Il nostro periodo di civiltà inizia la riascesa verso la chiaroveggenza

O.O. 126 – Storia occulta – 30.12.1910


 

Sommario: Il nostro periodo di civiltà inizia la riascesa verso la chiaroveggenza. Il nesso fra pensiero e suono nel linguaggio primordiale e ancora in quello dei sumeri. Misure cosmiche ed umane nella missione dei babilonesi. Il simbolo della torre di Babele. L’aspetto puramente umano della civiltà greca. Giuliano l’Apostata e Tycho Brahe.

 

Dall’esposizione di questi ultimi giorni si sarà potuto rilevare che la civiltà greco-latina sta nel mezzo di tutta la civiltà postatlantica. I tre periodi di civiltà che la precedono sono quasi la preparazione dell’anima umana a quel lavoro dell’io nell’io che, come abbiamo visto, caratterizza il periodo greco. Le civiltà paleoindiana, persiana, egizia si delineano segnando una discesa da concezioni chiaroveggenti fino alla concezione prettamente umana dei greci. Ciò che si inizia nel nostro periodo, e che nei secoli e millenni avvenire dovrà venir raggiunto in sempre maggior misura dall’umanità, deve apparirci come una riascesa a forme di civiltà chiaroveggenti. Possiamo quindi dire che l’ultima preparazione alla civiltà greca, puramente umana, ci appare nel periodo di civiltà egizio-babilonese-caldaico. Durante questo terzo periodo postatlantico, l’uomo discende per così dire dalle antiche condizioni chiaroveggenti, grazie alle quali poteva ancora partecipare direttamente al mondo dello spirito, e prepara la civiltà meramente personale, umana, caratterizzata da un lavoro dell’anima che si può appunto chiamare dell’io nell’io. Per questa ragione abbiamo visto come la facoltà di guardare indietro alle incarnazioni passate, connessa con una civiltà legata alla chiaroveggenza, diventasse incerta e malsicura per Gilgamesh, l’inaugurato-re della civiltà babilonese; come egli, incapace di orientarsi da sé, fosse costretto quasi ad ereditare da Eabani certe facoltà per guardare indietro nelle incarnazioni passate. Gli effetti del lavoro compiuto da quelle anime babilonesi, quali li vediamo poi propagarsi nel mondo successivo, corrispondono in tutto all’indole speciale dell’anima babilonese, nonché alla caduta dalle altezze dello spirito per entrare nell’elemento personale di ogni singolo uomo.

 

Una considerazione occulta della storia ci convincerà sempre più che i popoli con le loro creazioni culturali, col loro lavoro, non sono per nulla isolati nel corso dell’evoluzione universale e del progresso umano. Ogni popolo ha il suo compito spirituale, ha un suo speciale contributo da dare a quello che chiamiamo progresso umano. Oggi la nostra civiltà è già ben complicata, ed è tale perché molte singole correnti culturali vi sono confluite. Nella vita culturale di oggi e nella nostra vita esteriore, confluiscono infatti le civiltà più diverse coltivate dai singoli popoli più o meno unilateralmente secondo la loro missione, e unitesi più tardi in una corrente comune. Per questo i singoli popoli si differenziano fra di loro, e per questo possiamo attribuire a ognuno di essi una sua missione particolare. E noi, che abbiamo ricevuto nella nostra civiltà il lavoro culturale degli antenati, che cosa potremo esibire oggi per mostrare quale eredità ci è stata trasmessa dall’uno o dall’altro popolo a vantaggio del progresso comune dell’umanità?

 

Appunto a questo proposito è molto interessante esaminare il compito culturale del popolo babilonese. Certo nell’ultimo secolo, con la decifrazione della scrittura cuneiforme, il popolo babilonese ha posto degli enigmi assai strani persino agli storici ufficiali. Anche quello che se ne è potuto sapere esteriormente è già al massimo grado degno di nota, poiché lo studioso può dire che l’estensione del tempo storico si è quasi raddoppiata grazie ai risultati della decifrazione della scrittura cuneiforme. Già l’indagine storica, sulla base di documenti esteriori, può risalire a cinque o a sei millenni prima di Cristo e affermare che nelle regioni in cui agirono più tardi i babilonesi e gli assiri, esistette durante tutto quel tempo una civiltà importantissima e possente. Vi troviamo, soprattutto nei tempi antichissimi, un popolo molto degno di nota. La storia lo chiama il popolo dei sumeri; risiedeva nelle regioni dell’Eufrate e del Tigri, soprattutto verso l’alto corso, ma anche verso il loro corso inferiore. Qui ci manca il tempo di trattare a lungo dei documenti esteriori in proposito, e dobbiamo occuparci piuttosto di quel che ci insegna la storia occulta.

