I misteri di Ibernia e i misteri di Efeso. Alessandro e Aristotele.

O.O. 233 – La storia alla luce dell’Antroposofia – 27.12.1923


 

Sommario: Oscuramento della coscienza e acquisizione della libertà. I misteri di Ibernia e di Efeso. Il linguaggio umano è immagine del Logos universale. Echi della presenza dello spirito ad Efeso nella civiltà greca. Aristotele e Alessandro. Le opere di Aristotele andate perdute. Il suo insegnamento ad Alessandro, sui rapporti fra Terra ed etere cosmico, fra uomo ed elementi, fra uomo e Terra. L’origine intima della spedizione di Alessandro in Asia.

 

Ieri è stato mio compito mostrare come si svolge l’evoluzione storica, valendomi dell’esempio di alcune personalità. Del resto, se si vuole progredire in senso scientifico-spirituale, non si può che descrivere la sequenza degli eventi nel modo in cui si riflettono nell’uomo. Teniamo presente che solo nella nostra epoca (per ragioni che esporrò nel corso di queste conferenze) l’uomo si sente come un essere separato dal resto del mondo. Tutte le epoche precedenti, e anche quelle che seguiranno (questo va esplicitamente affermato) sono tali che gli uomini si sentivano e si sentiranno come parti dell’universo intero, come appartenenti all’universo. L’ho detto molte volte: come un dito è un’entità sussistente solo se attaccato all’uomo, ma separato da esso diventa qualcosa di completamente diverso, soggetto a leggi diverse, così l’uomo (sia durante la sua esistenza terrena, sia fra la morte e una nuova nascita) è un essere solo in quanto è connesso con tutto l’universo. La coscienza di questo fatto era presente in tempi passati e sarà nuovamente presente in avvenire, mentre soltanto adesso è offuscata: ciò è dovuto al fatto che l’uomo aveva bisogno di questo oscuramento al fine di sviluppare in sé pienamente l’esperienza della libertà. Quanto più indietro si risale nei tempi passati, tanto più forte era negli uomini la consapevolezza della loro connessione con l’universo.

 

Abbiamo dunque parlato di due personalità menzionate nell’antico poema con i nomi di Gilgamesh e di Eabani; ho potuto mostrare come esse siano vissute nel periodo egizio-caldaico, nei modi in cui era possibile vivere allora, e come più tardi esse abbiano conseguito un approfondimento delle loro anime nei misteri di Efeso. Ho anche già messo in rilievo il fatto che quegli stessi esseri umani si ritrovarono inseriti nella storia del mondo, nelle persone di Aristotele e di Alessandro Magno. Per poter comprendere completamente come si svolgesse il corso dell’evoluzione terrestre, nei tempi in cui le personalità in questione fecero quelle esperienze, è però necessario considerare più a fondo ciò che le loro anime poterono accogliere, in tre successivi momenti storici.

 

Ho già ricordato che la personalità che si nasconde dietro al nome di Gilgamesh intraprese una spedizione verso occidente e conseguì una specie di iniziazione postatlantica occidentale. Per comprendere ciò che seguirà, dobbiamo ora farci un’idea di come fosse quel tipo di iniziazione, e a tal fine dobbiamo ricercarla là dove si conservarono a lungo gli echi della iniziazione atlantica. Questo si era verificato nei misteri di Ibernia (Manda), dei quali ho recentemente parlato agli amici residenti qui a Dornach. Devo però adesso riprendere ima parte di quanto già esposi, per portare a una piena comprensione quello che stiamo trattando.

 

I misteri di Ibernia, d’Irlanda, rimasero attivi per molto tempo. Essi esistevano ancora al tempo in cui nacque il cristianesimo, e in quei misteri si conservarono più fedelmente che ovunque altrove, sotto certi aspetti, gli insegnamenti della saggezza propria della popolazione atlantica. Vorrei dare ora un’immagine delle esperienze che faceva chi veniva iniziato nei misteri irlandesi dell’epoca postatlantica. Il candidato a quel tipo di iniziazione doveva passare per una severa preparazione, cosa che del resto era comune a tutti i misteri dell’antichità. L’intera personalità, in tutti gli atteggiamenti della sua anima, doveva venir trasformata.

 

Si trattava poi di preparare l’iniziando in modo da destare la sua attenzione (mediante intense esperienze interiori) su tutto quanto è ingannevole nelle cose che circondano l’uomo, nelle cose alle quali egli è indotto ad attribuire esistenza, reale per effetto delle percezioni sensoriali. Il discepolo doveva inoltre acquistare coscienza di tutte le difficoltà e di tutti gli ostacoli che avrebbe incontrato sulla via intrapresa alla ricerca della verità, della verità reale. Gli veniva fatto presente che tutto quanto, ci circonda nel mondo sensibile è in fondo un’illusione, che i sensi trasmettono solo dati illusori, e che dietro all’illusione si nasconde la verità: in altre parole, che l’uomo non può raggiungere l’esistenza reale per mezzo della percezione sensoriale.

