’impronta. È realmente visibile il fatto che cavallo e padrone animicamente si compenetrano; tramite il dolce, quando sono compenetrati, essi si trasmettono qualcosa a vicenda. Lo animale dunque possiede ancora questo rapporto sottile col mondo circostante; rapporto che inoltre può essere ancora stimolato da fuori come avviene nel caso in questione, mediante lo zucchero.

 

Un tale rapporto col suo ambiente è presente ancora nel fanciullo in modo sottile, e bisognerebbe tenerne conto. Perciò, per esempio, l’educazione nell’asilo infantile non può mai basarsi che sul principio dell’imitazione. Bisogna far sedere i bambini intorno a noi e veramente, davanti a loro, fare noi stessi ciò che essi devono fare, affinché possano imitarci. Prima della seconda dentizione tutta l’educazione e l’istruzione deve poggiare sul principio dell’imitazione.

 

Superato il periodo della seconda dentizione, il bambino si rivela mutato. La sua vita animica cambia completamente, e il fanciullo non percepisce più soltanto i gesti singoli, ma anche la correlazione che vi è fra di essi. Mentre prima, per esempio, sentiva soltanto una linea determinata, ora acquista sensibilità per l’accordo, per quanto è simmetrico. Sorge in lui il senso per gli accordi e per le discordanze; nell’anima del fanciullo appare la possibilità di percepire « in immagini ». Nel momento in cui percepisce in immagini sorge in lui l’interesse per il linguaggio. Nei primi sette anni di vita, il bambino ha interesse per il gesto, per il movimento; nel periodo tra i sette e i quattordici anni, invece, per tutto ciò che è immagine, e il linguaggio è immaginativo per eccellenza. Dopo la seconda dentizione, l’interesse del fanciullo passa dal gesto al linguaggio. Durante il periodo in cui egli frequenta la scuola elementare, circa fra la seconda dentizione e la pubertà, possiamo agire su di lui in prevalenza attraverso tutto ciò che vi è nel linguaggio e anche attraverso quanto vi è di morale nel linguaggio. Come prima il fanciullo si comportava religiosamente di fronte al suo ambiente nel gesto, egli ora, poiché l’elemento religioso diviene gradualmente animico, si comporta moralmente di fronte a quanto gli si presenta nel linguaggio.

 

In questa età, noi dobbiamo dunque imparare ad agire sul fanciullo mediante il linguaggio. Ma questa azione può effettuarsi se si agisce attraverso una naturale autorità. Se voglio dare un’immagine al bambino attraverso il linguaggio, io devo essere per lui un’autorità naturale, spontanea. Come, fino alla seconda dentizione, noi dobbiamo essere il modello per le azioni del bambino, così, fra la seconda dentizione e la pubertà, dobbiamo diventare per lui di umano esempio. Vale a dire, non ha senso alcuno, per questa età, ragionare col fanciullo, dargli delle ragioni, fargli capire il perché egli deve fare o tralasciare una cosa; il fanciullo non ascolta, e occorre comprendere che è così. Proprio come nella sua primissima età il fanciullo non rileva se non il gesto, ora, fra la seconda dentizione e la pubertà, egli rileva soltanto ciò che, come uomo, io sono per lui. Per esempio, tutto quanto riguarda la moralità, il bambino, in quest’età, lo deve apprendere considerando « buono » ciò che la naturale autorità dell’insegnante indica, mediante il linguaggio, come « buono »; e « cattivo », ciò che la medesima autorità considera tale. Il fanciullo deve imparare: è bene, è buono quello che la persona autorevole fa; è male ciò che essa non fa; oppure, è bene quanto la persona autorevole dice che è bene; è male quanto essa dice che è male. Dopo aver scritto trent’anni fa la mia Filosofia della libertà, non dovrei ora esser sospettato di sostenere il principio dell’autorità quale unica via di salvezza; ma appunto conoscendo l’essenza della libertà si sa pure che il fanciullo, fra la seconda dentizione e la maturità sessuale, in virtù della natura umana, deve star di fronte ad un’autorità naturale. Se non si tien conto di questo rapporto del fanciullo verso l’autorità naturale della personalità dell’educatore e del maestro, si commette un errore pedagogico. Per tutto quanto il fanciullo deve fare o non fare, pensare o non pensare, sentire o non sentire, egli deve trarre la direttiva da ciò che, per mezzo del linguaggio, gli viene incontro dall’educatore e dal maestro. Perciò non ha senso, in questo periodo della sua età, volergli far comprendere qualcosa mediante l’intelletto. Durante questo periodo, tutto deve essere orientato verso il sentimento, poiché il sentimento accoglie l’elemento immaginativo, e sull’elemento immaginativo, sull’armonizzarsi dei particolari, è organizzata questa età infantile. Perciò anche i principii della morale, per esempio, non si possono far conoscere al bambino con lo stabilire dei comandamenti: « questo devi farlo, quest’altro non lo devi fare! » Ciò non serve. Serve invece se, dal modo con cui si parla, il bambino, nel proprio intimo, prende piacere per quello che è buono e dispiacere per quello che è cattivo. Fra la seconda dentizione e la pubertà, il fanciullo è un « esteta », e bisogna far di tutto perché egli si compiaccia del bene e abbia disgusto per il male. In questo modo egli maturerà pure il suo senso morale.

