Il modo di avvicinarsi con vivezza alla natura infantile, sulla base di un rapporto col mondo

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 20.07.1924


 

In relazione alla conferenza tenuta ieri, è stata posta un’altra domanda alla quale vorrei pure rispondere. La domanda è questa: « Richiamandoci alla legge dell’imitazione nei movimenti del fanciullo, mi premerebbe avere una spiegazione: Mio nonno morì quando mio padre aveva un anno e mezzo o due. A quarantacinque anni mio padre fece visita ad una conoscente del nonno la quale con stupore notò che ì suoi movimenti e ì suoi gesti somigliavano a quelli di suo padre. Dato che il nonno era morto a così breve distanza dalla nascita di mio padre, non si può parlare di imitazione; che cosa agiva dunque in questo caso? ».

 

Riassumendo, un uomo era morto quando suo figlio aveva un anno e mezzo o due, ed in seguito una conoscente, che poteva essere bene al corrente della cosa, potè stabilire che il figlio, ancora a quarantacinque anni di età, imitava i gesti, faceva gli stessi gesti di suo padre.

 

Si tenga presente che in conferenze come le presenti è soltanto possibile dare linee direttive e che quasi non si può tener conto di particolari. Purtroppo questo ciclo di conferenze è breve, e il tema che qui svolgiamo potrebbe occuparci abbondantemente per sei mesi o anche per un anno intero. Attorno all’argomento che trattiamo sorgono quindi molte domande le quali, una volta poste, possono avere una risposta, ma debbo avvertire che, a volte, la brevità del tempo può lasciare dei punti oscuri che si possono chiarire soltanto quando si entri ampiamente in tutti i particolari. Sulla domanda che mi è stata posta oggi, vorrei comunque inserire qualche osservazione.

 

Durante il primo periodo di vita del bambino, fra la nascita e la seconda dentizione, il suo organismo lavora al proprio sviluppo, in modo che si formano le prime disposizioni a ciò di cui ho parlato ieri e che si può riassumere nel camminare, ossia in un orientamento complessivo dell’uomo, nel parlare e, come terza cosa, nel pensare. Le cose stanno dunque come segue: essenzialmente, in quanto a gesti, il bambino si organizza fra il primo e il settimo anno di vita; approssimativamente fra il settimo e il quattordicesimo anno riguardo alla favella – come ho spiegato ieri – mentre per il pensare egli si organizza, sempre con approssimazione, fra i quattordici e i ventun anni. Ma quello che impiega un periodo di ventun anni per manifestarsi, già si forma, appunto come disposizione, nella prima epoca della vita, fra la nascita e la seconda dentizione. Per quel che riguarda dunque l’appropriarsi specifico dei gesti e che si esprime nell’orientarsi, nel camminare, ma anche nell’orientamento libero, privo di appoggi, come pure nei movimenti delle braccia e dei muscoli facciali – tutto quanto costituisce dunque un orientamento complessivo, un vivere in gesti ed atteggiamenti – si sviluppa principalmente nel primo terzo dei primi sette anni, ossia per due anni e un terzo. In questo periodo abbiamo lo sviluppo principale del fanciullo nella conformazione dei gesti. Lo sviluppo dei gesti e degli atteggiamenti prosegue poi; vi si aggiunge in seguito lo sviluppo delle disposizioni ad un intimo manifestarsi del linguaggio. Anche se già prima il bambino emette dei suoni, il vivere nel linguaggio, come disposizione, si compie più tardi, dopo i due anni e un terzo. Il compenetrarsi del sentimento nel linguaggio avviene dai sette ai quattordici anni, ma la disposizione già esiste fra i due anni e un terzo e i quattro e due terzi. Naturalmente tutto in via approssimativa. Poi il fanciullo sviluppa la facoltà di sperimentare interiormente, in una prima disposizione, i pensieri. Quello che soltanto più tardi appare e fiorisce fra il quattordicesimo e il ventunesimo anno, si sviluppa in germe fra i quattro anni e due terzi e i sette. S’intende che la formazione dei gesti poi prosegue; ma vi s’inseriscono gli elementi successivi. Dobbiamo quindi porre il momento più caratteristico per la formazione dei gesti nei primi due anni e un terzo. Quanto si acquisisce in questo periodo si inserisce naturalmente più in profondità; dobbiamo infatti pensare a come il principio dell’imitazione agisca a fondo proprio nei primissimi anni di vita.

 

Se si tien presente tutto ciò, non si troverà più nulla di sorprendente in quanto è stato chiesto. Il nonno morì quando il padre contava da un anno e mezzo a due. Ed è proprio questo il periodo in cui la formazione dei gesti avviene nel modo più profondo. Quando il nonno venne a morire, quanto di lui era stato imitato era già penetrato profondamente; né più verrà modificato dai gesti appresi da altri mediante l’imitazione. Questo caso, considerato nei particolari, è estremamente significativo, ed ecco dunque in breve quanto ne ho potuto dire.

 

Ieri abbiamo cercato di spiegare come, nella seconda epoca della vita, fra la seconda dentizione e la maturità sessuale, il fanciullo sperimenti, mediante il linguaggio, tutto ciò che egli acquisisce nel suo sviluppo, sul quale deve poi agire la naturale autorità dell’educatore, dell’insegnante. Quanto deve agire tra educatore e fanciullo deve avvenire in maniera figurativa, in immagini. Ho già accennato come a quest’età non ci si possa avvicinare al bambino con dei comandamenti morali, ma come si possa soltanto influire sulla sua moralità svegliando in lui quei sentimenti che appunto possono destarsi per mezzo di figure, di immagini; il bambino le accoglie, presentategli dalla persona che per lui è esemplare, dal suo educatore e maestro, in maniera che il bene gli piaccia e il male gli ripugni. Anche nei riguardi della moralità, durante questi primi anni scolastici, l’educazione va dunque condotta in modo figurativo, influendo sul sentimento.

