Giordano Bruno fra l’antica e la nuova concezione del mondo

O.O. 326 – Nascita e sviluppo storico della scienza – 27.12.1922


 

Sommario: Eliminazione dell’elemento quantitativo dall’esperienza umana. Giordano Bruno fra l’antica e la nuova concezione del mondo. Newton: l’uomo si strappa da Dio; Newton stesso definisce lo spazio «il sensorio di Dio». Cartesio, Spinoza. Berkeley e Goethe avversari di Newton. Berkeley contro il calcolo infinitesimale che conserva la sua giustificazione. L’atomismo è conveniente a ciò che è privo di vita; il continuismo al vivente. Necessità di una scienza del morto, che d’altra parte stimola a ritrovare lo spirito nella natura. L’errata disputa atomistica.

 

Nella conferenza precedente ho cercato di mostrare come la concezione più antica (dalla quale si è poi sviluppata quella scientifica moderna) congiungesse ancora l’aspetto quantitativo con il qualitativo, e nella matematica in quanto è geometria perfino con l’elemento figurativo. Possiamo dunque scoprire nel passato una concezione del mondo nella quale per esempio un triangolo, o qualsiasi altra figura geometrica, o anche una grandezza aritmetica, venisse sperimentata in stretta connessione con una data e intensa esperienza qualitativa; e questo, sia che la figura geometrica venisse intesa come delimitazione di un corpo, sia come figura del moto di un corpo. In sostanza si concepiva il triangolo o il quadrato come qualcosa che scaturiva da diverse e determinate esperienze.

 

Tale concezione potè trasformarsi in una concezione differente soltanto quando non si ebbe più coscienza che ogni realtà quantitativa, e quindi anche ogni grandezza matematica, viene sperimentata in origine dall’uomo in diretta connessione col mondo: cioè quando si giunse a distaccare del tutto il quantitativo dall’esperienza umana. Del resto possiamo stabilire rigorosamente il momento in cui quel distacco avvenne: fu quando la concezione dello spazio inteso come qualcosa in cui l’uomo stesso si trova presente, fu sostituita dalla odierna schematica concezione dello spazio che prende le mosse da un punto qualsiasi attraverso il quale si tracciano semplicemente i tre assi coordinati. Solo dopo averla separata dall’esperienza umana nacque la forma della matematica quale esiste oggi e mediante la quale si vorrebbero affrontare i fenomeni della natura. Potrei rendere più evidente il mio pensiero, esprimendomi così: nei tempi antichi l’uomo sentiva la sfera della matematica come qualcosa che egli sperimentava in se stesso, con i suoi dèi o col suo dio, qualcosa mediante cui il dio ordinava il mondo: perciò non era da meravigliarsi che la si riscoprisse nell’ordinamento del mondo. Invece il riferire ai fenomeni naturali un arbitrario schema spaziale (o un altro concetto matematico), anche se lo si possa identificare con certi aspetti essenziali dei fenomeni stessi, è qualcosa che non può congiungersi solidamente con esperienze umane: perciò questo procedimento in fondo non può essere realmente compreso nella sua essenza, ma tutt’al più soltanto constatato. Per la stessa ragione esso non può diventare in realtà oggetto di conoscenza. Di un tale uso della matematica riferita ai fenomeni naturali si può solo affermare che quello che si è elaborato matematicamente si adatta poi a essere applicato ai fenomeni della natura. Non si può invece scoprire, entro i limiti di questa concezione, la ragione per cui le cose stanno così.

 

Ricordiamo ancora una volta l’antica concezione del mondo, di cui parlai nei giorni scorsi, quella che considerava tutto ciò che è corporeo come una riproduzione dello spirituale: si guardava allora al corpo e vi si scopriva l’immagine riprodotta dello spirituale; indi si osservava quello che di matematico si poteva trovare grazie alla propria costituzione corporea con l’aiuto del proprio elemento divino. Proprio come nell’opera d’arte si ritrova l’impronta delle idee dell’artista, senza incontrare nessun ostacolo in tale riconoscimento, così nei corpi si trovano le riproduzioni matematiche di ciò che si sperimenta insieme al proprio elemento divino, poiché i corpi esistenti in natura sono essi stessi le immagini riprodotte del divino-spirituale. Quindi nel momento stesso in cui la matematica viene separata dall’essere umano, ma poi ugualmente riferita a un oggetto corporeo (che però non è più considerato come la riproduzione del divino-spirituale), un elemento agnostico penetra di necessità nell’intera concezione del mondo.

