Elaborare il futuro sociale

L’uomo il lavoro e la fraternità


 

Mi fa piacere vedere così tante persone, tutte con il tavolo davanti, come in un’attitudine di studio e di profonda progettazione, visto il così facile tema di oggi… È un tema assolutamente arduo, avventurarsi in questa direzione è sempre molto pericoloso, ma è anche inevitabile e giusto. Occorrerebbe trovare un atteggiamento nei confronti del problema del futuro che non sia solo quello del futurologo, cioè fare conti, previsioni e studi sistematici, ma occorrerebbe comprendere che, per chi coltiva l’antroposofia, l’attenzione al futuro è, in un certo modo, quasi ovvia.

 

Inizio con una nozione piuttosto difficile che serve da sfondo al nostro tema, ma che poi lascerò.

• Il tempo non ha solamente la direzione che siamo abituati a conoscere,

e che sperimentiamo soprattutto grazie alla nostra vita, cioè la direzione dal passato verso il futuro;

il tempo prevede anche un’altra direzione,

di solito poco esplorata, ma altrettanto reale, che va dal futuro verso il passato.

 

• Il tempo quindi non ha solo una freccia, ma due che si muovono in direzioni opposte l’una all’altra.

Parlare di un’elaborazione del futuro significa acquisire una sensibilità, una capacità di percezione

e una possibilità di riflessione per la seconda freccia del tempo,

quella che dal futuro viene incontro al presente e va verso il passato.

 

Non chiedetemi ora di entrare in maggiori dettagli, posso solo dirvi che anche nella fisica contemporanea, stranamente e curiosamente, è emerso questo tema – che possa esistere una freccia del tempo che vada nella direzione contraria a quella dell’esperienza consueta.

 

Per affrontare il tema di come COSTRUIRE IL NOSTRO FUTURO bisognerebbe quindi riconoscere

• che esso è presente, in forma germinale, nelle nostre azioni

• e che le nostre azioni sono concepibili come impulsi che entrino nella realtà, o ha senso che entrino,

in quanto dirette verso qualcosa che ancora non c’è.

 

L’uomo non è mai del tutto appagato quando compie solamente azioni scontate,

di cui è previsto che debbano essere, che si esauriscono nella loro stessa prevedibilità.

L’uomo è l’essere che porta nel divenire del mondo

un elemento imprevedibile, di novità o, se volete, un elemento di libertà;

la maggior parte delle azioni, soprattutto di natura morale, soprattutto se dettate dall’amore,

sono azioni che non scaturiscono da nessuna necessità, e quindi si proiettano verso qualcosa che ancora non c’è.

 

L’agire umano, nella sua qualità più alta, dettato cioè dalla libertà, dall’amore per la vita,

è rivolto a qualcosa che non c’è, è un agire per far sì che compaia qualcosa che ancora non c’è.

Buona parte delle azioni che noi compiamo, nel loro intimo significato,

non avranno la possibilità di realizzarsi pienamente nel corso della nostra vita,

e portano dentro di sé un impulso, un motivo, il cui valore nega l’esistenza della morte.

 

La volontà umana, quando è impegnata in tutto il suo essere,

è un impulso che si proietta oltre la morte dell’individuo,

che agisce e prende il suo senso proprio nella direzione che va massimamente nel futuro.

Parlare del futuro significa, anche se è un po’ scomodo pensarlo, parlare di un tempo che non è ancora qui,

di un tempo che verrà tra dieci, cinquanta, cento anni, in cui prevedibilmente noi non ci saremo più.

In altre parole significa parlare di un imprimere forze, tensioni, progetti

in una direzione il cui compimento potrebbe anche non vederci testimoni,

soprattutto quando questo compimento, questa meta, si presenta come molto elevata:

«Cambiamo il mondo, rinnoviamo la Terra!», «Trasformiamo l’intera società!».

 

Questi grandi progetti, per la loro stessa grandezza e bellezza

non avremo la possibilità di vederli compiuti nell’arco della nostra esistenza;

in genere più il progetto è grande, più si chiede e si dà per scontato

che chi lo vuole realizzare sia disposto a consumare la propria vita per esso.

Questo qualche volta diventa addirittura un artificio, un meccanismo, un’operazione ricercata,

come se si credesse che morendo per qualche cosa, questa si realizzerà.

Il che è vero solo in parte, solo se ciò per cui si muore

ha davvero un senso e un valore in sé, se ha davvero relazione con la realtà.

Parlare del futuro significa parlare di qualcosa in cui, tra le tante bellezze che porterà,

si cela un’area meno gradevole da guardare, dove noi non saremo presenti.

 

AGIRE trae il suo senso non tanto, come si crede,

dal fatto che potremo usufruire dei frutti meravigliosi delle nostre azioni,

ma dall’amore per il valore, per il contenuto, per l’idea per cui si agisce, anche se si sa che li si lascerà nel mondo;

gli elementi esteriori del nostro agire rimarranno sulla Terra mentre noi la lasceremo.

FUTURO vuole dire anche la nostra fine, prevedere che l’azione e il suo valore possano continuare,

mentre noi passeremo la soglia, moriremo: nel futuro c’è anche questa prospettiva, assolutamente reale.

 

Agire in senso umano, parlo di un agire importante, è qualche cosa che si misura

con tempi molto più lunghi di quelli della vita tra nascita e morte.

Se si volesse agire solo per quello che si può compiere tra nascita e morte,

solo per quello che si può raccogliere in questo breve arco di vita,

verrebbero meno, cadrebbero, tutta una serie di progetti, ma anche una serie di risposte necessarie.

Non ci occuperemmo più dell’infinità di cose, che sono invece il nostro pane quotidiano,

che non si esauriscono nell’arco della nostra esistenza.

 

Ognuno di noi partecipa a qualche cosa che riguarda la società, gli altri uomini,

non solo in senso estensivo, ma anche in senso temporale,

perché riguarda il futuro, l’umanità che deve ancora venire,

che è nostra non meno di quella che è o di quella che è stata.

 

Ciò che dico ha tante conseguenze, voglio solo accennarne una: noi viviamo nel presente, ma siamo i successori di qualcuno che ci ha preceduto; molti di coloro che hanno voluto le stesse cose che noi vogliamo sono già morti, non sono più qui, quindi nulla sanno di cosa accada dei loro progetti.

 

A una visione realistica dovrebbe risultare che

• o i defunti non ci sono proprio, non sono qui e non sono da nessuna parte,

• o sono presenti e noi viviamo accogliendo ciò che proviene

non solo dalle loro azioni concrete, ma anche dall’impegno, dal progetto,

dalla volontà che in loro andò oltre la dimensione della propria esistenza personale.

 

I defunti sono presenti, sono tra gli uomini,

e solo se una comunità umana riconquisterà la capacità di una relazione cosciente con essi,

non morbosa, patologica, ma consapevole,

allora si avrà un grande contributo al risanamento del problema sociale così come si pone oggi.

