Lo spirito nelle espressioni artistiche

O.O. 276 – La missione universale dell’arte – 02.06.1923


 

Sommario: Lo spirito nelle espressioni artistiche. Architettura, abbigliamento, scultura e pittura. Le tre dimensioni nell’architettura. Abbigliamento e scultura. Le due dimensioni nella pittura. Una sola dimensione nella musica. La poesia. Il naturalismo nel teatro di oggi. Poesia epica, Omero, le muse e gli dèi superni. La poesia drammatica e gli dèi sotterranei. Dioniso, Eschilo, Euripide. La lirica, la lirica drammatica e la lirica epica. L’elemento artistico per la giusta comprensione dell’antroposofia.

 

Ieri ho cercato di mostrare come la concezione antroposofica del mondo debba portare ad accogliere di nuovo l’arte nella civiltà umana in un modo più intenso di quanto possa avvenire sotto l’influsso del materialismo e del naturalismo. Se così posso esprimermi, ho cercato di mostrare come l’antroposofia senta i prodotti dell’architettura, le forme architettoniche, e come venga sentita l’arte dell’abbigliamento, che oggi in realtà proprio non si sente come arte, che anzi si deride quando se ne parla come di un’arte. Ho poi ancora fatto presente che l’uomo stesso, nella sua figura, può essere compreso artisticamente, perché ho indicato che la testa umana è determinata dal cosmo e che di conseguenza rinvia all’uomo nel suo complesso.

 

Cerchiamo ancora una volta di prospettarci i momenti importanti di questa triplice visione artistica del mondo. Quando osserviamo forme architettoniche, nel senso di quanto abbiamo detto ieri, in esse dobbiamo vedere qualcosa che l’anima umana per così dire si attende quando in qualche modo abbandona il corpo fisico, specialmente con la morte. Avevo detto che essa è abituata, durante la vita fisica terrena, ad essere in contatto spaziale attraverso il corpo fisico con le cose che la circondano. Essa sperimenta le forme spaziali che però sono in effetti solo forme del mondo fisico esterno. Quando poi ad esempio con la morte l’anima umana abbandona il mondo fisico, essa cerca per così dire di imprimere la propria forma nello spazio; cerca le linee, le superfici e in genere tutte le forme grazie alle quali può uscire dallo spazio e che ora potrebbero aiutarla a penetrare nel mondo spirituale. In sostanza vanno così intese le forme archi- tettoniche, soprattutto quelle artistiche. Così in effetti dobbiamo sempre guardare all’abbandono del corpo da parte dell’anima umana e alle sue necessità dopo quell’abbandono, rispetto allo spazio, se vogliamo comprendere la vera arte architettonica.

 

Per comprendere in realtà l’arte dell’abbigliamento avevo accennato al piacere del vestirsi dei popoli primitivi che hanno ancora una sensazione generale di essere discesi dal mondo spirituale in quello fisico, di essersi inseriti in un corpo fisico, e in quanto anima possono dirsi: nel corpo fisico troviamo un involucro diverso da quello che potevamo sentire durante la nostra permanenza nel mondo spirituale. Nasce così l’istintiva e sensibile necessità di cercare vestiti di colori e tagli, se così si può dire, che corrispondano al ricordo di un’esistenza preterrena. Nei popoli primitivi vediamo cioè nei vestiti per così dire la forma inadatta, la struttura inadatta dell’essere umano astrale che l’uomo aveva prima di essere disceso nell’esistenza terrena. Nell’architettura vediamo cioè sempre un riferimento a ciò cui l’anima tende quando abbandona il corpo fisico. Invece nell’arte dell’abbigliamento, in quanto la sentiamo come arte, vediamo ciò cui l’anima umana tende dopo essere discesa dal mondo spirituale in quello fisico. Se poi si sente giustamente quel che ieri ho esposto, e cioè come è la costituzione della testa umana, quale metamorfosi del corpo, esclusa la testa, della precedente vita terrena, se si sente il vero e proprio risultato di quel che gli esseri delle gerarchie superiori hanno fatto nella patria celeste, nella patria spirituale, delle forze della vita terrena precedente, si ha la più completa trasformazione della testa umana e si comprende la parte superiore della testa umana. Se d’altra parte si comprende giustamente la parte centrale della testa, con la formazione del naso e degli occhi, si ha ciò che proviene dal mondo spirituale per la forma della testa, già adeguata alla forma del torace umano. La forma del naso è in relazione col respiro, vale a dire con quanto in effetti fa parte del torace.