 

Ho poi spiegato come la scrittura debba venir insegnata al bambino immaginativamente, come si debbano costruire le forme delle lettere movendo da un disegnante dipingere, da un pittorico colorato disegnare. Questo pittorico disegnare, questo disegnante dipingere deve essere curato come la primissima di tutte le arti che devono introdurre il bambino nella civiltà. Tutto quanto invece indirizza il bambino sin dall’inizio verso le lettere dell’alfabeto, a lui totalmente estranee, è pedagogicamente un grave errore poiché le forme finite delle lettere alfabetiche della civiltà attuale agiscono sull’anima infantile come piccoli demoni.

 

Secondo una pedagogia basata sulla conoscenza dell’uomo, occorre che l’insegnamento della scrittura preceda quello della lettura. E perché? Perché imparare a scrivere richiede la partecipazione di una buona parte dell’intero uomo, e non viene unilateralmente impiegata la sola testa, come avviene nell’imparare a leggere. Se in questa età, vale a dire immediatamente dopo la seconda dentizione, ci si vuole realmente avvicinare al bambino, bisogna fare il possibile di parlare al bambino tutto intero. Nello scrivere il fanciullo partecipa almeno con tutta la parte superiore del corpo, ed è interiormente attivo in modo ben diverso che non quando inizia ad osservare date forme che interessano soltanto la testa. L’applicarsi indipendente, emancipato, delle facoltà della testa è possibile soltanto in successivi periodi della vita. Di conseguenza si può soltanto far in modo che, quando il bambino ha scritto, imprima in se stesso quanto ha scritto, leggendolo.

 

Nell’attenerci a questo indirizzo d’insegnamento, nella Scuola Waldorf, abbiamo constatato che i nostri fanciulli imparano a leggere un po’ più tardi del solito; che anzi arrivano un po’ più tardi degli alunni delle altre scuole persino nella scrittura delle lettere alfabetiche. Per dare un giudizio su questo fatto occorre ancora guardare conoscitivamente nella natura umana. Data la scarsa sensibilità odierna per la conoscenza dell’uomo, gli uomini assolutamente non si accorgono di quanto sia dannoso, per lo sviluppo umano complessivo, l’apprendere troppo presto cose talmente estranee al bambino, quali il leggere e lo scrivere. Nessuno poi, nella vita, si sentirà minorato nelle sue possibilità di leggere e scrivere per il fatto di aver imparato un po’ più tardi del consueto; mentre avvertirà delle lacune a questo riguardo chi vi è giunto troppo presto. Una pedagogia fondata sulla conoscenza dell’uomo deve assolutamente muovere dal saper leggere nello sviluppo e nelle condizioni di vita della natura umana, e deve aiutare il fanciullo, sapendone cogliere le condizioni di vita, affinché ne sbocci la sua vera natura. Soltanto e unicamente allora, l’arte dell’educazione è sana davvero.

 

Affinché sia possibile persuaderci anche di tutto il resto, sarà necessario che ci intratteniamo ancora qualche tempo sull’essere dell’uomo. Nell’uomo noi abbiamo innanzi tutto il corpo fisico, il cui sviluppo avviene principalmente durante la prima epoca della vita. Nella seconda epoca si compie soprattutto lo sviluppo della parte più sottile del suo corpo, ossia del corpo eterico. Orbene, qui si tratta davvero che, nel considerare l’uomo, si sappia procedere scientificamente, nel vero senso della parola, e che si abbia altrettanto coraggio quanto se ne deve avere oggi nella scienza. Se noi abbiamo una sostanza a un determinato grado di calore, la si può certo riportare a condizioni nelle quali il calore, che si dice esser legato alla materia, diviene « libero ». Il calore cioè esce fuori, e diviene così libero. Per le sostanze del mondo minerale, in sede scientifica, noi abbiamo il coraggio di parlare di calore legato e di calore libero. Questo coraggio dobbiamo acquisircelo anche per l’osservazione complessiva del mondo. Se lo abbiamo, per l’uomo ci si mostra quanto segue.

 

Possiamo chiedere: Dove sono le forze del corpo eterico nella prima epoca della vita umana? Durante questo periodo esse sono legate al corpo fisico, occupate nella sua nutrizione e nella sua crescita. Il bambino, durante questa prima epoca, è diverso da quello che sarà più tardi. Tutte le forze del corpo eterico sono ora legate al corpo fisico; divengono libere in parte, decorsa la prima epoca, proprio come nella materia diviene Ubero il calore che prima vi era legato. Ma che cosa avviene con ciò? Soltanto una parte del corpo eterico, dopo la seconda dentizione, opera nella crescita e nelle forze di nutrizione; invece l’altra parte diviene libera e diventa portatrice della memoria vera e propria in via di sviluppo, portatrice della parte animica. Dobbiamo imparare a parlare dell’anima « legata » durante il periodo dei primi sette anni di vita, e dell’anima « divenuta libera » nel periodo che segue ai sette anni, perché così è. Le forze animiche che impieghiamo nel secondo settennio di vita sono impercettibilmente legate al corpo fisico durante i primi sette anni di vita, e perciò non si manifestano fisicamente. In qual modo l’anima operi nei primi sette anni della vita bisogna desumerlo osservando il corpo. Soltanto dalla seconda dentizione in poi si può penetrare nella parte animica.

