Modificazioni nel corso delle incarnazioni a seguito dell’azione di gerarchie superiori.

O.O. 126 – Storia occulta – 29.12.1910


 

Sommario: Modificazioni nel corso delle incarnazioni a seguito dell’azione di gerarchie superiori. Differenza fra l’oggettività di una manifestazione e di un contenuto di coscienza. La discesa da una civiltà basata sulla chiaroveggenza ad un’altra basata sugli individui. Aristotele e la catarsi attraverso paura e compassione.

 

Alcuni degli argomenti trattati sin qui, che possono costituire un rapido sguardo sul corso occulto dell’evoluzione umana, servono già ad indicare come forze spirituali di gerarchie superiori intervengano a modificare il corso delle incarnazioni, dato dal carattere individuale e dallo sviluppo individuale degli uomini stessi. Nell’evoluzione dell’umanità la reincarnazione non è un evento così semplice come si vorrebbe presumere seguendo una certa comodità teorica. Certo, è un fatto che l’uomo si incarna sempre di nuovo, e che quel che chiamiamo il suo nucleo essenziale appare in sempre nuove incarnazioni; è altrettanto vero che esiste un nesso di causalità fra le vite che compaiono nelle incarnazioni successive e le vite precedenti. Esiste anche la legge del karma che per così dire è l’espressione di quel nesso di causalità. Ma al di là di questo c’è dell’altro ancora; e soltanto questo “altro” ci conduce a comprendere il cammino evolutivo storico dell’umanità. L’evoluzione dell’umanità avrebbe un corso ben diverso se, oltre ai nessi causali tra una incarnazione e la prossima oppure tra le incarnazioni precedenti e quelle seguenti, non restasse nient’altro da considerare. Altre importantissime forze intervengono invece di continuo nella vita umana, più o meno in ogni incarnazione – specialmente nei personaggi storici di rilievo – e si servono dell’uomo come di uno strumento. Da ciò si può dedurre che il vero e proprio sviluppo karmico della vita, insito nell’uomo stesso, viene modificato attraverso le incarnazioni; e così anche avviene.

 

Si può veramente parlare di certe leggi secondo le quali nell’epoca postatlantica e fino ai nostri giorni – e per ora vogliamo limitarci all’epoca postatlantica – gli influssi di altri mondi si collegano col karma individuale dell’uomo. Né vi è altro modo di uno schema per mostrare come si strutturano tali influssi e quale è il loro nesso con l’individualità umana.

 

 

La superficie tracciata nel mezzo del disegno vuol rappresentare quello che siamo soliti chiamare l’io umano, il nostro attuale nucleo essenziale umano. Inseriamo ora nel disegno le altre parti costitutive dell’entità umana, prescindendo per ora dalla distinzione dell’anima in anima senziente, anima razionale e anima cosciente. Qui dunque sono rappresentati schematicamente: corpo astrale, corpo eterico, corpo fisico.

 

Poiché intendiamo limitarci all’evoluzione postatlantica, cerchiamo di vedere in che cosa consisterà innanzi tutto l’avvenire dell’uomo, secondo i dati che abbiamo già esposti in diverse occasioni. Sappiamo che ci troviamo a metà dell’evoluzione postatlantica, che anzi la vera metà è già di poco oltrepassata. Qui ci basti ripetere che nel periodo di civiltà greco-latino venne a speciale sviluppo quella che chiamiamo l’anima razionale o affettiva, e che ora stiamo sviluppando l’anima cosciente. Nel periodo di civiltà babilonese-egizio si sviluppò l’anima senziente; nel precedente periodo persiano il corpo senziente o corpo astrale, e nell’antichissimo periodo indiano il corpo eterico dell’uomo. L’adattamento del corpo fisico alle nostre condizioni terrestri postatlantiche ebbe già luogo negli ultimi periodi prima della grande catastrofe atlantica. Se ora passiamo a disegnare nello schema anche le altre parti costitutive, possiamo dire che lo sviluppo dell’io nella nostra epoca postatlantica avviene in modo che durante il periodo indiano esso si svolge prevalentemente nel corpo eterico, durante il periodo persiano nel corpo astrale, durante il periodo egizio-caldaico nell’anima senziente, durante quello greco nell’anima razionale, mentre nel nostro periodo di civiltà si svolge nell’anima cosciente, vale a dire nella quinta parte costitutiva dell’uomo, contando le tre anime. In un sesto periodo di civiltà gli uomini si eleveranno ulteriormente, e in certo modo l’elemento animico dell’uomo crescerà fino al sé spirituale o manas; in un settimo periodo, l’ultimo dell’epoca postatlantica, sopravverrà una specie di congiunzione dell’uomo con lo spirito vitale o budhi; e in un tempo ancor più tardo, dopo la grande catastrofe che chiuderà la nostra epoca postatlantica, l’io si svilupperà nell’atma o uomo-spirito.