 

Se infine comprendiamo giustamente la parte inferiore della testa, le forme della bocca e del mento, abbiamo anche già nella testa un accenno all’adeguamento all’elemento terrestre. In questo modo si arriva a comprendere l’uomo nel suo complesso. In ogni curvatura della parte superiore della testa, nello sporgere o nel rientrare delle parti inferiori del cranio e delle relative parti del volto, in tutto sentiamo come nelle forme si presenti direttamente agli occhi l’essere umano soprasensibile. Si può così sentire l’intima relazione che la parte superiore della testa, la sua curvatura, ha con il cielo, la relazione che la parte centrale della faccia ha con quanto circonda la terra, con l’aria e le formazioni eteriche che la circondano; si può infine sentire come la bocca e il mento abbiano un’interiore relazione con tutto il sistema delle membra e della digestione, mostrando già il legame dell’uomo con la terra. In una pura prospettiva artistica si comprende così tutto l’uomo e lo si inserisce direttamente nel presente come immagine della sfera spirituale.

 

Diciamo cioè che grazie alla scultura si osserva l’uomo in ispirito nel modo in cui è inserito nel presente, mentre l’architettura indica l’abbandono del corpo da parte dell’anima, e l’arte dell’abbigliamento indica l’inserimento dell’anima nel corpo. Per così dire l’arte dell’abbigliamento rinvia al tempo precedente rispetto alla vita terrena, e l’architettura al tempo successivo rispetto alla vita terrena. Per questo l’architettura muove dalle costruzioni funerarie, come ho detto ieri. Di contro la scultura si riferisce al modo in cui l’uomo partecipa diretta- mente allo spirito con la sua forma terrena, come egli superi di continuo la sfera terrestre e naturale, come in ognuna delle sue forme e in tutta la sua figura vi sia l’espressione dello spirito. Abbiamo così esaminato le arti che hanno a che fare con le forme spaziali, che devono cioè indicare i diversi rapporti dell’anima umana col mondo attraverso il corpo fisico spaziale.

 

Se ora saliamo di un gradino alle arti prive di spazio arriviamo dalla scultura alla pittura. La si sente giustamente potendone afferrare il materiale. Oggi, nel quinto periodo postatlantico, la pittura ha in un certo senso nel modo più chiaro e forte assunto il carattere che porta al naturalismo. Ciò risulta soprattutto perché nella pittura in effetti non si ha più una profonda comprensione per il colore; la comprensione pittorica negli ultimi tempi è tale che, direi, è una falsa comprensione scultorea. Oggi vorremmo dipingere sulla tela l’uomo sentito come una scultura. Allo scopo è giunta anche la prospettiva spaziale che in effetti è stata elaborata solo nel quinto periodo postatlantico; grazie alle linee prospettiche qualcosa appare sullo sfondo e qualcos’altro in primo piano: si vuole cioè incantare sulla tela qualcosa di strutturato nello spazio. Così si nega dal bel principio la base materiale della pittura, perché il pittore non lavora nello spazio, ma sulla superficie, ed è in fondo privo di senso voler sentire spazialmente quando il primo elemento di cui si dispone è la superficie.

