Risposte a domande dopo la conferenza

O.O. 332a – Cultura, politica, economia – 28.10.1919


 

Vengono richieste informazioni sul modo in cui il relatore pensa che queste considerazioni possano essere messe in pratica.

 

Gradirei sapere in che misura l’arte moderna possa essere definita in un certo senso naturalistica.

 

Rudolf Steiner: Innanzitutto mi è stata posta per iscritto questa domanda:

Il suo concetto di libertà non è simile a quello del superuomo di Nietzsche nella Gaia scienza?

 

Cari ascoltatori, per quanto riguarda la mia visione dell’essere umano in rapporto al concetto di libertà, posso rinviarvi a come lo descrivo nella mia Filosofia della libertà – per prima cosa nel mio breve scritto Verità e scienza, e poi nella Filosofia della libertà.

Rispetto alla concezione del mondo di Nietzsche mi sono espresso nel mio libro Friedrich Nietzsche: un lottatore contro il suo tempo, scritto nel 1894.

 

È assolutamente giusto che anche chi, come me, si rende conto della necessità di un approfondimento e di un rinnovamento del concetto di libertà, e di conseguenza di tutto l’essere umano, possa vedere nella concezione di Nietzsche, pur contestabile sotto certi punti di vista, i germogli di quello che in effetti rappresenta il desiderio più profondo degli esseri umani, l’aspirazione ad un’organizzazione futura della civiltà.

 

La vita e l’ideologia di Nietzsche sono straordinariamente interessanti, e forse il modo migliore per approfondirne la conoscenza consiste nel prendere in considerazione quanto c’è di tipico nel suo rapporto con il periodo combattuto dell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo. Nella sua tragica esistenza, Nietzsche ha lottato per comprendere la libertà dell’uomo, e lo ha fatto tramite un suo rapporto profondamente tragico con lo svolgersi delle concezioni del mondo nell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo.

La figura di Nietzsche mi appare nel modo seguente: in lui si è espresso forse con la massima intensità tutto quello che viveva negli uomini migliori dell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo. Ma in parte questo trovava in lui una natura che non era all’altezza di dominare del tutto i problemi, che non era in grado di formulare e ponderare fino in fondo gli enigmi che gli gravavano sull’anima. Si potrebbe dire che il destino di Nietzsche è stato quello di soffrire di tutte le correnti ideologiche di cui era possibile soffrire nell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo.

 

Si veda innanzitutto come, dopo aver superato le conoscenze scolastiche che aveva assimilato da filologo in maniera brillante, abbia familiarizzato con la concezione del mondo di Wagner e Schopenhauer. Chi conosce il bel testo di Nietzsche dal titolo Schopenhauer come educatore saprà che per lui questo prendere confidenza con Schopenhauer e Wagner ha rappresentato una lotta interiore che è dovuta finire con una sofferenza per questa ideologia che conteneva molti degli impulsi futuri dell’umanità, ma che non è riuscita ad essere veramente incisiva sul piano sociale.

Così possiamo dire che nel 1876 Nietzsche ha abbandonato questa concezione, per rivolgersi ad una più positivista, più scientifica. Mentre era immerso nella visione di Schopenhauer e di Wagner, aspirava a liberarsi dall’elemento scientifico per accostarsi alla realtà con una disposizione d’animo artistica, per avvicinarsi ad essa più di quanto non fosse possibile attraverso la scienza.

 

Dopo aver sentito che ciò era insufficiente, si è rivolto all’orientamento positivista, cercando per così dire di giungere alla realtà mediante un’intensificazione dell’anelito scientifico, osando infine spingersi a quelle che oggi troviamo come le sue idee dell’eterno ritorno delle stesse cose e del superuomo. Quest’ultima idea ha cercato di esprimerla liricamente nel suo Zarathustra. È poi crollato nell’istante in cui ha voluto applicare ai grandi problemi dell’evoluzione dell’umanità dell’era moderna quella che aveva sviluppato come idea del superuomo, la trasformazione dell’uomo comune in un essere superiore.

