L’elemento comico nella sua relazione con l’arte e la vita (1890-91)

O.O. 271 – Arte e conoscenza dell’arte – (III)


 

Sommario: Per gli estetici la bellezza ristabilisce l’armonia fra l’immagine dei sensi e l’idea. Se è preponderante la prima si ha il brutto, se la seconda si ha il bello. Tale estetica non considera il comico. Presentare l’idea è compito della scienza. Per il contenuto l’arte segue i sensi, per la forma l’idea. L’arte fra intelletto e ragione. Le contraddizioni portano al comico con le sue sfumature: satira, ironia, sciocchezza, umorismo, frivolezza e malinconia.

 

(Articolo apparso in «Anthroposophie» -1934-35)

Nell’estetica tedesca poche idee di base hanno più sofferto per le errate premesse quanto quella dell’elemento comico. Quando, come fanno gli estetici tedeschi, si dichiara bello qualcosa, se l’idea (il divino) appare in un’immagine che cade sotto i sensi, si pongono insuperabili difficoltà alla determinazione del concetto di comico. Con quella premessa dobbiamo infatti distinguere due cose nel prodotto artistico (nell’oggetto bello): anzitutto l’immagine che cade sotto i sensi, il prodotto materiale costituito da marmo, colore, suono, parola e così via, e poi l’idea presentata con quell’immagine. Si possono così avanzare tre ipotesi.

• La prima è che l’idea e l’immagine visiva si identifichino completamente, e quindi l’idea non sia troppo alta, troppo spirituale, eccessiva, per essere presentata dalla relativa immagine, e che questa sia quindi degna, significativa e adeguata all’idea. In tal caso vi è una completa armonia fra idea e immagine, nessuna delle due soverchia l’altra, ognuna è adeguata all’altra. Mai avvertiamo allora un eccedere o un rimanere indietro. Ove questo avvenga, gli estetici tedeschi stimano che si abbia il «semplice bello», il «bello in sé».

• La seconda è quando l’idea è più importante e più grande dell’immagine, la soverchia, la supera, e quindi l’immagine appare insignificante, piccola e inadeguata ad afferrare l’idea (il divino) nella sua completezza. Il contenitore non è allora grande abbastanza per accogliere in sé il contenuto (l’idea). Mentre di fronte al «semplice bello» sentiamo la soddisfazione dell’armonia fra il divino (ideale) e il terreno (reale), qui dobbiamo provare meraviglia per la grandezza dell’idea che appare tanto grandiosa da non poterle trovare un’immagine adeguata. In questo caso abbiamo a che fare con il sublime.

• La terza ipotesi è il caso opposto, quando cioè l’immagine appare più grande, importante e grandiosa dell’idea. Mentre nel secondo caso la grandezza dell’idea disturba l’armonia, qui si ha disarmonia a causa della soverchiante immagine sensibile. Quest’ultima si impone, si erge contro l’idea, si contrappone al divino. Di conseguenza qui si può solo avere il brutto. Se ora si riflette che l’elemento tragico è solo un caso speciale del sublime, con i quattro concetti di bello, sublime, tragico e brutto si sono esaurite le possibilità dell’estetica, e non vi è spazio per l’elemento comico. È infatti facile vedere che oltre i tre casi esaminati non ne è possibile un quarto.

 

Il problema si presenta del tutto diverso, mettendo alla sua base l’idea del bello, da me esposta nella conferenza «Goethe, padre di una nuova estetica», che l’arte non può mai e poi mai avere il compito di rappresentare l’idea. Questo è infatti il compito della scienza. Se le idee di base dell’estetica tedesca fossero giuste, per il contenuto non vi sarebbe differenza alcuna fra scienza e arte. Quest’ultima presenterebbe solo in forma visibile ciò che la scienza esprime con la parola, con i pensieri. Questa semplice riflessione dimostra che l’arte deve avere un tutt’altro compito, proprio l’opposto della scienza. Se questa presenta il divino nella forma diretta del pensare che aleggia al di sopra di quanto è sensibile, in una forma solo ideale, l’arte ha invece il compito di elevare alla sfera del divino ciò che si percepisce e si vede.

• Quando siamo direttamente di fronte alla natura, alla realtà, non la troviamo divina o non-divina, piena o vuota di idee, ma semplicemente indifferente rispetto al divino, all’idea. Il pensatore guarda attraverso l’involucro indifferente e vede l’idea nella forma del pensiero. Allo scopo deve tuttavia superare la diretta realtà, deve attraversarla e guardare al di là. Chi si ferma alla sola realtà non perviene all’idea.