 

Non si creda però che nel modo più drastico io sia contrario al sentire spaziale, perché è ovvio che incantare la prospettiva sulla superficie era necessario nell’evoluzione dell’umanità, e una volta doveva succedere. Deve però anche venir superato. Non nel senso che in avvenire non si debba più comprendere la prospettiva. La dobbiamo comprendere, ma dobbiamo anche poter ritornare alla prospettiva dei colori, dobbiamo di nuovo avere la prospettiva dei colori. Certo non sarà necessaria solo una comprensione teorica, perché in nessun caso da una comprensione teorica nasce in realtà un impulso per il lavoro artistico, ma deve intervenire qualcosa di più forte e di più elementare di una comprensione teorica, e dovrà anche essere così. Allo scopo voglio anzitutto ricordare quel che una volta ebbi occasione di dire qui, e che poi Albert Steffen ridiede magnificamente a modo suo nel “Goetheanum”, tanto che il riassunto è più facile da leggere di quanto prima non fosse stato detto. Questa è la prima cosa.

 

L’altra è un problema che ora vorrei qui esaminare. Fuori nella natura noi vediamo colori. Li vediamo sulle cose che contiamo, che pesiamo con la bilancia, che misuriamo, che in breve trattiamo fisicamente e sulle quali vediamo colori. Agli antroposofi dovrebbe comunque essere a poco a poco chiaro che i colori sono qualcosa di spirituale. Vediamo colori persino sui minerali, vale a dire su esseri della natura che in prima accezione, come ci si presentano, non sono spirituali. Nell’epoca moderna la fisica ha reso le cose sempre più semplici e afferma: i colori non possono aderire alla materia morta, perché sono qualcosa di spirituale. Sono dunque soltanto nell’anima, mentre fuori vi sono solo sostanze morte nelle quali vibrano atomi materiali.

Gli atomi agiscono poi sull’occhio, sul nervo o su qualcosa d’altro che si lascia indeterminato, e così i colori rivivono nell’anima. È però soltanto una spiegazione di comodo.

 

Affinché il problema ci sia chiaro, o affinché arrivi a un punto in cui possa almeno diventare chiaro, osserviamo una volta il colorato mondo inanimato, il mondo minerale colorato. Come ho detto, vediamo i colori sulle cose soltanto fisiche che noi contiamo, misuriamo e di cui possiamo determinare il peso con la bilancia. Sulle cose vediamo i colori. Però tutto quel che possiamo percepire delle cose grazie alla fisica non ha colore. Possiamo calcolare fin che vogliamo, determinare con numero, misura e peso, con tutto quanto di cui la fisica dispone, ma non arriviamo al colore. Per questo anche il fisico ha bisogno di una via d’uscita: i colori sono soltanto nell’anima.

 

Desidero spiegarmi con un’immagine che ora presenterei. Pensiamo ad esempio che io abbia nella mano sinistra un foglio rosso e nella destra un altro foglio, diciamo verde, e che faccia davanti a degli osservatori determinati movimenti col foglio rosso e con quello verde: una volta copro il foglio rosso col verde e un’altra volta il verde col rosso, facendo i due movimenti alternativamente avanti e indietro. Affinché però i movimenti siano più caratteristici, li compio in modo da muovere sempre il rosso verso il basso e il verde verso l’alto. Diciamo che oggi abbia fatto questi movimenti. Lasciamo passare poi tre settimane, dopo di che mi ripresento, ma non più con i fogli rosso e verde, ma con due fogli bianchi, facendo però gli stessi movimenti. Gli osservatori si accorgeranno che, sebbene io abbia ora due fogli bianchi, tre settimane prima io avevo suscitato determinate impressioni percettive con i due fogli rosso e verde. Ora per cortesia presumo che gli osservatori abbiano tutti una fantasia tanto vivace che, sebbene io ora muova due fogli bianchi, essi vedano ora con la loro fantasia mnemonica lo stesso fenomeno che avevano visto tre settimane prima con i due fogli colorati. Tanto vivace è la fantasia degli osservatori che essi non pensano più che ora i fogli sono solo bianchi; poiché ora io faccio gli stessi movimenti, essi vedono le stesse armonie di colore che tre settimane prima avevo suscitato col foglio rosso e con quello verde. Essi hanno cioè davanti a loro quel che avevano tre settimane prima, anche se io non ho riportato i due fogli colorati; non ho infatti presentato colore alcuno, ma ho solo fatto gli stessi gesti, gli stessi movimenti che avevo fatto tre settimane prima.