 

Qualcuno dei presenti potrebbe replicare che si tratta di cosa di cui ognuno che abbia studiato a lungo l’antroposofia è ben convinto. Sennonché la nozione del carattere illusorio del mondo sensibile esterno, quale può averla nella sua coscienza attuale un uomo d’oggi, non è proprio niente in confronto alle intime esperienze sconvolgenti, al senso tragico che veniva provato da chi si preparava allora alla iniziazione ibernica. È molto facile dirsi teoricamente che tutto è maia, che tutto è illusorio. La preparazione dei discepoli dei misteri di Ibernia andava però fino al punto che essi si dicevano: non esiste alcuna possibilità umana di attraversare il muro dell’illusione, di pervenire all’esistenza vera, reale.

 

La preparazione dei discepoli consisteva nel fatto che essi, quasi per disperazione, si accontentassero momentaneamente dell’illusione. Essi pervenivano allo stato d’animo disperato di attribuire al carattere illusorio del mondo una tale forza, una tale capacità di sopraffazione, da non poter sperare di uscir mai dalla sfera dell’illusione. Nella vita di quei discepoli si ripetevano sempre di nuovo dei momenti in cui essi si arrendevano alla forza dell’illusione, e sentivano allora di perdere il terreno sotto i piedi. Oggi è quasi impossibile farsi un’idea adeguata della severità con cui si svolgeva la preparazione negli antichi misteri. È che si tende a rifuggire da quanto esige realmente lo sviluppo interiore.

 

Similmente alle esperienze fatte nei riguardi del carattere illusorio dell’esistenza, i discepoli subivano delle prove anche per quanto concerneva l’aspirazione alla verità. Essi imparavano a conoscere tutto il mondo delle emozioni, delle passioni che ostacolano l’accesso dell’uomo alla verità, offuscandone il lume della conoscenza. Anche in questo campo essi pervenivano dunque a Momenti di crisi, nei quali erano portati a riconoscere: se non ci è possibile vivere nella verità, saremo costretti a vivere nell’errore, nella menzogna! – Ora, se si giunge in un momento della propria vita a disperare dell’esistenza e della verità, è come se ci si strappasse di dosso la propria umanità.

 

Tutto questo aveva lo scopo di destare nell’uomo il giusto e profondo sentimento per la meta da raggiungere, mediante l’esperienza del contrario della meta stessa. Infatti chi non ha conosciuto che cosa significhi il convivere con l’errore e con l’illusione non è in grado di apprezzare la verità e l’esistenza. Ora il discepolo dei misteri di Ibernia doveva appunto imparare ad apprezzare la verità e l’esistenza.

 

Dopo avere fatto queste esperienze, imparando a conoscere per così dire il polo opposto alla mèta che dovevamo raggiungere, i discepoli venivano condotti in un sacrario nel quale si trovavano due statue dotate di uno straordinario potere suggestivo. A questo punto io devo esporre i fatti in tutta la potenza figurativa che era realmente presente nei misteri ibernici. Una di quelle statue era di grandezza gigantesca, e internamente cava; la superficie esterna, cioè la sostanza di cui la statua era composta, era completamente elastica, si poteva quindi comprimerla, pigiarla.

 

Appena terminata la compressione, la forma originaria si ricostituiva. Di questa statua era elaborata soprattutto la testa e questa suscitava l’impressione che da essa si irradiassero delle forze in tutto il corpo colossale; lo spazio interno vuoto non veniva naturalmente percepito, se non per effetto della pressione esercitata sull’involucro. Il discepolo veniva invitato ad esercitare su di esso una pressione e provava il sentimento che tutto il corpo della statua fosse sottoposto a un’irradiazione di forze promananti dalla testa, che la testa fosse la sola parte attiva.

 

Ammetto senz’altro che se un uomo d’oggi venisse a trovarsi di fronte a quella figura, nella prosaica vita attuale, non proverebbe nulla all’infuori di impressioni astratte. Certo: la cosa era ben diversa, se si subiva la potenza suggestiva di quella statua gigantesca, dopo avere sperimentato con tutto se stesso, col proprio spirito, con la propria anima, col proprio sangue, coi propri nervi, la potenza dell’illusione e la potenza dell’errore.

 

Quella statua aveva carattere maschile; accanto ad essa se ne trovava un’altra, di aspetto femminile. Questa non era cava e consisteva di un materiale non elastico, bensì plastico, malleabile. Anche di fronte a questa seconda figura il discepolo veniva esortato a premere su di essa, e la pressione ne distruggeva la forma: quel corpo poteva venire addirittura forato.