L’artista si avvicina in altro modo alla realtà: non supera la realtà, la raccoglie con amore, vive e tesse anzi nella sfera sensibile, materiale, reale. Ciò che presenta sono oggetti della natura, dell’esistenza reale. Nelle creazioni artistiche, per il loro contenuto (per il «che cosa») nulla troviamo che non si possa anche incontrare nella natura. L’artista varia soltanto la forma (il «come»), presenta oggetti della realtà, ma in modo diverso da come li troviamo nel mondo reale; li presenta come se fossero altrettanto necessari, obbligati e divini dell’idea stessa. Per il contenuto l’arte ha a che fare con la sfera sensibile, per la forma con la sfera ideale.

 

• Se la scienza presenta l’idea secondo contenuto e forma,

• e altrettanto la natura presenta il mondo sensibile secondo forma e contenuto,

• con l’arte nasce un nuovo regno, quello sensibile in veste divina.

 

Se ora si volesse asserire che sia anche possibile che qualcuno presenti il divino in veste sensibile, la cosa si confuta da sé, perché nessuno può avere interesse per un compito del genere. Se infatti si può avere l’esigenza di innalzare ciò che è in basso e ha poco valore alla sfera di ciò che è in alto e ha valore, non la si ha per il contrario. Appunto dall’insoddisfazione per la realtà nella sua struttura originaria si forma la nostalgia per divinizzarla. Perché si dovrebbe portare in un’altra forma il divino che in sé assicura già la massima soddisfazione?

 

• Il regno della sfera sensibile non ideale è la realtà,

• il regno della sfera ideale non sensibile è la scienza,

• quello sensibile-ideale è l’arte.

 

Incontriamo il primo regno osservando con i sensi sani quanto ci circonda,

il secondo immergendoci nella sfera del nostro pensare,

da nessuna parte incontriamo il terzo già finito, dobbiamo crearlo da noi.

 

• Se il regno della natura ha una realtà che cade sotto i sensi,

• e quello della scienza una realtà solo spirituale,

• il regno dell’arte non ha affatto una realtà.

Di conseguenza la sfera dei prodotti artistici è detta dell’apparenza estetica.

L’apparenza estetica è la sfera sensibile divinizzata grazie al creativo spirito umano.

 

Ora dobbiamo cambiare argomento e cercare da quali ragioni di fondo della persona umana nasca la nostalgia per l’arte e il piacere artistico.

Ogni aspirazione umana superiore tende alla libertà.

 

La strada e la mèta migliori per l’uomo sono l’agire libero al di sopra degli impulsi naturali, libero dalle leggi del mondo sensibile, libero dalle passioni e dagli ordinamenti umani.

Libera lo spirito sottoporsi sempre meno a ciò che richiede la natura,

e seguire sempre più l’idea riconosciuta dallo spirito.

Libertà è dominio dello spirito sulla natura, dell’idea sulla realtà.

 

Io devo fare ciò che compio secondo le leggi della natura, proprio come la goccia di pioggia deve cadere sulla terra per un’immutabile legge.

Agendo soltanto in base a quegli impulsi materiali, non sono un vero io, una persona libera, perché non agisco autonomamente, ma sono costretto ad agire, non voglio, ma devo.

Tuttavia, quanto più accendo in me la luce dello spirito, tanto più divento libero.

Solo ora posso dire: sono io che agisco, che realizzo qualcosa.

In pari tempo si aggiunge la circostanza che ora so quale luce io segua, che ho di fronte a me l’oggetto cui tende la mia azione in pura forma trasparente e spirituale.

Non opero per amore della mia individualità, ma dell’oggetto riconosciuto.

 

Un’azione del genere è del tutto altruistica, sebbene scaturisca in realtà da me stesso,

perché non viene compiuta da me per mia volontà.

Un’azione del genere è fatta per amore, è derivata da una piena dedizione di se stessi all’oggetto.

• Intese nella loro profondità, le azioni davvero libere sono azioni scaturite dall’amore.

 

Accanto alle altre, le creazioni dell’artista sono azioni mosse dall’amore, perché egli cerca di superare la realtà sensibile, spiritualizzandola. Vuole per incantesimo mettere davanti ai nostri sensi opere che non seguano le leggi della natura, ma quelle dello spirito. L’oggetto che è solo naturale deve essere annullato, superato, e quindi proposto come se fosse divino.