Perché oggi l’incapacità di concepire in modo profondo

che le azioni umane devono andare, per essere tali, oltre i limiti della vita dell’individuo,

che i defunti sono realmente presenti e che la loro presenza è necessaria e determinante,

fa sì che la vita sociale non si possa svolgere nel giusto modo

e non diventi l’organismo vivo, capace di risolvere problemi e benefico per l’individuo, come è necessario che sia.

 

La crisi della vita sociale dipende in larga misura da questa cecità.

È una cecità verso la nostra morte – non amiamo pensare che il futuro significhi anche la nostra fine –

ed è una cecità verso l’esistenza dei defunti

e al fatto che la loro presenza sia, molto più di quanto si creda, decisiva

per l’andare a buon segno di tutto quello che socialmente s’intraprende.

 

Nell’ambito dell’antroposofia questo viene ripetutamente detto in modo apodittico.

Rudolf Steiner usa delle formulazioni molto lapidarie:

l’antroposofia è il linguaggio che consente la comunicazione tra i viventi e i defunti.

Si esprime in questo modo. Qui chiudo la parentesi sul tempo.

 

Voi direte che sono andato un po’ lontano dal nostro compito e, per tornare al nostro tema, per riesaminare il nostro futuro voglio brevemente tracciare le tappe della storia dell’antroposofia in Italia, a cui voi pure siete legati.

Questo convegno è promosso dall’Associazione Biodinamica, che è un ramo, una figlia, una derivazione, i vari nomi sono possibili, del movimento antroposofico e della Società Antroposofica che lo rappresenta. In Italia, mi è già capitato di farne cenno e quindi lo ripeto, possiamo individuare circa tre tappe nel formarsi storico della vita dell’antroposofia. Le tratteggerò perché dobbiamo comprendere dove siamo, in quale realtà, in quale momento storico della vita antroposofica ci troviamo, e quindi quali siano i nostri problemi e quali attitudini interiori ci caratterizzino, essendo noi gli eredi di qualche cosa. Forse non ce ne siamo nemmeno accorti di essere degli eredi, ma circa una cinquantina d’anni fa in Italia credo che si occupasse di agricoltura biodinamica solo un uomo, che fu anche segretario generale della Società Antroposofica in Italia, che scrisse un piccolo libro sull’agricoltura biodinamica e fu direttore tecnico della Confagricoltura a Roma dagli anni ’40 al 1964, parlo di Mario Garbari.

Una persona che nessuno di voi ha conosciuto, e di cui credo che quasi nessuno di voi abbia letto il libro12; posso chiedere quanti l’abbiano letto? Sei o sette persone, questo può darvi l’idea di cosa succeda nella storia di un movimento spirituale. Praticamente in Italia non c’era quasi nessun altro che si occupasse di agricoltura biodinamica e una persona, praticamente un uomo isolato, possiamo dire così, che amava queste idee, queste rappresentazioni, questi concetti, ha fatto tutto quello che era nei suoi mezzi perché questi circolassero.

 

Si aggiunsero poi altre persone, come ad esempio la signora Gabriella Arozza di Torino e queste persone, anche Mario Garbari, non compaiono all’inizio della storia dell’antroposofia in Italia, ma a metà del Novecento, a metà del cammino; l’antroposofia in Italia ha una fase precedente che coincide in parte con la vita stessa di R. Steiner.

All’inizio l’antroposofia si diffonde, anche in relazione alle possibilità dello stesso R. Steiner di muoversi in Italia, in circoli molto ristretti. Sono circoli di alta cultura, per esempio R. Steiner è invitato a Bologna, nel 1911 al IV Convegno Internazionale di filosofia dietro il quale c’è anche la figura di Benedetto Croce. I circoli in cui si coltivava l’antroposofia appartengono a un elemento di aristocrazia culturale o alla nobiltà tout court.

Molte figure legate alla nobiltà in Italia hanno un certo interesse per la personalità di R. Steiner, amano ascoltarlo, incontrarlo, in qualche caso divenire anche suoi discepoli. Non ricordo ora tutti i nomi, ma uno di questi nobili partecipò al convegno di Natale e mi par di ricordare che abbia anche scritto un libro di commento ai Vangeli, per altro oggi dimenticato. Ancora subito dopo la guerra la rappresentante della Società antroposofica in Italia è una contessa, che vive a Dornach.

 

In questa prima tappa sono caratteristici due tipi d’interessi, uno per l’iniziazione, per gli esercizi interiori, per la trasformazione di sé, in attesa di poter sperimentare il mondo spirituale; l’altro per la cristologia. Si cerca un maestro, lo Steiner è un maestro, oppure si cercano i suoi discepoli come propri maestri. Una diretta eredità di questo momento iniziale, per esempio, è tutto il movimento legato a Massimo Scaligero.

 

Gli SCALIGERIANI sono ancora estremamente legati a questo primo momento fondamentale:

l’iniziazione come vero compito e vera occupazione dell’antroposofo.

 

Dopo la Seconda guerra mondiale si assiste a un ulteriore passaggio, all’uscire dell’antroposofia dai salotti – dove si studia, non dove si chiacchiera. L’antroposofia si presenta pubblicamente, si affaccia al mondo e si propone come fatto culturale.

Potremmo dire che il mondo antroposofico avvicina la borghesia italiana e suscita, in alcuni dei suoi rappresentanti, un vivo interesse e il desiderio di portare questa conoscenza verso il mondo. In Lombardia e a Milano è portata, per esempio, da persone come Aldo Bargero, Gianguido Scalfi. L’interesse si rivolge piuttosto alle applicazioni sociali dell’antroposofia stessa, la famiglia Unger-Pederiva cura l’apertura, sempre a Milano, di una scuola insieme a Lavinia Mondolfo. Compare quindi un’antroposofia interessata alla pedagogia, all’agricoltura – Mario Garbari – interessata alla medicina.

 

C’è l’idea che in questa pedagogia, in questa medicina, in quest’agricoltura ci siano le risposte per i problemi dell’umanità, si vorrebbe che il mondo le conoscesse. Siamo in un’epoca in cui, usciti dalla Seconda guerra mondiale, aleggia ancora profonda l’idea, o la speranza, di costruire un mondo migliore e si cercano idee, in questo fervore compare, apparentemente come una gocciolina nel mare, non molto di più, l’interesse di alcune personalità affinché l’antroposofia venga conosciuta nelle sue applicazioni pratiche, sociali.