 

Proprio per quanto riguarda Nietzsche, è molto significativo vedere come sia riuscito a familiarizzare con tutto quello che c’era in quel periodo. In fin dei conti il suo problema del superuomo altro non è che l’estensione del principio darwinistico a tutta l’evoluzione dell’umanità. Come l’uomo rappresenta qualcosa che evolve dall’animale, così il superuomo dev’essere qualcosa che si sviluppa a partire dall’uomo.

La tragedia di Nietzsche consiste nel suo essersi sentito sempre in contrasto con certi tratti caratteristici della sua epoca, l’ultimo terzo del diciannovesimo secolo, ed è per esempio interessante che si sia spinto fino all’idea dell’eterno ritorno di tutte le cose, che a certi può apparire grottesca, di quell’ordine cosmico in base al quale tutto quello che accade deve ripetersi uguale in un movimento ritmico eterno. A molti quest’idea dell’eterno ritorno era sembrata estremamente paradossale anche dal punto di vista psicologico.

 

Una volta ebbi l’occasione di parlare di queste cose con diversi studiosi nell’archivio di Nietzsche; si parlava anche di questo eterno ritorno in relazione all’idea nietzschiana del superuomo. E io dissi: «Così come si è manifestata in Nietzsche, quella dell’eterno ritorno mi sembra l’idea opposta a quella di un positivista molto rigido e pedante del diciannovesimo secolo, Eugen Dühring.» Curiosamente Dühring ne parla in un punto, credo nel suo compendio filosofico, a cui dà il nome di Filosofia della realtà: partendo da determinati presupposti si potrebbe quasi ardire di sostenere un’idea come quella dell’eterno ritorno degli avvenimenti cosmici, un’idea del tutto impossibile.

Io dissi: l’idea nietzschiana dell’eterno ritorno di tutte le cose è l’idea opposta a questa, e in effetti può essersela formata solo dopo aver letto Dühring ed essersi detto: può essere giusto solo il contrario di quello che pensa un tale individuo del diciannovesimo secolo. E, vedete, eravamo nella biblioteca di Nietzsche. Io presi la Filosofia della realtà di Dühring, aprii la pagina e trovai il passo corrispondente: lì accanto, ben sottolineato, c’era scritto “asino”! È un commento che si trova a margine di molti libri appartenuti a Nietzsche. È allora che in lui è nata l’idea contrapposta a quello che ha trovato in uno spirito dell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo.

 

È un fatto che in Nietzsche si ripete con notevole frequenza: l’esposizione di cose che riteneva elementari, che dovevano continuare ad evolversi – e poi la totale opposizione ad esse. Se nell’archivio di Nietzsche vi dovesse capitare di prendere in mano la sua copia di Guyau sulla morale francese, vedreste che tutte le pagine sono completamente evidenziate e potreste rendervi conto di come ha sofferto per le idee del diciannovesimo secolo e di come ha cercato di elaborarle ulteriormente. È interessante pure la sua copia dei Saggi di Emerson, che non solo è piena di sottolineature, ma dove interi paragrafi sono incorniciati a matita e numerati, così che da Emerson ha ricavato una specie di sistematica.

 

Allora si può capire come in effetti Nietzsche mirasse a trovare un simile concetto di libertà. Tuttavia non posso dire che ci sia qualche pagina di Nietzsche in cui si palesi chiaramente lo stesso impulso che vuol emergere per mezzo della scienza dello spirito, e che oggi vi ho descritto con l’esempio del bambino di cinque anni alle prese con le poesie di Goethe.

Nietzsche non aveva dentro di sé quell’orientamento animico che gli consentisse di muoversi in quella direzione. Lo potete arguire già dall’inizio del suo Anticristo, dove nel primo, nel secondo e nel terzo capitolo ribadisce che il superuomo non è qualcosa di spirituale, bensì qualcosa che va allevato fisicamente in futuro e via dicendo. Quindi in Nietzsche quasi ogni concetto è ambiguo, ma è proprio da questa ambiguità che dobbiamo uscire. Per questo credo che Nietzsche sia uno spirito estremamente ricco di spunti, ma che non sia possibile fermarsi a nessuna delle sue conclusioni. È così che desidero rispondere alla domanda espressa prima.

 

• Dalla sua conferenza sembra risultare che dovremmo riavvicinarci al mistero del Cristo. Significa che gli dovremmo dare lo stesso contenuto che gli ha dato l’epoca in cui ha avuto luogo?