 

Per tutto ciò che quel popolo era capace di pensare e di creare spiritualmente, e anche per il suo lavoro esterno, esso proveniva da un grado di civiltà relativamente assai antico dell’evoluzione postatlantica. Più risaliamo nella storia dei sumeri, che potremmo chiamare pre-babilonesi, più chiaro vediamo che in seno a questo popolo vivevano delle tradizioni altamente spirituali, che esso possedeva una importante saggezza spirituale, una saggezza che potremmo caratterizzare dicendo che tutto il modo di vita, tutto il modo non soltanto di pensare, ma in genere di vivere nell’anima e nello spirito, presso quel popolo era del tutto diverso da quello degli uomini che apparvero più tardi nella storia universale. Negli uomini venuti dopo i sumeri si può osservare per esempio un certo divario fra ciò che si pensa e ciò che si dice. Chi mai ignora oggi che il pensare e il parlare sono due cose ben diverse? che il linguaggio consiste in mezzi d’espressione convenzionali per quel che gli uomini pensano? Lo dice già il fatto che sulla terra ci sono molti linguaggi nei quali, in sostanza, noi portiamo a espressione un gran numero di rappresentazioni comuni a tutti. Vi è dunque un certo spazio fra il pensare e il parlare. Non era cosi per quell’antico popolo: esso usava un linguaggio che aveva con l’anima un nesso completamente diverso da quello di tutti i linguaggi successivi. Specialmente se risaliamo a tempi antichissimi, troviamo una specie di linguaggio primordiale dell’umanità, sebbene non più esistente in tutta la sua purezza. Troviamo sì, quasi dappertutto in Europa, in Asia e in Africa i linguaggi delle singole razze e tribù già in certo modo differenziati, ma appunto presso i sumeri esisteva una specie di elemento linguistico comune che poteva venir capito su tutta la terra allora conosciuta, specialmente dalle persone più profondamente spirituali. Da che cosa proveniva? Dal fatto che l’anima dei sumeri, nel suono, nell’accento, sentiva qualcosa di ben definito, e doveva esprimere in maniera univoca il sentimento che può venir suscitato da un pensiero qualsiasi e in pari tempo da un suono.

 

Per meglio comprenderlo, si osservi che perfino i nomi citati a proposito dell’epopea di Gilgamesh contengono dei suoni sintomatici: Ishtar, Ishulan e simili. Pronunciando questi suoni e conoscendone il valore occulto, si sa che in fondo si tratta di nomi che non possono contenere suoni diversi, se debbono indicare le entità corrispondenti; una U, una I, una A, possono infatti riferirsi in modo univoco soltanto a qualcosa del tutto determinato. Ma lo sviluppo del linguaggio è consistito appunto nel fatto che gli uomini hanno smarrito il senso che i suoni, consonanti e vocali, possono riferirsi in modo univoco solo a una data cosa; in quei tempi antichi non era quindi possibile indicare una cosa se non con un complesso di suoni assolutamente determinato. Come oggi, quando intendiamo parlare di un dato oggetto, non è possibile che se ne abbia un pensiero diverso in Germania o in Inghilterra, così allora, poiché del suono si aveva ancora l’antico senso spirituale immediato, non si sarebbe potuto indicare altrimenti un oggetto o un essere se non con un complesso univoco di suoni. Nei tempi antichi, e nell’antica lingua sumerica vi era appunto un’eco di quei tempi antichi, il linguaggio era qualcosa di determinato che, per la natura stessa dell’anima, riusciva comprensibile a chi lo udiva. Parlare così del linguaggio vale per i primissimi tempi delle civiltà postatlantiche.

 

In seguito fu però compito proprio del popolo babilonese di portare nell’elemento personale, là dove l’individuo poggia isolato su se stesso, questa vivente comunione spirituale degli uomini col mondo spirituale. Il compito dei babilonesi fu di portare il mondo spirituale sul piano fisico. Legato a questo processo è il fatto che cessò quel sentimento vivo e spirituale del linguaggio e che le lingue cominciarono a regolarsi secondo il clima, la posizione geografica, i popoli e così via. Per questo la Bibbia, che ci narra in proposito cose più giuste che non le fantasticherie del signor Fritz Mauthner che si autodefinisce filologo, ci espone questo fatto importante nel racconto della torre di Babele, secondo il quale vengono dispersi tutti i popoli della terra che prima parlavano un linguaggio comune. Possiamo comprendere spiritualmente anche la costruzione della torre di Babele, conoscendo l’antico modo di costruire. Edifici del genere, eretti per compiervi certi riti dedicati alla saggezza sacra o destinati a essere i segnacoli di sacre verità, si costruivano anticamente secondo misure tolte dal cielo o dall’uomo. Il che in fondo è la stessa cosa poiché l’uomo, quale microcosmo, è un’imitazione del macrocosmo; così per esempio le misure, occultamente contenute nelle piramidi, sono tratte dal cielo e dall’uomo.