 

Il discepolo sperimentava dunque come la forma di una delle due statue si ristabiliva sempre a causa della sua elasticità, mentre nell’altra statua la forma veniva distrutta con la pressione. Poi egli faceva altre esperienze che descriverò fra poco, e in seguito veniva allontanato da quell’ambiente, per esservi riammesso quando erano state riparate tutte le deformazioni da lui indotte premendo sulla seconda statua, quella dalla figura femminile. Il discepolo veniva reintrodotto nell’ambiente, quando la statua aveva riacquistato la sua integrità. Naturalmente io non Lusso che accennare sommariamente a questi fatti. Comunque, dopo tutti questi preparativi il discepolo faceva una determinata esperienza interiore di fronte alla statua femminile, un’esperienza che coinvolgeva spirito, anima e corpo. Si trattava di un’esperienza alla quale egli era già preparato, ma che solo ora poteva esplicarsi con la massima intensità, grazie all’effetto suggestivo della statua. Egli si sentiva interiormente irrigidito, quasi come congelato, e per effetto di questo gelo la sua anima si empiva di immaginazioni che evocavano l’inverno terrestre. Il discepolo veniva dunque condotto a contemplare spiritualmente dal proprio intimo la realtà dell’inverno.

 

Di fronte all’altra statua, quella maschile, il discepolo riceveva l’impressione che tutta la sua vitalità (di solito diffusa in tutto il corpo) si riversasse nel suo sangue, che il sangue venisse compenetrato da certe forze, e premesse contro la pelle. Mentre davanti alla statua femminile gli sembrava di trasformarsi in uno scheletro gelido, di fronte all’altra gli sembrava che la sua vita soccombesse a un calore infuocato e gli pareva di vivere nella sua pelle tesa al massimo. Per effetto di questa esperienza di sé interamente compressa verso la superficie esterna, egli acquistava una cognizione che poteva esprimersi in queste parole: adesso tu ti sperimenti come saresti se di tutto il cosmo agisse su te soltanto il Sole. In questo modo egli apprendeva a conoscere l’azione cosmica del Sole, nella sua distribuzione: imparava a conoscere il rapporto dell’uomo col Sole. Gli si rivelava che l’uomo in realtà non è quale egli, il discepolo, appariva a se stesso sotto l’effetto suggestivo della statua solare, perché altre forze modificano l’effetto del Sole provenendo da altre parti dell’universo. In tal modo il discepolo imparava a immergersi nella vita del cosmo.

 

Quando poi subiva l’effetto suggestivo della statua lunare, facendo l’esperienza interiore del gelo, dell’irrigidimento, del paesaggio invernale, egli sentiva come sarebbe stato se esistesse solo l’effetto lunare. Di fronte alla statua solare egli sperimentava invece una specie di paesaggio estivo, scaturito dall’intimo del suo essere.

 

Che cosa si sa del mondo, al giorno d’oggi? Si sa che il fiore della cicoria è azzurro, che la rosa è rossa, che il cielo è azzurro, e molti altri fatti analoghi: ma queste non sono certo conoscenze sconvolgenti. Esse riguardano soltanto gli aspetti più esterni dell’ambiente che ci circonda. Se si vogliono conoscere i segreti dell’universo, si deve diventare in misura assai maggiore organo di percezione, con tutto il nostro essere. Mediante l’effetto suggestivo della statua solare il nucleo essenziale dell’uomo veniva concentrato nell’intera circolazione sanguigna: sperimentando quell’effetto di suggestione, egli imparava a conoscere se stesso in quanto essere solare. Mediante l’esperienza suggestiva della statua femminile imparava invece a conoscersi come essere lunare. Partendo da queste sue esperienze interiori egli poteva poi dire in che modo Sole e Luna agissero sull’uomo, come noi oggi possiamo definire gli effetti provocati dalla percezione visiva di una rosa sull’occhio, o di una nota musicale sull’orecchio. I discepoli di quei misteri sperimentavano dunque ancora nei tempi postatlantici l’inserimento dell’uomo nel cosmo: questo era per loro esperienza diretta.

 

Tutto quello che ho esposto non è che uno schizzo concentrato delle grandiose esperienze cosmiche fatte nei misteri d’Ibernia, fino ai primi secoli dell’era cristiana, quando i discepoli venivano guidati a fare l’esperienza del Sole e della Luna.

 

Del tutto diverse erano le esperienze per le quali dovevano passare i discepoli nei misteri di Efeso, nell’Asia Minore. Nei misteri efesini si sperimentava con particolare intensità e con la partecipazione dell’intero essere umano quello che più tardi trovò espressione paradigmatica nelle prime parole del vangelo di Giovanni: “Nel principio era il Verbo. E il Verbo era presso Dio e il Verbo era un Dio”.