Tuttavia, siamo ancora in una situazione in cui viene presentata un’antroposofia più dottrinale, vengono mostrati dei modelli di risoluzione, ma la vita personale di coloro che portano queste cose, salvo eccezioni, rimane come un po’ separata da ciò che viene presentato. C’è l’intuizione che l’antroposofia, nel suo carattere d’insegnamento pratico, potrebbe risolvere i problemi che tutti sentiamo, ma nella vita pratica si agisce ancora secondo le logiche del passato. Si può diventare degli ottimi professori universitari, svolgere la propria carriera secondo le logiche di quel mondo, che non sono logiche antroposofiche, e nello stesso tempo coltivare l’idea che tutto potrebbe essere diverso e cercare di favorire la diffusione culturale di queste idee, ma tra la vita della persona e la possibilità di applicarle fino in fondo esiste ancora una certa separazione. Questo è il secondo momento.

 

• Infine arriviamo alla terza tappa, che è ai suoi inizi, non è ancora pienamente realizzata: l’antroposofia discende nell’ultimo strato dell’organismo sociale, all’ultimo livello delle cosiddette classi sociali. Si presenta come qualcosa che interessa non solamente l’aristocrazia – come offerta di un’individuale via di formazione, di nobilitazione dello spirito – non solamente la borghesia – come offerta di nuovi modelli di organizzazione della vita sociale e del lavoro – ma si presenta come una possibile risposta globale ai problemi dell’esistenza e come un interesse che può essere congiunto alla propria vita, momento per momento.

Compaiono nel movimento antroposofico figure che prima erano presenti solo eccezionalmente, nascono degli organismi sociali assai traballanti, difficili e sofferti, in cui tuttavia si mescolano tutte le classi sociali; abbiamo delle situazioni in cui agricoltori, che non sono studiosi né di filosofia, né di scienze, si ritrovano invece a occuparsi di Teosofia13, di Scienza occulta14 e devono fare lo sforzo, non da poco, di combinare la loro vita pratica con l’interesse per la vita dopo la morte, per l’esistenza dello spirito, per i problemi del corpo eterico, del corpo astrale e così via.

 

Naturalmente mentre descrivo queste tappe a nessuno sfugge il fatto che la schematica divisione tra aristocrazia, borghesia e proletariato ha perduto, nel frattempo, molto della sua pregnanza. Questa divisione vent’anni fa sarebbe stata ovvia, oggi invece quando si dice proletariato giustamente ci si chiede dove sia, a chi ci si riferisca. È chiaro che il tempo è mutato, ma ciò che importa è che della mia descrizione resti l’idea che l’antroposofia percorra storicamente, nell’organismo sociale, un cammino. Questo cammino lo abbiamo descritto come una discesa, dalle parti, come dire, più alte della rappresentatività sociale, fino a divenire un qualcosa che può interessare tutti; contemporaneamente si ha un processo che ha un aspetto positivo, la diffusione.

L’antroposofia non è più solo qualcosa che interessa piccole cerchie o salotti, ma crea organismi sociali, ancora piccoli, ma comunque organismi. C’è un diffondersi dell’antroposofia da fasce strettissime a fasce sociali più ampie e si assiste a una sorta di divulgazione, che da molti viene sentita come un annacquamento progressivo dell’antroposofia stessa.

 

Ci sono persone abituate ai tempi antichi, chiamiamoli così, alla prima o alla seconda tappa, che vedono come terribilmente pericolosa, insostenibile e inaccettabile l’antroposofia che esiste oggi, come una sorta di cultura semiesoterica, semioccultistica, in cui è andata totalmente perduta la profonda maturazione individuale, per cui un individuo, prima di parlare di corpo eterico, faceva almeno dieci anni di meditazione e cercava di vedere se arrivava lui a sperimentarlo. Ognuno sperava di poter raggiungere una propria iniziazione prima di mettersi a parlare del corpo eterico delle piante, o della Terra.

L’antroposofia appare, soprattutto a queste persone, destinata a una divulgazione che è una vera e propria perdita. Per esempio, gli scaligeriani – ma le cose sono cambiate anche lì, tanto per non suscitare polemiche … – guardavano con una certa disistima questi antroposofi che non hanno nessuna educazione del pensiero, che si accontentano di ripetere le formule di R. Steiner, che non hanno mai letto un libro di M. Scaligero, che è una specie di continuo esercizio di pensiero.

 

C’è divulgazione, è vero, però è anche vero che c’è anche la tendenza a integrare le diverse parti dell’esistenza e quindi non si ha più tanto quella situazione, propria del passato, dove l’individuo era un perfetto, rispettabile borghese, che ossequiava le norme del vivere, salvo poi isolare nella propria giornata o nella settimana dei momenti in cui diventava spiritualmente spregiudicato e assolutamente libero; c’era questo scollamento.

Oggi se è vero che c’è una divulgazione, è anche vero che se un individuo non integra in sé tutte queste parti, viene ascoltato poco volentieri, gli si dà poco credito. Abbiamo il bisogno, gli uni verso gli altri, di sentire che ognuno di noi integra dentro di sé il suo agire con il suo pensare, le cose che fa con quelle che crede, se questo non avviene lo si giustifica sempre meno.

 

Non dobbiamo però disprezzare il passato, un tempo dire di credere nella reincarnazione significava essere tacciati di follia, o per lo meno di essere degli eretici. Non era facile, dire allora alcune cose significava essere bollati o esporsi a una pesante risposta dal punto di vista sociale, noi non ne abbiamo idea! Oggi si può parlare di tutto, si parla e si straparla di tutto, siamo pieni di libri assolutamente insignificanti che parlano di reincarnazione e che sono la migliore testimonianza della pericolosità di queste idee, se per caso una pericolosità ci fosse.

Nel terzo aspetto si può vedere, come abbiamo detto, qualcosa che scende e si amplia, qualcosa che si divulga, ma nello stesso tempo sollecita ciascuno a integrare meglio tutte le parti dell’esperienza umana, e infine abbiamo il fatto che in questo processo il mondo ci viene incontro. Questa volta l’incontro con il mondo è inevitabile. Naturalmente voi dite che il mondo c’era già prima, lo si incontrava già, ma ora è il mondo che viene incontro a chi parla di antroposofia, e chiede prova di quello che pensiamo e di quello che diciamo.

 

L’abbiamo sperimentato dapprima sul piano legale e giuridico: il Ministero dell’Agricoltura, per esempio, si è interessato all’agricoltura biodinamica, quello della Sanità alla medicina, e chiedono agli agricoltori o ai medici di dare prova di quello che fanno e dicono, quali siano i criteri della loro arte. C’è un venire incontro del mondo e quindi c’è un appello, un richiamo a rendere pubblico tutto quello che caratterizza il fondamento della nostra conoscenza. A questo punto si scoprono, in un certo senso, maggiormente le carte.

«Cosa sai? Cosa pensi? E quello che sai e che pensi, se non ti viene impedito di pensarlo e di dirlo, fin dove lo sai portare nella vita? Cosa ne sai fare? È qualcosa che io, mondo, posso accogliere?».

Questo è più o meno il punto in cui ci troviamo oggi, e naturalmente ora abbiamo tutta una serie di problemi. La paura: adesso scopriremo che siamo dei re nudi, che cioè abbiamo solamente parole in testa ma dentro siamo vuoti, o che quello che abbiamo creduto non sta in piedi.