 

Proviamo a esaminare la cosa in un caso concreto, e precisamente nel primo fenomeno che incontriamo, dopo la nascita della concezione scientifica moderna, vale a dire nel caso del sistema copernicano. Né in questa conferenza, né in quelle che seguiranno io mi propongo di propugnare né l’antico sistema tolemaico, né quello copernicano. Nell’esporre qui i fatti storicamente, io non parteggio né per l’uno, né per l’altro sistema: considero soltanto il fatto che il copernicano ha sostituito quello tolemaico. Da quanto dirò nella conferenza odierna nessuno dovrà dunque trarre la conclusione che io voglia sostenere l’antico sistema tolemaico contro il copernicano. Per quel che concerne il decorso storico dei fatti, si può però osservare quanto segue. Si provi a riportarsi indietro nel tempo, a quando l’uomo sperimentava personalmente il proprio orientamento nello spazio, nelle direzioni alto-basso, destra-sinistra e davanti-dietro: tale esperienza non si poteva fare che in connessione con la Terra. Per esempio l’esperienza «alto-basso» veniva di necessità fatta in rapporto con la direzione della forza di gravità: le altre due («destra-sinistra» e «davanti-dietro») erano invece collegate con i punti cardinali, secondo i quali è orientata la Terra stessa. L’uomo partecipava con la Terra a tale orientamento, in quanto si sentiva solidamente radicato sulla Terra. Egli non si limitava a concepirsi concettualmente come un oggetto che comincia con la testa e finisce con le piante dei suoi piedi; sperimentava la forza di gravità che lo percorre tutto, che col suo essere possiede una certa connessione, ma che non cessa alla pianta dei piedi: sì che, inserito come si sentiva nella forza di gravità, l’uomo si sapeva connesso con la Terra. Per la sua esperienza concreta, questo costituiva il punto di partenza dell’intera sua osservazione del mondo. Con ciò risultava pienamente giustificata per lui la costruzione del sistema tolomaico. Solo nel momento in cui l’uomo separò da se stesso la costruzione matematica, risultò possibile anche il concepirsi come distaccato dalla Terra e il fondare un sistema astronomico con il suo centro nel Sole. L’uomo dovette prima perdere l’antica facoltà di sperimentare in se stesso, per poter ammettere il centro di un sistema al di fuori della sfera terrestre. L’affermarsi del sistema copernicano sta dunque in un rapporto strettissimo con l’intera sovversione dell’atteggiamento psichico dell’umanità civile. La nascita del pensiero scientifico moderno non può in alcun modo essere avulsa dall’atteggiamento psichico generale dell’uomo, anzi dev’essere studiata in connessione con quello.

 

È naturale che l’enunciazione di simili affermazioni debba sembrare del tutto assurda ai nostri contemporanei: essi credono alla concezione scientifica oggi dominante con un’intensità molto maggiore di qualsiasi fede religiosa dogmatica del passato. Ma per poter apprezzare nel suo giusto valore la mentalità scientifica moderna, occorre proprio ricavarla dalla totalità dell’atteggiamento psichico umano e della sua evoluzione: del resto, procedendo in questo modo, la concezione scientifica acquista un maggior valore per la conoscenza del mondo, in confronto al valore che le attribuiscono gli agnostici; e lo si vedrà nel corso di questo ciclo di conferenze.

 