 

In Efeso il discepolo dei misteri non veniva posto di fronte a due statue, bensì a una sola, la celebre statua della Diana (o Artemide) Efesia. Identificandosi con quel simulacro, che per così dire scoppiava di vita, il discepolo si immergeva vivamente nell’etere cosmico. Sollevandosi con tutto il proprio sentire al di sopra della vita esclusivamente terrestre, il discepolo si immergeva nell’esperienza dell’etere universale. Così acquistava chiarezza su molte cose. Anzitutto gli veniva chiarita l’essenza del linguaggio umano: dalla conosceva del linguaggio umano, cioè dal logos umano, egli ne apprendeva la differenza dal Logos della Parola cosmica, e apprendeva che la Parola cosmica opera creativamente in tutto l’universo.

 

Anche in questo caso io posso qui ora descrivere la cosa solo sommariamente. L’attenzione del discepolo veniva concentrata sulla reale esperien2a di quello che avviene quando l’uomo parla, quando imprime la parola nell’aria da lui espirata. Il discepolo veniva guidato a sperimentare come si svolga nell’elemento aereo l’effetto dell’a2Ìone interiore da lui compiuta mentre parla; inoltre apprendeva che altri due processi sono congiunti con quanto avviene nell’aria, mentre l’uomo parla.

 

Immaginiamo che questa zona azzurra con la linea rossa (vedi disegno seguente) rappresenti l’aria espirata, in cui vengono impresse certe formazioni verbali pronunciate da qualcuno. Mentre fluisce dal nostro torace verso l’esterno l’aria espirata, la vibrazione ritmica si estende verso il basso a tutto l’elemento liquido che compenetra l’organismo (nel disegno: chiaro, acqua).

 

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Nel parlare si hanno dunque all’altezza della laringe, degli organi del linguaggio, i ritmi impressi nell’aria; contemporaneamente però l’organismo liquido è percorso da onde: il liquido che nell’organismo si trova al di sotto degli organi del linguaggio entra in vibrazione, partecipa nell’uomo alle vibrazioni dell’aria. In sostanza si tratta di questo: noi accompagniamo col sentimento quello che esprimiamo in parole. Se l’elemento liquido nell’uomo non partecipasse alle vibrazioni, il linguaggio risulterebbe neutro, indifferente, e noi non parteciperemmo col sentimento a quello che esprimiamo in parole.

 

Invece verso l’alto, verso la testa, si muove l’elemento calorico (rosso): le onde di calore che accompagnano le parole fluiscono verso l’alto, compenetrano la nostra teste e fanno sì che le parole siano accompagnate da pensieri. Sicché quando si parla sono coinvolte tre cose: aria, calore e acqua (ovvero l’elemento liquido).

 

Questo processo fornisce un’immagine completa di quanto vive e opera nel linguaggio umano, ed esso costituiva il punto di partenza per il discepolo dei misteri di Efeso. In seguito gli veniva insegnato che questo processo che si svolge nell’uomo è un processo cosmico umanizzato: in una determinata epoca più antica nella Terra stessa l’elemento liquido (non l’aeriforme, bensì l’elemento liquido che ho descritto ieri come sostanza albuminoide liquido-volatile) si trovava in un simile movimento ondulatorio (si veda nella parte sinistra della figura, l’azzurro). Come più tardi nell’uomo si presenta in piccolo l’aria espirata mentre egli parla, così un tempo si presentava l’albumina liquida-volatile che costituiva l’atmosfera della Terra. E come oggi la cosa si trasmette nell’uomo verso l’alto dall’elemento aeriforme a quello calorico ( a destra nel disegno), così sulla Terra un tempo si formò da un lato l’aria (a sinistra, azzurro chiaro) e verso il basso l’elemento solido, terroso (chiaro nel disegno). Come nel nostro corpo i sentimenti nascono mediante l’elemento liquido, così nella Terra ebbero origine le formazioni terrestri solide, nonché le forze propriamente terrestri, cioè tutte le forze che agiscono e si agitano nella Terra stessa. Nell’elemento aeriforme sovrastante si formarono invece i pensieri cosmici operanti creativamente nel terrestre.

 

Riceveva una profonda e possente impressione il discepolo di Efeso, apprendendo che nel suo linguaggio vive l’eco microcosmica di ciò che un tempo era stato macrocosmico. Nel parlare, nell’esperienza del parlare egli presagiva una conoscenza dell’azione della Parola universale, che un tempo aveva messo in moto significativamente l’elemento fluido-volatile, confinante verso l’alto con i pensieri cosmici operanti, e verso il basso con le forze terrestri in via di formazione.