 

Sinceri, interiormente sinceri, noi dobbiamo essere inoltre, in questo lavoro immaginativo vicino al fanciullo. Ciò richiede che di ogni nostra azione, noi siamo profondamente e interiormente compenetrati. Non lo saremo se vicino al fanciullo si sveglierà subito in noi il pensiero di essere noi intelligentissimi e lui sciocco. Una tale idea sciupa tutta l’educazione e, nel fanciullo, anche il senso dell’autorità. Che cosa invece dovrò trasformare in immagine, per darlo al mio, allievo? Scelgo in proposito l’esempio seguente.

 

Non si può parlare al bambino dell’immortalità dell’anima come se ne parlerebbe con un adulto: e tuttavia bisogna che gliene parliamo. Soltanto che il concetto dovrà essere trasformato in un’immagine; e dobbiamo — anche per ima ora intera — sviluppare l’immagine seguente. Spieghiamo al fanciullo che cosa sia un bozzolo e diciamogli: più tardi, dal bozzolo volerà fuori la farfalla; il bozzolo già contiene in sé la farfalla; questa non è ancora visibile, non è ancora sviluppata al punto da poter volare fuori, tuttavia essa è già dentro al bozzolo. Seguitando, possiamo poi dire: in modo analogo, il corpo umano già contiene l’anima; soltanto essa non è visibile; alla morte, però, l’anima vola fuori dal corpo; la differenza tra l’uomo e la farfalla sta soltanto in questo: che la farfalla è visibile, e l’anima umana no. Così possiamo parlare al fanciullo dell’immortalità dell’anima, e trasmettergli dell’immortalità un concetto giusto, adeguato alla sua età. Guardiamoci però dallo stare accanto al fanciullo e dal dirci: Io so ben altro! io sono filosofo, e l’immortalità me la dimostro grazie al mio pensiero; il fanciullo è un ingenuo, è uno sciocco, ed io non faccio che creare l’« immagine » della farfalla che sbuca fuori. Se si pensa così, si passa dinanzi al fanciullo senza capirlo, e nulla egli ne guadagna. Una sola è la via possibile: bisogna noi stessi credere a questa immagine, non bisogna voler essere più intelligenti del bambino, ma accanto a lui credere come lui. Come è possibile far ciò? Chi è antroposofo, chi si occupa di scienza dello spirito sa che la fuoruscita della farfalla dal bozzolo è un’immagine che il mondo divino ha dato per dimostrare l’immortalità dell’anima umana. Egli non pensa mai diversamente, se non che gli dei hanno impresso nel mondo l’immagine della farfalla che sguscia fuori dal bozzolo a dimostrazione dell’immortalità dell’anima; egli ha una concezione della natura, tutta spirituale, ed è in grado di spiegare al fanciullo che la cosa sta così. In tutti i gradini inferiori del processo, egli vede i processi superiori divenuti astratti. Se io non ho il concetto che il fanciullo sia sciocco ed io intelligente, ma se invece gli sto dinanzi ben consapevole che tale è la realtà del mondo, se io illustro al fanciullo qualcosa a cui credo io stesso nel modo più intenso, allora ne risulta un rapporto imponderabile, e il fanciullo progredisce realmente nella sua educazione. Attraverso i rapporti educativi corrono incessantemente dei fili morali imponderabili, e questo è l’importante.