 

Cari ascoltatori! Vedete, una delle migliori esposizioni nella Filosofia della rivelazione di Schelling è quella dove fa notare che nel cristianesimo quello che conta non è tanto la dottrina quanto la comprensione di un fatto storico. Quello che si è verificato all’inizio del cristianesimo è un fatto, un evento. Ora si tratta di questo: quando si parla di una dottrina si può essere facilmente indotti a trasformarla in un dogma. E se si hanno le idee chiare sull’evoluzione dell’umanità, ci si deve dire: tutte le dottrine sono in continua evoluzione, progrediscono con l’umanità stessa. I fatti invece si trovano in quei momenti dell’evoluzione storica in cui sono avvenuti e là restano!

 

Ma già quando abbiamo a che fare con l’uomo comune, non vogliamo forse imparare qualcosa del suo essere reale entrando in contatto con lui? E se diventiamo un po’ più saggi, impareremo a conoscere questo essere diversamente e meglio. In particolar modo, di fronte ad un personaggio importante possiamo dirci che capiamo per ora questa o quella cosa, ma progredendo oltre ne coglieremo altri aspetti ancora.

Lo stesso avviene di fronte ad un fatto, ad un evento quanto mai ricco nella sua struttura fondamentale. I cristiani dei primi secoli avranno inteso in un certo modo il fatto del mistero del Golgota, ma è possibile che i modi di vedere un simile evento facciano dei progressi. Ed è proprio questo che ha in mente la scienza dello spirito: non il rinnovamento di una dottrina che è già esistita, ma la possibilità di avere una visione evoluta di questo mistero, cioè conforme allo spirito umano d’oggi. Questa è la risposta che desidero dare alla domanda che mi è stata fatta.

 

• A proposito di una conoscenza scientifica, come per esempio quella relativa alla natura dei nervi, è possibile dire che sia sociale o asociale?

 

Qui si tratta di qualcosa di cui parlerò volentieri anche nella conferenza di domani. Oggi comunque desidero dire questo: in definitiva anche tutti gli avvenimenti esteriori che si svolgono nella convivenza sociale umana dipendono dal modo in cui gli uomini pensano, sentono e vogliono. È solo un punto debole della nostra epoca quello di voler far derivare dalle condizioni esteriori tutto quello che l’uomo pensa, sente e vuole, quello di voler per così dire considerare l’uomo un prodotto degli avvenimenti e delle istituzioni esteriori.

In verità tutto quello che esiste in forma di istituzioni esteriori risale a ciò che gli uomini hanno pensato, vissuto e voluto. Ecco allora che delle istituzioni esteriori sane segnalano la presenza di pensieri sani, mentre quelle malsane rimandano a pensieri malsani. E viceversa, un’epoca che pensa in maniera malsana a proposito di molte cose non potrà sviluppare impulsi volitivi sani per quanto riguarda la vita esteriore.

 

Vedete, all’interno della nostra comune concezione socioeconomica, il concetto più problematico è quello di lavoro umano. L’ho già accennato, ho detto che nel marxismo, per esempio, il concetto della forza lavorativa riveste un ruolo notevole, ma il punto è che in questa teoria marxista il concetto di lavoro viene visto da un’ottica completamente sbagliata. Il lavoro, la forza lavoro in quanto tale, ha un significato a livello sociale per via della prestazione e della funzione che la prestazione riveste nella convivenza sociale degli uomini.

Qualche giorno fa vi ho detto che c’è una grande differenza fra l’esaurire la propria forza lavoro praticando uno sport o spaccando la legna. Quando l’uomo spacca la legna, l’importante è il modo in cui il suo lavoro confluisce nella convivenza sociale, non il consumo della forza lavorativa in quanto tale. Così nei prossimi giorni emergerà che non rendiamo giustizia al lavoro come funzione sociale se, invece di considerarlo in questo suo inserirsi nell’organismo sociale, parliamo solo del consumo della forza lavoro in quanto tale.