 

Se potessimo dunque risalire nei tempi fino a periodi relativamente antichi, in tutte le costruzioni votate al culto troveremmo delle imitazioni simboliche di misure umane o celesti. Altezza, larghezza, profondità, conformazione archi- tettonica interiore, tutto prendeva norma da misure celesti o da quelle del corpo umano. Le misure erano tratte dal mondo spirituale ovunque vi fosse una vivente coscienza del nesso fra l’uomo e il mondo spirituale. Ma come doveva questo avvenire nel tempo destinato a far discendere la conoscenza umana dai cieli sulla terra, dalla spiritualità umana in generale all’umana personalità? Allora le misure non potevano più venir tolte se non dall’uomo stesso, dalla personalità umana, in quanto espressione dell’egoità singola. Questo doveva diventare la torre di Babele, la sede cultica di quelli che dovevano ormai derivare le misure unicamente dall’individualità. In pari tempo occorreva mostrare che solo a poco a poco l’individualità poteva maturare per risalire nei mondi dello spirito. Abbiamo visto che per poter cominciare a risalire, occorreva prima attraversare il quarto e il quinto periodo di civiltà. Prima era impossibile riascendere senz’altro nel mondo delle regioni spirituali. È questo il significato del fatto che la costruzione della torre di Babele era destinata a fallire, poiché allora era ancora impossibile raggiungere il cielo con i mezzi dell’individualità umana. Verità profondissime si occultano in quel simbolo universale, la costruzione della torre di Babele, attraverso il quale gli uomini vennero limitati alla loro singola individualità umana, a ciò che la personalità poteva diventare in singoli popoli in determinate speciali condizioni.

 

Così i babilonesi furono indirizzati dai mondi spirituali sulla terra; ivi era il loro compito, la loro missione. Tuttavia, come ho già accennato, a base della civiltà babilonese esteriore vi era la civiltà caldaica dei misteri, una civiltà che rimase esoterica, ma che filtrò in un modo ben determinato nella civiltà esteriore. Per questo vediamo ancora trapelare la sapienza primordiale in tutto quel che fecero i babilonesi. Tuttavia essi dovevano fare in modo che la loro sapienza non salisse con loro verso regioni spirituali, ma venisse applicata sulla nostra terra. Tutto ciò che in tal modo fu la missione dei babilonesi si incorporò nella nostra civiltà e vi è disceso fino ai nostri tempi. Lo si può mostrare. Dobbiamo comunque sentire un grande rispetto di fronte a quella veggenza dei mondi spirituali, ancora così grande e possente; a quella veggenza che, sebbene giunta al tramonto, portava ancora nell’anima le tradizioni antiche. Destiamo in noi il rispetto per la profonda astronomia dei babilonesi e per la loro potente missione che consisteva nel trarre dalle conoscenze umane del mondo spirituale, dalle misure dei cieli, tutto ciò che era destinato a inserirsi nella civiltà umana a vantaggio della vita pratica esteriore, e che in pari tempo doveva essere posto in relazione con l’uomo. È interessante osservare a questo proposito come siano giunte fino a noi certe rappresentazioni che sono quasi sempre un’eco di sentimenti peculiari ancora vivissimi nei babilonesi, dei sentimenti relativi all’affluire di tutto il macrocosmo nell’uomo, relativi all’ordinamento umano dell’uomo individuale terrestre che rispecchia in sé le grandi leggi celesti.

 

Esisteva per esempio nell’antica Babilonia il detto seguente: «Guarda l’uomo che cammina senza essere né vecchio né bambino, che cammina da sano e non da malato, che non corre troppo né va troppo adagio, e tu vedrai la misura del corso del sole».

 

Detto singolare, che può farci penetrare molto, molto addentro nelle anime degli antichi babilonesi. Essi pensavano infatti che un uomo dal passo sano e normale, un uomo che cammina con la rapidità conforme alla salute della vita, né troppo in fretta né troppo piano, se avesse fatto il giro della terra avrebbe impiegato 365 giorni e un quarto di giorno. Il che più o meno corrisponderebbe, se non ci si fermasse mai, né di giorno né di notte. Essi dicevano dunque che il tempo occorrente a un uomo sano per fare il giro della terra è pari a quello occorrente al sole (poiché essi credevano all’apparente movimento del sole intorno alla terra) per fare il giro della terra. Se dunque, o uomo sano, fai il giro della terra né troppo presto né troppo adagio, tu cammini in armonia col ritmo del sole intorno alla terra. Vale a dire: «Fa parte della tua salute, o uomo, seguire il cammino del sole attorno alla terra».