 

Queste sono cose ben note dal ciclo di conferenze sull’Apocalisse. Dobbiamo però rilevare che nel primo periodo, quello indiano, l’uomo era ancora nel suo sviluppo a uno stadio al di sotto di quello in cui vive l’io e che la civiltà paleoindiana prevedica era essenzialmente una civiltà ispirata, vale a dire una civiltà che fluì nell’anima umana senza il lavoro dell’io che conosciamo oggi quale nostro lavoro di pensiero e di rappresentazione. Dal periodo di civiltà egizio in poi, l’uomo deve essere attivo col suo io. Mediante i sensi deve rivolgere il suo io al mondo esteriore circostante per ricevere delle impressioni; deve partecipare attivamente al lavoro del proprio progresso. La civiltà paleoindiana era piuttosto una civiltà passiva, una civiltà più che altro tesa alla dedizione per quanto fluiva nell’entità umana come ispirazione. Riuscirà quindi comprensibile che si debba ricondurla a un’attività differente da quella che oggi spiega l’io umano; riuscirà comprensibile che per così dire l’attività presente dell’io fosse sostituita nell’anima indiana di allora dall’immergersi di entità superiori entro l’anima umana e dall’ispirazione che esse le davano.

 

Se ora chiediamo che cosa venisse riversato dal di fuori nell’anima umana, che cosa immergessero in lei le entità delle gerarchie superiori, potremo dire che è la stessa cosa che l’uomo si conquisterà più tardi come attività sua propria, allorché si sarà elevato fino a quello che chiamiamo alma o uomo-spirito. Con altre parole, l’individualità umana si eleverà in avvenire a un lavoro che la congiungerà con atma, sarà un lavoro proprio dell’anima umana, del nucleo essenziale umano, uno sforzo direttamente legato con l’intimo essere suo. E come l’uomo stesso lavorerà allora in se medesimo, così entità delle gerarchie superiori lavoravano intorno all’anima indiana. Per descrivere ciò che avveniva nei corpi eterici delle anime indiane, potremmo dire che una coscienza oscurata crepuscolare dell’io, cioè atma, lavorava nel corpo eterico. Potremmo dire che l’anima paleoindiana era il campo d’azione su cui si svolgeva in fondo un lavoro sopraumano, un lavoro di entità superiori entro il corpo eterico degli antichi indiani. Ciò che allora veniva intessuto nel corpo eterico era un lavoro quale l’uomo raggiungerà più tardi nel modo indicato, quando atma lavorerà al corpo eterico.

 

Nella civiltà persiana budhi o spirito vitale lavorò nel corpo astrale, nel corpo senziente. E più tardi, nella civiltà egizio- babilonese-caldaica manas o sé spirituale lavorò nell’anima senziente.

 

Così nemmeno nella civiltà egizio-babilonese-caldaica si svolse ancora un lavoro pieno e attivo dell’io entro l’anima stessa. Sebbene in grado minore di prima, l’uomo era tuttora un campo d’azione passivo per il lavoro del manas nell’anima senziente. Soltanto nel periodo greco-latino l’uomo penetrò pienamente attivo nella sua propria vita animica. Sappiamo che nell’anima razionale l’io si manifesta inizialmente quale interiore parte costitutiva umana indipendente, e perciò possiamo dire che nella civiltà greca, effettivamente, l’io lavorava nell’io, vale a dire l’uomo come tale nell’uomo stesso. Vedremo ancora nel corso di queste conferenze come il carattere speciale del periodo greco sia appunto che l’io lavora nell’io.

 