L’arte è un continuo processo di liberazione dello spirito umano e in pari tempo l’educatrice dell’umanità per azioni mosse dall’amore. Chi riesce a guardare a fondo una vera e grande opera d’arte sente il sublime slancio verso l’alto che, per la durata dell’osservazione, ci fa dimenticare spazio, tempo e la nostra stessa persona, che ci fa perdere interamente nell’oggetto osservato. Solo chi conosca il completo, puro e limpido amore comprenderà anche appieno questo modo di osservare, dimentico di sé.

Chi non conosce il vero amore rimarrà anche sempre estraneo di fronte alla vera opera d’arte.

 

Se dobbiamo ammettere che nell’opera d’arte lo spirito umano divinizza la materia,

dipenderà dalla capacità spirituale attivata nell’opera a quale genere essa appartenga.

In proposito dobbiamo tener presente che

ciò cui il nostro spirito arriva per ultimo, nel mondo è il primo e il più alto.

L’unità ideale, il principio originario delle cose di sicuro le precede tutte.

Con le nostre aspirazioni spirituali arriviamo però in definitiva al principio originario.

 

Ciò che ci si presenta per primo nel mondo è l’infinita molteplicità delle cose sensibili che in verità sono però l’ultima manifestazione del principio originario.

I sensi afferrano la molteplicità delle cose, l’intelletto le ordina, le confronta e ne forma concetti; la ragione stabilisce poi l’interiore unità di quella molteplicità.

 

Sensi, ragione e intelletto

sono così le tre facoltà grazie alle quali comprendiamo il mondo.

I sensi ci presentano la natura priva di spirito,

l’intelletto ci presenta la varietà dei concetti,

la ragione l’idea divina che troneggia su tutto.

 

Se ora, sulla base della nostra spiegazione del bello e date le premesse delle tre facoltà appena ricordate, facciamo un passo avanti dobbiamo chiederci quanto la materia sensibile venga trasformata dall’artista.

 

Anzitutto rimane fermo che

i sensi non possono subire trasformazione di sorta,

perché il loro compito è afferrare la realtà nel modo più fedele e preciso possibile.

L’intelletto, che dalle singole cose forma i concetti, ha già a che fare con lo spirito,

ha sì ancora una molteplicità, però già sollevata dalla sfera dei sensi.

All’intelletto è così già possibile spiritualizzare la natura.

• Della ragione basta dire che essa afferra l’essenza di tutto lo spirito.

 

Ne segue quindi che l’artista riesce a trasformare la materia della diretta realtà, tanto da farla apparire in una forma come se fosse compenetrata dalla ragione o dall’intelletto stesso.

L’arte ha cioè a che fare con opere che:

secondo il contenuto corrispondono alla vita reale,

e secondo la forma all’ordine comprensibile delle cose;

per il contenuto corrispondono alla vita reale,

per la forma all’ordine intelligente e all’unità del mondo.

Quando l’artista, seguendo gli impulsi della ragione, trasforma la realtà, le sue opere ci riempiono di tanta sublime soddisfazione perché le cose che provengono dalla sua mano è come se scaturissero direttamente dallo stesso principio originario.

 

L’artista ci avvicina allo spirito del mondo grazie all’opera infiammata dall’unità divina.

Per questo Goethe proruppe nel suo grido di meraviglia davanti alle sculture greche: «Qui vi è necessità, vi è Dio; è come se queste cose eterne fossero state incantate dalla stessa natura creante».

Nell’apparenza estetica che ci offre l’opera d’arte non vediamo quindi contraddizione alcuna con la profondità della realtà, ma solo con la sua superfìcie.

 

L’arte ci presenta appunto una realtà superiore.

Che cosa avviene però quando l’artista fa agire in sé non la ragione ma l’intelletto, per trasformare la realtà?

L’intelletto è a metà strada fra i sensi e la ragione.

Si distanzia dai primi, ma non arriva al secondo.

 

Non ha più la verità superficiale insita nella semplice copia della realtà sensibile,

ma non ancora quella che è propria della profondità della visione ragionevole.

 

Il concetto, che l’intelletto estrae dalle singole cose, è in genere quanto di più irreale vi sia nel mondo.

Nell’ordinamento del mondo non vi è infatti qualcosa di singolo in sé;

tutto è in relazione reciproca ed è fondato di necessità sul fluire delle cose.

Chi non vede il grande tutto e misura soltanto la cosa singola,

non potrà conoscere la verità.

• Posso farmi in modo comprensibile un concetto di una cosa singola,

ma la verità non è in quel concetto fino a quando la luce della ragione non lo illumini.