La concezione copernicana era diventata dunque, a un certo momento, un dato di fatto: era un dato di fatto la proiezione del centro del sistema cosmico dalla Terra nel Sole. Da ciò era senz’altro derivata la concezione cosmologica di Giordano Bruno, nato nel 1548, morto sul rogo a Roma nel 1600. Giordano Bruno appare proprio come il glorificatore della concezione moderna del mondo e dell’idea copernicana. Bisogna essere veramente compenetrati della necessità di riconoscere l’importanza della nuova concezione del mondo, per poter partecipare col sentimento allo straordinario modo in cui parla e scrive Giordano Bruno. Non si può a meno di osservare che il Bruno si esprime nei suoi scritti in modo del tutto diverso sia dai sostenitori del nuovo sistema cosmico, sia dalla retroguardia dei fautori della concezione antica, in auge fino allora. Vien fatto di rilevare che Giordano Bruno non si esprime affatto sull’universo in modo matematico, ma piuttosto in modo lirico. Si potrebbe scoprire perfino qualcosa di musicale nel modo talora travolgente in cui Giordano Bruno espone la concezione scientifica moderna. Da che cosa deriva tutto questo? Esso trova la sua causa nel Fatto che, per quanto riguarda il suo intimo, Giordano Bruno è radicato nell’antico modo di sentire il mondo. Solo con il suo intelletto esteriore egli sembra dirsi: dato come sono andate le cose, non possiamo che accettare la concezione copernicana del mondo. Egli comprendeva dunque la necessità che risultava dall’evoluzione recente dell’umanità. L’immagine copernicana del mondo non gli si presentava però come qualcosa che egli avesse conquistato personalmente, bensì come un dato ormai acquisito e adeguato ai suoi contemporanei. Siccome però egli coltivava un sentimento del mondo di tipo più antico, egli non poteva che partecipare personalmente a quello che doveva accettare come conoscenza. Egli possedeva ancora l’esperienza interiore, ma non ancora le forme scientifiche di tale esperienza interiore. Perciò il Bruno seguì il corso di pensieri del sistema copernicano (che descrive in modo meraviglioso) in modo ben diverso da come lo seguirono Copernico stesso, o Galileo o Keplero, per non dire di Newton: Giordano Bruno cercò di partecipare ancora al modo antico, con tutto se stesso alla nuova concezione. Per poter sperimentare il cosmo al modo antico, la matematica doveva però essere al tempo stesso mistica, cioè un’esperienza interiore, come ho già detto ieri. Questo però non potè più accadere a Giordano Bruno: il tempo era passato! Perciò la sua partecipazione non prese un aspetto propriamente di conoscenza, ma piuttosto uno più o meno poetico: è questo che dà l’impronta letteraria agli scritti del Bruno. Per lui l’atomismo è ancora una monadologia, l’atomo ancora qualcosa di vivente. La somma delle leggi cosmiche ha in lui ancora l’impronta dell’anima, sebbene egli non fosse in grado di sperimentare umanamente, come un mistico antico, la sfera dell’anima fin negli aspetti più minuti, né sapesse partecipare alle leggi matematiche dell’universo intese come intenzioni dello spirito. Egli invece si sollevò ad esprimere poeticamente la sua ammirazione, mista a un certo atteggiamento semi-scientifico, per quello che era ormai divenuto esteriore e solo come tale poteva quindi venire presentato. In Giordano Bruno possiamo realmente scorgere una specie di pilastro angolare delle due concezioni del mondo: quella attuale e l’antica, di cui l’uomo d’oggi non può quasi più farsi un’idea e che era rimasta valida fino al quindicesimo secolo. In essa l’uomo partecipava ancora in qualche modo a tutto ciò che è cosmico: non distingueva ancora il soggetto in se stesso e l’oggetto cosmico, i quali si compenetravano, né si parlava ancora delle tre dimensioni spaziali, in modo separato dall’orientamento legato all’esperienza corporea umana dell’alto-basso, della destra-sinistra e del davanti-dietro.

 

Copernico cominciò ad afferrare mediante l’elemento matematico distaccato dall’esperienza umana l’ambito astronomico. In Newton invece la matematica visse in modo del tutto autonomo: non intendo qui le singole operazioni matematiche, bensì il pensiero matematico in genere, ma distaccato dall’esperienza interiore umana. Mi rendo conto che sto descrivendo gli aspetti per così dire estremi del problema, e che mi si potranno anche fare delle obiezioni, ma mi sembra che questo non tocchi l’essenziale. Dunque di Newton si può dire che fu circa il primo ad affrontare l’osservazione dei fenomeni naturali col pensiero matematico divenuto autonomo; in questo modo egli, come successore di Copernico, divenne il vero fondatore della mentalità scientifica moderna.

 