Ora però abbiamo oltrepassato da tempo il periodo greco, e mentre nei tempi pregreci entità superiori scendevano a immergersi nel nucleo essenziale umano e vi operavano, nel nostro tempo dobbiamo assolvere un compito opposto. Prima di tutto dobbiamo saperci conquistare in modo prettamente umano quel che abbiamo elaborato mediante il nostro io, quel che siamo in grado di accogliere attraverso le impressioni del mondo esteriore per mezzo della nostra attività; ma poi non ci dobbiamo fermare al punto in cui si fermavano gli uomini del periodo greco-latino, elaborando soltanto la parte umana, l’elemento di pura umanità. Dobbiamo invece innalzare ciò che elaboriamo e intrecciarlo in quel che deve venire: dobbiamo in certo modo prendere la direzione verso l’alto, verso quello che più tardi deve venire: il manas o sé spirituale. Questo però dobbiamo aspettarcelo soltanto nel sesto periodo di civiltà. Ora siamo in mezzo fra il quarto ed il sesto. Il sesto promette all’umanità che essa sarà in grado di elevare a regioni superiori quanto viene elaborato per mezzo delle impressioni esteriori che l’io riceve attraverso i sensi. Nel nostro quinto periodo siamo solo in grado di prendere per così dire le mosse per imprimere la direzione verso l’alto alle impressioni esteriori che elaboriamo, e a quel che raggiungiamo grazie a tale elaborazione. Sotto questo aspetto noi viviamo realmente in un periodo di transizione, e se ricordiamo quel che ieri è stato detto sulla potenza spirituale che agiva in Giovanna d’Arco, vedremo che già in essa era attivo qualcosa dell’influsso che muove nella direzione opposta agli influssi delle potenze superiori nel periodo pregreco. Se per esempio un appartenente alla civiltà persiana riceveva l’influsso di una potenza soprasensibile che si serviva di lui come di uno strumento, quella potenza influiva appunto nel suo nucleo essenziale umano, vi spiegava la sua vita; l’uomo vedeva e viveva allora ciò che quella potenza spirituale gli infondeva, ciò di cui lo ispirava. L’uomo dei nostri tempi che entri in relazione con tali potenze spirituali, può per così dire sollevare ciò che sperimenta nel mondo fisico mediante il lavoro e le impressioni del suo io, può dare alle sue esperienze la direzione verso l’alto. Perciò avviene che in certe personalità, come in Giovanna d’Arco, le manifestazioni delle potenze spirituali che le vogliono parlare si trovino nella sfera fino alla quale essa si eleva, ma che davanti a tali rivelazioni si intrometta qualcosa che, pur non pregiudicandone la realtà, conferisce loro una forma determinata: quel che l’io sperimenta qui nel mondo fisico. In altre parole Giovanna d’Arco ha delle rivelazioni, ma non può vederle in modo così diretto come le vedevano gli antichi; fra lei nella sua egoità e quelle potenze oggettive si pone ora il mondo di rappresentazioni che Giovanna d’Arco ha accolto nel mondo fisico: le immagini della vergine Maria e dell’arcangelo Michele, quali essa ha accolto in sé in virtù delle sue rappresentazioni cristiane.

 

Abbiamo qui al tempo stesso un esempio della distinzione che dobbiamo fare, trattandosi di cose spirituali, fra l’oggettività di una rivelazione e l’oggettività di un contenuto di coscienza. Giovanna d’Arco vedeva la vergine Maria e l’arcangelo Michele in una data immagine. Noi dobbiamo pensare tali immagini direttamente nella realtà spirituale; non dobbiamo ascrivere alla loro forma un’oggettività diretta. Se qualcuno però dicesse che tutto è soltanto fantasia direbbe una sciocchezza, poiché a Giovanna vengono incontro dal mondo spirituale delle rivelazioni nella forma in cui l’uomo potrà vederle nell’epoca postatlantica, e precisamente nel sesto periodo di civiltà. Ma se anche Giovanna d’Arco non vede la forma reale, pure questa discende in lei. Giovanna le porta incontro le rappresentazioni religiose del suo tempo, quasi la ricopre con queste; la potenza spirituale suscita il mondo rappresentativo dall’interiorità di Giovanna. La manifestazione è quindi da considerare oggettiva. Se ai tempi nostri, a proposito di un messaggio dai mondi dello spirito, si può provare che vi si immischiano degli elementi soggettivi, se anche non possiamo giudicare oggettiva l’immagine che una data persona si fa dei mondi spirituali, se anche è un semplice velo, pure non ci è lecito interpretare come un velo le manifestazioni oggettive stesse. Esse sono oggettive. Suscitano il contenuto dalla stessa nostra anima. Dobbiamo distinguere fra l’oggettività del contenuto e quella dei fatti che provengono dal mondo spirituale. Insisto su questo punto, poiché in tal campo vengono commessi degli errori tanto da coloro che ammettono il mondo spirituale, quanto dai loro avversari, benché questi ultimi li commettano in senso contrario.

 

Giovanna d’Arco rappresenta dunque una personalità storica che agisce già completamente nel senso del nostro tempo, il quale deve dirigere verso l’alto tutto quello che noi produciamo in base alle nostre impressioni esteriori. Ma che cosa vuol dire ciò, applicato alla nostra civiltà? Vuol dire che se volgiamo a tutta prima lo sguardo semplicemente su quanto ci attornia, e ci limitiamo a dirigere lo sguardo soltanto alle impressioni esteriori, non facciamo il nostro dovere. Lo facciamo soltanto se ci rendiamo conto che dobbiamo riferire le impressioni esteriori alle potenze spirituali che stanno dietro a loro. Non facciamo il nostro dovere se esercitiamo un’attività scientifica nel senso dell’erudizione solita. Dobbiamo considerare tutte le nostre esperienze sulle leggi dei fenomeni naturali e delle manifestazioni dell’anima in modo da sentirle come un linguaggio capace di innalzarci verso una rivelazione divino-spirituale. Se abbiamo la coscienza di dover considerare ogni legge fisica, chimica, biologica, fisiologica o psicologica in modo da riferirle a qualcosa di spirituale che ci si rivela, allora facciamo il nostro dovere.