 

Quando formo due concetti, essi possono unirsi nelle profondità dell’ordine universale, ma l’intelletto ha soltanto i singoli concetti che, restando separati, non devono accordarsi, ma sono gli uni accanto agli altri.

Le cose che cadono sotto i sensi, che lo spirito umano ricompone come se fossero compenetrate dall’intelletto, sono in tal modo in forte contraddizione con ogni realtà. Naturalmente nell’intelletto non si rivela la discordanza dei suoi concetti, perché li fa coesistere separati. Quando però i concetti appaiono in un unico oggetto l’uno accanto all’altro nella loro intima discordanza, questa appare subito.

 

Con l’intelletto posso formare un concetto dello spirito di un uomo: lo immagino ad esempio grande ed elevato. Posso anche formare il concetto del suo aspetto esteriore che sarà piccolo, irrilevante, sinistro, magari goffo. Posso benissimo pensare i due concetti. Se però fisicamente mi si presentano riuniti in una persona, rilevo la contraddizione fra di essi e quanto è possibile secondo le leggi naturali.

È del tutto indifferente quanto grande io immagini la testa di un uomo, fino a quando mi limito alla testa. Se invece riunisco una testa grande con un corpo piccolo e penso tale unione in un quadro reale, realizzo la contraddizione grazie all’esistenza effettiva.

Divenire coscienti delle contraddizioni fra un oggetto creato e la sua interiore possibilità fa sorgere in noi la sensazione della comicità.

 

La comicità è quindi una realtà sensibile nella forma di una contraddizione intellettuale. Il «che cosa» è la parte sensibile, il «come» è l’intelletto col suo contenuto non fondato sulla natura.

Esaminando un pezzo comico, si troverà sempre che quanto l’autore ha fatto della sua materia contraddice la più profonda e interiore natura della struttura di base dell’essere. Compenetrando quella contraddizione, la si sente come comica.

 

L’effetto liberatorio insito nel ridere di un oggetto comico avviene perché, vedendo la contraddizione, ci si sente al di sopra dell’oggetto, si crede di comprendere la cosa meglio di come essa ci si presenta nell’opera. Chi invece non vede la contraddizione non trova l’effetto comico. Di conseguenza lo stesso oggetto può su uno avere un effetto comico, e su un altro no. Chi non ha comprensione per la contraddizione, non l’ha neppure per la comicità. In proposito può capitare che la percezione di una contraddizione si trasformi persino in un’atmosfera triste, e allora osserviamo la cosa in modo diverso: non guardiamo più alla contraddizione razionale, ma alla disarmonia fra il particolare e il tutto.

 

La causa è però già in un’osservazione secondo ragione, e cessa allora la comicità. Il caso in effetti si ha quando percepiamo nella natura stessa qualcosa di non coerente, ad esempio una deformità, una storpiatura. In tali casi non afferriamo le singole parti intellettualmente, ma vediamo la contraddizione fra il divenuto e ciò che sarebbe potuto e dovuto divenire; questo ci porta a un’osservazione più profonda di quella basata sull’intelletto.

Ne deriva che in effetti nella natura vi è poco di comico in sé.

La comicità è per lo più creazione umana.

 

Nella rappresentazione dell’elemento comico si può persino avere la diretta intenzione, attraverso l’immagine visiva, di raggiungere quel che non si riesce a conseguire con la presentazione del semplice concetto contraddittorio, vale a dire la conoscenza della contraddizione.

Quando il pensiero non fa la necessaria impressione, può farla la rappresentazione visiva. È questa l’intenzione dell’ironia, della satira comica. Anche la parodia altro non vuole se non rendere appunto ridicolo qualcosa posto vicino alla sua contraddizione.

 

È nella natura della comicità trovare una più vasta cerchia di fruitori rispetto ad altre forme artistiche. Ci basta infatti afferrare soltanto con l’intelletto i particolari contraddittori; vedere la contraddizione stessa ci è dato dall’immagine della rappresentazione, e così non è necessario elevarsi alla visione secondo la ragione.

Fa parte inoltre della natura della comicità servire soprattutto a mostrare la stoltezza umana. Essa consiste nel ritenere reale ciò che invece è sbagliato, in contraddizione. Presentando direttamente le illusioni dello stolto in una forma percepibile ai sensi lo si convince forse meglio della sua stoltezza, meglio che in altri modi.