Ora è interessante il fatto che al tempo di Newton, e dopo di lui, l’umanità civile si trovò alle prese con l’enorme rivoluzione che andava compiendosi nell’atteggiamento animico, dall’antica concezione matematico-mistica alla nuova concezione matematico-naturalistica. Non fu facile agli spiriti umani di quei tempi adattarsi a quel radicale cambiamento, e possiamo constatarlo se facciamo attenzione ai problemi particolari con i quali lottava questa o quella personalità. Prendiamo il caso di Newton che espone il suo sistema della natura, cercando di metterlo in rapporto con la matematica distaccata dall’uomo: egli per esempio dà come premesse il tempo, il luogo, lo spazio, il moto. Nei suoi Princìpi matematici della filosofia naturale egli afferma che il luogo, il tempo, lo spazio e il moto non richiedono spiegazione, perché chiunque li conosce. Ogni uomo (così dice) sa che cosa sono il tempo, lo spazio, il luogo, il moto; perciò egli si serve di questi concetti popolari anche nella sua spiegazione matematica del mondo. Non sempre però la gente è pienamente cosciente di quello che esprime: nella vita accade anzi molto di rado che una persona penetri realmente con la propria coscienza in quello che dice. Questo vale anche per gli spiriti umani più grandi. E in fondo Newton ignora la ragione per cui prende le mosse da luogo, tempo, spazio e moto, senza spiegarli, senza in qualche modo definirli, mentre in tutte le sue deduzioni successive si preoccupa di definire, di spiegare ogni cosa. Quale ne è la ragione? E che tutta l’intelligenza e tutto il pensare non servono a nulla, di fronte a luogo, tempo, moto e spazio: il pensare non aggiunge nulla a quanto si ricava dall’esperienza ordinaria, nei confronti di quei fatti. Le rispettive rappresentazioni vengono sperimentate in modo diretto dalla propria condizione umana e allo stesso modo debbono essere conservate. Tale realtà è parsa particolarmente evidente al filosofo Berkeley il cui atteggiamento è caratteristico per i conflitti intellettuali che accompagnarono la nascita della mentalità scientifica. Come vedremo, Berkeley dissente dal Newton su vari punti, ma soprattutto non può accettare il fatto che Newton premetta i concetti di luogo, tempo, spazio e moto alle sue considerazioni scientifico-matematiche, senza spiegarli, né definirli. Secondo il Berkeley il modo giusto di procedere è quello di usare quei concetti come li usa l’uomo più semplice, perché così sono sempre chiari: diventano confusi, non già nell’esperienza diretta, ma nelle teste dei metafisici e dei filosofi. Secondo lui, quei quattro concetti nella vita sono chiari, ma sempre diventano confusi nelle teste dei filosofi!

 

Effettivamente, la riflessione pensante è inutile per questi concetti, in quanto essi esigono di essere sperimentati: Berkeley dice che ciò si sente direttamente. Perciò Newton comincia a giostrare con la matematica solo quando ha bisogno di quei concetti per spiegare il mondo: comincia cioè a giostrare proprio con quei concetti. Con questa constatazione non mi propongo affatto di criticare Newton: vorrei solo caratterizzare una sua viva capacità. Uno di tali concetti, da lui utilizzati, è quello di spazio: egli comincia davvero a manipolare lo spazio, come se lo raffigura l’uomo comune; fino a questo punto del resto c’è ancora una traccia di esperienza diretta. Infatti l’idea dello spazio propria della matematica cartesiana porta il pensiero in una specie di vortice (a meno di volersi abbandonare ad illusioni), porta a una specie di vertigine; questo perché un tale spazio, dotato di un suo centro arbitrario da dove hanno inizio le sue coordinate, è qualcosa di assolutamente indeterminato. Si può infatti speculare nel modo più brillante se un tale spazio sia finito oppure infinito, ma senza alcun risultato; mentre il comune senso dello spazio, ancora connesso con l’esperienza umana, non si preoccupa in realtà per nulla del finito o dell’infinito. Non se ne preoccupa affatto. Per una concezione viva del mondo è in effetti irrilevante se lo spazio si debba concepire come finito o come infinito. Newton prende dunque le mosse dallo spazio quale lo si concepisce comunemente, e poi comincia a mettere in moto la matematica. A causa del modo di pensare della sua epoca, egli usa però la matematica o la geometria già separate dall’esperienza umana diretta: elaborando i fenomeni e i processi spaziali della natura con lo strumento della matematica, egli li compenetra di una matematica separata dall’esperienza umana. Per effetto di ciò, i fenomeni naturali vengono anch’essi del tutto avulsi dall’uomo. In effetti, nella fisica newtoniana si trovano per la prima volta delle concezioni sulla natura completamente avulse dall’uomo. Basta risalire alle epoche precedenti per convincersi che mai prima le concezioni sulla natura risultano talmente avulse dall’uomo, come lo sono nella fisica newtoniana.