 

Questo sia detto per le scienze odierne, come pure per l’arte. L’arte che chiamiamo greca, che si occupava semplicemente dell’uomo, che rappresentava l’elemento prettamente umano, il lavoro dell’io nell’io, in quanto l’io si esprime nella materia fisico-sensibile, quell’arte ha fatto il suo tempo. Oggi nelle personalità artistiche veramente grandi è sorto quasi per istinto l’impulso di fare dell’arte una specie di culto, di sacrificio ai mondi divino-spirituali, vale a dire di considerare come una interpretazione di misteri spirituali ciò che per esempio si riveste di suoni. A questa stregua la storia culturale occulta dovrà considerare un giorno in ogni particolare Richard Wagner. Appunto Wagner sarà da considerare come un uomo rappresentativo del nostro quinto periodo di civiltà, un artista che sempre sentì l’impulso a esprimere, in ciò che in lui viveva nei suoni, il suo anelito verso il mondo spirituale, e che sempre considerò l’opera 52 d’arte come un linguaggio esteriore del mondo spirituale. Nel nostro tempo vediamo qui starsi nettamente, anzi rigidamente di fronte gli avanzi della civiltà antica e l’aurora di una nuova. Abbiamo appunto visto gli avversari di Wagner difendere a spada tratta il semplice tessere umano nei suoni, la musica prettamente formale che Wagner voleva superare, perché essi non erano in grado di sentire in lui il sorgere istintivo di un impulso nuovo.

 

Non so se molti sappiano che Wagner per lungo tempo trovò i critici più aspri e i più terribili avversari. Critici e avversari ebbero una specie di guida nell’attività musicale straordinariamente elevata di Eduard Hanslick, attivo a Vienna. Egli scrisse l’interessante libretto Del bello musicale. Era la tradizione antica che veniva così a porsi di fronte al sorgere di una nuova aurora storica. Il libretto può costituire un documento storico per il più lontano avvenire. Che cosa voleva Hanslick? Egli diceva che non era possibile fare della musica alla maniera di Wagner; la musica di Wagner non era affatto musica, poiché tale musica prende per così dire lo slancio per indicare qualcosa che esorbita dal campo musicale, qualcosa di soprasensibile; invece la musica sarebbe un arabesco fatto di suoni. Era questa un’espressione cara a Hanslick. Vale a dire: un complesso di suoni coordinati come un arabesco; mentre il godimento estetico musicale può consistere in una gioia semplicemente umana provocata dall’armonia e dal succedersi dei suoni. Hanslick diceva che Wagner non era affatto un musicista, che non capiva per niente l’essenza del fatto musicale. L’essenza della musica deve consistere in una semplice architettura del materiale sonoro. Che cosa si può dire di tale fenomeno? Null’altro se non che Hanslick era eminentemente un codino, un reazionario del quarto periodo di civiltà. Per quel periodo aveva ragione; ma quel che va bene per un periodo, non vale più per il seguente. Dal suo punto di vista si può dire che Wagner non è un musicista, ma bisogna aggiungere che quel periodo è passato, che dobbiamo contentarci di quello che da esso deriva, dobbiamo riconciliarci col fatto che l’elemento musicale, nel senso di Hanslick, si evolve, al di là di se stesso, in qualcosa di nuovo.

 

Questo cozzo fra il vecchio e il nuovo sarebbe da studiare in molti campi, appunto nel nostro tempo; è anzi di straordinario interesse, specialmente nei singoli rami della scienza. Condurrebbe troppo lontano se volessimo mostrare come dappertutto vi siano reazionari e altri che vogliono invece trarre dalle singole scienze quello che la scienza è destinata a diventare: l’espressione cioè del di vino-spirituale che sta dietro ai fenomeni. La scienza dello spirito deve essere appunto il fattore fondamentale di cui il nostro tempo deve compenetrarsi perché il divino-spirituale diventi sempre più coscientemente la mèta e la prospettiva del nostro lavoro; la scienza dello spirito deve suscitare ovunque gli impulsi dal basso all’alto, deve ovunque stimolare le anime umane al sacrificio, vale a dire al sacrificio di ciò che acquistiamo mediante le impressioni esteriori, di fronte a quel che dobbiamo raggiungere elevandoci col nostro lavoro alle regioni del sé spirituale, dello spirito vitale e dell’uomo-spirito.