 

Questo è un modo di considerare che dalla fisica conduce subito anche nella psicologia. Si pensi a quali teorie psicologiche ci sono oggi, basate puramente sulla speculazione. Vi si riflette sopra, e si trova che esiste la parte animica e quella corporea; ci si chiede quindi: la parte corporea ha forse degli effetti su quella animica? o è quella animica ad averne sulla corporea? Non venendo a capo dei due quesiti si inventa una teoria straordinariamente grottesca, quale il « parallelismo psico-fisico », in cui ci si figura che le due manifestazioni, la corporea e l’animica, vadano parallele l’una accanto all’altra. Con ciò non si spiega la loro collaborazione, ma si parla soltanto di un « parallelismo ». Il che prova unicamente che nulla si sa di queste cose per esperienza. Se si avesse esperienza, allora si direbbe: Durante i primi sette anni di vita del bambino si vede la parte animica agire in quella corporea. Come essa vi agisca, occorre apprenderlo dall’osservazione e non per via di speculazioni filosofiche o simili. L’antroposofia, come metodo conoscitivo, rigetta ogni speculazione e si basa in ogni campo sull’esperienza, certo esperienza fisica, ma anche spirituale.

 

Dunque, per la seconda epoca della vita, nel periodo dalla seconda dentizione alla pubertà, l’educazione dovrà soprattutto considerare il corpo eterico. In esso, per l’insegnante e per il bambino, sono attive soprattutto le forze che debbono liberare, nel bimbo, piuttosto sentimenti e non ancora giudizi e pensieri. Fra la seconda dentizione e la maturità sessuale sta ancora profondamente nascosta nella natura infantile la terza parte dell’entità umana, il corpo astrale, che è il portatore della vita complessiva di sentimenti e di sensazioni. Anche durante la seconda epoca della vita, esso è ancora immerso profondamente nel corpo eterico. Ne risulta il compito di sviluppare il corpo eterico – poiché diventa in parte libero – in modo che esso possa seguire, mentre viene educato, le proprie inclinazioni. Ma quando potrà farlo? Lo potrà se al fanciullo daremo insegnamento ed educazione fondandoci in tutto e per tutto sull’immaginatività, se cioè tutto quanto avvicineremo al bambino avrà carattere immaginativo. Infatti il corpo eterico è « il corpo delle forze plasmatrici » ; esso crea le forme mirabili degli organi: cuore, polmoni, fegato, eccetera. Quel corpo fisico che noi abbiamo ereditato è soltanto come un modello, ed esso, nei primi sette anni di vita, viene abbandonato. Dopo la seconda dentizione dal corpo eterico viene poi formato il secondo corpo fisico. E nell’educazione noi dobbiamo andare incontro a questa funzione plastica formatrice del corpo eterico.

 

Come nell’insegnamento della scrittura noi presentiamo al bambino delle immagini sotto forma di disegnante pittima – e non possiamo mai abbastanza per tempo avvicinargli l’elemento artistico, poiché tutto l’insegnamento deve essere artisticamente permeato – così noi dobbiamo far attenzione che, come il corpo eterico poggia sull’elemento immaginativo, così il corpo astrale, che sta a fondamento della vita di sensazioni e di sentimento, tende ad organizzarsi in base alla natura musicale dell’uomo. A che cosa dobbiamo dunque porre attenzione, osservando il fanciullo? Un fanciullo animicamente sano è profondamente musicale nel suo intimo poiché fra la seconda dentizione e la pubertà il corpo astrale è ancora immerso nel corpo fisico e nel corpo eterico. Ogni bambino animicamente sano è profondamente musicale; basta che noi suscitiamo l’elemento musicale dal movimento e dalla vivacità del bambino stesso. Perciò l’insegnamento artistico, sia nelle arti plastiche, sia nelle musicali, va curato nella scuola fin dal principio. Nella scuola non deve regnare l’astrazione, bensì ciò che è artistico, e il fanciullo deve venir condotto, partendo dall’elemento artistico, alla comprensione del mondo. Dobbiamo veramente fare in modo che il bambino impari ad inserirsi gradatamente nel mondo.

 

Ho già detto come mi sia ripugnante il veder portare nella scuola gli odierni testi scolastici, orientati secondo la scienza, e regolare l’insegnamento su questi. Infatti il complesso della nostra scienza – che io riconosco appieno – si è oggi allontanato, per molti aspetti, dallo studio del mondo secondo la natura. Rimandando a poi quello che al momento trascuriamo nella nostra esposizione, chiediamoci ora quando all’incirca si può cominciare ad insegnare ai fanciulli, per esempio, la conoscenza del mondo vegetale.

 

Questo insegnamento non dovrà esser iniziato né troppo presto né troppo tardi. Rendiamoci conto che a un dipresso fra il nono e il decimo anno esiste un punto importantissimo nello sviluppo del fanciullo. Chi abbia occhi da pedagogo lo osserva in ogni bambino. Viene un momento in cui il fanciullo mostra, per lo più senza parlarne, ma con tutto il suo comportamento, di avere in sé un quesito o una somma di quesiti che tradiscono un’intima crisi della vita. Nel fanciullo è questa un’esperienza oltremodo delicata, e osservarla in lui dev’essere un’esperienza delicatissima. Ma esiste, e deve essere osservata. In questa età il fanciullo impara del tutto istintivamente a distinguersi dal mondo esterno. Prima, l’io e il mondo esteriore fluivano l’uno nell’altro. Prima si poteva parlare al bimbo di animali, di piante e di pietre, quasi si comportassero come uomini; il modo migliore sta nell’appellarsi ad una comprensione immaginativa del bambino e nel parlare in immagini di tutta la natura. Ma fra il nono e il decimo anno di età il fanciullo impara con piena coscienza a dire « io » a se stesso. Lo impara già prima, ma ora in perfetta consapevolezza. In questi anni, nei quali il fanciullo non fluisce più con la sua coscienza nel mondo esterno, bensì impara a distinguersi da esso, viene il momento in cui, senza subito rinunciare ad un parlare figurativo, possiamo cominciare a destare nel fanciullo la comprensione per il mondo vegetale, comprensione tuttavia permeata di sentimento.

