La via prima di Michele e la via di Michele – Massime 103-105

Commento di Lucio Russo


 

Affronteremo stasera una nuova lettera, intitolata: La via prima di Michele e la via di Michele (12 ottobre 1924).

 

Prima di cominciare, però, vorrei riprendere brevemente il problema del movimento del pensare,

dal momento, come dice Steiner, che

“i pensieri, per quanto riguarda il loro contenuto, ci arrivano da fuori”,

• mentre “la loro elaborazione proviene da noi stessi” (1):

cioè appunto dal movimento o dall’attività del nostro pensare.

 

Abbiamo detto che si deve distinguere

• il movimento ordinario, discreto, del pensare

• da quello immaginativo, continuo,

e abbiamo visto che Arimane entra in azione, in qualità di ostacolatore,

• non quando il pensare si limita a muoversi in modo meccanico,

• ma quando, pur continuando a muoversi così, pretenderebbe di comprendere e spiegare la vita, l’anima e lo spirito.

 

• Una cosa è dunque il pensare astratto, ad esempio quello della matematica pura

(nata all’incirca 2500 anni fa, nell’epoca dell’anima razionale-affettiva),

• altra il pensare concreto, quello (galileiano) della matematica applicata alla realtà inorganica

(nato nell’epoca dell’anima cosciente quale “concretezza sensibile”,

e destinato a svilupparsi, in virtù dell’impulso di Michele, in “concretezza sovrasensibile”),

• e altra ancora il pensare riduttivo (arimanico), quello del pensare concreto applicato non solo alla realtà inorganica, ma anche a quelle della vita dell’anima e dello spirito: “riduttivo” perché Arimane è non solo menzognero, ma anche, all’opposto del “megalomane” Lucifero, un vero e proprio “micromane”.

 

Sere fa, durante un dibattito televisivo sulla cosiddetta “fecondazione assistita”, uno dei partecipanti ha affermato che l’embrione non è un essere umano, perché secondo il principio d’identità e di non contraddizione, l’embrione è l’embrione (A è A), il neonato è il neonato (B è B), ergo l’embrione non è il neonato (A non è B) e il neonato non è l’embrione (B non è A) (2).

Lì per lì, la cosa mi ha ricordato la storiella di quel Tizio che, avendo visto in un museo un teschio e domandato al custode che cosa fosse, si sentì rispondere: “E’ il teschio di Alessandro Volta”; e che poi, avendone visto in un’altra teca uno più piccolo e domandato di nuovo al custode che cosa fosse, si sentì rispondere “E’ il teschio di Alessandro Volta da bambino”.

 

In realtà c’è poco da ridere, perché

• dall’applicare a quanto vive nel tempo la logica di quanto giace nello spazio, ossia

• dal muovere il pensare per cogliere un fenomeno organico

così come lo si muove quando si tratta di coglierne uno inorganico,

possono derivare, come nel caso appunto dell’embrione, gravi conseguenze.

 

Il processo evolutivo o di metamorfosi che va dall’embrione al feto e dal feto al neonato

è infatti espressione di un movimento che dovrebbe essere compreso immaginativamente, e non meccanicamente

(in questo caso, infatti, A diviene B e B diviene C, giacché C è una metamorfosi di B, e B una metamorfosi di A).

 

• E’ vero, quindi, che Arimane media il movimento discreto del pensare quantitativo,

• è anche vero, però, che finché si limita a svolgere questa funzione non ci ostacola,

ma ci permette anzi di accedere, in virtù dell’impulso del Cristo, alla conoscenza della sua realtà,

ch’è quella morta del mondo

(scrive Steiner: “… quando l’evento del Golgota si fu compiuto, quando fu sofferta la morte sulla croce,

il Cristo apparve nel mondo in cui le anime dimorano dopo la morte e rimise la potenza di Arimane nei suoi limiti”) (3).

 

• Diventa invece un ostacolatore allorché tenta di ridurre l’intera realtà alla sua dimensione,

costringendoci a pensare in modo discreto o quantitativo

anche i fenomeni che dovrebbero essere pensati diversamente.