 

A questo punto ci si può chiedere: da dove vengono questi concetti sbagliati a proposito del lavoro? Chi ha le idee giuste sui cosiddetti nervi motori, prima o poi si farà di certo dei concetti giusti anche sulla funzione del lavoro nell’organismo sociale. Chi si rende conto che non ci sono nervi motori, ma che i cosiddetti nervi motori sono solo nervi che ci fanno sentire l’arto in questione a cui la volontà trasmette la propria forza, porterà a coscienza la forza reale con cui agisce nel mondo esteriore ogni impulso volitivo – già per il fatto di essere forza volitiva e di manifestarsi nel lavoro.

Ma in questo modo, grazie ad un giusto concetto della volontà e della relazione che intercorre fra essa e l’organismo umano, si avrà un punto di riferimento per capire la parentela che c’è fra la volontà e il lavoro. E grazie a questa idea, si arriverà anche a farsi dei concetti sociali corretti, delle idee e dei sentimenti sociali esatti.

 

Si può dire che il modo in cui l’uomo pensa a livello sociale dipende sotto molti aspetti dalla sua capacità di sviluppare in modo corretto o meno determinati concetti riguardanti la natura. Bisogna aver ben chiaro che chi sostiene che nell’uomo sono i nervi motori a stimolare la volontà non sarà mai in grado di ravvisare un’effettiva connessione fra il fattore che attiva il lavoro – la volontà – e la funzione del lavoro nell’organismo sociale. Era questo che vi volevo anticipare oggi a proposito di questo argomento.

 

Come si deve valutare l’espressionismo?

 

Vedete, cari ascoltatori, lo posso mettere in relazione con quest’altra domanda:

In che misura può essere definita naturalistica l’arte moderna?

 

Come ho già accennato nel corso della conferenza, non sono affatto dell’opinione che tutti gli artisti stiano su un terreno naturalistico. Sarebbe sbagliato, dal momento che proprio questi ultimi decenni ci hanno mostrato molti artisti che cercano proprio di uscire dal naturalismo. Ma una cosa è parlare di quest’evoluzione dell’arte che è ancora agli inizi e un’altra è parlare del fenomeno complessivo dell’arte nella nostra vita attuale. Ed è con questo che abbiamo a che fare oggi.

In primo luogo si potrà allora dire che la nostra concezione dell’arte in quanto tale, la posizione dell’arte nella nostra vita pubblica è tale per cui alla sua base c’è solo l’elemento naturalistico. Ciò che cerca di uscire dal naturalismo è qualcosa che non è ancora riuscito a incidere a livello sociale.

 

Forse il momento in cui meglio vi rendete conto che l’elemento essenziale e determinante nella nostra tendenza artistica è quello naturalistico non è quando volete descrivere delle opere d’arte, quando volete prendere in esame gli artisti, ma ve ne accorgete piuttosto analizzando i gusti artistici del pubblico, verificando per quante persone, onde sapere se il personaggio di un romanzo è buono o brutto, l’unico parametro è quello di potersi dire: «Questo è assolutamente realistico» – intendendo che è riprodotto in modo naturalistico sul modello della vita esteriore. È il giudizio meno artistico che si possa emettere, eppure al giorno d’oggi è il più frequente. E di questi tempi in molte cose si può addirittura toccare con mano come tutto si orienti al naturalismo, solo che non ci si accorge che tutto è diventato naturalistico.

 

Prendiamo per esempio l’arte declamatoria del presente. Vi ricordo che oggi perlopiù si declama e si ritiene giusto declamare cercando di mettere in risalto con l’intonazione o qualche altra cosa il contenuto prosaico della poesia. Se ritorniamo ai tempi antichi dell’evoluzione dell’umanità, troviamo qualcosa che se abbiamo una certa età abbiamo ancora potuto vedere presso le popolazioni primitive delle campagne: allora la gente recitava andando su e giù, dando un ritmo a tutto l’organismo.

Lì si manifesta qualcosa che rimanda all’elemento prettamente artistico. Quando scriveva una poesia, nella maggior parte dei casi Schiller aveva una vaga melodia nell’anima. Solo in un secondo tempo trovava le parole adatte. Significa che alla base delle sue composizioni c’erano originariamente la melodia, il ritmo, il tempo. Goethe ha allestito la sua Ifigenia, un’opera drammatica, con la bacchetta da direttore d’orchestra e sosteneva che quello che nella recitazione odierna viene trascurato fosse proprio la cosa più importante. A lui interessava pochissimo dare espressione all’elemento che oggi si ritiene essenziale, vale a dire al contenuto in prosa.