 

Qualcosa di simile esiste anche in natura, quando ad esempio osserviamo una pietra dura verde, solo che la pietra dura non segue la nostra fantasia animica, ma fa appello alla fantasia concentrata nel nostro occhio, perché l’occhio umano con i suoi fasci sanguigni e nervosi è costruito sulla fantasia, è il risultato di una fantasia attiva. Mentre guardiamo la pietra dura verde, poiché il nostro occhio è un organo pieno di fantasia, non possiamo vederla in modo diverso da come venne costituita di color verde dal mondo spirituale da tempo immemorabile. Nel momento in cui ci si presenta la pietra dura verde noi guardiamo indietro a tempi passati, e il verde ci appare perché allora entità divino-spirituali avevano creato quella sostanza spiritualmente col colore verde dal mondo spirituale. Nell’istante in cui vediamo sulle pietre dure il verde, il rosso, il blu o il giallo, guardiamo indietro a un lontanissimo passato. In effetti guardando i colori, non vediamo solo il presente, ma risaliamo a un passato assai lontano. Non possiamo proprio vedere una pietra colorata solo nel presente, come non riusciamo a vedere nella nostra diretta vicinanza ad esempio una rovina in cima a una montagna, quando siamo ai piedi della montagna stessa. Poiché appunto siamo lontani da tutto il fatto, dobbiamo vederlo in prospettiva.

 

Se ad esempio abbiamo davanti a noi un topazio, non possiamo guardarlo solo con lo sguardo del presente, ma anche in una prospettiva temporale. Se indotti dalla pietra guardiamo nella prospettiva temporale, osserviamo i primordi della creazione terrestre, prima dell’epoca lemurica della nostra evoluzione terrestre e vediamo la pietra creata dalla sfera spirituale, la vediamo cioè colorata. In merito la fisica attuale fa qualcosa di molto assurdo. Ci propone il mondo e dietro di esso atomi erranti che dovrebbero suscitare in noi i colori, mentre sono entità divino-spirituali che da tempi infiniti vivono nei colori delle pietre; esse suscitano un ricordo vivente della loro precedente creazione. Quando osserviamo la colorata natura inanimata, assieme ad essa realizziamo un ricordo di tempi lontanissimi. Ogni volta che in primavera ci si presenta il tappeto verde delle piante, chi è in grado di comprendere la comparsa del verde della natura non osserva solo il presente, ma guarda indietro al tempo in cui, nell’antica esistenza solare, il mondo vegetale venne creato dalla sfera spirituale, quando quella creazione fu verde. Osserviamo in modo giusto i colori della natura se essi ci sollecitano a vedere l’antichissimo lavoro degli dèi nella natura.

 

Per il momento ci serve allo scopo la possibilità di vivere artisticamente con i colori. Come ho spesso accennato e come si può leggere nelle conferenze in proposito*, si ha la possibilità di sentire una superficie che si allontana, se la dipingo di blu, e che si avvicina, se la dipingo di rosso e di giallo. Dobbiamo infatti riacquisire la prospettiva del colore e non la prospettiva delle linee; dobbiamo sentire la lontananza e la vicinanza della superficie non attraverso la prospettiva delle linee, che in effetti vuole incantare una falsa scultura sulla superficie, ma dobbiamo sentire con intensità l’allontanarsi e l’avvicinarsi delle superfici grazie al colore. Così in effetti stenderò del rosso e del giallo se intendo indicare che qualcosa è aggressivo, che sulla superficie vi è qualcosa che mi vuol venire incontro. Dipingerò invece blu e viola se qualcosa è in sé calmo, si allontana da me, retrocede. Occorre un’intensa prospettiva del colore! Si studino gli antichi pittori e si troverà ovunque che in quelli del primo Rinascimento esisteva ancora un sentimento per la prospettiva del colore. Essa esisteva dappertutto prima del Rinascimento, perché solo col quinto periodo postatlantico si è affermata la prospettiva delle linee al posto dell’intensa prospettiva del colore.