 

Il rifugio potrebbe essere quello di dire che questa gente non capisce niente, e che noi siamo sempre i migliori, perché coltivare l’esoterismo significa coltivare un sapere occulto, e quindi sapere più di chi non ha queste conoscenze. Questa posizione, che in sé è fondamentalmente giusta, porta però chi ha questo sapere a un pericolo morale: la presunzione di essere superiore al proprio interlocutore.

Noi sappiamo che il tempo ha due frecce… non conosciamo solo il passato – ma anche l’antico Saturno, l’antico Sole, l’antica Luna – non conosciamo solo il futuro – ma sappiamo anche che ci sarà Vulcano, Venere, Giove – quindi sappiamo tutto quello che si può sapere! È quasi inevitabile soffrire di quella che si chiama una falsa coscienza di superiorità, che ha una potenza venefica e «taglia le gambe» al poveretto che si convinca che quello che sa lo renda superiore al suo interlocutore.

 

Dobbiamo riconoscere che questo è il nostro presente, ci confrontiamo con il mondo,

siamo nel momento della cosiddetta trasparenza.

 

Come diceva già R. Steiner, non si può più coltivare un esoterismo segreto, tutto quello che è esoterico deve essere conoscibile, non c’è più bisogno di nascondere nulla, e da ciò deve scaturire, anziché paura e diminuzione di forze, un accrescimento di potere.

Si potrebbe dire che vi blandisco con un bell’invito all’onnipotenza e alla potenza… ma non è così, non si mettono in atto forze magiche e strategiche, la situazione è mutata, e la trasparenza ci aiuta a scoprire che tra il pensare spirituale e il vivere secondo lo spirituale, la distanza va totalmente annullata.

 

L’uomo deve cominciare a vivere dei suoi pensieri o a far sì che i suoi pensieri vivano nella sua vita:

se non realizza questa unione, non sosterrà mai il confronto con il mondo,

non sarà un vero discepolo dell’esoterismo e neppure un uomo pratico.

Cosa caratterizza il terzo momento, che abbiamo chiamato del proletariato?

 

Il fatto che la Scienza dello spirito giunga, finalmente, al suo vero destinatario, cioè a quel soggetto nuovo, svegliatosi dopo l’inizio della V epoca attorno al 1400, dopo la rivoluzione industriale e la grande rivoluzione scientifica.

Chi è il vero, nuovo soggetto?

È proprio il proletario, che è stato imbottito di ideologie ottocentesche di origine borghese; il marxismo, il fascismo, si sono presentati come delle forme di pensiero vecchio, stravecchio – anche nei contenuti – che hanno offerto a questa classe emergente una falsa mitologia che si potrebbe paragonare al modo altrettanto falso con cui negli Stati Uniti nascono nuove religioni, della cui falsità avvertiamo subito l’odore, anche da lontano.

 

In linea di massima l’Europa è meno soggetta alla formazione di sette religiose degli Stati Uniti, e tuttavia ha sofferto delle peggiori malattie: del revival mitologico, di una nuova mitologia, per esempio, nel fascismo o nel nazismo, o del mito della razionalità scientifica che spiega il mondo, com’è stato col marxismo. Chi ha pagato, chi è stato illuso che questi fossero gli strumenti per leggere la realtà e le forze per il futuro a cui sacrificare la vita? Quante persone sono morte nella convinzione che elaborare il futuro significasse costruire uno Stato in grado di provvedere alla salute fisica, economica di tutti i suoi cittadini nel rispetto dell’uguaglianza?

 

Siamo di fronte a questo soggetto che si desta e che incontra l’antroposofia come portatrice di una scienza.

Il PROLETARIATO aveva sete di un sapere razionale

e incontra l’antroposofia come impulso per la vita sociale.

L’ANTROPOSOFIA esiste in quanto riconosce l’importanza della vita sociale, il rapporto tra uomini.

 

E infine l’ARTE.

Potremmo dire che l’esperienza della scienza, dell’arte e della vita sociale,

o se volete l’esperienza religiosa, diventano il nuovo terreno

su cui rinascono gli impulsi della prima e della seconda tappa.

Nella prima, quella aristocratica, stavano a cuore la cristologia da un lato e l’iniziazione dall’altro.

 

Se oggi l’antroposofia tenesse solo corsi cristologici verrebbe accusata di essere una chiesa. Ho ricevuto anch’io questa accusa: «È un vecchio ex cattolico!», perché anch’io sono stato cattolico, fino a una certa età, credo come quasi tutti.

In realtà la cristologia è essenziale nell’antroposofia,

non c’è antroposofia senza cristologia, però se oggi la si ponesse come unico tema,

ci accuserebbero di essere una chiesa, dei teologi travestiti…

 

E avrebbero in parte ragione, perché il Cristo non è solo colui a cui si può dare un nome e un cognome, il Cristo è una forza spirituale che potrebbe anche non essere nominata con quel nome e con quel cognome, dipende dalla cultura, dal background di ciascuno.

Ciò che nella prima tappa era il grande amore per l’iniziazione

diventa, nella terza, la scoperta che L’INIZIAZIONE È SCIENZA.

 

Cioè che l’antroposofia è una scienza dell’iniziazione, e che quindi esiste la possibilità di avvicinare il cammino di conoscenza con lo stesso rigore con cui si avvicina una qualunque conoscenza scientifica, solo che questa volta il soggetto che fa gli esperimenti e l’oggetto degli esperimenti è l’uomo stesso. È un campo scientifico in cui soggetto e oggetto sono lo stesso individuo. La scienza dell’iniziazione non è altro che lo studio di come avvengono le trasformazioni della vita interiore, nel momento in cui questa è messa in moto dalla ricerca dello spirituale. L’antroposofia è scienza dell’iniziazione e come tale risponde alle esigenze che sono presenti nel mondo psicologico, filosofico e scientifico. Questo soggetto nuovo che è ciascuno di noi, può trovare qui elementi per orientare il lavoro su se stesso, di cui tutti sappiamo di avere un gran bisogno.

 

L’interesse per le applicazioni sociali che ha caratterizzato la seconda tappa

oggi deve diventare ARTE.

Le applicazioni pedagogica, medica, agricola devono diventare arte in senso sociale; cosa voglio dire con queste parole? Non che bisogna dipingere le fattorie con colori rosé, violetto e fare cose di questo genere, anche se sono benvenute tutte le applicazioni artistiche che rendono i luoghi in cui si vive degni dell’uomo, dei suoi progetti e dei bambini che mette al mondo.

L’arte è fondamentale e la si può portare molto umilmente in tutti i luoghi in cui si vive. Oggi l’arte potrebbe darci, in modo vivente, quello che il folclore ci lascia dal passato e a cui non è necessario rimanere legati. Ma soprattutto le applicazioni sociali devono meritare il proprio riconoscimento, come fa l’arte di tutti i tempi, in ogni latitudine.