 

Se ci rendiamo conto di ciò, nell’istruzione e nell’educazione, da tutto il nostro atteggiamento risulterà ovunque quanto è giusto. Prendiamo un esempio. In che modo il bambino dovrà imparare a leggere e a scrivere? Veramente, considerando l’imparare a leggere e a scrivere una necessità, a ciò si accompagnano guai ben più grossi di quanto si giudichi di solito su tale argomento col normale discernimento umano. Lo si considera una necessità, e perciò il fanciullo deve venire addestrato comunque affinché egli impari a leggere e u scrivere. Ma riflettiamo un poco che cosa significhi per lui! Gli uomini ormai adulti non hanno disposizione a trasferirsi nell’anima infantile per sperimentare quel che prova il bambino, quando impara a leggere e a scrivere. La nostra civiltà attuale ha delle lettere: a, b, c, eccetera, e noi le abbiamo davanti in date figure. Ebbene, il bambino possiede il suono « ah », e quando lo usa, tale suono è per lui l’espressione di un intimo stato d’anima. Egli usa questo suono allorché sta dinanzi ad una cosa, ammirato, stupito, o in un simile stato d’anima. Il bambino comprende il suono quando esso è collegato con la natura umana. Oppure egli si avvale del suono « eh ». Quando se ne serve? Allorché vuole indicare che qualcosa gli si è avvicinato, che egli lo ha sperimentato, e che esso ha avuto un’azione su di lui. Se uno mi punge, io dico « eh »! Così avviene pure per le consonanti. Ogni suono corrisponde ad una manifestazione di vita: le consonanti imitano un mondo esteriore; le vocali esprimono quel che si sperimenta interiormente nell’anima. La scienza del linguaggio, la filologia, arriva a questo soltanto nei suoi primi elementi. I filologi più dotti hanno riflettuto sul come, durante il corso dell’evoluzione umana, possa essersi formato il linguaggio. In proposito si stabilirono due teorie. L’una sostiene che il linguaggio deriva dalle esperienze animiche, il che già si verificherebbe, nelle forme più primitive, nell’animale, e così una qualsiasi esperienza animica fa fare « muh » alla mucca o « bau-bau » al cane. Allo stesso modo e in maniera più complicata, quel che nell’uomo diviene poi favella articolata dovrebbe provenire da questo ansito interiore di portare ad espressione le proprie sensazioni.

 

Questa concezione – un po’ umoristicamente – la si suol chiamare « la teoria del bau-bau ». L’altra opinione parte dall’idea che, nel suono articolato, si imita quello che accade esteriormente. Quando suona una campana, col linguaggio si può cioè imitare quanto accade in essa: « din-dan, din-dan ». Qui si cerca di imitare il suono esteriore. E’ la teoria che fa derivare il linguaggio da una ripetizione, da un’imitazione di avvenimenti esteriori: « la teoria del din-dan ». Queste due teorie si stanno dunque di fronte; e non lo dico umoristicamente, poiché in realtà esse sono giuste entrambe: l’una per le vocali, e l’altra per le consonanti. Nel trasporre i gesti nei suoni, noi impariamo, mediante le consonanti, ad imitare interiormente i fatti esteriori, e, nelle vocali, conformiamo esperienze interiori dell’anima. Il mondo interiore e quello esteriore confluiscono nel linguaggio. Ciò è conforme alla natura umana, ed essa capisce questo processo.

 

Ora il bambino entra nella scuola elementare: grazie alla sua interiore organizzazione, egli è divenuto un essere parlante. Ma ecco che, di colpo, egli dovrebbe sperimentare un rapporto – per misurare bene le mie parole, non dico « conoscere », ma « sperimentare » un rapporto – fra lo stupore, la meraviglia dell’« ah » e il segno demoniaco di una « a ». Tutto ciò è totalmente estraneo al bambino. Egli deve imparare a mettere in rapporto con il suo « ah » una cosa che gli è lontanissima. Per lo stato d’animo infantile questo è un’assoluta impossibilità! Il fanciullo si sente come torturato se noi prendiamo le mosse dalle attuali forme delle nostre lettere alfabetiche.