Il discepolo penetrava dunque nell’esperienza del cosmo, imparando a comprendere nel giusto modo il proprio parlare: in te vive il logos umano; il logos umano agisce in te durante la tua vita terrena, e in quanto sei uomo, tu sei il logos umano. Effettivamente noi veniamo formati in quanto uomini dalle forze del linguaggio che fluiscono verso il basso, entro l’elemento liquido, mentre il calore che si irradia verso l’alto ci conferisce i nostri pensieri umani durante l’esistenza terrena. E come la parte più umana di te è il logos microcosmico, così nel primo principio c’era il Logos macrocosmico., ed esso era presso Dio, ed era un Dio esso stesso.

Ciò veniva compreso ad Efeso in modo profondo, dall’uomo e nell’uomo.

 

Se adesso osserviamo un’individualità come quella di Gilgamesh, dobbiamo acquistare il sentimento che essa viveva realmente nell’ambiente, nell’atmosfera irraggiante dai misteri. Infatti nei tempi antichi ogni aspetto della civiltà era una irradiazione dai mi steri. Quando si trovava ancora nella sua città di Erek, Gilgamesh, pur non essendo propriamente iniziato ai misteri di Erek, si trovava però in seno a una civiltà sostanzialmente compenetrata dagli effetti del rapporto col cosmo di cui ho parlato. Quando poi egli intraprese la sua spedizione verso occidente, egli venne a trovarsi in contatto, non con i misteri d’Ibernia stessi, tuttavia con il culto praticato in una specie di colonia dei misteri d’Ibernia, nell’Europa centrale, dov’è oggi la regione del Burgenland. Gli effetti di quella esperienza vivevano nell’anima di Gilgamesh, ed essi vennero elaborati nella successiva esistenza fra la sua morte e una nuova nascita. A questa seguì poi in Efeso la nuova vita terrena, durante la quale ebbe luogo un approfondimento della sua anima.

 

L’approfondimento si verificò per entrambe le personalità di cui ho parlato. In Efeso le loro anime sperimentarono la civiltà di quel tempo con una intensità, e con un grado di realtà che dopo i tempi omerici non era più stata accessibile ai greci: quei contenuti erano diventati per i greci ormai solo bella parvenza.

 

Proprio in Efeso, nel luogo dove viveva anche Eraclito, si poteva ancora sperimentare gran parte dell’antica realtà spirituale, fino al sesto, al quinto secolo avanti Cristo. Vi si poteva ancora partecipare alla realtà nella quale un tempo l’umanità era vissuta, quando si trovava ancora in diretta relazione col mondo divino-spirituale: abbiamo già visto che allora l’Asia era considerata come il più basso dei vari cieli, e vi si viveva connessi con i contigui (….). Nell’Asia si sperimentavano gli spiriti della natura, e al di sopra di essi gli Angeli, gli Arcangeli e tutte le gerarchie superiori. Nella Grecia stessa ormai venivano configurandosi solo gli echi di ciò che un tempo era stato realtà. Ciò che era stato realtà si trasformava nelle immagini dei miti eroici, (…….) risulta ancora evidente l’accenno alle antiche realtà spirituali; e l’elemento drammatico delle antiche realtà prendeva forma d’arte con Eschilo. In Efeso invece si potevano ancora sentire, immersi nella profonda oscurità dei misteri, gli echi dell’antica stretta comunione in cui l’uomo era vissuto col mondo divino-spirituale.

 

Del resto proprio questo fu l’essenziale della civiltà greca: l’avere rivestito con le immagini del mito, rivestito della bellezza dell’arte, vale a dire rivestito di immagini, ciò che un tempo era stato vissuto dall’umanità appunto in comunione col cosmo spirituale.

 

Cerchiamo di rappresentarci la civiltà greca giunta in un certo senso al suo apogeo, dopo aver perfino respinto nelle guerre contro i persiani il minaccioso avvicinarsi di un residuo dell’antica realtà asiatica. Guardiamo dunque alla civiltà greca, giunta all’apogeo e nello stesso tempo già prossima al declino, e osserviamo ora anche il modo in cui la sperimentavano le personalità recanti nelle loro anime l’eco evidente di ciò che un tempo era stata realtà terrestre e divino-spirituale dell’uomo, nello spirito, nell’anima e nel corpo.