 

Così la pittura stabilisce però una relazione con la sfera spirituale. E certo strano che oggi la gente pensi a come soprattutto si possa rendere lo spazio ancora più spazio, sempre che si voglia uscire dallo spazio, utilizzando in modo materialistico una quarta dimensione. Essa non esiste però in quel modo, ma esiste soltanto per annullare la terza dimensione, come i debiti annullano il patrimonio. Appena comunque si esce dallo spazio tridimensionale, non si giunge a uno spazio quadridimensionale, ma si perviene a un quarto spazio che ha però due dimensioni, perché la quarta dimensione annulla la terza e come reali ne rimangono solo due; quando ci eleviamo dalle tre dimensioni della sfera fisica a quella eterica, tutto è orientato nelle due dimensioni. Si comprende la sfera eterica se la pensiamo orientata nelle due dimensioni. Si dirà che anche nella sfera eterica io mi muovo da qui a là, vale a dire in tre dimensioni, solo che nell’eterico la terza dimensione non ha importanza alcuna, perché ne hanno solo e sempre due dimensioni.

 

La terza dimensione si esprime sempre con variazioni di rosso, giallo, blu, viola; è poi indifferente il posto dove li stendo sulla superficie: nella sfera eterica non viene modificata la terza dimensione, si modifica invece il colore, ed è indifferente dove si stenda la superficie, devo solo modificare il colore in modo adeguato. Si ha così la possibilità di vivere con il colore, di vivere in due dimensioni con il colore. In tal modo si sale dalle arti spaziali a quelle che come la pittura sono bidimensionali, si supera la sfera spaziale. Tutto ciò che in noi è sentimento non ha relazione alcuna con le tre dimensioni spaziali; solo la volontà è in relazione con lo spazio, ma non il sentimento che è sempre chiuso in due dimensioni. Se davvero comprendiamo giustamente le due dimensioni, troviamo quindi che quanto è sentimento in noi ha la possibilità di venir ridato nelle due dimensioni della pittura.

 

Vediamo cioè che occorre uscire dalla materia tridimensionale ove ci si voglia svincolare dall’architettura, dalla scultura e dall’abbigliamento per arrivare alla pittura. Nella pittura abbiamo un’arte della quale si può dire che possiamo sperimentarla nell’interiorità con l’anima perché, quando si crea la pittura o la si gode, si sperimenta appunto nell’interiorità dell’anima. In effetti si sperimenta il mondo esterno nella prospettiva del colore. Non vi è alcuna differenza fra dentro e fuori. Non si può dire, come è necessario per l’architettura, che l’anima vorrebbe creare le forme di cui ha bisogno quando guarda i corpi. Per la scultura l’anima vorrebbe creare le forme nella figura umana scolpita, come essa è posta ora nello spazio in modo corrispondente alla natura. Nella pittura tutto ciò non viene considerato, e in effetti non ha senso alcuno dire che qualcosa è dentro o fuori, che l’anima è dentro o fuori. Quando l’anima vive nel colore è sempre nello spirito. Nella pittura si sperimenta per così dire il muoversi libero dell’anima nel cosmo. Non va preso in esame se sperimentiamo il dipinto interiormente, se lo vediamo fuori di noi, quando lo vediamo nel colore, certo prescindendo dall’imperfezione del mezzo colorato.