 

L’artista è coraggioso perché decide di occuparsi di colori, di pietre e di marmi e ha la forza di dire: «Se il mondo riconoscerà nelle mie opere un valore, mi tornerà qualche aiuto, altrimenti, no».

Noi dovremmo nel campo pedagogico, medico e agricolo fare come nel campo dell’arte: che sia il mondo a dire se quello che viene fatto è bene e degno di essere cercato. Non importa se le leggi del mercato vanno in un’altra direzione, bisogna avere il coraggio delle proprie scelte. Quindi applicare l’antroposofia socialmente non significa pretendere di essere riconosciuti in termini di denaro o in successo, perché si stanno facendo le cose migliori, perché si hanno i pensieri più giusti e ampi… Accettare un elemento artistico nel proprio lavoro non è solo modellarne le forme in funzione di una loro rappresentazione estetica, ma porre il proprio lavoro di fronte agli altri in una libera attesa che esso venga riconosciuto. Naturalmente questo significa che molte cose costeranno di più, che si dovranno fare molte fatiche, perché il mondo guarda da un’altra parte.

 

Infine, L’INTERESSE CRISTOLOGICO, che caratterizzava la prima tappa,

ora può riemergere, deve diventare reale, deve essere vissuto nella vita sociale,

altrimenti diventa una nuova forma di teologia.

Si può benissimo parlare di Vangeli e di Cristo cosmico in un modo che è come una lezione seminariale di tipo teologico. Oggi è diventato necessario che l’elemento cristologico dell’antroposofia venga calato entro la vita reale e quindi vissuto nel sociale: negli incontri, nei rapporti di lavoro o artistici, o di altro genere che gli uomini hanno tra di loro.

LA CRISTOLOGIA attende un suo inveramento individuale,

altrimenti non si testimonia niente, o al più un buon sapere teologico.

 

Non c’è dubbio che chi conosce bene la cristologia antroposofica sia a un buon livello di formazione teologica, ma se si limita a questo è solo un buon teologo; non è ancora una persona che nell’ambito della vita reale, per quanto riguarda l’insieme dei suoi rapporti, agisce nel senso cristologico, a meno che lo faccia.

Nella nostra situazione sociale, nella terza tappa del discendere dell’antroposofia nella realtà storica e sociale italiana, bisogna meritare il proprio riconoscimento là dove ci presentiamo come portatori di un impulso sociale ed esser capaci di fare qualche cosa.

 

Sono capace di fare il maestro, di guidare un’azienda, di curare un malato, allora bisogna che si veda!

Non c’è altro da fare.

Occorre rovesciare le condizioni che erano proprie dell’inizio, l’elemento aristocratico della nobiltà,

e coscientemente perdere ogni vantaggio che ci provenga dal passato.

Bisogna avere la forza, nella vita sociale, di distinguere tra ciò che ci proviene dal passato

e ciò che invece proviene da quello che siamo capaci di essere e di fare.

 

Dobbiamo avere una tendenza cosciente a rinunciare ai vantaggi che ci provengono dal passato per poterci porre in una relazione con la vita sociale che sia intrinsecamente sana.

Questo è in fondo quello a cui tendeva la nobiltà stessa che, attratta dall’insegnamento spirituale, tendeva ad acquistare una nobiltà spirituale. Ma acquistare una nobiltà spirituale significa rinunciare a tutti i vantaggi che provengono anche dalle proprie vite passate.

Questo nel senso più esteso possibile. Avere coscienza di quanto io agisca sulla base dei vantaggi che mi vengono dall’essere nato in quell’ambiente, dall’essere discendente di quella famiglia, non significa negarli, intraprendere una negazione della mia realtà, ma riconoscerla come un vantaggio e capire che il valore dell’uomo si deve misurare su ciò che egli è e fa, non su ciò che deriva da quello che gli è stato dato, o da quello che fu.

Uno potrebbe anche essere stato, in una vita precedente, un grande uomo, un grande maestro o un grande generale, ma se lo venisse a intravvedere o a capire non può desumere il proprio valore da questo passato. Deve ricominciare da capo, questa è la legge. Ciò significa che anche il primo, chi si sente primo – gli antroposofi si sentono tutti primi in qualche cosa, perché sanno dall’antico Saturno a Vulcano… – deve ridiventare ultimo se vuole stare in modo corretto nella vita sociale.

Questo è il cristianesimo: ridiventare ultimi.

 

Abbiamo individuato tre tappe e l’ultima è la più infelice: il sogno proletario, di conquistarsi finalmente e individualmente una conoscenza totale della realtà, si coniuga con il fatto che il proletariato appunto… cos’è, dov’è? Non c’è più nessuno! Non lo si riconosce che a fatica, e soprattutto i grandi sogni sono crollati, come sapete.

In questa terza tappa ci confrontiamo con il fatto che mentre accogliamo l’antroposofia come medicina delle nostre malattie storiche – parlo di noi come proletari, permettetemelo, abbiamo avuto delle malattie terribili: la miseria, la fame, l’ignoranza, lo sfruttamento, l’oppressione, la mancanza di libertà – mentre finalmente troviamo nell’antroposofia la medicina tanto anelata, la nostra identità di classe sparisce.

Ma è giusto che sparisca, che non ci sia più, ed è giusto che nel momento stesso in cui troviamo la medicina scopriamo di essere chiamati ad assumere delle responsabilità individuali, non più di classe.

 

Non si tratta di creare un bel movimento di classe, che farà la giusta rivoluzione,

ma si tratta di scoprire che la giusta rivoluzione è proprio nell’assunzione di responsabilità individuali

e quindi questo soggetto proletario perde la sua identità di classe per acquistarne una individuale.

Nel momento in cui però il proletariato viene medicato come classe, eredita i più gravi problemi del mondo.

Nel momento in cui emerge come individualità – è l’ultimo a comparire sulla scena –

il mondo si riempie di tragicità e appare quasi irrisolvibile.

 

Questi sono i paradossi dei tempi. Quando giunge la medicina compaiono nuovi compiti, quando finalmente l’ultimo dei soggetti storici arriva al suo posto scopre che il suo posto non c’è più e che ci sono una serie di tragedie.

 

La natura è in crisi, il nutrimento umano è in crisi, la Terra devastata,

venduta come merce, e così via.

Spetta a noi, giunti a questa coscienza antroposofica,

il compito di trovare una medicina per una Terra, per un lavoro, per un denaro

che sono diventati merce ma che non bisognerebbe vendere,

per un’agricoltura che viene praticamente snaturata,

come è risultato chiaramente dall’ultimo convegno.