 

Proviamo a studiare un pensatore, diciamo del quarto o quinto secolo cristiano (sebbene a rigore gli studiosi di allora non si possano neppure chiamare pensatori, in quanto possedevano ancora una vita interiore molto più attiva di quanto sia la mera vita del pensiero): troveremmo che egli è assolutamente convinto di sperimentare lo spazio insieme al suo dio. Avrebbe detto: io mi oriento nello spazio secondo la mia esperienza dell’alto e del basso, della destra e della sinistra, del davanti e del dietro, ma comunque vivo nello spazio insieme al mio dio. È lui a disegnare le diverse direzioni, e sono io a sperimentarle. L’uomo dei primi secoli cristiani (e in fondo le cose cambiarono solo dopo il quattordicesimo secolo) che rifletteva geometricamente sullo spazio, che per esempio disegnava un triangolo, aveva coscienza di non disegnarlo solo in quanto uomo, ma che in lui viveva la divinità e che questa partecipava al disegno. Egli dunque disegnava al tempo stesso un insieme di qualità da lui stesso sperimentate e l’elemento qualitativo posto in lui da Dio: sicché ogni volta che nel mondo si constatavano realtà matematiche, si percepivano le intenzioni di Dio.

 

Adesso invece la matematica è separata dall’uomo: si è dimenticato che in realtà essa ci è stata ispirata da Dio. Il Newton applica questa matematica interamente separata allo studiò dello spazio. Quando egli scrisse i suoi Princìpi di scienza matematica della natura procedette senza alcuno scrupolo ad applicare questa matematica separata, cioè uno spazio costruito; egli si rifiuta di definirlo, perché ha l’oscura sensazione che, cercando di definirlo, non si verrebbe a capo di niente. Perciò prende il concetto corrente dello spazio, salvo poi trattarlo con la matematica separata, strappandolo in tal modo dalla esperienza umana interiore. Così dunque egli si pronuncia sui princìpi della natura. In un periodo successivo, il suo pensiero si approfondisce un po’. A chi abbia dimestichezza con gli scritti newtoniani appare evidente Che a un certo punto egli cominciò a sentirsi per così dire a disagio, nel riconsiderare la propria concezione dello spazio. Più tardi il Newton sembra non gradire molto questa idea di uno spaziò avulso dall’uomo e completamente estraniato dallo spirito. Ed ecco che lo definisce: lo spazio è il sensorio di Dio. È altamente interessante che lo stesso uomo che, all’inizio della scienza moderna, aveva per primo avulso lo spazio dall’uomo, matematizzandolo del tutto, più tardi lo definisca addirittura come il «sensorio» di Dio, cioè come una specie di organo cerebrale di percezione posseduto da Dio! Newton aveva scisso con violenza la natura, distinguendo nettamente fra lo spazio e l’uomo che lo sperimenta. Dopo questa radicale distinzione, comincia a non sentirsi più tanto a suo agio. L’uomo antico aveva sperimentato lo spazio insieme al suo Dio, per mezzo del suo proprio sensorio; e ora Newton provava un disagio, dopo avere avulso lo spazio dal sensorio dell’uomo! Così facendo, egli aveva sottratto se stesso alla compenetrazione da parte dell’elemento divino-spirituale. Per opera sua, lo spazio era ormai fuori dell’uomo e legato alla matematica; ed ecco che dopo qualche anno Newton stesso lo chiama «il sensorio di Dio»! Prima lo ha strappato da qualsiasi connessione con lo spirito e con Dio, per cui lo spazio perdette ogni carattere spirituale. Però in Newton era rimasto ancora sufficiente sentimento, per cui non gli va di negare ogni divinità allo spazio ormai esteriorizzato, ed ora torna egli stesso ad attribuirgli un carattere divino!

 

Ecco come l’uomo si è strappato dal suo dio, nel campo scientifico, e con ciò dallo spirito, per poi malgrado tutto ricorrere esteriormente di nuovo a una ammissione di tipo spirituale! Nel comportamento che ho descritto si trova anche la spiegazione del fatto che una personalità come Goethe non potè accordarsi con Newton su nessun punto. Il caso della dottrina dei colori non rappresenta che un punto molto caratteristico di tale dissidio di fondo. Alla natura stessa di Goethe ripugnava quel modo di eliminare preliminarmente dall’uomo tutto lo spirituale. Egli sentiva ancora, fin dall’inizio, che l’uomo deve sperimentare tutto, anche ciò che in lui è di natura cosmica: egli era convinto che in certo senso l’elemento cosmico non era che la continuazione dell’esperienza interiore dell’uomo, perfino nel caso delle tre dimensioni spaziali. Così Goethe era fin nel suo intimo un oppositore di Newton.