 

Se ci poniamo dinanzi agli occhi questo quadro della storia umana, della storia umana occulta, troveremo comprensibile che un’anima, incarnata nel periodo indiano e poi in quello persiano, potesse essere compenetrata dall’elemento ispiratore di un’individualità delle gerarchie superiori; e che più tardi, entrando nel periodo greco-latino, tale anima fosse sola con se stessa, e operasse in modo che appunto l’io lavorasse nell’io. Tutto ciò che nel periodo pregreco, in tutti i singoli cicli delle civiltà postatlantiche, appare come un’ispirazione divina, come una rivelazione dall’alto, (e questo vale anche per gli inizi del periodo greco nei secoli undicesimo, decimo e nono a.C.), tutto ciò che ci appare come una civiltà ispirata, nella quale fluisce dal di fuori quello che essa deve ricevere spiritualmente, tutto ciò si avvia a esprimersi sempre in modo puramente umano e personale. Questo fenomeno trova la sua massima espressione appunto nella civiltà greca. Nessun tempo vide prima, né potrà veder poi, una tale espressione dell’uomo, in quanto io basato su se stesso, nella persona come si manifesta nel mondo fisico. L’elemento puramente umano personale, l’elemento personale umano tutto racchiuso in se stesso ci si rivela storicamente nell’antico modo di vita del greco e nelle sue creazioni. Guardiamo come lo scultore greco abbia occultamente inserito l’elemento personale umano nelle statue delle sue divinità! Possiamo dire che nell’aspetto di una scultura greca, in quanto è conoscibile con mezzi fisici, l’uomo ci sta davanti nella sua completa personalità. Se di fronte a queste opere d’arte dei greci non potessimo dimenticare che l’incarnazione ivi rappresentata fu preceduta e sarà seguita da altre, se pensassimo per un attimo che una sola tra molte incarnazioni sta alla base della figura di Apollo o di Giove, noi non avremmo un senso giusto di fronte all’opera d’arte greca. Qui dobbiamo poter dimenticare che l’uomo ritorna a prender corpo in successive incarnazioni; qui la personalità piena e intera è riversata, è fusa nella forma di quell’unica personalità. E tale era tutta la vita dei greci.

 

Se invece ritorniamo più indietro, le figure divengono simboliche, accennano a qualcosa che non è meramente umano, esprimono qualcosa che l’uomo non sente ancora dentro di sé. Prima egli poteva esprimere soltanto in simboli ciò che proveniva da mondi divino-spirituali. Ne nacque l’antica arte simbolica. Se d’altra parte guardiamo come l’arte sorga nel popolo che doveva fornire il materiale al quinto periodo di civiltà, al nostro (basta tener presente l’antica arte germanica), vediamo come qui non abbiamo più a che fare con un simbolismo, e neppure con un’espressione dell’elemento puramente umano, ma con l’elemento animico che si approfondisce in se medesimo; vediamo come l’anima non riesca per così dire a entrare completamente nella forma umana. In che altro modo si potrebbero caratterizzare le figure del Durer, se non dicendo che la parte dell’uomo anelante ai mondi soprasensibili trova soltanto una espressione imperfetta (in senso greco) nella conformazione esteriore della corporeità? Da ciò deriva l’approfondimento dell’elemento animico, man mano che l’arte si sviluppa.

 

Ora non si troverà più strano che nella prima conferenza io abbia detto che appare come un’immagine nel mondo fisico ciò che prima era incarnato: entità delle gerarchie superiori fluivano nell’individualità. Se di un uomo dell’antico mondo greco diciamo che era incarnato, non dobbiamo quindi vedere soltanto quell’entità chiusa in sé, ma dobbiamo vedere dietro di lei l’individualità di una gerarchia superiore. Nel periodo greco-latino così ci appaiono Alessandro e Aristotele. Se ricerchiamo a ritroso le loro individualità, da Alessandro dobbiamo risalire a Gilgamesh e dire che in Gilgamesh si trova l’individualità che poi, come proiettata sul piano fisico, appare quale Alessandro; dietro ad essa dobbiamo scorgere uno spirito del fuoco che se ne serve come di uno strumento. Risalendo nel tempo, in Aristotele vediamo le potenze della chiaroveggenza antica che erano attive nell’amico di Gilgamesh. Nel periodo greco così ci appaiono interamente collocate sul piano fisico delle anime, giovani e vecchie, che prima erano chiaroveggenti. Questo fenomeno ci appare specialmente nella grande matematica Ipazia in cui viveva, come scienza e sapienza personale, tutta la sapienza matematica e filosofica dei suoi tempi. Tutto ciò era racchiuso nella personalità di Ipazia. Vedremo ancora come quell’individualità dovesse assumere appunto una personalità femminile, per poter fondere in sé in una 56 compagine così morbida tutto ciò che già aveva accolto nei misteri orfici, per esplicare nell’azione personale tutto ciò che, come discepolo dei misteri orfici, ella vi aveva accolto per mezzo degli ispiratori.