 

Mi ha molto colpito, nel rileggere gli interventi dell’ultimo convegno, osservare che da Geminello Alvi, dal sottoscritto e da Markus Sieber sono venute tre immagini che ho sentito come in successione. G. Alvi ha parlato del crocefisso e ha detto che la Terra ha una dimensione orizzontale, la crosta terrestre, dove si muove l’agricoltura di tipo economico e industriale; l’agricoltura biodinamica invece vuole collegare la Terra e il cosmo. Avete una bella pretesa… volete costruire e mantenere viva una croce, volete cioè che non venga dimenticato che la Terra vive per la sua relazione con il cosmo, esiste perché è in una dimensione verticale, non solo perché è in una relazione orizzontale; questo è il vostro compito. L’altra immagine emersa è quella del sangue: il denaro circola come un sangue di cui bisogna assumere responsabilità e assumere responsabilità nei confronti del denaro significa riconoscere che non è solo merce, ma che è segno del lavoro umano. E infine l’immagine del pane, di M. Sieber. Il pane come simbolo che unisce dentro di sé tutti questi elementi: la Terra, il cosmo e l’uomo, la società umana.

 

Queste tre immagini dicono quasi tutto di ciò che vuole essere l’agricoltura biodinamica: croce, pane, sangue. Cioè, nuovo modo di collegare la Terra e il cosmo, l’uomo al suo cibo e l’uomo all’altro uomo. C’è praticamente tutto, guardando solo a quelle tre immagini si può dire che l’agricoltura biodinamica ha un compito da poco! … È il desiderio di rifare il mondo da capo; ma non è solo un desiderio, è diventato e diventa sempre più chiaramente una necessità, a meno di cedere le armi e lasciar perdere tutto, venga quello che deve venire…

 

Come M. Sieber ricordò, l’agricoltura ha generato la società umana, è la culla da cui è nata la società. I nomadi non creano una vera società, potremmo dire che il nomadismo sfugge all’organizzazione di un vero organismo sociale, è invece l’agricoltura che lo genera, ma oggi questa agricoltura assiste alla distruzione del proprio essere perché viene essa stessa industrializzata. La Terra viene devastata e un’agricoltura sensata, che abbia dentro di sé un sangue spirituale, non può essere che un’agricoltura che si fa tutrice, protettrice della Terra. Si sono rovesciati i termini: una volta la Terra era Demetra e formò gli uomini, insegnò loro come si sta insieme, oggi solo uomini che sappiano stare insieme possono sperare di salvare qualche fazzoletto di Terra, non importa la quantità.

 

Quando si dice che l’agricoltura biodinamica ha il compito di salvare la Terra non bisogna cadere in sogni di grandezza; la realtà è che l’agricoltura biodinamica, come risulta degli interventi di G. Alvi e di M. Sieber, è destinata nel futuro, sotto il profilo economico, a non avere grandi speranze. Il suo senso è tuttavia di fare le cose che sente giuste, indipendentemente dal fatto che possa coprire l’intero pianeta o no. I progetti e gli ideali di cui parliamo, la croce, il pane eccetera, non si esauriscono in una vita. Sarebbe infantile credere che una cosa come questa possa realizzarsi a breve, come una carriera professionale. È impossibile. L’agricoltura si presenta come il luogo entro il quale si ha come finalità la tutela della Terra, la tutela di una giusta nutrizione dell’uomo.

 

Questo non è egoismo, non si tratta solo di dare del pane buono a chi ha soldi per comprarlo, ma di riconoscere che nella difesa di un giusto alimento si difende – M. Sieber lo ha detto con molta chiarezza – l’integrità dell’uomo. Senza questo si va incontro a un’alimentazione sempre più mineralizzata, sempre più avvelenata o, come diceva M. Sieber, sempre più drogata.

Il cervello umano è stato creato dalla natura, o meglio da Dio perché, nutrito dai cibi della Terra, fosse lo strumento della libertà dell’uomo, lo specchio che gli permettesse di pensare; il pensiero è il punto d’appoggio per la sua liberazione.

Un cervello nutrito da alimenti inadeguati – come via via sarà, perché questa è la tendenza – diventerà sempre meno un cervello che può fare da fondamento alla libertà umana. Su questo non si possono avere dubbi e non c’è bisogno né di avere delle enfasi di grandezza, né di buttarsi in un lutto catastrofico, dicendo che il compito è impari per le nostre forze. Ognuno faccia quello che può là dov’è, gli dèi penseranno a cucire i pezzi di questo puzzle, non importa se saranno solo cinque appezzamenti.

 

Sarà compito della divinità vedere se questi cinque appezzamenti riuniti meriteranno di generare una Terra e un’umanità futuri; il nostro compito è di eseguire ciò che sappiamo fare nel miglior modo possibile lì dove siamo, fosse anche in un fazzoletto di terra, ma sapendo bene che la difesa dell’agricoltura biodinamica, così come è concepita oggi, è in ultima analisi la difesa del cervello dell’uomo.

Mi vorrei esprimere così categoricamente perché il cervello si forma dagli alimenti. La materia cerebrale deriva quasi direttamente da ciò con cui ci si nutre e se qui non penetra più il cosmo, non scende più l’asse della croce, se il nesso con il cosmo è sempre più debole, a un certo punto avremo un cervello che non verrà più usato per mettersi in rapporto con il cosmo, avremo un’animalizzazione dell’uomo.

 

Oggi è sempre più in voga l’ingegneria genetica, sono sempre più in atto trasformazioni genetiche in campo agricolo e zootecnico: un pericolo grandissimo. È necessario che ci si prenda a cuore questo problema, chiedendo che si sappia quali prodotti sono stati trattati geneticamente e quali no, perché anche qui si va verso un’avulsione della Terra dal cosmo.

Quando avremo un pane venuto da grano trattato geneticamente, avremo, prima o poi, anche un cervello che si trasformerà in virtù di questo pane geneticamente modificato. Deve essere chiaro e su questo bisogna avere pensieri chiari. Non si può avere la pretesa che ciò non accada, non abbiamo le forze politiche per impedirlo, non abbiamo una capacità di pressione di massa sufficiente, ma per lo meno chiediamo che queste cose, dove vengono fatte, vengano anche dichiarate e riconosciute. In qualche modo il mondo, nei suoi misfatti, ci viene anche incontro, perché ci chiarisce meglio che cosa vogliamo fare, se crediamo che ciò che facciamo abbia un senso: continuare a operare perché nel pane, per usare il simbolo dell’agricoltura, entrino le giuste forze dal cosmo e in questo modo l’uomo venga alimentato umanamente.

 

L’agricoltura biodinamica che sembra occuparsi solo di animali, di piante, in realtà, come vedete, fa altre cose; ma non c’è bisogno di dire, come sto facendo io ora, che state agendo per il nostro bene, per la nostra salute cerebrale, che salverete la Terra, vi esporreste al ridicolo, l’importante è che voi lo facciate, l’importante è fare, non dire che si fa. L’elemento decisivo dell’operare in agricoltura biodinamica è avere chiarezza d’idee e verificare che le proprie azioni vadano, o no, in questa direzione: questo conta.