 

Questo detto è certamente capace di suscitare in noi un grande rispetto per la possente visione cosmica del popolo babilonese, perché, partendo da qui, i babilonesi crearono poi una divisione del cammino dell’uomo intorno alla terra; calcolando poi secondo certe misure parziali, ne derivarono una misura che è all’incirca il tratto di via che l’uomo percorre in due ore di cammino; il che corrisponde a un miglio. Essi calcolarono questa misura secondo un passo sano, adottandola come una specie di unità normale per misurare il terreno su larga scala. Quell’unità di misura è rimasta fino a poco tempo fa, fino a quando cioè nell’evoluzione umana tutto è diventato astratto, ed è il miglio che si percorre in circa due ore. Così si è mantenuto fino nel secolo diciannovesimo qualcosa che deriva dalla missione degli antichi babilonesi, i quali lo avevano tratto dal cosmo, regolando i loro calcoli sul corso del sole.

 

Soltanto il nostro tempo sentì il bisogno di ricondurre queste misure, prima derivate dall’uomo, a misure astratte derivate da qualcosa di morto. Evidentemente, infatti, la misurazione attuale è astratta, se confrontata alle misure che in sostanza risalgono tutte alla missione del popolo babilonese, e che hanno un nesso diretto con l’uomo e con le manifestazioni celesti. Anche altre unità di misura erano basate sull’uomo, sulle leggi scoperte nel microcosmo: così il “piede”, tolto dalla misura di un arto umano, cosi il “braccio”. In fondo, fino a poco tempo fa, tutta la maniera di pensare degli antichi babilonesi era alla base del nostro sistema di misure. Le dodici costellazioni zodiacali e i cinque pianeti davano loro il 5×12=60, cioè un numero fondamentale. I babilonesi nel contare arrivavano soltanto fino al sessanta, e dopo il sessanta ricominciavano da capo. In tutte le loro numerazioni quotidiane si basavano sul numero dodici che, essendo preso dalle leggi del cosmo, si adatta in realtà molto più concretamente a tutte le contingenze concrete esteriori. Quel numero è facilmente divisibile e corrisponde alla dozzina, un altro dei doni venutoci dalla missione dei babilonesi. Il nostro sistema di conteggio si fonda sempre sul dieci, un numero che è molto difficile da suddividere, mentre la dozzina, anche per il suo rapporto col sessanta e nella sua varia divisibilità, come base di sistema numerico e di misura si adatta in sommo grado e concretamente alle circostanze.

 

Non è per criticare il nostro tempo che diciamo essersi l’umanità votata all’astrazione anche per quanto riguarda i conti e i numeri; è infatti chiaro che un’epoca non può comportarsi come la precedente. Se vogliamo rappresentarci il decorso della civiltà, dalla catastrofe atlantica fino al periodo greco e da là in avanti fino al nostro, potremo dire che la civiltà indiana, la persiana e l’egizia discendono, che la civiltà greca è il punto in cui si coltiva sul piano fisico l’umanità pura, e che poi ricomincia l’ascesa. Ma questa riascesa rappresenta soltanto un ramo dell’evoluzione reale; dall’altra parte ha luogo anche una continua discesa nel materialismo. Perciò attualmente, accanto all’energica tendenza spirituale che tende all’alto, esiste il più crasso materialismo che si addentra profondamente nella materia. Queste cose scorrono naturalmente parallele. La corrente del materialismo deve esserci come un ostacolo da superare per lo sviluppo di una forza superiore. Ma sta nell’indole di questa corrente di rendere ogni cosa astratta, perché tutto il sistema decimale è un sistema astratto. Non è una critica, ma soltanto una caratteristica. E verranno superate ben altre cose ancora che sono concrete. Quante proposte per esempio sono state fatte per assegnare alla festa di Pasqua una data fissa in aprile, per evitare gli inconvenienti che la data mobile reca all’industria e al commercio! Non si bada al fatto che qui, nel suo nesso col cielo stellato, abbiamo ancora un residuo di tempi antichi. Tutto deve sboccare nell’astrazione, e le correnti concrete che si affrettano nuovamente verso la spiritualità, rappresentano per ora nella nostra civiltà soltanto un tenue rigagnolo.

 

È straordinariamente interessante osservare come non solo nell’ambito dell’antroposofia, ma anche al di fuori, l’umanità venga istintivamente spinta a riprendere le vie dell’ascesa, a risalire verso un adattamento alla misura, al numero e alla forma simile a quello degli antichi babilonesi ed egizi, poiché in verità il nostro tempo ripete in certo modo la civiltà babilonese ed egizia; sappiamo che i passati periodi di civiltà si ripetono: quello egizio nel nostro, quello persiano nel sesto periodo, quello indiano nel settimo. Il primo periodo corrisponde al settimo, il secondo al sesto, il terzo al quinto, il nostro; il quarto sta a sé e forma il centro. Per questo molte delle concezioni degli antichi egizi ora si ripetono istintivamente. Avvengono così fenomeni strani. Si vedono persone che vivono completamente in rappresentazioni e concetti del tutto materialistici, e che pure possono venir portate verso la vita spirituale dalla potenza dei fatti, non da teorie scientifiche, poiché esse sono oggi del tutto materialistiche.