 

Vediamo dunque come nel succedersi delle incarnazioni umane, intervengano, modificandole, gli influssi del mondo spirituale. Posso solo accennare come l’individualità che era incarnata in Ipazia, che portava in sé la sapienza dei misteri orfici e la viveva personalmente, fosse poi chiamata in una incarnazione successiva a percorrere la strada opposta, a riportare cioè tutta la sapienza personale in alto, verso il divino-spirituale. Perciò Ipazia riappare circa alla svolta fra i secoli dodicesimo e tredicesimo come uno spirito importante, vasto, universale della storia moderna, uno spirito che influisce grandemente sulla sintesi delle conoscenze scientifiche e anche filosofiche. Vediamo così penetrare le potenze storiche nelle incarnazioni successive delle singole individualità.

 

Se consideriamo la storia in questo modo, osserviamo in realtà una specie di discesa dalle altezze spirituali fino al periodo greco-latino, e poi di nuovo una riascesa: un accumularsi di materiale fornito soltanto dal piano fisico durante il periodo greco e naturalmente fino ai nostri tempi, e un riportarlo su nel mondo dello spirito, attraverso un impulso cui la scienza dello spirito contribuisce, e a cui già istintivamente tendeva una personalità come Ipazia, reincarnata nel secolo tredicesimo.

 

Poiché attualmente la Società Teosofica internazionale è per così dire una palestra di malintesi, vorrei osservare a questo punto che un numero infinito di tali malintesi sono proprio sognati, cavati dal nulla. Così si cerca per esempio di contrapporre quello che vien detto qui, nell’ambito del nostro movimento teosofico tedesco, a ciò che in origine furono le rivelazioni del movimento teosofico moderno. Di conseguenza colgo volentieri l’occasione per indicare come ciò che qui è dato traendolo da originaria fonte rosicruciana, si armonizzi con molte delle rivelazioni che furono appunto date in origine al movimento teosofico. Proprio in questo momento ci si offre l’occasione di indicare qualcosa di questo genere. Io ho detto e ho svolto, del tutto indipendentemente da tradizioni, come certe personalità storiche siano quasi ombre di personalità anteriori rappresentate nei miti, dietro alle quali stavano gerarchie superiori. Ciò non va posto in contraddizione con le comunicazioni che la Blavatsky ha portato nella Società Teosofica. Altrimenti, per un puro malinteso, ci si potrebbe benissimo mettere in contraddizione con le buone antiche dottrine che sono fluite nel movimento teosofico per mezzo di quello strumento straordinariamente utile che fu la Blavatsky. In relazione all’argomento che è stato svolto or ora, desidero leggere un passo, tolto dagli ultimi scritti della Blavatsky, in cui accenna all’Isìde svelata, la sua opera occulta più antica. Desidero leggerlo per mostrare come in sostanza le dicerie intorno a tali presunte contraddizioni siano cavate dal nulla: «Oltre a ripetere continuamente l’antico fatto sempre esistente della reincarnazione e del karma – e ciò nel modo insegnato dalla scienza più antica del mondo, non dall’attuale spiritismo gli occultisti dovrebbero insegnare una reincarnazione ciclica procedente di pari passo con l’evoluzione: quel genere di rinascita che riesce misteriosa e incomprensibile ai molti che non sanno nulla di quella storia del mondo alla quale abbiamo accennato prudentemente nell’Iside svelata. Una rinascita generale per ogni individuo con pause intermedie di kamaloca, e devachan; e, per alcuni, un’incarnazione cosciente, ciclica, con grandi mete divine. Quei personaggi eminenti che si elevano nella storia dell’umanità quali giganti, come Siddartha Buddha e Gesù nel campo spirituale, Alessandro il Macedone e Napoleone il Grande nel campo delle conquiste fisiche, non sono altro che figure riflesse di grandi archetipi, i quali esistono – non da diecimila anni, come accenna prudentemente l’Iside svelata – ma da milioni di anni consecutivi, dal principio del manvantara, poiché, come fu spiegato più sopra – ad eccezione dei veri avatara – queste immagini dei loro archetipi, corrispondenti ciascuno alla propria fiamma-genitrice, sono gli stessi non spezzati raggi (Monadi) chiamati Devas, Dhyan Chohans o Dhyani Buddhas o anche Spiriti dei Pianeti ecc. che risplendono pari ai loro archetipi, attraverso agli coni, all’eternità. Nascono a immagine loro alcuni uomini; e quando è prospettata una qualche speciale meta umanitaria, queste immagini vengono animate ipostaticamente dai loro archetipi divini, sempre di nuovo generati dalle potenze misteriose che guidano e dirigono i destini dell’universo».

 

Nel momento della pubblicazione dell’Iside svelata non si poteva dire di più: perciò l’osservazione si limitò a rilevare che «non esiste personaggio eminente negli annali della storia sacra o profana, di cui non potremmo trovare il prototipo nelle tradizioni metà leggendarie, metà reali di religioni e mitologie passate. Come l’astro che risplende sul nostro capo nelle illimitate infinità dei cieli si rispecchia nelle acque tranquille di un lago, così l’immagine dell’umanità di epoche antidiluviane, viene rispecchiata in quei periodi che possiamo abbracciare con lo sguardo storico retrospettivo».