 

Oggi noi siamo abituati a considerare una pianta accanto all’altra, ne sappiamo il nome e così via; facciamo come se ognuna fosse per sé stante. Ma considerando le piante in questo modo, si procede come se ci strappassimo un capello e, dimenticando che esso cresceva in testa, lo si studiasse a sé stante, credendo di poter sapere qualcosa sulle sue condizioni di vita e sull’essere suo, senza considerarlo quale escrescenza della testa. Il capello ha significato in quanto cresce sulla testa, non può essere studiato per se stesso. Altrettanto avviene per la pianta. Non si può studiarla isolatamente, ma bisogna considerare tutta la terra quale un organismo a cui le piante appartengono. Essa infatti è tale, e le piante appartengono a quanto complessivamente cresce sulla terra, proprio come i capelli appartengono al nostro capo. Non si può mai considerare una pianta separatamente, ma soltanto in relazione alla complessiva natura della terra. La terra e il mondo vegetale sono tutt’uno.

 

Immaginiamo una pianta erbacea annuale che spunta dalla radice, mette gambo, foglie, fiori, sviluppa il frutto, e l’anno seguente deve venir seminata nuovamente. Si avrà allora in basso la terra nella quale la pianta cresce. Consideriamo invece un albero. Esso perdura, non è annuale, sviluppa attorno a sé la corteccia che si mineralizza e quindi anche si scrosta. Che cosa è in realtà? Ecco quel che avviene: se presso una pianta si spingesse verso l’alto, secondo le sue forze, la terra che si trova attorno ad essa e si coprisse così in parte la pianta con questa terra, lo si farebbe in un modo esteriore meccanico, con un’attività umana. La stessa cosa compie la natura con ravvolgere l’albero nella corteccia, la quale corteccia però non è completamente terra. Nella corteccia dell’albero c’è, direi, come una collinetta di terra che ha rivestito l’albero. Vedendo crescere l’albero, noi possiamo vedere che la terra prospera, cresce assieme all’albero. Tutto quanto sta attorno alle radici, quindi, dobbiamo assolutamente considerarlo come facente parte della pianta. Dobbiamo considerare il terreno come appartenente alla pianta stessa.

 

Chi abbia educato l’occhio a ciò, se attraversa una regione in cui vede delle piante coronate da una fioritura gialla, è subito portato a guardare che tipo di terreno vi è lì. E troverà per esempio che sbocciano certi fiori del tutto particolari dove la terra sottostante è rossiccia. Non ci si deve mai figurare la pianta senza la terra; tutte e due si appartengono scambievolmente. Ci si abitui possibilmente in tempo a simili osservazioni, altrimenti si uccide in noi il senso per le realtà.

 

Quanto mi toccò il cuore allorché ultimamente, sollecitato da agricoltori, tenni un corso sull’agricoltura, e subito dopo la conferenza un agricoltore disse: « Tutti oggi sanno che le nostre specie vegetali muoiono, che stanno decadendo con una rapidità spaventosa. Perché? Perché oggi non si sa più quello che in origine sapevano gli uomini e i contadini; essi consideravano il terreno collegato alle piante. Ma se si vorrà nuovamente far prosperare i vegetali, bisognerà anche intendersi sul modo di trattarli in maniera giusta, ossia bisognerà rettamente concimarli. Bisogna dare al terreno la possibilità di vivere in modo sano attorno alle radici delle piante ». Oggi, dopo lo sviluppo errato subito appunto dall’agricoltura, abbiamo la necessità di un’agricoltura che riceva l’impulso dalla scienza spirituale, che ci permetta di impiegare i concimi in modo che il mondo dei vegetali non decada. Chi ha raggiunto la mia età può dire davvero: « Io so come erano le patate in Europa cinquant’anni or sono, e so come si presentano oggi! » — Oggi non esiste soltanto il tramonto dell’« Occidente » per quanto riguarda la vita dell’anima, ma questo tramonto profondamente s’insinua pure negli altri regni naturali, per esempio nell’agricoltura.

 

Si tratta dunque del fatto che non deve essere ucciso il senso dell’appartenenza dei vegetali al loro ambiente; si tratta che nelle escursioni scolastiche e in simili occasioni non si strappino le piante per metterle nell’apposita borsa e poi portarsele in classe, persuasi di aver fatto qualcosa di buono. Poiché la pianta, divelta dalla terra, non può allatto sussistere per proprio conto.

 

Oggi gli uomini si abbandonano a considerazioni del tutto prive di realtà. Per esempio, essi considerano un gessetto ed un fiore come se fossero due cose reali nel medesimo senso. I filosofi considerano entrambe le cose come esistenti nello stesso senso. Ma che assurdità è mai questa! Il minerale può sussistere per conto suo, e lo può in realtà; la pianta sarebbe una cosa per sé stante, ma essa non può esser tale, cessa anzi di esistere quando è divelta dal terreno. È dotata di un’esistenza terrena solamente se è attaccata a qualcosa d’altro, e questo qualcosa d’altro ha soltanto un’esistenza in quanto è connesso con la terra intera. Le cose vanno considerate quali sono nella loro totalità, non si può strapparle dalla totalità.