 

Il Berkeley vive un po’ più tardi di Newton, ma appartiene ancora al periodo delle vivaci dispute che accompagnarono la nascita della nuova mentalità scientifica. Ho già menzionato che egli accettava il fatto che Newton assumesse spazio, tempo e moto come premesse, valendosi dell’idea popolare di tali concetti; non era invece d’accordo per tutto il resto, e alla scienza nascente si opponeva soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione dei fenomeni naturali. Egli riteneva con certezza che non fosse affatto possibile sperimentare una natura del tutto avulsa dall’uomo: una tale esperienza sarebbe del tutto illusoria. Perciò il Berkeley affermò l’inesistenza di corpi accessibili alle percezioni esterne: la realtà sarebbe interamente spirituale e il mondo che ci appare sarebbe solo una manifestazione del tutto spirituale, anche là dove si mostra con aspetti corporei. Questi pensieri sono esposti dal Berkeley in forma di mere affermazioni, dato che egli non possiede più nulla della mistica antica e meno ancora dell’antica pneumatologia. In fondo, egli non ha alcuna ragione per affermare una tale spiritualità universale; ne parla fondandosi sul dogma della sua religione, ma tuttavia afferma con la massima energia che tutto il corporeo non è che manifestazione dello spirituale. Non esisteva dunque per lui la possibilità di affermare (come legittimamente fa la scienza moderna): ecco, io percepisco un colore, ma dietro al colore si nasconde un moto ondulatorio che non percepisco. Berkeley riteneva di non poter accettare nemmeno come ipotesi qualcosa che fosse dotato anche di una sola qualità corporea, per esempio della materia vibrante od oscillante. Io devo sperimentare in modo spirituale ciò che sta alla base del mondo fisico apparente: dietro a una percezione di colore deve trovarsi come causa qualcosa di spirituale, che io posso sperimentare anche in me, se mi riconosco come spirito. Berkeley è senz’altro da considerare come spiritualista, intendendo questo termine come l’intende la filosofia tedesca. Sicché egli muove innumerevoli obiezioni (sia pure per ragioni dogmatiche, ma con una certa ragione) all’ipotesi di una natura sulla quale sia lecito procedere matematicamente, ma con una matematica avulsa dall’esperienza diretta. Egli considera in fondo l’intero cosmo come di natura spirituale, e quindi anche la matematica come formata insieme allo spirito del cosmo; perciò sarebbe possibile sperimentare le intenzioni dello spirito del cosmo (in quanto formulate matematicamente), ma non applicare in modo esteriore dei procedimenti matematici a oggetti corporei.

 

Da tale punto di vista il Berkeley diventa avversario anche di ciò che la matematica era diventata, grazie al Newton e al Leibniz: cioè calcolo differenziale e infinitesimale*. Su questo punto, prego gli ascoltatori di non fraintendermi. Nella cornice di questo ciclo, proprio la conferenza odierna non può che prestarsi a molteplici attacchi, dal punto di vista delle concezioni scientifiche correnti. Tuttavia i punti attaccabili si dissolveranno nel seguito delle conferenze, purché l’ascoltatore voglia giudicare serenamente. Proprio oggi però mi preme di esporre i temi in questione in modo piuttosto radicale.

 

Berkeley diventa dunque un avversario di tutto il calcolo infinitesimale, nella misura in cui era conosciuto allora. Certo, egli in tal modo è l’avversario di qualcosa che non è sperimentabile, e da tale punto di vista si potrebbe dire che egli abbia maggiore sensibilità che acutezza di pensiero. I suoi sentimenti sono più penetranti dei suoi pensieri. Egli sente che l’introduzione del calcolo infinitesimale aggiunge alle grandezze concepibili nello spirito altre grandezze (appunto i differenziali) che conseguono una certa determinazione solo nei quozienti differenziali; questi differenziali debbono venir concepiti in modo da sfuggire sempre al pensiero, in modo cioè che il pensiero non accetti di compenetrarli del tutto. Per Berkeley un simile procedimento fa perdere il contatto con la realtà: poiché egli in ogni campo del conoscere vuole attenersi allo sperimentabile, non può ammettere di lasciarsi sfuggire le rappresentazioni matematiche nell’indeterminatezza dei differenziali.

 

Che cosa facciamo, quando andiamo alla ricerca di equazioni differenziali per i fenomeni naturali? Così facendo, accenniamo sempre a ciò che in fondo si sottrae all’esperienza. Mi rendo naturalmente conto che un gran numero dei miei attuali ascoltatori non possono con facilità accettare questo mio modo di caratterizzare la cosa; né d’altra parte mi è possibile caratterizzare qui ora l’intera natura del calcolo infinitesimale. Vorrei tuttavia attirare l’attenzione su certi aspetti che ci aiuteranno a comprendere la nascita della scienza moderna.