 

Per esempio c’è un interessante medico berlinese che ha fatto un’osservazione degna di nota. La voglio illustrare. Si tratta di un’osservazione di puri fatti, prescindendo da ogni teoria. Ammettiamo che un punto segni schematicamente la data della morte di una donna qualsiasi. Si badi che non descrivo qualcosa di pensato, ma di osservato. Quella donna è la nonna di una famiglia. Un determinato numero di giorni prima della sua morte, nasce in famiglia un nipotino; quel numero di giorni è 1.428. Il fatto singolare è che 1.428 giorni dopo la morte della nonna viene al mondo un altro nipote, e un suo pronipote nasce 9.996 giorni dopo la morte della nonna. Dividendo ora 9.996 per 1.428 si ha 7. Vale a dire che in un periodo sette volte maggiore di quello che corre fra la nascita del nipote e la morte della nonna, viene al mondo un pronipote. Ora quello stesso medico mostra che questo non è un caso isolato, ma che l’esame genealogico di molte famiglie, riguardo a morti e nascite, dà sempre dei rapporti numerici assolutamente determinati. E l’interessante è che prendendo per esempio 1.428, si vede che in esso il sette è nettamente contenuto. In breve oggi la gente si vede costretta dai fatti a ritrovare nella sequela degli eventi esterni certe regolarità, certe periodicità che si ricollegano agli antichi numeri sacri. La molteplicità dei risultati già ottenuti fino a oggi dal dott. Fliess (così si chiama quel medico), e dai suoi scolari, è una riprova che il decorso di tali eventi è proprio regolato secondo date leggi, secondo ben determinati numeri. Già oggi esistono in enorme quantità dei numeri così coordinati. La spiegazione che ne vien data è assolutamente materialistica, ma la forza dei fatti costringe tuttavia ad ammettere l’influenza del numero sul corso degli eventi universali. Noto esplicitamente che il modo con cui Fliess e i suoi scolari si valgono per ora di questo principio, è molto errato. L’uso che fanno dei loro numeri principali – specie del 23 e del 28 che pure ritorna come risultato del 4×7 dovrà subire ancora molti miglioramenti. Nondimeno in questo modo di osservazione, nel periodo della riascesa dell’umanità, scorgiamo un istinto riaffiorare dall’antica civiltà babilonese. Naturalmente la gran massa degli uomini non ha alcuna sensibilità, alcun senso per tali cose; esse rimangono limitate a cerchie ristrette. Ma deve sembrarci degno di nota vedere come delle persone, quali per esempio gli allievi del Fliess, vengano poi indotti dalla loro scoperta a pensieri e sentimenti speciali. Uno di essi osserva: «Che ne avrebbero pensato gli uomini, se queste cose si fossero sapute in tempi antichi?» – (e dire che appunto si sapevano!). Un altro punto molto caratteristico mi pare il seguente.

 

Dopo che l’allievo del Fliess ebbe raccolto molti esempi, aggiunse: «Periodi di tempo della più evidente struttura matematica vengono tolti dalla natura; sono cose che rimasero in tutti i tempi inaccessibili ai cervelli meglio dotati e usi a problemi molto più ardui. Con quale fervore religioso avrebbero proceduto in tale indagine i calcolatori babilonesi, e di quale magia avrebbero circondato questi problemi!» Vediamo dunque come si è già avanti nel presentire quel che accade realmente, e come l’istinto dell’uomo lavori di nuovo verso la vita spirituale. Proprio dove la scienza ufficiale del nostro tempo sorvola di solito con occhi bendati, appunto là si possono trovare lumi importanti per la forza occulta della quale la gente è completamente incosciente. Quelli stessi che ci indicano questa strana legge numerica, la spiegano infatti in modo del tutto materialistico. Ma la forza dei fatti costringe già oggi gli uomini a riconoscere nelle cose un ordine di leggi spirituali, matematiche. Vediamo così in realtà quanto sia profondamente vero che in sostanza tutto ciò che più tardi, nello sviluppo dell’evoluzione umana, si estrinseca in modo personale, sia un’ombra di quel che prima esisteva in una grandiosità originale ed elementare, perché ancora perdurava il collegamento col mondo dello spirito. Vorrei sotto-lineare, affinché si imprima bene nelle nostre anime, che furono i babilonesi che, nel loro trapasso al quarto periodo di civiltà, portarono per così dire il cielo sulla terra introducendo i segreti celesti nella misura, nel numero e nel peso, che risentiamo l’eco di tutto ciò fino ai giorni nostri, che ritorneremo a quella tecnica numerica che deve riaffermarsi sempre più, per quanto in altri campi della vita sia naturalmente giusto un sistema astratto di misure e di numeri. Anche qui possiamo vedere di nuovo come nello scendere sia stato raggiunto un dato punto nella civiltà greco-latina della pura umanità, dell’estrinsecarsi della personalità sul piano fisico, e come poi abbia luogo una nuova ascesa. Così realmente la civiltà greca sta nel mezzo anche rispetto al decorso dell’epoca postatlantica.