Voi lavorate la Terra, curate i prodotti nel modo in cui li curate, e fate tutto questo e non lo dite, sappiate che è molto importante che venga fatto e non detto. A parlarne è uno che agricoltore non è, e questo è decisivo perché ormai l’agire spirituale non sta nelle parole, ma nei fatti. Nel momento in cui volete fare dell’agricoltura biodinamica, in cui arate o seminate, non fate altro che dar corpo a un germe di una nuova comunità sociale.

 

Naturalmente potrete dire che in realtà qui continuano le vecchie dispute, i vecchi problemi, non c’è niente di nuovo, altro che germe di una nuova società! Ed è vero, non c’è niente di nuovo, le vecchie malattie si ripresentano, bisogna «spurgarle» tutte per giungere a una situazione di maturità. La maturità è quella che nelle parole di M. Sieber viene espressa in tre immagini: associazione, autogestione e formazione del giusto prezzo, se ben ricordo. Tutto questo cos’è? È rendersi conto che non è possibile collegare la Terra e il cosmo, creare la croce entro il lavoro agricolo, se contemporaneamente non c’è rispetto dei rapporti tra uomini, cura di ciò che accade tra uomo e uomo all’interno di questo operare, e poi tra questi uomini e quelli che stanno fuori, il cosiddetto mondo.

 

Tutto va coltivato con piena coscienza, perché lì agisce l’elemento cristico.

L’elemento cristico opera perché voi collegate il cosmo e la Terra in modo cosciente,

avendo a cuore che i ritmi dell’universo continuino a formare le vostre piante,

ma il Cristo opera anche sul piano sociale nell’incontro e nel rapporto fra uomini,

ed è il vero germe di una nuova società.

 

Abbiamo richiamato nelle sue tre tappe la strada che l’impulso antroposofico ha percorso e abbiamo visto come ogni tappa porti dentro di sé la precedente e la trasformi. Il fatto che oggi siamo nella terza tappa significa che l’antroposofia ha seguito un certo cammino, dall’alto verso il basso, da una condizione di separatezza a una condizione di sempre maggiore coinvolgimento nella vita reale, da un elemento di tipizzazione sociale – nobile, borghese, proletario – a un elemento di individualizzazione; come abbiamo detto,

l’individuo deve operare in sé l’integrazione di tutte le parti,

imparare a entrare nel mondo, ponendosi ultimo nella vita sociale,

rinunciando coscientemente ai vantaggi che provengono dal passato,

accettando di offrire il proprio lavoro al giudizio del mondo.

 

Non è privo di significato che R. Steiner abbia fondato una società esoterica, che nello stesso tempo voleva essere pubblica, e abbia enunciato uno statuto. Nessuna società occulta aveva mai avuto uno statuto.

R. Steiner ha ritenuto che il principio pubblico, exoterico, fosse addirittura più importante del principio esoterico; la vera rivoluzione è stata mettere tutti i contenuti più intimi dell’esoterismo di fronte al mondo, osando misurarsi con le sue verifiche, non proteggendosi e nascondendosi più da esso. Questo significa accogliere come principio normativo le leggi stesse del mondo.

Aver scoperto che oggi noi abbiamo riproposto in modo nuovo quello che era l’antico interesse per la propria iniziazione individuale, quello che era l’antico interesse per la cristologia, significa che ciò che unifica tutto questo cammino è l’attesa di un uomo nuovo. La grande speranza di un uomo nuovo corre attraverso l’Europa dalla fine dell’Ottocento, il marxismo si presentò addirittura come il luogo da cui sarebbe stato generato l’uomo nuovo. Questa attesa è il vento, potremmo dire così, del XX secolo, l’attesa di una svolta antropologica.

 

Sappiamo e sentiamo tutti che così non si andrà avanti per molto,

che prima o poi qualcosa si spezzerà o si trasformerà,

e compariranno qua e là i rappresentanti di una umanità nuova.

 

Questo DIVENIRE DI UN UOMO NUOVO

non è altro che un riconoscere che attendiamo un salto antropologico,

una sorta di scatto dell’evoluzione, come se l’uomo dovesse acquisire una nuova facoltà.

Nell’aria c’è un salto antropologico

che può esserci dato di conoscere e sperimentare nella nostra pelle, nella nostra vita.

 

Il compimento del millennio non può altro che significare l’incontro

tra questo salto antropologico testimoniato individualmente

– magari la capacità di chi era primo di divenire ultimo e da lì testimoniare la nuova umanità –

con degli eventi spirituali invece universalmente riconoscibili.

• Il senso di questa fine di millennio dovrebbe essere

il riconoscere individualmente, in modo cosciente, la svolta antropologica,

e nello stesso tempo l’accorgersi di eventi spirituali che toccano l’umanità intera.

La svolta antropologica non può che avvenire in singoli uomini, non in una fabbrica…

 

Non capiterà mai, come pensava la follia del nazismo, che si possa creare una nuova razza, nuovi uomini: sapete che questo è stato fatto, e quando oggi si fa dell’ingegneria genetica si fa l’identica cosa, non c’è da illudersi, solo che questa cosa viene presentata in modo pulito e non in modo grottesco con una mitologia abborracciata, volgare e ignorante, come è stato negli anni trenta, ma il progetto è lo stesso.

Vi è una grandissima figura di studioso dell’esperienza concentrazionistica, mancato da poco: H. G. Adler15 – ignorato in Italia, ha scritto solo in tedesco ed è vissuto in Inghilterra dopo la sua esperienza nel campo di concentramento a Theresienstadt – la cui riflessione di ebreo, sopravvissuto a questi campi, si riassume nelle parole:

«L’esperienza avvenuta in quegli anni non va compresa isolandola dall’idea che si tratti semplicemente di una patologia del popolo tedesco, o di una follia tra tedeschi ed ebrei, questo sarebbe liquidare in modo sbagliato il problema».

 

Ma così è avvenuto; sarebbe ridurre tutto a una questione solo di razze che si contrappongono, o di caratteri nazionali, o di patologie. H. G. Adler dice che non è questo il problema. L’esame accurato e profondo di quell’esperienza – ha scritto dei grandi tomi di un’assoluta ricchezza di documentazione e di grande analisi – non fa che rendere chiaro che si è trattato di un esperimento. L’ideologia del mondo moderno ha fatto il proprio esperimento sull’uomo, e i rapporti tra uomo e Stato, tra uomo e società.

La disposizione a ripetere questo processo è sempre presente, perché finora non è stato messo il dito sull’origine di tutta questa dimensione patologica. L’origine è la ricerca di un uomo nuovo, il bisogno di un salto antropologico, e l’illusione di poterlo produrre collettivamente, come in una fabbrica che stampa individui che finalmente li può stampare tutti di alta qualità.