 

Avendo scelto la via di voler conoscere i fenomeni naturali mediante la matematica (ma con una matematica separata dall’uomo, non più interiormente vissuta), la scienza moderna perviene, con i suoi concetti avulsi dall’uomo, a poter considerare solo ciò che è morto. Avendo sottratto la matematica dall’esperienza interiore, si può applicarla soltanto al non vivente; è impossibile applicare la matematica a qualcosa di diverso dal non vivente, una volta che la si è avulsa dall’esperienza umana diretta. Ecco dunque che proprio per effetto della impostazione matematica la scienza moderna viene indirizzata esclusivamente a ciò che è morto. Senonché nell’universo ciò che è morto si esterna nella decomposizione, nell’atomizzazione, nel concentrare l’attenzione sulle particelle microscopiche: per dirla in parole povere, nella polverizzazione. Questa è la via che percorre anche la concezione scientifica moderna: mediante una matematica avulsa dall’esperienza essa afferra ciò che nel cosmo va cadendo in polvere, va per così dire atomizzandosi. Da questo momento inizia anche la possibilità di polverizzare in differenziali la matematica stessa: anche le formazioni naturali più vive vengono intellettualmente uccise, se le si affronta con equazioni differenziali, anzi più in genere con il metodo differenziale. Differenziare significa uccidere, mentre integrare significa ricucire in uno schema ciò che si è ucciso, cioè ricomporre in un tutto i differenziali. Ma così procedendo, essi non riacquistano vita, dopo essere stati uccisi: si ottengono solo dei fantasmi morti, non più qualcosa di vivente.

 

Questa era press’a poco la prospettiva che si presentava al Berkeley, come risultato del calcolo infinitesimale. Se egli si fosse espresso con più concreta evidenza, avrebbe potuto dire: prima uccidete il mondo intero, sottoponendolo al calcolo differenziale; poi ricomponete negli integrali i differenziali, ma non vi trovate più davanti un mondo, bensì solo la sua riproduzione illusoria. Quanto al contenuto, ogni integrale è in fondo un’illusione, e Berkeley ne era ben consapevole: il differenziare significa in realtà uccidere e l’integrare non è che la raccolta delle ossa e della polvere. Sicché dagli esseri esistenti prima si ricompongono le antiche figure, che però non sono più vive, ma soltanto degli schemi. Si potrebbe affermare che tale sentimento del Berkeley non era consono al suo tempo, non lo era certamente. Infatti era necessario che sorgesse una concezione che procede a quel modo, e naturalmente chi dicesse che il calcolo infinitesimale non avrebbe dovuto essere scoperto, non sarebbe uno scienziato, ma uno sciocco. Tuttavia bisogna riconoscere che un sentimento come quello del Berkeley può anche riuscire comprensibile, all’inizio di questa corrente di pensiero scientifico. Egli provava una specie di orrore, presagendo quello che sarebbe scaturito dalla indagine infinitesimale della natura: un’indagine che non si riferiva più a ciò che un tempo si considerava lo spirito della natura e che stava in relazione col nascere, bensì a ciò che nella natura continuamente si estingue.

 

Questo aspetto della natura in passato non veniva neppure preso in considerazione: si osservava il divenire, il crescere; adesso si osserva: ciò che appassisce e infine si polverizza. Adesso l’osservazione tende verso il discontinuo, verso l’atomismo, mentre prima aspirava a conoscere ciò che negli esseri è continuo. Poiché naturalmente nel mondo che ci è dato il vivente non può esistere senza il morire, nel mondo si deve trovare anche il morto e occorre anche comprenderlo. Vale a dire che doveva sorgere anche una scienza di ciò che è morto: era necessaria. L’epoca della quale stiamo trattando è appunto quella in cui l’umanità era matura per prendere in considerazione ciò che è morto. Bisogna però rendersi conto di quanto ciò potesse contrastare con i sentimenti di chi, come il Berkeley, viveva ancora del tutto nell’antico atteggiamento.