 

A questo punto possiamo però fare una riflessione. L’umanità non ha sempre avuto le lettere dell’alfabeto che usa oggi. Popoli antichi ebbero una scrittura ideografica, vale a dire che essi rendevano accessibili ai sensi ciò che volevano esprimere, e lo facevano mediante figure che avevano qualcosa a che fare con quanto veniva detto. Non avevamo lettere dell’alfabeto come noi, bensì immagini che avevano una relazione con quello che esprimevano (in un certo senso si potrebbe dire la stessa cosa dei caratteri cuneiformi). Erano tempi in cui, quando si fissava qualche cosa, si aveva ancora, nei suoi rispetti, un rapporto umano. Oggi non l’abbiamo più; ma col fanciullo si deve ritornare a quel rapporto. Non si tratta ora di studiare la storia della civiltà e risalire alle antiche forme di scrittura immaginativa; ma per arrivare ad immagini adoperabili occorrerà soprattutto mettere in movimento la propria fantasia di maestro e di educatore. La fantasia è indispensabile, poiché senza di essa non si può essere né maestri né educatori. Perciò, allorché si tratta di caratterizzare cose provenienti dal campo antroposofìco, dobbiamo parlare di fervore, di entusiasmo. Mi sento sempre molto poco edificato quando, per esempio, entro In un’aula della nostra Scuola Waldorf e mi accorgo che la maestra o il maestro sono stanchi, insegnano partendo da un certo stato di stanchezza. Insegnare così è addirittura cosa Impossibile! Non posso essere stanco mentre insegno; posso soltanto essere entusiasta, presente con tutto me stesso. È un errore madornale essere stanchi se si vuol far lezione! è uno stato d’animo da riservare ad altro! Dobbiamo dunque essere capaci, come maestri, di mettere in movimento la nostra fantasia. Che significa? Di fronte al bambino dovrò per esempio richiamarmi a cose che egli ha veduto al mercato o altrove, supponiamo ad una falce . Induco il fanciullo, permettendogli perfino di usare dei colori, a dipingere disegnando, o disegnare dipingendo, una falce. Dopo questo, gli faccio pronunciare il vocabolo « falce », non in fretta, ma scandendo ogni lettera : « f – al – ce ». Lo porto quindi a dire il solo inizio della parola: « f », e trasformo man mano la forma della falce in questo disegno simile ad una falce, mentre contemporaneamente porto il bimbo a pronunciare la « f » ; la « f » è così nata!

 

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Oppure, faccio dire al fanciullo « valle » e gli spiego che cosa sia una valle; gli faccio dipingere anche questo, inducendolo a pronunciare la « v » all’inizio della parola valle ; poi trasformo il disegno della valle in una « v ».

 

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Continuando così, faccio sorgere dal disegno, dalla pittura, i segni delle lettere, come di fatto le lettere sono sorte. Non conduco il fanciullo ad uno stadio della civiltà che ancora non gli è congeniale, ma lo guido in maniera che mai s’interrompa il suo rapporto col mondo esteriore. La scrittura di oggi è nata infatti dai segni ideografici, come risulta studiando la storia della civiltà, ma non è indispensabile studiarla; basta mettere in moto la propria fantasia, e si guiderà allora il fanciullo a formare la scrittura facendola sorgere dal disegno a colori.

 

Ora, non si deve dare importanza soltanto all’aver fatto così qualcosa di molto spirituale, di aver creato un metodo nuovo. L’importante è come il fanciullo s’inserisce interiormente in qualcosa d’altro, se di continuo viene stimolata la sua attività animica. Ma certo egli non vi s’inserisce se vi vien spinto in modo da avere continuamente col suo ambiente dei rapporti che gli sono estranei. L’importante è proprio che si agisca sull’interiorità del fanciullo.

 

A quale « principio » si usa ispirarsi al giorno d’oggi? Forse ora non più tanto, ma fino a poco tempo fa alle bambine si davano in mano « belle » bambole, con capelli veri e con una bella faccina, le quali persino, poste a giacere, chiudevano gli occhi. Beninteso, in realtà esse sono orrende, perché non artistiche; ma si usa chiamarle « belle ». Che bambole son mai? Esse son fatte in modo che la fantasia infantile non viene sollecitata. Occorre invece fare in altro modo. Si annodi un fazzoletto in maniera che ne risulti una figura con braccia e gambe; poi si formino gli occhi con due macchie d’inchiostro, e forse ancora la bocca con inchiostro rosso: allora il bambino può sviluppare la sua fantasia per Vedere un uomo in quel fantoccio. Una cosa di questo genere agisce sul bambino con vivezza enorme, offrendogli l’occasione di mettere in moto la sua fantasia. S’intende che in precedenza dobbiamo averlo fatto noi stessi. Una tale possibilità va procurata al fanciullo, e già nella prima età dei giuochi. Perciò tutti i balocchi che non imprimono alcun impulso alla sua fantasia sono dannosi. Ho già detto che oggi sembrano superate le bambole belle, ma oggi si danno ai bimbi delle scimmie, oppure degli orsi; attorno a questi la fantasia non può certo edificarsi in maniera « umana ». Appunto il fenomeno di dare ai bimbi che abbiamo attorno degli orsi da coccolare, mostra quanto la nostra civiltà sia lontana dal saper guardare nell’intimo della natura umana. Ed è proprio molto notevole come i fanciulli sappiano elaborare, in modo spontaneamente artistico, appunto questa intima natura umana.