 

Ora dobbiamo considerare che nel periodo greco sorse l’impulso del cristianesimo, destinato a ricondurre l’uomo sempre più in alto, verso altre regioni. Abbiamo già visto come nei primi tempi del suo sviluppo il cristianesimo non sia subito apparso in tutta la sua importanza, con tutto il suo contenuto spirituale. Il comportamento della gente di Alessandria contro Ipazia ci mostra quali debolezze e quali zone d’ombra vi fossero nel cristianesimo primitivo. Abbiamo spesso sottolineato che i tempi in cui il cristianesimo verrà compreso in tutta la sua profondità sono ancora di là da venire, che il cristianesimo ha ancora in sé infiniti e profondi elementi, e che esso appartiene piuttosto al futuro dell’uomo che non al presente, e tanto meno al passato. Vediamo così inserirsi il cristianesimo ai suoi primi inizi entro una civiltà erede in sostanza di una primordiale spiritualità e sapienza dell’universo. Il patrimonio che infatti aveva ricevuto e portava in sé il periodo greco, era veramente come un’eredità di quel che gli uomini avevano conquistato attraverso innumerevoli incarnazioni, grazie al loro vivente nesso col mondo spirituale. Tutta la spiritualità che era stata sperimentata nei tempi antichi si era immersa nelle anime e nei cuori dei greci e si esplicava in essi. Di conseguenza possiamo comprendere che vi siano stati uomini che nei primordi del cristianesimo, specie di fronte a quello a cui si erano ridotti gli impulsi cristiani nei primi secoli, non potevano attribuire al cristianesimo un valore pari all’antico patrimonio di incommensurabile grandezza e spiritualità che era andato tramandandosi da millenni nel mondo greco. Vi fu così una personalità eminentemente caratteristica che visse nella propria anima questa lotta dell’antico col nuovo; la lotta di antichissimi tesori di saggezza e di spiritualità contro ciò che era soltanto ai suoi inizi e fluiva debolmente. Tale personalità del periodo greco-latino, che appartiene al quarto secolo e che visse siffatte esperienze nell’anima propria, è Giuliano l’Apostata.

 

È molto interessante seguire la vita di Giuliano, imperatore romano. Nipote dell’imperatore Costantino, vendicativo e ambizioso, Giuliano era veramente destinato fin da bambino a essere ucciso insieme al fratello. Fu lasciato in vita solamente per la paura che l’uccisione facesse troppo chiasso e perché si sperava d’impedire i danni che più tardi avrebbe potuto fare. Giuliano fu costretto a compiere la sua educazione errando di continuo fra diverse comunità umane, mentre severamente si tendeva ad instillargli nell’anima ciò che allora, del cristianesimo, veniva accolto per ragioni di opportunità nell’impero romano. Era una miscellanea eterogenea di cattolicesimo in via di elaborazione e di ciò che viveva come arianesimo. In certo modo ci si voleva mantenere in buone relazioni con entrambe le correnti. Appunto allora ferveva invece una lotta molteplice e alquanto aspra contro l’antico ideale ellenistico e pagano, contro gli antichi dèi e gli antichi misteri. Come ho detto, nulla veniva trascurato per fare di Giuliano, che pure si sperava salisse un giorno sul trono dei Cesari, un cosiddetto buon cristiano.

 

Ma nella sua anima viveva la singolare tendenza di non riuscire a conseguire una vera e profonda comprensione per il cristianesimo. Ogni volta che il ragazzo veniva portato dove ancora sussistevano avanzi non solo dell’antico paganesimo, ma dell’antica spiritualità, gli si apriva il cuore. Quasi assorbiva in sé ogni residuo che, nel quarto periodo di civiltà, sopravviveva da antichissime sacre tradizioni e costumanze. Così avvenne che durante i diversi vagabondaggi a cui lo spingevano le persecuzioni dello zio Imperatore, egli ugualmente giungesse vicino a maestri della cosiddetta scuola neoplatonica e a discepoli degli alessandrini, quelli che avevano ricevuto da Alessandria le antiche tradizioni. Allora più che mai il cuore di Giuliano veniva nutrito con ciò cui egli così profondamente aspirava. Conobbe in seguito quello che di tali antichi tesori di sapienza sopravviveva ancora nella stessa Grecia. Giuliano sentì di dover ricollegare, a tutta la sapienza datagli dalla Grecia e dal mondo antico, un sentimento vivo per il linguaggio dei cieli stellati, per i segreti che ci si rivelano dagli spazi universali nella scrittura del firmamento. Venne quindi per lui il momento di venir iniziato nei misteri eleusini da uno degli ultimi ierofanti. Singolare è lo spettacolo che ci offre Giuliano, poiché in lui vediamo sul trono dei Cesari romani un ispirato dei misteri antichi, completamente immerso in tutto ciò che è dato ricevere quando la vita spirituale diventa realtà attraverso i misteri. Per quanto si siano insinuati dei malintesi nello scritto di Giuliano contro i cristiani che ci è conservato, sappiamo tuttavia quale grandiosità animasse la concezione del mondo di Giuliano, quando la sua parola sgorga dalla grandezza della sua iniziazione.