 

Ripeto che colgo volentieri l’occasione per affermare la concordanza di ciò che può venire indagato nel presente immediato con quel che in certo senso era rivelazione primordiale. Si sa che è nostro principio di rimanere per certi aspetti fedeli alle tradizioni del movimento teosofico, ma in pari tempo di non ripetere nulla senza esaminarlo; lo rilevo espressamente, poiché è importante. Quando sia possibile rilevare una concordanza di conoscenze, essa va messa bene in rilievo, secondo giustizia e a favore della continuità della Società Teosofica; ma nulla deve venir ripetuto senza previo esame. Ciò è connesso con la missione che abbiamo appunto nel nostro movimento teosofico tedesco: di portare cioè nel movimento teosofico un impulso proprio, individuale. Ma appunto esempi come questi possono mostrare come sia infondato il pregiudizio, sorto qua e là, che a tutti i costi noi vogliamo dire qualcosa di diverso. Noi proseguiamo fedelmente il nostro lavoro, senza frugare continuamente nei dogmi antichi; ma esaminiamo anche quello che oggi ci viene offerto da altre parti. Rappresentiamo quindi ciò che può venir detto con la migliore coscienza occulta in base alle indagini occulte originarie e ai metodi tramandatici dalle nostre sacre tradizioni rosicruciane.

 

È ora straordinariamente interessante mostrare con l’esempio di una singola personalità come le cose antiche, ispirate nell’umanità sotto l’influsso di potenze superiori, abbiano poi assunto negli uomini del periodo greco-latino un carattere tutto rivolto al piano fisico. Possiamo così vedere che Eabani, nell’incarnazione intermedia fra Eabani e Aristotele, potè accogliere ciò su cui veramente in certe scuole di misteri poggia il progresso dell’anima umana, grazie all’influsso delle antiche dottrine dei misteri con le loro forze discendenti dai mondi soprasensibili. Non vogliamo ripetere qui la descrizione dei caratteri più salienti delle diverse scuole di misteri, ma rivolgere il nostro sguardo spirituale verso una data specie di esse, verso le scuole che, suscitando nell’anima certi sentimenti ben definiti, ne promovevano il progresso al punto che essa imparasse a penetrare nel mondo sopra-fisico. In tali misteri si coltivavano più specialmente nell’anima quei sentimenti e quegli impulsi che erano atti a sradicare dall’anima ogni egoismo. Si chiariva all’anima come essa in fondo, finché è incarnata in un corpo fisico, debba sempre essere egoista. Tutta la portata dell’egoismo, e la sua importanza per il piano fisico, veniva per così dire fatta presente all’anima in questione, ed essa si sentiva tanto profondamente contrita da dirsi: “Sin qui ho conosciuto soltanto l’egoismo; nel corpo fisico non posso essere che egoista”. Sì, una tale anima era ben lontana dal facile punto di vista di coloro che dicono ogni momento di fare qualcosa per gli altri, non per se stessi. Superare l’egoismo e tendere a ciò che è umano in genere e a ciò che è cosmico, non è così facile come si crede. Prima di arrivarvi l’anima deve essersi sentita annullata davanti alla vastità dell’egoismo dei propri impulsi. Nei misteri che qui intendo, l’anima doveva imparare la compassione di fronte a tutto ciò che è umano, che è cosmico; la compassione attraverso il superamento del piano fisico. Allora si poteva sperare che essa avrebbe riportato dai mondi superiori il vero sentimento di compassione per tutto ciò che vive ed esiste.

 