 

A tal fine, nella Scuola Waldorf, siamo passati dall’insegnamento solito ad una specie d’insegnamento artistico. Vale a dire, a parte il fatto che non cominciamo ad insegnare ai bambini a scrivere, ma che li facciamo disegnare e dipingere, si potrebbe anche dire che li lasciamo « pasticciare », (dopo si dovrà anche far pulire l’aula, cosa forse un po’ scomoda; domani esporrò pure come si passi dallo scrivere; al leggere) a parte questo fatto, dicevo, noi conduciamo anche i ragazzi, per quanto è possibile, nel campo artistico, facendo loro eseguire dei lavoretti in plastilina, senza portare il fanciullo ad altro se non alla forma che lui stesso vuol ottenere partendo dalla sua interiorità. In proposito si verificano cose ben singolari. Voglio citarne una che in modo mirabile appare nei fanciulli già più grandicelli.

 

La conoscenza del corpo umano costituisce materia d’insegnamento già relativamente presto, sui dieci, undici anni.

I fanciulli imparano a conoscere come le ossa sono conformate, costituite, come si reggono a vicenda, eccetera; e lo ‘ imparano artisticamente, non già in modo intellettuale. Orbene, il fanciullo ha avuto alcune di quelle lezioni che gli danno l’idea della struttura delle ossa umane, della loro dinamica, del loro vicendevole sostenersi. Passando poi nell’altra aula dove i fanciulli formano delle figure plastiche, vedendo quello che fanno, subito ci si accorge che hanno imparato qualche cosa della struttura ossea, e non già perché l’allievo copii le forme ossee, ma il modo come la sua anima è attiva interiormente si manifesta nella maniera in cui egli plasma le sue forme. Già prima, per esempio, il bambino s’ingegnava a costruire dei piccoli recipienti. Ai ragazzi viene spontaneo di fare oggetti simili a coppe, ma questi lavori, per la natura del fanciullo, si presentano in tutt’altro modo, prima o dopo un tale insegnamento, se l’esperienza è stata veramente quella che deve essere. Ma ciò richiede che la conoscenza del corpo umano venga impartita in modo da trasfondersi in tutto l’organismo del fanciullo, e oggi non è cosa facile.

 

Chi, come me, ha visitato un gran numero di artisti e veduto come molti dipingono e scolpiscono, sa pure che oggi quasi non esiste scultore che lavori senza modello; tutti devono tenersi dinanzi una forma umana per poterla modellare. Per un artista greco ciò sarebbe stato inutile. Certo un artista greco conosceva la forma umana dai diversi « giuochi », ma egli la sentiva interiormente. Dal modo come egli sentiva in sé la forma umana – e questo sentimento egli aveva senza bisogno del modello – l’artista greco conosceva la differenza fra un braccio semplicemente teso e un braccio che protenda anche l’indice. Egli poi incorporava tale sentimento nella forma. Nell’insegnare l’anatomia è oggi invalso l’uso di farlo in base a illustrazioni e disegni, sempre mettendo un osso vicino all’altro, un muscolo accanto all’altro, e così non si ha l’impressione di come tutto sia interdipendente. Nelle scuole Waldorf, i fanciulli sanno che una vertebra è simile all’osso del cranio, e acquistano un senso di che cosa sia la trasformazione delle ossa. S’immedesimano così nelle forme umane e si sentono spinti ad esprimere la cosa artisticamente. Il tutto penetra così nella vita, e non rimane una nozione esteriore.