 

Quasi tutte le nostre conoscenze brulicano oggi di siffatte vedute irreali. Perciò siamo sfociati in speculazioni sulla natura del tutto astratte e tali che, nella loro astrazione, sono anche in parte giustificate, come per esempio la teoria della relatività. Chi però è capace di pensare in maniera reale, non può sviluppare l’uno dopo l’altro pensieri astratti, ma si avvede del punto in cui i concetti incominciano a non riferirsi più ad una realtà; e questo gli fa male. Si possono naturalmente seguire benissimo le leggi dell’acustica e dire: Se io provoco un suono, il suo diffondersi avviene con una determinata velocità. Se odo questo suono in un luogo pure determinato, posso calcolare come esso si diffonda in un dato tempo. Se ora mi muovo con una velocità qualsiasi nella direzione in cui il suono si propaga, lo udirò più tardi; se la mia velocità diventa maggiore di quella del suono, non lo udirò più affatto; ma se invece andrò incontro al suono, lo udirò prima. La teoria della relatività ha la sua giustificazione ben precisa. Di conseguenza può anche essere quanto segue: se io mi muovo verso il suono, più veloce del suono stesso, giungerò alla conclusione di poterlo udire prima che esso si sia verificato. Chi è dotato di una riflessione veramente realistica, si avvede dell’assurdità. Costui saprà altresì che è un pensiero giustissimo, del tutto conforme alla logica, dire che un orologio venga gettato con la velocità della luce negli spazi universali e che esso ritorni indietro — secondo il celebre esempio dato da Einstein. Si può ben pensare che nulla si sia cambiato nell’orologio. Ma al pensatore realista si presenta il quesito: ma che aspetto avrà l’orologio al suo ritorno? Perché il realista non scinde il suo pensare dalla realtà, sempre si colloca nella realtà.

 

È caratteristica della scienza dello spirito il richiedere di essere non soltanto puramente « logici », ma conformi alla realtà. Perciò chi spinge l’astrazione fino al limite estremo, accusa noi antroposofi di essere « astratti », proprio perché il nostro modo di pensare ricerca dappertutto la realtà assoluta, né mai vuole esulare dal nesso con la realtà, comprendendo naturalmente in essa la realtà spirituale. Il che ci permette di giudicare severamente il modo innaturale di insegnare la botanica a mezzo della borsa per la raccolta delle piante.

 

Per insegnare al fanciullo la botanica conviene dunque tener conto dell’aspetto della terra come tale, e trattare terreno e crescita delle piante come una cosa sola, sì che il fanciullo non si rappresenti mai la pianta separata dal suo ambiente. Può essere cosa più faticosa per il maestro che non il portare in classe i soliti testi di botanica per darvi un’occhiata alla svelta mentre fa lezione, come se sapesse tutto a menadito. Dissi già che oggi non ci sono ancora dei buoni testi per l’insegnamento della botanica. Ma questo modo d’insegnamento assume anche un altro aspetto, se sappiamo come agiscono gli imponderabili, e se teniamo conto che, nel fanciullo, il subcosciente opera ancora più fortemente che nell’adulto. Il subcosciente è tremendamente avveduto, e chi sa penetrare nella vita spirituale del bimbo, quando, davanti ad una classe di alunni, l’insegnante gira fra questi e vuol insegnare ai ragazzi ciò che i suoi appunti gli suggeriscono, costui sa che i ragazzi danno sempre il seguente giudizio: « E perché ho da saperlo io, se neppure lui stesso lo sa? »

 

— L’agire così disturba enormemente l’insegnamento, poiché quel giudizio sale dal subcosciente. Nulla di buono avverrà di una classe alla quale vien fatta lezione tenendo fra le mani degli appunti.

 

Dappertutto va osservato il lato spirituale; ciò è special- mente necessario per lo sviluppo dell’arte pedagogica. In tal modo riusciremo ad inserire in modo sicuro il bambino nel mondo, perché egli a poco a poco avrà la seguente rappresentazione: la terra è un organismo; esso lo è in realtà. E quando la sua vitalità incomincia a diminuire, dobbiamo cominciare, per i nostri prodotti agricoli, ad aiutarla con una giusta concimazione. Per esempio non è vero che l’acqua contenuta nell’aria sia la stessa di quella sotto terra. L’acqua sotterranea ha un minimo di vitalità; l’acqua in alto la perde e si ravviva soltanto nel ricadere. Sono tutti fatti reali che esistono. Chi! non li accetta non si congiunge col mondo secondo realtà. Questo volevo dire sull’insegnamento della botanica.

 

Passiamo ora al mondo animale. Noi non possiamo considerarlo come appartenente alla terra. Questo si mostra già nel; fatto che gli animali possono camminare; essi sono già indipendenti. Se confrontiamo però gli animali con l’uomo, noi: scopriamo qualcosa di molto peculiare nella conformazione degli animali. L’antica scienza istintiva indicava sempre questo fatto, e ne perdurò un’eco fin nel primo terzo del secolo XIX. Agli uomini di oggi, con le loro vedute, sembrano pazzie le esposizioni degli antichi filosofi della natura che consideravano ancora secondo vecchie tradizioni il mondo animale nel suo connesso col mondo umano. Rammento come la gente non si tenesse più dal ridere in una riunione dove, durante la lettura di un brano del filosofo della natura Oken, si incontrò la frase: « La lingua umana è una seppia ». Che cosa si voleva dire? Certo che la caratterizzazione data da Oken non era esatta neppure lei, ma alla sua base stava il principio che bisogna avere in tal caso, e cioè: allorché osserviamo le singole forme animali, dai più minuscoli protozoi fino alle specie di scimmie più perfette, ogni forma animale, conformata unilateralmente, rispecchia qualche parte umana, un organo o un sistema organico umano. Basta osservare il fenomeno anche soltanto all’ingrosso. Figuriamoci che in un uomo la fronte retroceda di molto, le mascelle si protendano, gli occhi, anziché in avanti, guardino in fuori, e la dentatura, con quanto ad essa connesso, sia sviluppata unilateralmente. Con questo sviluppo unilaterale ci si possono rappresentare le più diverse forme di mammiferi; lasciando via dalla forma umana una parte o l’altra, la si può trasformare in una figura bovina, di pecora o di altro ancora. Prendendo invece gli organi interni, per esempio quelli connessi col campo della riproduzione, si arriva nel regno degli animali inferiori.