 

Dobbiamo veramente comprendere che Alessandro Magno e Aristotele vivevano in un mondo che essi sentivano come non del tutto conforme a loro, che anzi essi sentivano come una realtà tragica. Essi avevano con lo spirituale un rapporto diverso dai loro contemporanei; sebbene non si preoccupassero gran che dei misteri di Samotracia, pure nelle loro anime esisteva una profonda affinità con quanto avveniva nei misteri di Samotracia, con i loro cabiri. È questa una realtà che sopravvisse a lungo, come un oscuro sentimento, nel ricordo che di essi conservò l’umanità, fino al medioevo inoltrato. Oggi non se ne ha più un’idea esatta, ma ancora nel medioevo, fino al quattordicesimo secolo, sopravviveva in singole persone di ogni condizione sociale una distinta veggenza spirituale, almeno per quanto riguarda il territorio che nell’antico oriente Veniva chiamato Asia. Un documento molto significativo del tardo medioevo è rappresentato dalla Canzone di Alessandro, il cui autore era un prete. Quanto venne compiuto da Alessandro e da Aristotele viene riferito dalla storia in modo deformato; invece nel poema composto nel secolo dodicesimo dal prete Lamprecht si manifesta una concezione grandiosa delle imprese di Alessandro Magno, una concezione ancora vicina a quella antica.

 

Basta per convincersene ricordare un episodio. Nella Canzone di Alessandro del prete Lamprecht vi è una meravigliosa descrizione della natura. Ogni anno, quando viene la primavera, si possono fare queste osservazioni: al margine del bosco, dove il prato confina col bosco, crescono fiori multicolori. Quando il sole si trova dietro al bosco, sì che l’ombra degli alberi si estende sui fiori che crescono al suo margine, si possono scorgere in primavera i figli spirituali dei fiori uscire dalle corolle e danzare in cerchio, lì ai piedi dei grandi alberi. Si può riconoscere chiaramente che in questa descrizione fatta dal prete Lamprecht traspare ancora qualcosa dell’antica esperienza reale. Gli uomini di quel tempo, avvicinandosi al bosco dal prato, non facevano solo la prosaica esperienza dell’erba, dei fiori e degli alberi materiali. Quando il sole stava di là del bosco e sui fiori si proiettavano le ombre degli alberi, le creature dei fiori venivano loro incontro, come poi nel bosco incontravano gli altri spiriti elementari. E l’autore del poema medievale su Alessandro amava di preferenza descrivere quelle danze di spiriti dei fiori. È veramente significativo il fatto che il prete Lamprecht, volendo descrivere all’inizio del dodicesimo secolo le spedizioni di Alessandro, abbia compenetrato questo suo soggetto con descrizioni della natura che in ogni punto contengono la manifestazione dei regni elementari. Tutto quel poema è per così dire sorretto da questa consapevolezza: se si vuole descrivere quanto avvenne in Macedonia quando Aristotele istruì il giovane Alessandro, e quando poi ebbero luogo le spedizioni verso l’Asia, non basta descrivere prosaicamente la terra circostante, ma occorre menzionare anche i regni delle entità elementari.

 

Nei libri di storia leggiamo (ed è naturale che oggi si scriva così) che Alessandro si attribuì la missione di conciliare i barbari con i popoli civili, e agì in contrasto al consiglio del suo maestro Aristotele: si sarebbe messo in testa di creare una civiltà di compromesso, formata dai greci civilizzati, dai macedoni e dai barbari. Una formulazione di questo genere può anche essere considerata valida per il nostro tempo; eppure essa è goffa, se messa di fronte alla verità reale. Ecco perché si riporta un’impressione grandiosa, scoprendo che il prete Lamprecht attribuì alle spedizioni di Alessandro un fine del tutto diverso. Quella descrizione della presenza dei regni elementari della natura, dello spirituale della natura che penetra nella natura fisica, sembra che sia soltanto l’introduzione. Quale è infatti, nel poema medievale, il fine, la mèta delle spedizioni di Alessandro?

 

Alessandro vi giunge fino alle porte del paradiso! Questa espressione naturalmente parla un linguaggio cristiano, che corrisponde al tempo in cui il poema fu composto: però essa corrisponde in alto grado alla verità, e cercherò di spiegare in che modo. Infatti le spedizioni di Alessandro non avevano soltanto scopi di conquista, o quello di conciliare i barbari coi greci (contro il consiglio di Aristotele); esse al contrario si proponevano un’alta mèta spirituale e ricevettero realmente dallo spirito i loro impulsi. Ecco dunque il prete Lamprecht che, quindici secoli dopo Alessandro, descrive a suo modo con molta devozione le spedizioni di Alessandro; nel suo poema leggiamo che Alessandro giunge fino alla porta del paradiso, ma non può entrarvi, perché (ci dice l’autore) nel paradiso può entrare solo chi possiede la necessaria umiltà. Alessandro però, vissuto prima di Cristo, non poteva avere la giusta umiltà, poiché questa divenne possibile solo grazie al cristianesimo. Tuttavia, se prendiamo questa descrizione poetica del prete Lamprecht in senso lato, dobbiamo riconoscere che il prete cristiano del medioevo in qualche modo sentì l’elemento tragico che aleggia sul destino di Alessandro.