 

Nasce da qui il mio forte anelito ed anche la mia esigenza, come direttore della Scuola Waldorf, affinché possibilmente tutto quanto è scienza – io stimo la scienza, e nessuno la stima più di me – tutto quanto è scienza fissata nei libri, debba essere lasciato fuori dall’insegnamento scolastico. Si può benissimo dedicarvisi fuori della scuola, se non se ne può fare a meno; ma andrei su tutte le furie se vedessi un maestro o una maestra, di fronte alla classe, con un libro in mano. Nell’insegnamento tutto deve essere interiore, ovvio. Per esempio, in che modo oggi si insegna la botanica? Possediamo dei testi di botanica: sono ripetizioni di concezioni scientifiche; ma il loro posto non è nella scuola, dove vi siano fanciulli in età dalla seconda dentizione alla pubertà. La letteratura di cui abbiamo bisogno come maestri, deve sorgere anch’essa a nuovo dai principii educativi viventi dei quali qui intendo parlare.

 

Si tratta in verità di questo: che tutto l‘habitus, animico, spirituale e corporeo dell’insegnante venga compenetrato dal senso di appartenenza al mondo. Allora egli potrà agire sui fanciulli, allora egli sarà per loro l’autorità naturale nell’età dalla seconda dentizione alla maturità sessuale. L’importante è sempre che ci si formi nell’esperienza e che tutto in modo vivo passi nella vita. È il grande principio che oggi si deve avere nella pedagogia. Allora vi sarà il legame con la classe, e in tal modo si avrà anche quell’atmosfera imponderabile che appunto deve esistere.

 

 

RISPOSTE A DOMANDE

 

Prima domanda: Esistono adulti che sembrano esser rimasti al gradino del bambino che ancora imita. Come avviene questo fenomeno?

 

Risposta: è possibile che l’uomo si arresti ad uno dei gradini dello sviluppo umano. Se a quanto abbiamo potuto studiare oggi, aggiungiamo ancora il periodo embrionale, dopo questo il periodo fino alla seconda dentizione e poi quello fino alla pubertà, se noi distinguiamo in tal modo lo sviluppo infantile, abbiamo appunto quelle epoche che si manifestano in una vita umana sviluppata appieno. Ma proprio in questi ultimi tempi, nello sviluppo del nostro lavoro antroposofico, è risultato che era necessario tenere delle conferenze di pedagogia curativa, per accennare in esse a ben determinati casi di bambini che, nel loro sviluppo, o sono rimasti indietro, oppure si sono evoluti in modo abnorme in una direzione qualsiasi. Noi abbiamo disposto le cose in modo da poter mostrare – da un punto di vista pedagogico, medico o igienico –singoli casi in cura presso l’Istituto clinico-terapeutico della dottoressa Wegman ad Arlesheim. Tra questi casi se ne trova anche uno di un bambino di quasi un anno di età, pure della grandezza di un bambino di circa un anno, ma che, nella sua conformazione fisica, è rimasto assolutamente allo stadio approssimativo di un feto di sette o otto mesi. Disegnando soltanto i tratti fondamentali di quel bambino, senza indicare con precisione le membra già più modellate, lasciandole cioè appena accennate, ma disegnando invece con precisione la forma della testa, appunto come essa è nel caso di quel bambino, e guardando poi il disegno senza sapere che si tratta di un bambino di quasi un anno, si crederebbe senz’altro di aver a che fare con un feto, perché quel bimbo, dopo la nascita, ha conservato per molti riguardi la costituzione di un feto.

 

Ogni periodo della vita, e quindi anche quello embrionale, può venir trasposto in uno successivo. Infatti i diversi susseguentisi periodi di sviluppo sono tali che, per così dire, ogni nuovo periodo è una trasformazione del vecchio, al quale si aggiunge qualcosa di nuovo. Consideriamo con precisione quanto io ho detto in relazione alla naturale dedizione religiosa del bambino verso il suo ambiente prima della seconda dentizione, e vedremo allora la religiosità naturale, che più tardi si trasforma in religiosità animica, vedremo il periodo estetico che si aggiunge al primo. Esistono però molti bambini che portano nel secondo periodo le condizioni del primo, col risultato che il secondo rimane misero. Il fenomeno può anche proseguire, vale a dire che un periodo, già verificatosi, può riapparire in qualsiasi altro; allora uno stadio originario viene trasposto in stadi successivi. Né è necessario che risulti chiaramente ad un’osservazione superficiale della vita che, in un certo senso, un periodo precedente sia rimasto in uno successivo, a meno che una particolare età più tarda mostri appunto il fenomeno. Comunque, avviene che periodi precedenti vengano trasposti nei successivi.