 

Con la musica arriviamo invece del tutto in quello che l’anima sperimenta nello spirito, nella sfera spirituale-animica. Qui siamo del tutto fuori dallo spazio. La musica è lineare, unidimensionale e viene anche sperimentata nella linea unidimensionale del tempo. Viene però anche sperimentata in modo da sentire il mondo in pari tempo come il nostro mondo. Quando l’anima entra nella sfera fisica o quando la lascia, non vuol dar valore a ciò di cui ha bisogno; nella musica essa sperimenta quel che di animico-spirituale in lei vive e vibra ora sulla terra. Studiando i segreti della musica, ne ho già parlato qui, si scopre che cosa in realtà intendessero con la lira di Apollo i Greci che comprendevano molto bene queste cose. Quel che si sperimenta nella musica è il nascosto adeguamento dell’uomo alle interiori condizioni armoniche e melodiche dell’esistenza universale, dalle quali egli stesso venne creato. In realtà corde meravigliose che hanno soltanto un’attività metamorfosata sono i fasci di nervi che partono dal midollo spinale. Il midollo spinale, che termina nel cervello e che irradia i singoli fasci nervosi in tutto il corpo, è appunto la lira di Apollo. Entro il mondo terrestre l’uomo animico-spirituale viene fatto risuonare su quei fasci di nervi. Lo strumento più perfetto di questo mondo è l’uomo stesso, e uno strumento musicale esterno incanta per lui i suoni artistici nella misura in cui l’uomo stesso nel risuonare delle corde di un nuovo strumento sente ad esempio qualcosa che è in relazione con la costituzione derivata dal complesso dei fasci nervosi e dalle vie del sangue. In quanto uomo dei nervi, egli è costruito interiormente sulla base della musica e la sente artisticamente, perché ciò che si presenta come musica si accorda con il segreto della propria costituzione musicale.

 

Quando dunque ci dedichiamo alla musica facciamo appello alla nostra parte animico-spirituale vivente sulla terra. Nella misura in cui nella concezione antroposofica scopriamo i segreti dell’intima natura umana spirituale-animica, possiamo agire proficuamente nella sfera musicale, non in teoria ma sulla creazione musicale. Pensiamo infatti che in realtà io non faccio della teoria se dico che, guardando nel mondo materiale inanimato e vedendolo colorato, quel che vedo è un ricordo cosmico. Con una giusta concezione antroposofica impariamo a comprendere come in tempi antichissimi l’attività degli dèi, nelle pietre dure, negli oggetti colorati e in genere nei colori, porti appunto oggi a ricordare gli dèi nella loro creazione originaria. Se diveniamo consapevoli che le cose sono colorate, perché gli dèi si manifestano attraverso le cose, suscitiamo l’entusiasmo che proviene dall’esperienza dello spirito. Non è una teoria, ma qualcosa che può attraversare direttamente l’anima con forza interiore. Non ne deriva una teoria relativa all’arte, ma in tal modo la creazione artistica e il suo stesso godimento risultano ravvivati. La vera arte è così soprattutto una ricerca della relazione fra l’uomo e lo spirito, sia lo spirito verso cui si aspira quando con l’anima si esce dal corpo, sia lo spirito che si vorrebbe conservare nel ricordo quando ci si immerge nel corpo, sia lo spirito col quale ci si sente affini (perché non ci si sente affini con le sole cose naturali che ci circondano).

 

Ci si sente infatti nello spirito, direi più nel mondo del colore, quando cessano l’interno e l’esterno, quando per così dire l’anima ondeggia e nuota nel cosmo, sentendo nel colore la propria vita nel cosmo, quando può essere dappertutto grazie al colore. Oppure quando l’anima sente ancora nel mondo fisico la sua affinità col cosmo animico-spirituale, come per la musica.