 

Solo andando oltre al naturalismo della nostra epoca – che da molti non viene affatto vissuto come tale, ma che viene invece percepito, come nel caso della recitazione, come il vero spirito dell’arte –, superandolo nei più svariati ambiti della vita, potremo vedere quanto il nostro tempo sia immerso in quella corrente.

Movimenti come l’espressionismo cercano in effetti di uscire dal naturalismo. E in tali casi bisogna dire: per quante obiezioni si possano sollevare alle opere degli espressionisti di oggi, esse hanno fornito all’arte contributi di tutto rispetto. La rappresentazione di quello che non si vede nella realtà esteriore ma che può solo rivelarsi alla visione interiore dell’uomo è un primo passo per andar oltre il naturalismo. Che spesso i tentativi degli espressionisti risultino maldestri è dovuto al fatto che attualmente gli uomini non sono molto progrediti nell’osservazione dello spirito.

 

Annovero invece l’impressionismo fra le manifestazioni estreme del naturalismo, poiché lì non viene neanche fatto il tentativo di comprendere qualcosa nella sua realtà naturalistica, bensì quello di cogliere l’impressione di un singolo istante. E questo impressionismo, per quanto intelligente possa sembrare, è l’ultima conseguenza del naturalismo. Mentre direi che l’espressionismo è un tentativo spasmodico di tirarsi fuori dal naturalismo.

Da queste cose si potrebbe vedere anche esteriormente, se non lo si sente a livello interiore, come la moderna tendenza artistica sia immersa nel naturalismo. In fin dei conti, credo che al giorno d’oggi si tenda a criticare aspramente qualunque cosa che non abbia la pretesa di far concorrenza alla realtà esteriore, ma che voglia piuttosto rivelare una visione spirituale. Era principalmente questo che volevo farvi notare.

 

Poi mi è anche stato chiesto:

Come metto in pratica quello che viene esposto in queste conferenze?

 

Vedete, chi si basa sul fatto che tutto ciò che viene prodotto nella vita sociale esteriore provenga dall’uomo, non dubiterà neppure per un attimo di questo: se un numero sufficiente di uomini è fortemente convinto di una certa cosa, allora si apre la via perché questa si realizzi nella prassi esteriore. Si tratta solo di rendersi conto una buona volta della relazione che intercorre fra il vissuto interiore, che comprende anche ciò che è scientifico-spirituale, e la prassi esteriore.

Prendiamolo in esame nel piccolo: che ci crediate o no – di queste cose può parlare solo chi ne ha fatto l’esperienza –, potete credere che l’uomo, per il semplice fatto di accogliere dentro di sé la scienza dello spirito, di capirne interiormente il significato, acquisisca un sapere riguardo a dei mondi forse molto interessanti. Ma non è così. Quello che vorrei dire, che ci crediate o no, è questo: se l’uomo penetra davvero a fondo in quella che vi ho presentato come scienza dello spirito, non gli viene dato qualcosa di astratto, delle semplici idee come le troviamo nelle scienze naturali o nell’economia sociale odierna, ma una forza interiore, qualcosa che fa nascere una forza interiore.

 

Proprio come quella che ho presentato oggi come pedagogia: essa pervade di forza interiore il maestro, così che egli non segue delle regole pedagogiche, ma quanto di imponderabile avviene fra lui e l’allievo. Così, grazie alla scienza dello spirito, l’uomo diventa anche più abile fin nei minimi particolari della vita. Per capire queste cose bisogna vederle anche nel piccolo; allora non si avranno più dubbi sul fatto che quando un numero sufficiente di persone, che ovviamente fanno parte della convivenza sociale, accoglierà dentro di sé questi impulsi, essi troveranno un’immediata applicazione pratica proprio tramite queste persone.