 

Consideriamo il fenomeno anche in un regno inferiore della natura. Un vegetale adulto e normalmente sviluppato ha le radici, lo stelo con le foglie, i sepali del calice, e poi i petali, gli stami, i pistilli, e così via. Ma esistono anche piante che non giungono sino al fiore, che rimangono al livello di erba, di foglia verde, e che formano il frutto soltanto in una forma incompiuta. Per esempio, quanto è distante e arretrata una felce in confronto ad un ranuncolo! Ma questo nelle piante non conduce all’anormalità. Nell’uomo invece si ha una sola specie « uomo ». Perciò egli può rimanere per tutta la sua vita un essere che imita o che deve restare sotto una autorità. Nella vita possiamo infatti aver a che fare non soltanto con uomini rimasti esseri imitanti, ma anche con uomini che, per le loro reali caratteristiche, rimangono al livello che si raggiunge giustamente nell’età fra la seconda dentizione e la pubertà. Tali uomini sono anzi molto frequenti; in essi questo gradino si trapianta nel resto della loro vita. Nel seguito della loro vita, tali uomini non giungono molto più avanti e rimangono al livello dell’autorità, di modo che quanto si aggiunge in seguito si manifesta soltanto in misura limitata. Se così non fosse non ci sarebbe neppure la tendenza, ancor oggi esistente, verso la formazione di sètte, di gruppi, eccetera; l’unirsi in sètte, infatti, deriva dal non aver bisogno di pensare da se stessi, ma di lasciar pensare un altro e di seguirlo. E in certi settori della vita la maggioranza degli uomini rimane allo stadio del rispetto per l’autorità. Se si tratta per esempio di prender posizione di fronte ad un qualsiasi problema di natura scientifica, gli uomini non si preoccupano di formarsi un giudizio, ma si chiedono piuttosto dove sia quello che deve saperlo e in quale facoltà universitaria egli insegni. In questo fatto vediamo manifestarsi il principio d’autorità. Esso, anche se giustificato, è diffuso in larga misura fra gli ammalati. Pure in campo giuridico, per esempio, nessuno oggi vuol giudicare in modo autonomo; si va da un avvocato, che sa queste cose, e si rimane quindi sempre al livello di quando si avevano otto o nove anni. A volte poi quell’avvocato non è egli stesso molto più vecchio, e quando gli si pongono delle domande prende a sua volta un codice o un altro testo, ed ecco riapparire di nuovo un’« autorità ». Le cose dunque sono così che ogni stadio di sviluppo può inserirsi in imo successivo.

 

In realtà la Società Antroposofica dovrebbe esser composta soltanto da uomini che siano al di sopra del principio di autorità, che non riconoscono alcun principio di autorità, ma soltanto un vero giudizio. Chi ne è fuori può comprendere talmente poco questa cosa che sempre ripete: l’antroposofia è basata sull’autorità. È vero proprio il contrario: proprio mediante quei punti di vista che vengono coltivati nell’antroposofia, bisogna innalzarsi al di sopra del principio di autorità. Bisogna che l’uomo afferri ogni infima particella di conoscenza affinché egli possa progredire attraverso i diversi stadi di sviluppo della vita.

 

Seconda domanda: Perché, dal punto di vista dell’antroposofia, l’immortalità non è una questione di fede, bensì di conoscenza?

 

Risposta: L’antroposofia compie il passaggio dalla conoscenza esteriore dell’uomo alla conoscenza interiore dell’uomo. Per esempio, delle persone che sono qui e che ascoltano conferenze da tanto tempo, permane non il corpo fisico, ma soltanto quello eterico. L’antroposofia penetra fino a quest’ultimo, si può dire quindi fino a ciò che permane dalla nascita alla morte. La scienza usuale s’inganna in proposito: parlare di corpo eterico è tanto poco fede di quanto si possa parlare di fede riguardo al corpo fisico. Il corpo eterico si riconosce mediante l’immaginazione. Progredendo nella conoscenza antroposofica, si impara a conoscere, mediante l’ispirazione, come il corpo astrale dell’uomo sopravviva dopo la morte.

L’odierno concetto di fede non è neppure vecchio quanto il cristianesimo, ed esso nacque soltanto allorché ci si allontanò da quanto può venir osservato come spirituale.