 

Oggi noi ci troviamo ancora pienamente inseriti negli effetti di ciò che nacque in quel tempo: stiamo assistendo ai veri trionfi di quel tipo di attività scientifica della quale un Berkeley provava orrore. Fino a quando nella moderna teoria della relatività* le idee di Newton sono state in parte modificate, esse avevano dominato incontrastate. Infatti la reazione di Goethe contro quella concezione non ebbe seguito; per comprendere bene ciò che in tal modo si è venuto affermando, occorre non perdere di vista i punti di partenza di tale affermazione, e osservare la specie di disagio provato da certi individui che coltivano ancora sentimenti simili a quelli dell’antichità.

 

Per esempio Giordano Bruno ha un certo orrore di fronte all’idea di dover ritenere veramente come cosa morta l’universo che allora si cominciava a considerare matematicamente. Egli ravviva gli atomi a mònadi e poetizza per così dire la concezione matematica del mondo, per conservarle un carattere personale. Newton invece, all’inizio, procede in modo rigorosamente matematico; più tardi prova per così dire un certo disagio e, dopo avere del tutto avulso dall’uomo lo spazio mediante la matematica esteriorizzata, finisce col considerare lo spazio come «il sensorio di Dio». Berkeley invece respinge totalmente la concezione che andava affermandosi, e in quanto era uno spirito radicale respinge con ciò del tutto l’indirizzo matematico infinitesimale.

 

Oggi però noi ci troviamo nel bel mezzo di tutto quello che Giordano Bruno volle dapprima descrivere quasi poeticamente, di ciò che produsse perfino nel Newton un certo disagio, di ciò che il Berkeley respinse radicalmente. Forse che il pensiero scientifico odierno prende sul serio l’affermazione di Newton che lo spazio è il sensorio di Dio? Oggi ci si permette sempre di considerare spiriti grandi coloro dei quali si vogliono conservare alcune idee, salvo a considerarsi infinitamente superiori ad essi, quando una delle loro affermazioni non sembra più concordare con le idee odierne; in tal caso si dice: beh, in quel momento il tale non era ancora intelligente quanto lo siamo noi oggi! Analogamente si comportano coloro che considerano il Lessing una personalità genialissima, salvo a giudicare con una certa commiserazione il fatto che, verso la fine della sua vita, egli abbia espresso la persuasione delle ripetute vite terrene dell’uomo.

 

Proprio perché nel presente non si può fare a meno di prendere in considerazione le concezioni che si sono affermate, dobbiamo risalire al loro punto di partenza. Dato che la matematica è stata avulsa dall’esperienza umana e che si affronta la natura intera appunto con questa matematica separata dall’uomo, il problema è quello di ritrovarsi in un modo qualsiasi come uomini nel contesto della natura. Non si potrà infatti giungere a una comprensione dello spirituale priva di contraddizioni, prima di avere ritrovato nella natura anche lo spirito. Come è ovvio che l’uomo fisico terrestre e Vivente, a un certo momento divenga un morto, così è altrettanto ovvio che nel corso dell’evoluzione dall’antica concezione viva dovesse svilupparsi una concezione rivolta a ciò che è morto. Solo chi è disposto ad esaminare il cadavere, non chi si rifiuta di esaminarlo, può apprendere dal cadavere certe cose che solo in esso si possono conoscere. Analogamente certi segreti del mondo possono essere scoperti solo prendendo sul serio il modo di pensare scientifico dei tempi moderni.

 

Mi sia concessa a questo punto una considerazione di carattere quasi personale. Proprio perché questa concezione scientifica moderna è da prendersi sul serio, io non sono mai stato un avversario di essa, ma la considero un fenomeno necessario del nostro tempo. Spesso però ho dovuto esporre delle obiezioni alle deduzioni che qualche scienziato, o cosiddetto scienziato, ha tratto da quello che si può ricavare da una giusta valutazione dei risultati scientifici relativi a ciò che non è vivente. I risultati della ricerca sono stati spesso male interpretati, e contro tali errate interpretazioni io mi sono espresso. Proprio in occasione di questo corso di conferenze tengo a sottolineare con forza che non vorrei in alcun modo essere considerato un avversario dell’indirizzo scientifico; anzi, dovrei considerare dannoso per l’intero movimento antroposofico se si venisse configurando un contrasto sbagliato fra ciò che l’antroposofia ricerca per via spirituale e ciò che necessariamente le diverse scienze indagano nei loro campi, secondo l’impostazione propria del nostro tempo.

 

Menziono esplicitamente questo problema perché in seno al nostro movimento antroposofico deve svolgersi una sana discussione circa i rapporti fra l’antroposofia e la scienza. Ogni punto non del tutto chiarito, a tale proposito, non può che danneggiare gravemente l’antroposofia: e questo va certo evitato.