 

L’artista serio, che non lavori movendo dal tutto, ma rafforzi la sua opera con particolari finisce con facilità e senza volerlo ad essere comico. Allo stesso modo presentiamo agli altri con la nostra persona un oggetto comico compiendo azioni nelle quali per l’osservatore null’altro appare evidente se non una contraddizione vissuta.

 

L’effetto della comicità dipende ovviamente sempre da quanto l’osservatore sia al di sopra dell’oggetto comico; in altre parole da quanto egli sia capace di afferrare la contraddizione nella sua piena profondità. Al saggio risulterà per esempio comico che molti aspirino a una cosa, stimino e adorino una cosa che per lui non appare degna di stima e di adorazione. Da quel che si è detto risulta che l’impressione della comicità può durare fino a quando l’intelletto è in grado di afferrare la contraddizione. Entrando più in profondità e riflettendo sulla fatica che l’umanità dedica a vuote nullità, si deve per forza vedere la cosa in modo più serio.

 

Allo stolto faranno un’impressione comica parecchie cose che invece non faranno ridere il saggio. Considerando solo l’aspetto esteriore di una cosa, senza rilevarne la profondità, si potrà certo ridere delle contraddizioni superficiali. Proprio quel che fanno nature dotate viene spesso deriso, perché non è compreso; viene cioè vista la contraddizione esistente con l’azione che è invece usuale nella vita.

 

Chi abbia un senso per trovare le contraddizioni nella vita, e per riunirle artificialmente con l’intelletto, sarà in modo speciale adatto a presentare qualcosa di comico. L’arguzia altro non è che il gioco dell’intelletto che cerca in cose lontane fra loro elementi affini, offrendo così l’accostamento di un’evidente contraddizione.

L’effetto della comicità dipende anche dal grado di contraddizione, sempre esistente anche quando prevalga una sottile consonanza. Cose del tutto estranee sono comunque escluse dal regno della comicità. Possiamo dire: l’elemento comico corrisponde all’intelletto, ma contraddice i sensi e anche la ragione.

Chi percepisce le contraddizioni, ma prende l’intelletto per la ragione, e invece di ridere è disturbato dalla disarmonia, non ha alcun senso per l’elemento comico. Vedrà dappertutto contraddizioni e le considererà l’unica cosa al mondo. Ciò porta all’atteggiamento di base del malinconico.

Può invece ridere tranquillamente delle disarmonie chi è convinto che dietro l’intelletto domini la ragione, che dietro la contraddizione valga un’interiore, superiore unità. Può persino arrivare all’idea che ove vi siano contraddizioni sia attivo solo l’intelletto, ma che si arrivi sempre all’armonia considerando il problema più a fondo con la ragione. Un uomo del genere vive nella fiducia che la contraddizione è sempre in superfìcie e mai in profondità; di conseguenza la vede sempre leggera, come qualcosa che libera la vita dall’uniformità e dalla monotonia, e che subito scompare entrando più in profondità. Ride allora delle contraddizioni e diventa serio di fronte alla divina concordanza delle cose. In lui troviamo l’atteggiamento di base dell’umorismo.

 

È ancora possibile un terzo caso. Si può certo avere un organo per la percezione della contraddizione, non però per l’unità e l’ideale. Si comprende allora certo l’assurdità, la piccolezza, l’irragionevole, ma tale comprensione non è sostenuta dal senso per la profondità. Chi è così può certo ridere, ma non essere davvero serio e pio. È l’atteggiamento di base della frivolezza.

Il malinconico ha sì l’esigenza di una profonda armonia, ma non ha la forza spirituale di afferrarla. Di conseguenza gli manca anche il senso per ridere delle assurdità; gli manca quel che dovrebbe prendere seriamente, e prende quindi con serietà ciò che tale non può essere.

L’umorista può ridere senza pensieri delle assurdità, perché sa che esse non sono alla base delle cose, ma alla superficie; inoltre ha un senso per le cose stesse sulla scorta dell’esistenza universale. Il frivolo ha un senso per la superficie, ma sente solo quell’esigenza. Non conosce la profondità delle cose e non vuole conoscerla. Vive alla superficie.

 

Avremmo così chiuso il cerchio che volevamo esaminare. Abbiamo indicato l’idea della comicità come una forma dell’apparenza estetica, e anche caratterizzato la posizione che tale idea ha di fronte alla vita.

La comicità non è cioè solo una creazione arbitraria dell’uomo, ma un modo con cui si intende soltanto vedere e rappresentare variamente l’aspetto esterno e contraddittorio della vita.