 

Quale discepolo dei misteri, che erano già presso al tramonto, Giuliano non seppe però collocarsi nel giusto modo nel suo tempo, e perciò andò incontro al martirio di un ispirato che non sa più bene quali segreti vadano tenuti occulti e quali sia lecito palesare. Lo zelo e l’entusiasmo che gli erano stati instillati dalla sua educazione ellenistica e dalla sua iniziazione, le magnifiche esperienze fatte con l’aiuto del suo ierofante, spronarono Giuliano a voler ricostruire ciò che considerava la vita e l’azione vivente della spiritualità antica. Per mezzo di molti provvedimenti lo vediamo così tentare di ripristinare gli antichi dèi nella civiltà in cui il cristianesimo si era introdotto. Egli andò troppo oltre, sia nella rivelazione dei segreti dei misteri, sia nella sua posizione di fronte al cristianesimo. Di conseguenza avvenne che il suo destino lo colse nell’anno 363, allorché dovette muover guerra ai persiani. Come sempre viene colto dal destino chiunque abbia detto illecitamente ciò che non deve essere detto, così fu anche per Giuliano; è anche storicamente probabile che egli cadesse per mano cristiana durante la spedizione contro i persiani, poiché non solo tale notizia si divulgò subito, né fu mai contraddetta da alcun importante scrittore cristiano, ma sarebbe anche troppo strano che i persiani, avendo provocato la morte del loro acerrimo nemico, non se ne fossero poi gloriati; anche presso di loro si formò subito l’opinione che egli fosse caduto per mano cristiana. Fu veramente una specie di bufera che si scatenò da questa anima ispirata, dall’entusiasmo che Giuliano l’Apostata aveva contratto dalla sua iniziazione nei misteri eleusini già declinanti verso il tramonto. Tale fu il destino di un uomo del quarto secolo, di una personalità il cui karma universale, in fondo, fu di dover sfogare nell’ira, nel rancore, nell’entusiasmo personale ciò che aveva ricevuto come eredità. Fu questa la legge fondamentale della sua vita.

 

È ora molto interessante, ai fini di uno studio della storia occulta, seguire nel suo corso ulteriore appunto questa individualità. Nel secolo sedicesimo, nel 1546, nasce da nobile prosapia dell’Europa settentrionale un uomo singolare*, dotato fin dalla culla di tutto ciò che poteva condurlo ad alte cariche nel senso della vita tradizionale di allora, data anche la ricchezza della famiglia. Poiché, secondo le tradizioni familiari, avrebbe poi dovuto ricoprire un posto eminente nello Stato o in altra posizione elevata, fu destinato a una professione legale e mandato con un precettore all’università di Lipsia per studiarvi giurisprudenza. Il precettore tormentava il ragazzo, poiché era ancora un ragazzo mentre doveva studiare giurisprudenza, per quanto era lungo il giorno. Ma quando il precettore dormiva i sonni del giusto, sognando le sue teorie giuridiche, il ragazzo sgattaiolava fuori dal letto e durante la notte contemplava le stelle con gli strumenti semplicissimi che si era costruiti da sé. Ben presto giunse a conoscere i misteri del firmamento non solo meglio di qualsiasi maestro, ma anzi più di quanto era scritto allora in tutti i libri. Osservò per esempio una data posizione di Saturno e di Giove nella costellazione del Leone, e guardando nei libri la trovò registrata in modo del tutto errato.

 

Allora sorse in lui l’anelito di conoscere nella maniera più esatta soprattutto la scrittura stellare, di notare con la maggiore precisione il corso degli astri. Fu poi miracolo che quest’uomo riuscisse ben presto a vincere l’opposizione della sua famiglia e ottenesse il permesso di diventare scienziato e astronomo, invece di perdere la sua vita sognando su dottrine e testi giuridici. E poiché disponeva di larghi mezzi finanziari gli riuscì possibile creare un istituto attrezzato.

 

L’istituto era disposto in modo singolare: nei piani superiori conteneva strumenti per osservare i segreti del firmamento, e nella cantina conteneva apparecchi per formare miscele e analisi di materie diverse. Qui lo studioso lavorava, dividendo il suo tempo tra le indagini dei piani superiori e il far ribollire, mescolare e pesare giù in cantina. Così lavorava dunque quello spirito, per mostrare a poco a poco come le leggi iscritte nelle stelle fisse e nei pianeti, le leggi macro-cosmiche, si ritrovino microcosmicamente nei numeri matematici che stanno a base delle misture e delle analisi della materia. Egli applicò poi alla medicina il nesso vivente che trovava fra l’elemento celeste e il terreno, e cercò di preparare dei medicinali che agirono in malo modo intorno a lui solo perché li distribuiva gratuitamente fra le persone che desiderava soccorrere. I medici, che invece aspiravano a farli pagare cari, erano infatti furibondi contro di lui perché compiva tali “reati” con ciò che voleva portar giù dal cielo sulla terra.