 

Arriviamo ora alla poesia. Molto di quanto avevo detto delle sensazioni poetiche dei tempi antichi, quando la poesia era ancora del tutto artistica, può farci presente come la poesia era sentita quando si aveva ancora una vivente relazione col mondo spirituale-animico. Ho già detto ieri che rappresentare come Caio e Sempronio si muovono sulla piazza del mercato del loro paesino non sarebbe stato qualcosa di sensato in tempi davvero artistici, perché sulla piazza i movimenti e i discorsi di Caio e di Sempronio sono sempre molto più ricchi di quelli che si potrebbero riportare. Per i Greci del grande periodo artistico sarebbe apparso del tutto assurdo presentare la gente al mercato o nelle loro case. Il naturalismo ha avuto la strana tendenza a presentare in teatro la vita del tutto naturalisticamente, perfino negli scenari. Quanto poco sarebbe vera pittura, se non si dipingesse su una superficie, ma si volesse in qualche modo stendere il colore nello spazio, cosi non è arte scenica se non si comprendono davvero artisticamente i mezzi scenici che di certo esistono. Per voler essere davvero naturalistici, non si dovrebbe in realtà presentare sulla scena una stanza e avere davanti degli spettatori. Non lo si potrebbe fare, perché una stanza del genere non esiste e d’inverno vi si gelerebbe. Le stanze sono chiuse da tutti i quattro lati, e per essere del tutto naturalistici si dovrebbe chiudere la scena e recitare dietro. Non so quanta gente comprerebbe il biglietto, ma mettere anche la quarta parete sarebbe conforme a tutti i principi dell’arte scenica reale e naturalistica. Ovviamente estremizzo, ma è così.

 

Ora desidero accennare a qualcosa che ho spesso ricordato. Omero inizia l’Iliade con le parole: «Cantami, o Musa del pe-lide Achille l’ira funesta». Non è una frase fatta, ma in realtà egli aveva la positiva esperienza di doversi elevare a una sopraterrena entità divino-spirituale che si serviva del suo corpo per dare forma artistica al racconto epico. Un racconto epico significava che dèi superiori erano sentiti femminili come le Muse, perché capaci di essere feconde. Egli doveva consultare divinità superiori e mettere a loro disposizione la sua entità umana per esprimere in tal modo i pensieri del cosmo negli avvenimenti umani. Il racconto epico è appunto far parlare gli dèi superiori, mettendo a loro disposizione il proprio essere umano. Omero inizia: «Musa, dell’uomo di multiforme ingegno dimmi, che molto errò», e intende Ulisse. Proprio non pensa di voler raccontare qualcosa che lui stesso aveva pensato o anche visto. Ma perché avrebbe dovuto farlo? Chiunque può farlo. Omero vuole senz’altro mettere a disposizione delle superiori entità divino- spirituali il proprio organismo, affinché esse raccontino come vedono gli eventi umani sulla terra. Da questo nasce la poesia epica.

 

E la poesia drammatica? Essa deriva, basta pensare al periodo precedente Eschilo, dalle rappresentazioni del dio Dioniso che agivano dal profondo. All’inizio vi era la singola persona del dio, poi del dio e del suo aiuto, il coro, che si riuniva per essere l’espressione non di ciò che gli uomini fanno, ma di quel che fanno gli dèi sotterranei, gli dèi della volontà che si servono delle figure umane per muovere sulla scena non la volontà umana, ma quella degli dèi. Solo a poco a poco, man mano che si dimenticava il legame dell’uomo col mondo spirituale, vi furono sulla scena solo azioni umane in luogo di quelle divine. Questo processo avviene già in Grecia da Eschilo, nel quale vediamo ancora dappertutto impulsi divini compenetrare gli uomini, a Euripide nel quale gli uomini si presentano come tali, sia pure ancor sempre con impulsi diremmo sovrumani, perché il vero e proprio naturalismo fu possibile solo nell’epoca moderna.

 

L’umanità deve comunque ritrovare la via allo spirito anche nella poesia. Possiamo quindi dire che la poesia epica si rivolge agli dèi superni, quella drammatica a quelli inferi; il vero dramma vede salire sulla terra gli dèi che vivono sotto la terra. L’uomo può farsi strumento per l’azione di quegli dèi inferi. Se da uomini per così dire guardiamo il mondo vediamo senz’altro nell’arte ciò che direttamente all’esterno vi è di naturalistico.