• Qui comincia lo scontro tra Michele e Arimane: ossia quello tra il pensare vivente del primo

(“fiume d’acqua viva” sgorgante dal Cristo) e il pensare riduttivo e menzognero del secondo.

 

Ho già ricordato, una sera, il Michele di Guido Reni che tiene a bada Arimane senza trafiggerlo, quasi che gli dicesse:

“Fermo là! Resta dove sei deputato a prestare servizio all’umanità,

e non provare a tirare verso di te ciò che non rientra nella tua sfera di competenza”.

 

Detto questo, cominciamo a leggere la lettera.

 

 

(…) Oggi si pensa: fuori di noi vi è la natura con i suoi processi e i suoi esseri; nell’interiorità vi sono le idee.

Queste rappresentano concetti di esseri naturali, o anche cosiddette leggi naturali.

Quello che più importa ai pensatori, a questo proposito, è di mostrare come si formino le idee

che hanno il giusto rapporto con gli esseri naturali o che contengono le vere leggi della natura.

Si annette invece poco valore alla relazione in cui queste idee stanno con l’uomo che le ha” (p. 70).

 

 

Dice Steiner: • “Quello che più importa ai pensatori (…) è di mostrare come si formino le idee che hanno il giusto rapporto con gli esseri naturali o che contengono le vere leggi della natura. Si annette invece poco valore alla relazione in cui queste idee stanno con l’uomo che le ha”.

 

Pensate ai razionalisti e agli empiristi.

• Per i primi (ad esempio, per Leibniz), le idee “che contengono le vere leggi della natura” erano innate (congenite);

• per i secondi (ad esempio, per Locke), erano invece ricavate dall’esperienza sensibile (acquisite).

 

Osservavano dunque il modo in cui le idee stanno in rapporto (esteriore) con i fatti,

ma non il modo in cui stanno in rapporto (interiore) col soggetto che le ha o che le esprime (con l’Io).

Ben sappiamo, però, che due individui possono avere la stessa idea:

• l’uno perché ripete (più o meno “a pappagallo”) ciò che ha sentito dire da altri;

• l’altro perché ha invece pensato, riflettuto e meditato.

 

Il rapporto tra l’idea e il soggetto può essere quindi tanto “passivo” che “attivo”;

• solo quello “attivo”, in quanto rapporto dell’idea con l’Io, può però permetterci

di sperimentare la “certezza” o la “persuasione” che si dà quando la verità è nell’Io e l’Io è nella verità (cioè in se stesso).

Superfluo aggiungere che si tratta di una meta ch’è possibile raggiungere per mezzo della conoscenza, e non della fede.

 

 

Eppure non potremo intendere l’essenziale, se non solleveremo anzitutto la domanda:

che cosa sperimenta l’uomo nelle idee della scienza moderna?

Potremmo arrivare ad una risposta nel modo seguente.

Oggi l’uomo sente che le idee vengono formate in lui mediante l’attività della sua anima.

Ha il sentimento di essere l’artefice delle idee, e che soltanto le percezioni gli giungono dal di fuori” (p. 70).

 

 

Abbiamo già visto che l’uomo non ha avuto sempre “il sentimento di essere l’artefice delle idee, e che soltanto le percezioni gli giungono dal di fuori”, ma che ha cominciato ad averlo soltanto dopo l’avvento dell’anima cosciente.

Pensiamo a Kant. Non è appunto convinto che l’uomo, alle percezioni che gli giungono dal di fuori, aggiunge, di suo (soggettivamente e formalmente), i concetti o le categorie?

 

Sta di fatto, invece (come insegna La filosofia della libertà), che

l’unica cosa che l’uomo mette di suo (di soggettivo) nella cosiddetta “cognizione sensibile” è,

• in un primo momento, la separazione tra il volere che gli dà il percetto e il pensare che gli dà il concetto,

• e, in un secondo momento, la riunione del percetto e del concetto in forma di rappresentazione.

 

• Suo non è dunque il percetto, giacché proviene dal mondo “esterno” (sensibile),

• suo non è il concetto, giacché proviene dal mondo “esterno dell’interno” (spirituale),

• mentre sua è la rappresentazione alla quale dà forma “mediante l’attività della sua anima”

(mediante il suo mondo “interno”).