 

Questa è la follia. La follia, dice H. G. Adler, è credere che si possa non governare l’uomo – che comunque è un rapporto tra uomini – ma amministrare l’uomo esattamente come si amministrano le cose. Se si amministra l’uomo come si amministrano le cose inevitabilmente si va nella direzione in cui è andato l’esperimento dei campi di concentramento. Non è altro che il paradosso patologico del principio di amministrazione dell’uomo come cosa, a cui fa pendant l’idea di poter costruire un uomo nuovo semplicemente da accoppiamenti prestabiliti. Ma l’uomo nuovo, il salto antropologico, non si verificherà mai perché c’è una fabbrica di bambini, ma si verificherà qui e là, in modo invisibile in alcuni uomini. Alcuni di questi potranno essere conosciuti, altri non lo saranno mai, non ha nessuna importanza, l’importante è sapere che le dimensioni della svolta antropologica non sono dimensioni amministrabili dallo Stato come un’operazione di tipo scientifico sulla materia. La sola operazione scientifica che può dar luogo a un uomo nuovo è la scienza dell’iniziazione, in quanto liberamente percorsa. Alcuni individui daranno e danno testimonianza del suo essere avvenuta, nella privatezza dell’individuo.

 

Tutto questo non basterebbe, perché la svolta deve poter incontrarsi con qualcosa che interessi tutti, con i grandi motivi, potremmo dire così, dell’umanità colta nel suo insieme, quindi con eventi spirituali, collettivi e universali, in cui sia riconoscibile che dentro l’umanità ricompaiono i grandi portatori dei misteri dell’umanità stessa. La nostra anima deve poter essere aperta alla possibilità di riconoscere l’operare del Cristo nell’eterico, grande messaggio e grande insegnamento dell’antroposofia. Egli si presenta come unità e nello stesso tempo come molteplicità, si presenta come Colui che dà unità e senso alle azioni umane e nello stesso tempo, come Colui che può agire in più luoghi contemporaneamente.

 

Dobbiamo avere una certa sensibilità al fatto che mentre questa svolta avviene nell’anima degli uomini, un altro evento deve avvenire sul piano spirituale, per il quale gli uomini devono rendersi sensibili. Per avere un’immagine vi chiedo di tornare indietro di duemila anni e di figurarvi di essere cittadini dell’impero romano, all’incirca verso l’anno trenta; in quel periodo, come sapete, si incarnò il Cristo, che per tre anni agì e operò sulla Terra, visibile sul piano fisico. Quanti si accorsero di questo? Quanti uomini ebbero coscienza dell’enormità del fatto che stava avvenendo? Un numero più che esiguo, gli stessi uomini della sua cerchia per lo più non se ne resero conto se non dopo averlo perduto; un evento come questo non può essere casuale, non può non essere preparato. Si direbbe che la divinità si diverta a preparare gli eventi più importanti per la Terra e per l’umanità in modo tale che si presentino con il minimo di riconoscibilità.

 

Gli eventi visti sul piano esteriore hanno il carattere che ho cercato di descrivere prima: il primo diventa ultimo rinunciando a tutti i vantaggi del suo passato. Il Cristo si presenta così, non usa nessuna delle forze di cui potrebbe disporre per difendere se stesso, se non per cercare di aiutare o di guarire, non usa nessuno dei vantaggi della sua dignità, presentandosi come il peggiore dei criminali finendo sulla croce. Ovvero, il divino opera in modo che le sue manifestazioni entro l’elemento storico terrestre chiedano all’uomo di «snebbiarsi» gli occhi, di destare la propria coscienza, perché altrimenti non le vede.

Questo è un profondo insegnamento. La divinità, che ordina i suoi piani in una maniera così misteriosa e fa sì che le cose più grandi appaiano in certi momenti come le più piccole, evidentemente non ha smesso di occuparsi dell’umanità. Sarebbe un errore credere che chi ha pianificato l’esistenza del Cristo improvvisamente dica: «Ora sono stanco, non ne voglio più sapere di questa umanità!». In realtà continua a operare, è l’uomo che deve acquisire sensibilità per questi eventi.

Dobbiamo diventare una società di uomini in cui si dia la possibilità che avvenga la svolta antropologica di cui parlavo e, nello stessa tempo, si dia la possibilità che in alcuni si desti la coscienza di come operi il mondo spirituale in questo momento, quali eventi prefiguri e realizzi. R. Steiner in proposito è stato abbastanza esplicito, dicendo che la presenza del Cristo dentro la vita terrestre si farà sentire sempre di più, sempre di più, e che il suo collegamento con gli avvenimenti umani sarà sempre più stretto, nella misura in cui uomini, con più coscienza, ne percepiranno l’Essere.

 

Con ciò vorrei chiudere.

L’elaborazione del futuro richiede l’accoglimento dell’idea della nostra morte e della reale esistenza dei defunti,

la consapevolezza che la direzione dell’umanità non l’ha abbandonata

e che le sue operazioni sono visibili se l’uomo si rende degno di vederle;

l’esser degni nasce dal compiere ciò che si fa nel modo corretto,

cioè amando il lavoro che si svolge, riconoscendone il senso e offrendolo al mondo in piena trasparenza,

lasciando che sia il mondo stesso a decidere se l’accetta o no,

dicendo a se stessi che questa è la preparazione del futuro.

 

Quindi elaborare il futuro significa accogliere degli ideali

che vanno molto al di là di ciò che singolarmente ci sarà dato di realizzare,

ma significa soprattutto preparare un terreno in cui qualcuno dopo di noi

potrà fare certamente molto di più di quello che abbiamo fatto noi.

 

Se una volta c’era un agronomo che si occupava di agricoltura biodinamica, oggi siamo qui già numerosi, tutto va avanti, non per fare dell’enfasi populista o da partito, ma nel senso che la vita ha i suoi percorsi e i suoi ritmi di cui si deve diventare coscienti.

Cosa posso dirvi? Non ho fatto altro che comunicarvi delle cose che forse erano già entro di voi e non resta che dirsi che tutto questo va configurato rispetto ai grandi fini dell’agricoltura biodinamica; il vostro fare quotidiano, concreto, nei confronti degli esseri della natura e dei rapporti tra uomini è contemporaneamente un fare tutte le cose che ho cercato di teorizzare, di esporre dottrinalmente.

 

Dobbiamo avere coscienza che il rispetto che portiamo a un altro uomo non si vede quando lo diciamo teoricamente, ma nel modo in cui gli andiamo incontro: si vedrà nel salario, se gli dobbiamo dare un salario, o nei rapporti di lavoro che stabiliremo con lui, nei fatti che avvengono tutte le volte che ci incontriamo, lì si danno le cose.

Vi raccomanderei di prendere a cuore l’idea che vi siete dati dei compiti immani; coloro che giungono alla terza tappa hanno i compiti più pesanti perché ereditano gli errori del passato, ma hanno più forze dei loro predecessori.