 

Ricordando questa versione poetica della storia di Alessandro volevo mettere in rilievo che non va considerato strano il prendere lo spunto, proprio dalle imprese di Alessandro, per studiare il rapporto della storia dell’occidente con l’oriente, prima e dopo quel momento. A quei fatti si ricollegavano dei sentimenti tanto profondi, da essersi conservati addirittura fino a medioevo avanzato, e conservati in modo tanto concreto da esprimere con mirabile senso drammatico in quel poema del dodicesimo secolo i destini e le opere delle due personalità che ci stanno interessando. Quel momento della storia della Macedonia getta realmente luce da un lato sul lontano passato e dall’altro verso il lontano avvenire. Bisogna prima di tutto tener conto del fatto che su tutto quanto ci si presenta nelle figure di Aristotele e di Alessandro aleggia un senso tragico. Questo senso tragico si manifesta già negli eventi esteriori: per esempio nel fatto che, a causa di particolari condizioni storiche, solo una minima parte delle opere scritte da Aristotele è giunta nell’occidente d’Europa dove poi è stata studiata e custodita dalla Chiesa. Si tratta sostanzialmente solo delle opere di logica o espresse in termini logici. Chi però oggi affronti lo studio dei pochi frammenti rimasti degli scritti aristotelici sulle scienze naturali, scoprirà quanto grande fosse ancora in Aristotele la conoscenza del nesso fra il cosmo e l’uomo. Vorrei ricordarne solo un esempio.

 

 

Anche nella scienza dello spirito noi oggi parliamo dell’elemento terroso, di quello acqueo, dell’aeriforme e di quello del fuoco o del calore; poi parliamo dell’etere. Ma come ha descritto queste cose Aristotele? Egli descrive la Terra, la terra solida (nel disegno il nucleo centrale chiaro), la terra liquida, o acqua (rosso chiaro), l’aria (azzurro), e tutto questo è compenetrato e circondato dal fuoco (rosso scuro). Concepita in questo modo, per Aristotele la Terra giunge però fino alla Luna (in alto a sinistra, nel disegno). E il rimanente etere (zona chiara esterna) proveniente dal cosmo, dalle stelle, dallo zodiaco, penetra da fuori fino alla sfera lunare, non dunque fin dentro la sfera terrestre, però fino alla Luna, attraverso gli spazi stellari. L’etere dunque arriva fino alla Luna.

 

Questo si legge ancora oggi, nei libri che trattano di Aristotele. Egli stesso ripeteva sempre al suo discepolo Alessandro: quella parte dell’etere che si trova fuori della sfera calorica-terrestre (vale a dire l’etere della luce, l’etere chimico e l’etere della vita) un tempo era essa pure collegata con la Terra; tutte le sfere dell’etere giungevano allora fino alla Terra. Quando però la Luna si separò dall’antica evoluzione terrestre, anche l’etere si ritrasse dalla Terra. Quindi, secondo quanto Aristotele veniva insegnando ad Alessandro, il mondo spaziale inanimato esterno adesso non è compenetrato costantemente dall’etere. Ma quando per esempio si avvicina la primavera, gli spiriti elementari portano giù dalla sfera della Luna l’etere per gli esseri che vanno formandosi, per le piante, per gli animali, per gli uomini: è dunque la Luna a conferire le forme agli esseri viventi.

 

Quando nei misteri di Ibernia ci si trovava di fronte alla statua femminile, si sentiva nel modo più intenso che l’etere non appartiene propriamente alla Terra, ma viene portato giù sulla Terra ogni anno dagli spiriti elementari, nella misura in cui ciò è necessario per la formazione degli esseri viventi.

 

Aristotele possedeva anche profonde conoscenze circa il rapporto dell’uomo con il cosmo. Il suo discepolo Teofrasto non fece pervenne in occidente gli scritti che ne trattavano, mentre parte di quegli scritti ritornarono in oriente, dove c’era ancora una certa comprensione per queste cose. Più tardi poi queste conoscenze raggiunsero l’Europa occidentale tramite gli ebrei e gli arabi, e in Europa queste conoscenze si incontrarono con le irradiazioni culturali provenienti dai misteri di Ibernia, con modalità che mi propongo di descrivere in seguito.