 

 

• Di norma, però, sappiamo che ci giunge da fuori il percetto,

• ma non che ci giunge da fuori il concetto (e che percetto e concetto sono una sola cosa):

non sappiamo, cioè, che

• il pensare non fa che illuminare, in forma di concetto,

• il contenuto che il percepire (volere) ha afferrato nell’oscurità, in forma di percetto.

 

(Scrive Steiner: • “Il vero contenuto del dato [della percezione] viene posto per l’io soltanto dal dato stesso; ma l’io non avrebbe alcuna spinta a porre in sé l’essenza di un dato [il concetto], se prima non vedesse davanti a sé la cosa in modo del tutto privo di determinazione [nel modo del percetto]. Ciò che dunque vien posto dall’io come essenza del mondo non vien posto senza l’io [né soggettivamente dall’io] ma [oggettivamente dal dato] per suo mezzo [per mezzo dell’io] [4].)

 

Il “sentimento di essere l’artefice delle idee”,

quando si riferisca alle idee o ai concetti, e non alle rappresentazioni,

è dunque frutto, da parte dell’ego, di un’“appropriazione indebita”.

 

 

L’uomo non ebbe sempre questo sentimento.

In epoche più remote egli non sentiva il contenuto delle idee come cosa da lui stesso creata,

ma come cosa ricevuta per ispirazione dal mondo soprasensibile.

Questo sentimento si è modificato per gradi, e precisamente a seconda con quale parte

l’essere dell’uomo sperimentava ciò che oggi egli chiama le sue idee” (p. 70).

 

 

Quando l’uomo non sentiva di essere l’artefice delle idee, giacché queste scendevano come la manna dal cielo, non sentiva nemmeno, ovviamente, di doverle raggiungere mediante un proprio sforzo, un proprio sviluppo o una propria elevazione.

“Questo sentimento – dice Steiner – si è modificato per gradi, e precisamente a seconda con quale parte l’essere dell’uomo sperimentava ciò che oggi egli chiama le sue idee”.

Che cosa vuol dire? Vuol dire che l’uomo può sperimentare le idee per mezzo dell’Io, così come può sperimentarle per mezzo del corpo astrale, del corpo eterico e del corpo fisico.

• Un conto, tuttavia, è che l’idea venga sperimentata mediante il corpo fisico in veste di rappresentazione, mediante il corpo eterico in veste d’immaginazione, mediante il corpo astrale in veste d’ispirazione, altro che venga sperimentata mediante l’Io in veste d’intuizione, e quindi per ciò che realmente è: ossia, un’essenza o un’entità spirituale.

 

 

È possibile risalire ad epoche nelle quali i pensieri erano vissuti immediatamente nell’”io”.

Ma là non erano ombre come oggi; né erano solamente viventi: erano permeati di anima e compenetrati di spirito.

Vale a dire cioè: l’uomo non pensava dei pensieri, ma sperimentava la percezione di concrete entità spirituali” (p. 71).

 

 

I pensieri erano vissuti “immediatamente” nell’Io,

quando non erano ancora “mediati” dal corpo astrale, dal corpo eterico e dal corpo fisico.

• Non erano pertanto “ombre come oggi”, in quanto mediati dal corpo fisico,

• né “solamente viventi”, in quanto mediati dal corpo eterico,

• ma erano “permeati di anima”, perché mediati dal corpo astrale,

e “compenetrati di spirito”, perché percepiti o sperimentati dall’Io.

 

 

Si troverà una simile coscienza, che eleva così lo sguardo a un mondo di entità spirituali, nei tempi preistorici di ogni popolo.

Quello che storicamente se ne è conservato si qualifica oggi come coscienza formatrice di miti,

e non le si attribuisce speciale importanza per l’intendimento del mondo reale. 

Eppure, con quella coscienza, l’uomo sta nel suo mondo, nel mondo della sua origine,

mentre con la coscienza di oggi egli si toglie da quel suo mondo.

L’uomo è spirito. E il suo mondo è quello degli spiriti” (p. 71).