 

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Nella poesia drammatica abbiamo così il mondo spirituale inferiore che sale, e in quella epica il mondo spirituale superiore che discende. Le muse discendono per servirsi della testa degli uomini e per dire da muse nell’epica quel che gli uomini svolgono sulla terra, o in genere ciò che nell’universo viene svolto. E drammatico ciò che sale dalle profondità del mondo e che si serve dei corpi umani per muovere la volontà, la volontà degli dèi sotterranei.

 

Sul piano dell’esistenza terrena scendono come dalle nuvole le divine muse dell’arte epica, mentre dalle profondità della terra salgono i fiumi e i vapori delle dionisiache, sotterranee potenze divino-spirituali che attraverso gli uomini agiscono con la volontà verso l’alto. Dobbiamo vedere dappertutto sul piano terreno come per così dire vulcanicamente salga l’elemento drammatico, e come una pioggia benedicente discenda dall’alto in basso quello epico.

 

Al nostro livello in cui per così dire vediamo e sentiamo agire in noi le messaggere degli dèi superni insieme a quelli inferi, in cui in certo modo l’elemento cosmico (non sentito in teoria e con grettezza, ma in tutta la sua realtà) dal basso stimola, rallegra, fa ridere e gioire, sul piano centrale diventiamo lirici grazie al fuoco spirituale delle ninfe dall’alto.

 

Non sentiamo salire dal basso verso l’alto l’elemento drammatico, e discendere dall’alto in basso quello epico, ma sullo stesso nostro piano sentiamo vivere l’elemento lirico sottilmente spirituale che non piove sul bosco e non sale con forza dal vulcano e spezza gli alberi, ma che stormisce nelle foglie, che si rallegra nei fiori e soffia nel vento. Tutto ciò che sul piano materiale ci fa sentire lo spirito, tanto che il cuore si allarga, il respiro ne gioisce, e tutta l’anima si apre in ciò che nei fenomeni naturali sono un segno di fatti spirituali-animici, tutto questo è al nostro livello e vive e tesse nella lirica: si vorrebbe dire che guarda verso gli dèi superni con un volto gioioso, che osserva in basso con un volto un poco turbato gli dèi inferi, che però può comunque svilupparsi da un lato verso forme lirico-drammatiche e dall’altro può calmarsi in forme lirico-epiche, forme che sono sempre liriche perché noi sperimentiamo quel che abbiamo attorno sulla terra con la nostra parte centrale, col nostro essere senziente, sperimentando quel che esiste sulla terra attorno a noi.

 

Se davvero si entra nella sfera spirituale dei fenomeni del mondo, in effetti non si può altro che a poco a poco trasformare le contorte e astratte rappresentazioni in un reale tessere ed esistere, vivente e colorato. Direi che all’improvviso l’esposizione in idee diviene presentazione artistica, perché quanto abbiamo attorno vive artisticamente. Di conseguenza è sempre senz’altro presente l’esigenza di risvegliare le grossolane e astratte classificazioni concettuali (corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e tutto quanto è concettuale, ogni grossolana e lineare grottesca definizione, ogni orrenda definizione scientifica) per elevarle ai colori e alle forme artistiche. Questa è un’interiore e non solo esteriore necessità dell’antroposofia.

 

Si può quindi esprimere la speranza che l’umanità esca dalla pedanteria e dalla grettezza del naturalismo. E profondamente invischiata nella pedanteria, nella grettezza, nelle astrazioni, nelle teorie, nella scientificità, nella cosiddetta pratica, che poi pratica non è, e ha bisogno di una svolta. Fino a quando non avremo questa svolta, in effetti l’antroposofia non riuscirà a prosperare, perché in un elemento non artistico essa è di corto respiro; potrà respirare libera solo in un’atmosfera artistica. Rettamente compresa, essa porterà anche all’arte, senza per questo perdere anche solo di poco l’elemento conoscitivo.