Ma un altro sentimento ancora doveva venire segnatamente coltivato come sentimento principale accanto ad altri. Se l’uomo vuol penetrare nel mondo dello spirito, deve rendersi conto che là tutto è diverso dal mondo fisico. Quando ci si mette faccia a faccia col mondo dello spirito, si sta di fronte a qualcosa del tutto sconosciuto; si sente allora veramente di essere in pericolo, si sente la paura dell’ignoto. Appunto per disabituarsi ai sentimenti di paura, di ansia, di spavento e di orrore, in quei misteri l’anima doveva vivere tutte le esperienze che essa può provare in fatto di paura, di ansia, di spavento e di orrore. Allora l’uomo era armato per poter salire ai mondi spirituali il cui contenuto gli era ignoto. L’anima del discepolo dei misteri doveva quindi educarsi a un sentimento comprensivo e universale di compassione, e ad un sentimento universale di intrepidezza. Questa era un’esperienza che ogni anima doveva vivere negli antichi misteri ai quali prese parte Eabani allorché riapparve nell’incarnazione intermedia fra Eabani ed Aristotele. Fu esperienza anche sua, e riaffiorò in Aristotele come ricordo di incarnazioni anteriori. Di conseguenza egli potè elaborare la teoria della tragedia perché, dal riaffiorare di quei ricordi, al cospetto della tragedia greca, gli balenò nella mente come in essa vi fosse un’eco, quasi un epilogo esteriore, trasportato sul piano fisico, dell’educazione avuta nei misteri, dove l’anima viene purificata mediante compassione e paura. Così l’eroe tragico e tutta la struttura di una tragedia, davanti agli spettatori dovevano svolgere scene che in essi facessero rivivere, mitigate, la compassione per il destino dell’eroe e la paura per l’esito del suo destino, per la morte spaventosa che lo minacciava. Così in tutto lo svolgimento drammatico e nella vita della tragedia erano intessute le esperienze dell’antico mistico; la purificazione, la catarsi, mediante paura e compassione. Come un’eco, l’uomo appartenente al periodo greco doveva sperimentare sul piano fisico questo passaggio attraverso paura e compassione. Si doveva sperimentare artisticamente, in un godimento estetico, ciò che un tempo era stato un grande principio educativo. Quando ciò che aveva imparato nelle sue incarnazioni anteriori giunse nella personalità di Aristotele, egli fu l’uomo adatto per dare la speciale definizione della tragedia che divenne poi classica al punto da esercitare un influsso così grandioso che, ancora nel secolo diciottesimo, fu accolta da Lessing e che ancora nel secolo successivo sollevò discussioni così numerose da riempirne intere biblioteche. Poco però si perderebbe se la massima parte di quello che esse contengono in proposito andasse bruciata, poiché origina da una completa ignoranza di quel che ora è stato detto e cioè che nell’arte si proietta qualcosa che vive nello spirito. Chi scrisse quei libri non supponeva che Aristotele rivelasse un antico segreto dei misteri dicendo che una tragedia è un insieme di azioni successive, raggruppate intorno a un eroe, atte a destare nello spettatore il sentimento della paura e della compassione, affinché nella sua anima potesse aver luogo una purificazione.

 

Cosi vediamo proiettato in una singola personalità, in quello che essa vuole e dice, ciò che riesce comprensibile soltanto se, attraverso la personalità, si guarda a chi le sta dietro, al suo ispiratore. Soltanto uno studio storico siffatto permetterà di valutare l’importanza di personalità e di potenze superiori nella vita della storia; di vedere come nelle incarnazioni individuali agisca quello che la Blavatsky chiama la cooperazione tra incarnazioni individuali personali e l’elemento che lei così descrive: «Ma accanto al noto fatto sempre sussistente della reincarnazione e del karma, gli occultisti dovrebbero annunciare una reincarnazione ciclica e che va di pari passo con l’evoluzione». Essa la chiama una reincarnazione cosciente. Per la maggioranza degli uomini le incarnazioni susseguentisi restano oggi incoscienti per l’io, mentre le potenze spirituali che operano dall’alto, realmente trasportano, ciclicamente e con piena coscienza, la loro forza da un periodo di civiltà all’altro.

 

Le rivelazioni dei misteri rosicruciani dateci dalla Blavatsky, nel suo primo periodo, possono dunque assolutamente venir controllate e confermate mediante indagini originali. Si vedrà che ne resta essenzialmente modificata la maniera assai comoda di concepire un’incarnazione sempre soltanto come effetto di quella precedente. Si comprenderà allora che la reincarnazione è un mondo di eventi ben più complicato di quanto non si presuma comunemente, e che la possiamo capire fino in fondo, solo considerando l’uomo quale membro di un mondo sopra-fisico che continuamente opera nel nostro mondo. Nel periodo intermedio che denominiamo civiltà greco-latina, all’uomo fu lasciato del tempo affinché egli potesse risentire come in un’eco, in un io puramente umano, tutto ciò che da mondi superiori, attraverso lunghe serie di incarnazioni, gli era stato deposto nell’anima.

 

Quel che il periodo greco-latino espresse nella sua vita, fu come un vivere fino in fondo, in maniera personale-umana, gli infiniti ricordi che in quelle medesime individualità erano fluiti un tempo da mondi superiori. Che meraviglia dunque, se i sommi spiriti appunto del mondo greco ne ebbero speciale coscienza? Guardando nell’intimo loro, essi si dicevano: “Un mondo fluisce da noi; dei mondi si allargano nella nostra personalità; ma sono ricordi di ciò che prima fu versato in noi dai mondi superiori”. Si legga in Platone come egli faccia risalire quel che l’uomo può sperimentare a un ricordo che l’anima conserva delle sue esperienze trascorse. Si vedrà che uno spirito come Platone attingeva a una profonda reale coscienza esistita nel quarto periodo postatlantico. Impareremo a comprendere il significato di un singolo detto di una personalità così eminente, solo se potremo penetrare con lo sguardo occulto nello spirito delle epoche.