 

 

Ciò che per noi deve essere, oggi, una consapevole ascesa, è viceversa stata, un tempo, una inconsapevole discesa.

Si tratta, sia chiaro, di un giudizio di fatto, e non di valore,

giacché senza tale discesa (la “felix culpa” di Agostino) mai avremmo raggiunto la libertà (“da”).

Scrive appunto Hegel: “Solo il bambino, l’animale sono innocenti, l’uomo deve commettere qualcosa” (5).

 

 

Un secondo gradino è quello in cui il pensiero non viene più vissuto dall’”io”, ma dal corpo astrale.

Qui la spiritualità immediata va perduta per la visione animica.

Il pensiero appare come cosa vivente permeata di anima.

Al primo gradino, quello della visione della concreta sostanzialità spirituale, (…)

I fenomeni sensibili del mondo si rilevano sì come le azioni di ciò che si contempla soprasensibilmente,

ma non si sente il bisogno di elaborare una scienza speciale di quello che è immediatamente percepibile allo “sguardo spirituale”.

Inoltre, ciò che appare come mondo degli esseri spirituali ha tale magnificenza,

da richiamare l’attenzione su di sé al di sopra di ogni altra cosa” (pp. 71-72).

 

 

Che cosa succede a questo secondo livello?

• Succede che l’uomo sperimenta la manifestazione animica dei pensieri, ma non più la loro essenza spirituale:

non più cioè lo spirito come “spirito”, ma lo spirito come “anima” o “qualità”.

• Per la “visione animica”, va così perduta la “spiritualità immediata”,

ma non ancora la sua anima, il suo suono, il suo profumo o il suo sapore (la sua “aura”).

 

• “I fenomeni sensibili del mondo – prosegue Steiner – si rilevano sì come le azioni di ciò che si contempla soprasensibilmente, ma non si sente il bisogno di elaborare una scienza speciale di quello che è immediatamente percepibile allo “sguardo spirituale”. Inoltre, ciò che appare come mondo degli esseri spirituali ha tale magnificenza, da richiamare l’attenzione su di sé al di sopra di ogni altra cosa”.

 

Che cosa cerchiamo, infatti, elaborando una scienza “di quello che è immediatamente percepibile” ai sensi, se non la sua legge o la sua essenza? Ma ne avremmo bisogno se questa fosse “immediatamente percepibile allo “sguardo spirituale””? No di certo. Non si cerca infatti ciò che si ha, ma ciò che non si ha o che si è perduto (non a caso, “desiderare” viene – dice lo Zingarelli – “dal lat. desiderare, letteralmente “cessare (de-) di contemplare le stelle (siderare da sidus, genit. sideris “stella”) a scopo augurale”, quindi “bramare””).

Fatto si è che quando l’esperienza spirituale è diretta, non c’è nient’altro da cercare (la parola greca alétheia significa “verità”, ma anche “reminiscenza” [a-Lete] o [come sottolinea in particolare Heidegger] “disvelamento”).

E’ da quando prende a scendere sugli occhi dell’anima il velo dell’oblio o della tenebra (avviando così il processo che porterà, più tardi, all’”età oscura”) che viene infatti colta, non l’essenza, ma solo la sua manifestazione.

 

 

Qui le concrete entità spirituali si nascondono; appare il loro riflesso, come vita permeata di anima.

Si comincia ad avvicinare “la vita della natura” a questa “vita delle anime”.

Si cercano negli esseri e nei processi della natura le entità spirituali operanti e le loro azioni.

In quella che sorse più tardi come ricerca alchimistica, è storicamente da vedersi una specie di “sedimento”

di questa tappa della coscienza” (p. 72).

 

 

Che cos’era l’alchimia? E’ presto detto: una chimica qualitativa

(ovviamente, nei suoi rappresentanti più seri o “visitati – per dirla con Steiner – dagli esseri elementari”).

 

Penso sappiate che una delle opere principali di Jung è intitolata: Psicologia e alchimia (6). Si tratta di un lavoro che ha il pregio di cogliere l’elemento qualitativo dell’alchimia, ma al contempo il difetto di ridurlo a fatto simbolico e psichico: di considerarlo cioè un elemento non appartenente alla natura, ma proiettato da noi (inconsciamente) sulla natura.