 

Per spiegarlo con un esempio tratto dalla quotidianità, prendete in considerazione la calligrafia umana. Ci sono due tipi di grafia: una è quella a cui si tende di solito. L’uomo scrive – beh, come la grafia lo vuole; la maggior parte delle persone scrive così. Dal loro organismo sgorga come di necessità un certo tipo di grafìa. Altri invece hanno una grafia diversa, che per sua natura è completamente differente da quella a cui normalmente si dà il nome di calligrafia. Queste persone “disegnano” le lettere quando scrivono, in loro è come se la scrittura vivesse nell’occhio che osserva la forza che pulsa nella mano.

 

Ci sono perciò grafie che hanno origine direttamente dalla mano, ma anche altre che, mentre si scrive, vengono seguite dall’occhio che osserva la forma delle lettere. In questo caso lo spirito non vive solo a livello organico, negli arti, ma viene percepito coscientemente all’opera in essi. Lì l’esperienza spirituale dell’uomo si traduce direttamente nell’attività pratica. È proprio così che si vive tutto ciò che fa parte della scienza dello spirito.

E così colui che comprende lo spirito vivente di cui abbiamo parlato oggi, capirà queste cose anche nel loro orientamento a diventare vita. Certo, di questi tempi sarà un eremita, un predicatore nel deserto, ma questo non migliora le cose per la vita odierna. Oggi, se si vuol rappresentare la vera vita concreta, ci si trova di fronte a degli strani “pragmatici”, che hanno una certa pratica negli ambienti più immediati, mentre la vera vita concreta consiste nel saper padroneggiare la vita esteriore per mezzo di idee che abbracciano l’esistenza nel suo insieme.

 

Si può quindi dire che quello che conta prima di tutto nelle cose esposte in questa conferenza è di renderle chiare e accessibili a più persone possibili. Una volta che vivranno nel cuore e nella testa di tante persone, diventeranno anche senz’altro pratiche. Che oggi non lo siano ancora è dovuto al fatto che non sono ancora entrate nella testa e nel cuore di un numero sufficiente di individui. Non basta che il singolo abbia il controllo delle idee sociali in una specie di torre d’avorio, ma bisogna che costui trovi altre persone con cui mettersi d’accordo per fare qualcosa.

Ma quando le idee sono veramente pratiche, la prassi scaturisce dall’esistenza stessa di tali idee; ed è solo l’assoluta incredulità, lo scetticismo dogmatico ad impedire che la nostra vita diventi effettivamente pratica, non la praticità delle idee o dello spirito.

 

Lo sperimentiamo dappertutto, non vi pare? Chi secondo molti era “privo di senso pratico”, ve l’ho descritto all’inizio di questa conferenza, ha dovuto dire nella primavera del 1914: la nostra vita sociale soffre di un cancro che prossimamente esploderà in maniera terribile. Un paio di mesi dopo è scoppiata la catastrofe della guerra mondiale, l’evento a cui allora avevo voluto accennare.

 

Naturalmente tutti i “pragmatici” a quel tempo mi hanno deriso, ma hanno anche detto ben altre cose. Potrei citarvi gli statisti, per esempio quelli degli Stati mitteleuropei, che ancora in quella primavera del 1914 affermavano: siamo in ottimi rapporti di vicinato con Pietroburgo e questi rapporti forniranno nei prossimi tempi una base sicura alla pace mondiale. Lo stesso signore ha detto qualcosa di analogo a proposito delle relazioni fra le potenze mitteleuropee e l’Inghilterra, riassumendole con queste parole: la distensione politica generale sta facendo notevoli progressi.

 

Orbene, la distensione politica ha fatto progressi così soddisfacenti che poche settimane dopo si sono verificati quegli eventi in cui sono stati uccisi dai dieci ai dodici milioni di persone, e tre volte tante sono state mutilate. Le ultime parole sono quelle del “pragmatico”, le prime quelle di chi è stato considerato da quei “pragmatici” un idealista visionario.

 

Quello di cui abbiamo terribilmente bisogno è di farci correggere il pensiero dalla prassi, è di renderci conto che potremo creare un terreno per la vera vita concreta solo imparando davvero a conoscere la vita spirituale. Alla domanda: com’è possibile tradurre in pratica simili considerazioni? bisognerebbe allora rispondere: per prima cosa occorre farle entrare negli animi degli uomini. Allora in men che non si dica potranno riverberare incontro all’uomo dalla vita pratica stessa.