 

L’uomo è il coordinamento sintetico delle singole forme animali che si addolciscono quando vengono fuse nell’unità; l’uomo è l’insieme di tutte le forme animali, ma armonicamente articolate. Se risalgo alle forme primordiali di quanto è come disciolto nell’uomo, arrivo dunque all’intero mondo animale. L’uomo è tutto il regno animale riunito.

 

Questo metodo di osservazione che ci colloca di nuovo adeguatamente con tutta la vita della nostra anima entro il mondo animale, è ora del tutto dimenticato. Ma poiché esso è vero, ed effettivamente sta alla base dei principii dell’evoluzione, deve venir ravvivato. Per quel tanto che oggi è possibile, verso l’undicesimo anno, dopo aver considerato il regno vegetale come appartenente alla terra, noi dobbiamo effettivamente avvicinare al fanciullo il mondo animale facendoglielo riconoscere nelle sue forme, come strettamente legato all’uomo. Figuriamoci allora come il giovinetto sentirà il rapporto con l’animale e con la pianta: le piante sono congiunte con la terra, divengono tutt’uno con la terra; gli animali divengono tutt’uno con lui! Questo significa davvero stabilire un rapporto col mondo, collocare cioè l’uomo in una realtà rispetto al mondo. Quanto ho detto può esser sempre dato al bambino con la materia d’insegnamento. E se tutto si svolge artisticamente, se procede all’unisono con quanto afferra l’uomo nell’intimo essere suo, in un’educazione e in un’istruzione viventi, allora il fanciullo sarà vivificato per la vita; altrimenti è facile che venga ucciso il suo collegamento con la vita. Occorre proprio considerare tutta la complessiva entità umana.

 

Che cosa è propriamente il « corpo eterico »? Se qualcuno fosse capace di estrarre il corpo eterico dal corpo fisico dell’uomo ed impregnarlo in modo da renderlo forma visibile, ebbene, non potrebbe esservi opera d’arte più grande! Il corpo eterico infatti, grazie alla sua essenza, grazie a quanto l’uomo in esso conforma, è contemporaneamente opera d’arte e artista. Nell’offrire dunque al fanciullo l’elemento formativo che è insito nell’arte, occupandoci del bambino nell’esercizio di modellare liberamente, come abbiamo accennato ieri, noi gli diamo qualcosa di profondamente affine al corpo eterico. Questo rende capace il bambino, che afferra intimamente il suo proprio essere, di porsi quale uomo rettamente nel mondo.

 

Quando invece si offre al bambino l’elemento musicale, questo plasma il corpo astrale. Se poi colleghiamo l’uno con l’altro, se lavoriamo plasticamente in modo che la forza plastica passi nel movimento, se rendiamo così plastico il movimento, allora avremo l’euritmia che nel fanciullo deriva assolutamente dal rapporto del corpo eterico col corpo astrale. Perciò il bambino impara ora a fare euritmia, impara questo linguaggio che si manifesta in gesti articolati, come anni prima aveva imparato da sé a parlare. Se il bambino è sano, non troverà mai ostacoli nell’imparare l’euritmia; poiché in essa egli esprime semplicemente la sua vera essenza, vuole realizzare il suo essere. Di conseguenza nella Scuola Waldorf, dalla prima classe elementare fino a quelle superiori, abbiamo introdotto l’euritmia come materia d’insegnamento obbligatoria, accanto alla ginnastica.

 

L’euritmia è sorta così da tutto quanto l’uomo: da corpo fisico, corpo eterico e corpo astrale; e la si può studiare soltanto con la conoscenza antroposofica dell’uomo. La ginnastica attuale s’indirizza solo fisiologicamente al corpo fisico; e poiché la fisiologia non può far altro, vi si introducono singole leggi di vitalità. Ma con la ginnastica non si educa l’uomo intero, bensì soltanto un uomo incompleto. Con questo non voglio dire nulla contro la ginnastica, ma oggi la si sopravaluta. Occorre perciò che oggi, nell’educazione, l’euritmia si ponga a lato della ginnastica. Non vorrei andare troppo oltre, come accadde, non da parte mia ma da parte di un fisiologo oggi molto noto; egli si trovava fra gli ascoltatori quando una volta io ebbi a parlare dell’euritmia. Dissi allora che la ginnastica viene oggi sopravalutata, specie quale mezzo educativo, e che invece la ginnastica animica spirituale, come viene curata nell’euritmia, per non parlare della parte artistica, deve venir collocata a fianco della ginnastica fisiologica. Terminato ch’io ebbi di parlare, il celebre fisiologo venne da me e disse: « Lei dice che la ginnastica è giustificata come mezzo educativo perché i fisiologi lo affermano? Io, fisiologo, debbo dire che la ginnastica, quale mezzo educativo, è una barbarie». Ci sarebbe da restar sorpresi se io dicessi il nome di quel fisiologo! Cose di tal genere, al presente, sono già evidenti alle persone competenti, e si deve quindi usar prudenza a patrocinare certi sistemi fanaticamente, senza essere al corrente dei nessi relativi. Meno che mai si possono sostenere fanaticamente punti di vista nell’arte pedagogica poiché in essa vi è un rapporto con la multiforme vita umana.