Niente di nuovo, perciò, dal momento che anche la scienza naturale confina e reclude la qualità nella sfera soggettiva dell’esperienza umana (“In natura – scrive Boncinelli – l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino. Ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione”) (7).

(Riguardo a questo cruciale aspetto della conoscenza scientifica, vi consiglio ancora di meditare il ciclo di conferenze di Steiner intitolato: Nascita e sviluppo storico della scienza) (8).

 

Quando gli alchimisti parlavano, ad esempio, del “sale”, del “mercurio” e dello “zolfo”, non pensavano, come faremmo noi, al sale da cucina, al mercurio che sta (o stava) nei termometri o allo zolfo delle solfatare, ma pensavano a tre diverse qualità presenti, sia nella natura, sia nell’essere umano, e rispettivamente caratterizzanti, in questo, i processi cefalici (corticali), i processi ritmici e quelli metabolici (non si dice ancor oggi, di qualcuno, che ha “sale in zucca” o “fuoco nelle vene”?).

Lo stesso si potrebbe dire riguardo ai cosiddetti “quattro elementi”: “fuoco”, “aria”, “acqua” e “terra”.

“Terra” stava infatti per le qualità del freddo e del secco;

“acqua” per le qualità del freddo e dell’umido;

“aria” per le qualità del caldo e dell’umido;

“fuoco” per le qualità del caldo e del secco.

 

Tali elementi rappresentavano dunque delle qualità presenti, sia nella natura, sia nel temperamento e, di riflesso, nel carattere dell’essere umano.

Pensiamo, in proposito, ai cosiddetti “presocratici” (leggendo, magari, La nascita della filosofia di Giorgio Colli) (9). Siamo sinceri: non ci sembra oggi assurdo che un Talete (uno dei “sette sapienti”) possa aver visto l’origine del mondo nell’acqua, o che un Eraclito possa averla vista nel fuoco?

Ma in tanto ci sembra assurdo in quanto siamo noi a non saper più vedere, nell’acqua, che la “cosa” con cui si lava e, nel fuoco, la “cosa” con cui si cuoce.

E’ solo dunque educando e sviluppando la coscienza ispirata ch’è possibile passare qualitativamente dalla natura all’uomo.

 

 

Come l’uomo, al primo gradino della coscienza, “pensando” esseri spirituali viveva ancora pienamente nel suo essere,

così, al secondo gradino, egli è ancora vicino a sé stesso e alla sua origine.

Ma con ciò, a entrambi questi gradini, rimane escluso che in senso vero e proprio

l’uomo possa arrivare ad un suo proprio impulso interiore all’azione.

In lui agisce un elemento spirituale, a lui affine. Quello che egli sembra fare,

è la rivelazione di processi che si svolgono per mezzo di esseri spirituali.

Ciò che l’uomo fa è la manifestazione sensibile-fisica di un reale operare divino spirituale che sta dietro” (p. 72).

 

 

Abbiamo detto, altre volte, che

il vero Io è l’essenza dell’anima

• e che la vera anima è la manifestazione dell’Io (“il Signore è con te”).

E’ in ragione di questo loro legame, ad esempio, che, durante il sonno,

si trovano tutti e due separati, al di là della soglia, dal corpo eterico-fisico.

 

Può aiutarci a cogliere la loro differenza

• l’associare all’idea dell’essenza quella del suono   •  e all’idea della manifestazione quella del colore.

 

Sentite che cosa dice Steiner:

“Dall’immagine colorata parla il suono, si percepisce un risuonare. In questo momento l’uomo ha raggiunto il devachan, si trova nel vero mondo spirituale (…) Il pittore dipinge colori astrali. Il musicista, invece, fa risuonare il mondo devachanico dentro il mondo terrestre (…) Nel devachan noi siamo nella nostra patria, là vive qualcosa di eterno, e quando all’uomo vien dato quaggiù qualcosa che proviene dalla patria d’origine non deve meravigliare se egli ne venga afferrato. Perciò l’influenza della musica è così grande anche sull’uomo più semplice, il quale non ha la più lontana idea di quello che, nelle note della musica, gli parla dicendo: “Io sono te, e tu sei della mia specie”” (10).