 

Quello che ho esposto sin qui non rappresenta però che il punto di partenza degli insegnamenti impartiti da Aristotele ad Alessandro, insegnamenti che si fondavano assolutamente sopra un’esperienza interiore. Volendo esprimere in modo un po’ schematico la cosa, si potrebbe dire: Alessandro apprese da Aristotele che gli elementi terroso, acqueo, aeriforme e igneo che sono presenti nel mondo vivono anche nell’uomo: l’uomo è sotto tale riguardo un vero microcosmo. Nelle sue ossa vive l’elemento solido, terroso, nel suo sangue e negli altri succhi vive l’elemento acqueo; nella respirazione e nel linguaggio opera l’elemento aeriforme, e nei pensieri l’elemento del fuoco. Alessandro sapeva ancora di vivere entro gli elementi del mondo, e conoscendo tale realtà sapeva anche la propria stretta affinità con la Terra. Oggi si viaggia da un capo all’altro della. Terra, ma non si sente affatto quello che realmente ci viene incontro da ogni parte; oggi si vede solo ciò che percepiscono le sostanze solide (terrestri) che sono in noi, e non ciò che percepiscono gli elementi che sono presenti nel nostro organismo. Aristotele invece poteva dire ad Alessandro: se tu procedi sulla Terra verso oriente, penetri sempre più in un elemento che ti prosciuga: penetri nell’asciutto, nel seccò (vedi il disegno seguente).

 

Naturalmente non bisogna raffigurarsi la cosa nel senso che se si procede verso l’Asia ci si dissecca completamente! Si tratta di effetti delicati, effetti che però Alessandro, istruito da Aristotele, sentiva realmente.

 

Quando era ancora in Macedonia egli poteva dirsi: in me regna un certo grado di umidità, ed esso andrà diminuendo mentre procederò verso oriente. Nel muoversi sulla superficie terrestre, egli sentiva la configurazione della Terra: un po’ come si può sentire la differenza fra il naso, gli occhi e la bocca, se si passa con la mano sul viso d’una persona. Una personalità come quella di cui sto parlando percepiva ancora la differenza nel modo di sperimentare se stessa, quando procedeva sempre più verso una regione asciutta, e come invece ci si sperimenta procedendo verso una regione più umida.

 

Le altre diversità vengono percepite ancora oggi, sia pure in modo un po’ grossolano: andando verso nord infatti si sente il freddo, verso sud il caldo, l’elemento del fuoco. Non si percepisce invece più la miscela di freddo e di umido che si percepiva un tempo, quando si procede verso nord-ovest. Aristotele ridestò in Alessandro quella che era stata l’esperienza di Gilgamesh, quando questi aveva intrapreso la sua spedizione verso occidente.

 

 

Di conseguenza, il discepolo potè sperimentare direttamente ciò che si incontra nella zona intermedia fra l’umido e il freddo, verso nord ovest: l’acqua.

 

Alessandro poteva effettivamente dirsi (quando la spedizione si muoveva verso nord-ovest): la spedizione si dirige verso la zona in cui predomina l’acqua. Invece nella zona intermedia tra l’umido e il caldo ha il predominio l’elemento dell’aria. Questi erano stati gli insegnamenti degli antichi misteri ctonici della Grecia, come pure dei misteri di Samotracia ; questo insegnava anche Aristotele al suo diretto discepolo. Nella zona intermedia fra il freddo e l’asciutto, cioè verso nord-est, verso la Siberia (vista dalla Macedonia) si sentiva la regione in cui predominava la Terra stessa, l’elemento solido, l’elemento “terra”. Invece nella zona intermedia fra il caldo e l’asciutto, cioè verso sud-est, verso l’India, si sperimentava la regione della Terra in cui predominava l’elemento del fuoco. Ecco dunque il discepolo di Aristotele volgersi verso nord-ovest e dire: da questa parte io sento agire sulla Terra gli spiriti delle acque. Quando mostrava il sud-ovest, diceva: da lì sento provenire gli spiriti dell’aria; da nord-est vedeva avvicinarsi prevalentemente gli spiriti della terra, e a sud-est, verso l’India, scorgeva nel loro elemento gli spiriti del fuoco.

 

Possiamo così intuire la profonda affinità che allora si sentiva fra la sfera naturale e la sfera morale, quando apprendiamo che Alessandro aveva preso l’abitudine di esclamare: devo gettarmi dall’elemento freddo-umido nel fuoco! Devo intraprendere una spedizione verso l’India! Era questo un modo di esprimersi che attingeva sia alla sfera naturale, sia a quella morale: ne riparleremo domani. Oggi volevo cercar di mostrare chiaramente come si sentivano allora le cose. Nei colloqui fra Aristotele e Alessandro si rispecchiava al tempo stesso la profonda trasformazione allora in atto nello sviluppo storico. Nell’insegnamento privato era ancora possibile parlare dei grandi misteri del passato. Da quel tempo in poi l’umanità adottò solamente le categorie, soltanto) elemento logico, e ripudiò tutto il resto. Ecco perché, esponendo fatti come quelli ora ricordati, si accenna al tempo stesso a una radicale svolta nell’evoluzione storica dell’umanità, a un punto della massima importanza nello sviluppo della civiltà europea nei suoi rapporti con l’oriente. Continuerò a parlarne domani.