 

Se poi, alla luce di quanto ho esposto fino ad ora, si esaminano anche le altre cognizioni da insegnare al fanciullo, appunto nell’età in cui, soltanto attraverso il sentimento, il bambino può accogliere le immagini, si giunge ad insegnare in modo immaginativo per esempio anche la storia e la geografia. Insegnando la storia bisognerà esporre immagini plastiche, immagini pittoriche. Da esse si svilupperà la comprensione del fanciullo. Poiché ciò che soprattutto non esiste nel fanciullo nei primi due periodi della seconda parte della vita, dalla seconda dentizione alla maturità sessuale, è il « concetto di causa ». In genere, prima del settimo anno di età, il fanciullo non dovrebbe affatto andare a scuola. Se si prende il periodo dai sette anni ai nove e un terzo, ne risulterà la prima sotto-divisione della seconda grande parte della vita; dai nove anni e un terzo agli undici e due terzi si ha la seconda, e dagli undici anni e due terzi fino ai quattordici approssimativamente la terza. Nella prima epoca di questo secondo grande periodo, il bambino ha disposizione soltanto per quanto è figura, immagine. Bisogna quindi parlargli come nelle fiabe; ogni cosa nel mondo esteriore non deve essere ancora distinta dalla natura infantile. Una pianta deve parlare con l’altra, un minerale con l’altro; le piante devono baciarsi, avere padre e madre e così via. Giunto a quel punto che ho caratterizzato or ora, dai nove anni e un terzo in avanti, l’io comincia a differenziarsi dal mondo esteriore. Si potrà allora anche dare al fanciullo una specie di conoscenza reale sulle piante e sugli animali. Sempre però, nei primi anni di vita, la storia dovrà in genere venir trattata a guisa di mito, di fiaba; nella seconda epoca di questo grande periodo, dai nove anni e un terzo agli undici e due terzi, occorrerà parlare per immagini. E soltanto allorché il fanciullo sta per compiere i dodici anni, si potrà esporre quanto si considera sotto l’impero del concetto di causa, quanto tende verso concetti astratti, facendo così sorgere il concetto di causa ed effetto. Prima il fanciullo è tanto poco accessibile al concetto di causa ed effetto quanto lo è il daltonico per i colori; l’educatore talvolta non suppone affatto come sia inutile parlare al fanciullo di causa ed effetto. Di quello cui siamo così abituati oggi dal modo di trattare scientifico, non si può parlare al fanciullo che a cominciare dai dodici anni di età.

 

Questo fatto richiede altresì che si attenda fin verso il dodicesimo anno ad insegnare materie che riguardano cose inanimate, nelle quali appunto si lavora col concetto di causa ed effetto. Altrettanto dicasi per i rapporti storici di causa ed effetto, quando si va al di là dell’immagine e vengono indagate le cause. Prima di allora bisognerebbe attenersi soltanto a quello che porta al bambino qualcosa di animico, di vivente.

 

Gli uomini sono ben singolari. Esiste per esempio una concezione, per la storia della civiltà, chiamata « animismo ». Essa dice: « se il bambino urta contro un tavolo, egli vi suppone un’anima e lo picchia; egli sogna che nel tavolo vi sia un’anima. Così avrebbero fatto anche i popoli primitivi. Si immagina cioè che avvenga un complicato processo nell’anima del fanciullo: il bambino pensa che il tavolo viva, possegga un’anima, e perciò lo picchia quando vi batte contro. Ma questa è una rappresentazione fantastica. Chi veramente « dà un’anima » a qualcosa è proprio chi fa così la storia della civiltà; costui animizza la facoltà di rappresentazione del fanciullo e così via. Invece la parte animica del fanciullo è inserita in misura molto maggiore entro quella corporea che non più tardi, allorché essa si emancipa ed agisce liberamente come anima. Se il bambino urta il tavolo, ciò provoca in lui un movimento riflesso, senza che egli dia un’anima al tavolo; è un puro movimento di volontà; il bambino non distingue ancora il tavolo dall’insieme del mondo esterno. Questa distinzione s’inizia soltanto allorché, verso il dodicesimo anno, nel fanciullo sano si desta il concetto di causa. Se si impiega troppo presto tale concetto col bambino, se in genere lavoriamo troppo presto con concezioni così esteriori e grossolane, noi suscitiamo davvero nello sviluppo infantile delle conseguenze terribili. È certo bello il dire che bisogna darsi pena per rendere tutto « evidente » al bambino. E ne son successe, di belle cose, con la tendenza a voler tutto presentare in piena evidenza! Sono apparsi strumenti per far di conto in cui si spostano avanti e indietro delle palline, per render evidenti le operazioni aritmetiche. Ora si attende che lo stesso atteggiamento renda evidenti i concetti morali e, con qualche altra macchina, si sposti pure qualcosa in modo da vedere il bene e il male, come nel pallottoliere si vede che cinque più sette fan dodici. Ci sono invece senz’altro campi della vita che non sono evidenti, che il fanciullo accoglie senza che gli siano evidenti; e coi quali, rendendoli tali, si commette un inganno. È perciò errato l’attenersi a dei testi di pedagogia che consigliano di rendere evidente quello che non lo è. A volte vengono consigliate cose spaventosamente volgari.

 

Ma nel periodo della vita fra la seconda dentizione e la pubertà, non si tratta soltanto di un insegnamento evidente, percepibile, bensì che, osservando tutta la vita umana, si inizi quanto segue: io accolgo un concetto all’età di otto anni, ma non lo posso ancora comprendere, non lo afferro nei suoi rapporti astratti, perché non ne possiedo ancora la facoltà. Perché dunque accolgo il concetto? Perché esso agisce su di me attraverso il linguaggio del maestro, attraverso la sua naturale autorità. Ma oggi questo non sarebbe più consentito, e al fanciullo ogni cosa deve venir resa evidente. Prendiamo per esempio un bambino cui tutto sia stato reso evidente: le sue esperienze non crescono con lui! Lo si tratta come se egli fosse un essere che non dovesse crescere. Noi non dobbiamo suscitare nel fanciullo rappresentazioni che non possono crescere assieme a lui; in tal caso noi procederemo come se gli facessimo fare a tre anni delle scarpe che dovesse poi usare ancora a dodici. Tutto nell’uomo cresce, anche quello che una volta è stato capito; perciò i concetti devono continuare a crescere con noi. Dobbiamo dunque assolutamente fare in modo d’instillare nel fanciullo dei concetti viventi. E glieli insegneremo soltanto se esisterà un rapporto vivo con l’autorità dell’educatore; non glieli insegneremo se il maestro starà di fronte all’allievo in maniera astratta, esponendogli concetti per i quali il bambino non ha ancora alcuna ricettività.