 

Fortunatamente quell’uomo, in seguito a un fatto speciale, godeva le buone grazie del re Federico II di Danimarca, e finché ne ebbe la protezione le cose andarono bene, e vennero conseguiti veramente dei risultati enormi in merito all’azione spirituale delle leggi universali, nel senso che prima ho caratterizzato. In verità egli sapeva molto intorno al decorso spirituale delle leggi universali. Fra l’altro fece allibire il mondo con cose che forse oggi non sarebbero credute allo stesso modo; così un giorno a Rostock, in base alle costellazioni celesti, profetizzò la morte del sultano Solimano, e la notizia di quella morte, avvenuta veramente di lì a pochi giorni, rese popolare il nome di Tycho Brahe in tutta l’Europa. Di lui, che pur visse in un tempo non tanto lontano da noi, oggi il mondo non sa quasi più nulla, se non che era ancora alquanto ingenuo, che non aveva raggiunto ancora le alte vette materialistiche dei nostri giorni. Egli ha invero segnato sulla carta astronomica mille nuovi astri, ha sì fatto la scoperta allora clamorosa di una stella la cui luce apparve e poi riscomparve, descrivendola come la “nova-stella”, ma di queste cose per lo più non si parla. In fondo oggi di lui non si sa altro se non che era ancora tanto sciocco da escogitare un sistema dell’universo secondo il quale la terra sta ferma e il sole con i pianeti le gira intorno; questo oggi sa il mondo. Ma che Tycho Brahe sia stato una personalità eminente del secolo sedicesimo, che si sia reso infinitamente benemerito dell’astronomia per mezzo di studi utili ancora oggi, che in quel che ci ha dato vi sia una somma incalcolabile di profonda sapienza, tutto questo di solito viene ignorato, semplicemente perché Tycho Brahe, nell’esposizione di un preciso sistema planetario, fu indotto dal proprio profondo sapere a scoprire difficoltà non vedute da Copernico. E se è lecito dirlo, per paradossale che possa sembrare, col sistema copernicano non è stata detta ancora l’ultima parola in proposito. La disputa in merito ai due sistemi darà ancora da fare all’umanità avvenire. Lo dico soltanto per inciso, perché è troppo paradossale per i nostri giorni.

 

Gli avversari di Tycho Brahe che sorgevano dovunque tra i medici d’allora e i professori dell’università di Copenhagen, riuscirono finalmente ad aizzare contro di lui il successore del Re che era stato il suo protettore. Così Tycho Brahe, cacciato dalla patria, dovette riparare di nuovo verso il sud. Già in precedenza egli aveva eretto ad Augusta il suo primo grande planisfero e il globo dorato su cui iscriveva sempre le nuove stelle che scopriva e che raggiunsero alla fine il migliaio. Nell’esilio egli trovò poi la morte a Praga. Ancora oggi, se non ci valiamo dei soliti testi di studio, ma risaliamo alle fonti e studiamo per esempio Keplero, vediamo come Keplero stesso arrivò alle sue leggi perché Tycho Brahe gli aveva spianato la via con le sue osservazioni astronomiche così accurate. Tycho Brahe fu dunque una personalità che recava in sé una vasta impronta di quanto era stato grande e importante nella saggezza dei tempi a lui anteriori; una personalità alla quale non riusciva ancora di adattarsi a quanto di lì a poco diventò popolare con la concezione materialistica del mondo. In verità Tycho Brahe ebbe un destino singolare!

 

Ed ora pensiamo un po’, avvicinando questi due destini personali, come sia infinitamente istruttivo apprendere dalla cronaca dell’akasha che in Tycho Brahe riemerge l’individualità di Giuliano l’Apostata, che Tycho Brahe è la reincarnazione di Giuliano. Come è mai strano e paradossale il giuoco della legge della reincarnazione, quando il karma storico universale modifica i nessi karmici dei singoli uomini, quando le potenze universali stesse afferrano l’individualità umana per servirsene come di uno strumento!

 

Qui vorrei esplicitamente rilevare che io non parlo di queste cose, per esempio del nesso fra Giuliano e Tycho Brahe, perché domani vengano gridate da tutti i tetti e discusse in tutti i caffè, ma perché qui si immergano nelle anime quale dottrina della sapienza occulta, e perché impariamo a comprendere sempre meglio tutto quello che di soprasensibile sta veramente alla base dell’elemento fisico-sensorio dell’uomo.