 

Immaginiamo due fanciulli. Ad uno viene insegnato in modo che egli afferri i suoi concetti e che a quarantacinque anni egli dia, per lo stesso fenomeno, la medesima spiegazione che aveva appreso a otto anni. Il concetto non si è ampliato con la crescita del fanciullo; egli ha tenuto tutto bene in mente, e a quarantacinque anni può dare ancora la medesima spiegazione. Prendiamo ora un secondo fanciullo, educato in maniera viva. Troveremo che egli, come non porta più la stessa misura di scarpe che aveva a otto anni, così, in età più avanzata, egli non porta più in sé neppure i medesimi concetti imparati a otto anni; quei concetti si sono ampliati, sono diventati del tutto differenti. Tutto ciò reagisce di riflesso anche sulla corporeità. Se osserviamo infatti le stesse due persone, rispetto alla loro costituzione corporea, vedremo che la prima a quarantacinque anni è sclerotica, la seconda è rimasta agile, non è affetta da sclerosi. Si pensi in proposito a quali differenze appaiono negli uomini! C’erano una volta, in un posto qualsiasi d’Europa, due professori di filosofia. Uno rinomato in filosofia greca, l’altro un vecchio hegeliano, della scuola di Hegel, nella quale il discepolo era abituato, ancora al di là dei suoi vent’anni, ad accogliere in sé concetti viventi. Erano entrambi nella stessa università. Il primo compì i settant’anni e approfittò del suo diritto di andare in pensione: non poteva più andare avanti. L’altro, quello hegeliano, ne aveva novantuno, e diceva: « Non posso capire come mai quel giovanotto si voglia già mettere a riposo ! » Gli è che il secondo aveva concetti non rigidi! In compenso la gente ne sparlava, dicendolo poco coerente. Il primo lo era, « coerente » — ma aveva la sclerosi!

 

Esiste così una completa unità fra la parte spirituale quella corporea, né si può trattare giustamente il fanciullo, senza far caso a tale unità. Chi dissente dal materialismo dice che esso è qualcosa di orribile. Ma perché? Molti risponderanno perché esso è qualcosa che nulla comprende delle» spirito. Ma questo non è il peggio, poiché gli uomini si accorgeranno a poco a poco di questa deficienza e, nella necessità di superarla, essi arriveranno allo spirito; ma il peggio del materialismo sta nel fatto che esso non capisce nulla della materia! Si indaghi a che cosa è ridotta, sotto l’influenza del materialismo, la conoscenza delle forze vive dell’uomo, nei polmoni, nel fegato, e così via. Non si sa nulla sul come le! cose vi funzionano. Si esamina un frammento di polmone c» di fegato, ma la scienza odierna non conduce ad alcuna conoscenza intorno allo spirito operante negli organi umani.! Questo lo si conosce unicamente mediante la scienza dello spirito. La materia si rivela soltanto grazie a considerazioni tratte dalla scienza dello spirito. Il materialismo soffre quindi soprattutto perché esso nulla capisce della materia: vorrebbe limitarsi alla materia, ma non può pervenire appunto alla conoscenza della materia, della materia vera, non di quella escogitata, nella quale si fanno ballare tanti e tanti atomi! in giro ad un nucleo centrale; poiché è facile costruire simili cose. A questo proposito ci furono già dei teosofi che avevano costruito tutto un sistema di atomi e molecole; ma era! tutta roba escogitata.

 

Si tratta sempre di accostarsi alla realtà. Man mano che; ci accostiamo alla realtà, avvertiremo noi stessi come sgradevole il fatto di dover formare un concetto che mai potrà venir sentito nella realtà. Per esempio, sarà per noi un dolore; udire qualcuno enunciare la seguente teoria: « In sostanza è la stessa cosa se con l’automobile io vado verso ima città, oppure se l’automobile rimane ferma e la città viene a me ». ! Ammetto che per un dato genere di considerazioni tali cose!

 

possano anche essere giustificate; ma ampliate tanto quanto oggi si verifica nella tendenza alle astrazioni, esse devastano tutta la vita animica dell’uomo. Chi abbia tale sensibilità proverà un immenso dolore di fronte a diverse cose che oggi si pensano e che sono così straordinariamente deleterie, proprio per l’insegnamento. Quando si vede come certi metodi, già negli asili, coi bambini piccoli, si valgono delle lettere alfabetiche ritagliate che i bambini imparano a riporre in appositi incavi per formare delle parole, ecco che già per tempo si presenta al fanciullo una cosa per la quale, a quell’età, egli non ha alcun rapporto. Accade allora come se, pensando in senso reale, si dicesse: io ero ancora poco fa un uomo con muscoli, pelle, e così via, ed ora sono soltanto imo scheletro. Così avviene oggi, sotto l’influenza delle astrazioni a cui si tende nella vita culturale dell’umanità: tutto ad un tratto ci si vede scheletri. Con tali concezioni, però, che sono davvero realtà ischeletrite, non è possibile, in pedagogia, arrivare al bambino.

 

Per questa ragione volevo oggi mostrare come sia importante che il maestro, in modo giusto e vivo, sia capace di accostarsi alla vita.