 

“A entrambi questi gradini” non è naturalmente possibile alcuna libertà,

poiché la volontà dell’uomo è ancora “la manifestazione sensibile-fisica” del volere degli “esseri spirituali”.

Perché la libertà diventi possibile, occorre scendere più in basso.

 

 

Una terza epoca dell’evoluzione della coscienza porta alla coscienza i pensieri, ma come pensieri viventi, nel corpo eterico.

Quando la civiltà greca era grande, essa viveva in questo stato di coscienza.  Quando il Greco pensava,

egli non formava pensieri mediante i quali, come con una costruzione sua propria, egli guardasse il mondo.

Il Greco sentiva vita suscitarsi in lui, vita che pulsava anche al di fuori, nelle cose e nei processi del mondo.

Sorse allora per la prima volta l’anelito alla libertà del proprio operare.

Non è ancora vera libertà, ma anelito alla libertà” (p. 72).

 

 

• Come siamo scesi prima dall’essenza (dall’Io) alla qualità (all’anima o al corpo astrale),

• così scendiamo adesso (varcando la soglia) dalla qualità alla vita (al corpo eterico).

 

Precisa Steiner che,

a questo livello (quello della “civiltà greca”), non si ha “ancora vera libertà, ma anelito alla libertà”.

 

Non ci è facile immaginarlo, giacché siamo abituati a pensare, da materialisti, che Socrate o Platone, per il solo fatto di avere una testa, due braccia e due gambe, fossero come noi. Ma non è così; diversa era la loro percezione del mondo (sensibile) e diversa, soprattutto, era la loro anima: la loro esperienza del pensiero era infatti accompagnata da sensazioni e sentimenti che la rendevano viva e pregnante.

Ad esempio, il “concetto” di Socrate e il “mondo delle idee” di Platone non erano, come per noi, “soltanto” dei concetti o delle idee (magari pure peregrine), ma delle realtà vive e corpose che toccavano e coinvolgevano l’anima (al punto che Socrate, come si racconta, sperimentando la realtà del concetto, andava in estasi).

Stentiamo però a crederlo, perché le nostre anime si sono inaridite, e sono divenute per ciò stesso incapaci di accompagnare con la loro vita non solo la vita dello spirito, ma anche, paradossalmente (per dei materialisti), quella del corpo: per quale ragione, altrimenti, si farebbe tanto uso, oggigiorno, di stimolanti, eccitanti o droghe?

 

Dice Steiner:

“Sorse allora per la prima volta l’anelito alla libertà del proprio operare.

Non è ancora vera libertà, ma anelito alla libertà”.

 

Attraversata la soglia, l’esperienza dello spirito viene mediata, non più dal corpo astrale, ma dal corpo eterico

(tanto intimo, come sappiamo, al corpo fisico quanto il corpo astrale lo è all’Io).

Siamo, come abbiamo detto, nella quarta epoca di cultura (quella greco-latina): ormai prossimi quindi alla nostra,

che, in nome appunto della libertà (“da”), si spinge ancora più in basso, raggiungendo così il piano fisico.

 

 

“ Solo quando i pensieri assunsero la loro impronta nel corpo fisico,

e la coscienza si limitò unicamente a tale impronta, sorse la possibilità della libertà.

Questa è la condizione esistente dal secolo quindicesimo dopo Cristo.

Nell’evoluzione del mondo, quello che importa

non è il valore che possono avere le idee dell’odierna concezione della natura di fronte alla natura;

tali idee non hanno infatti assunto le loro forme per fornire una determinata immagine della natura,

ma per condurre l’uomo ad un determinato gradino della sua evoluzione” (p. 73).

 

 

Eccoci dunque arrivati al taglio del “cordone” che legava l’uomo al mondo spirituale, e per ciò stesso

alla nascita della moderna anima cosciente (1413) e, insieme, della scienza e della “possibilità della libertà”.

“Questa – dice appunto Steiner – è la condizione esistente dal secolo quindicesimo dopo Cristo”.

 

Sarà bene ricordare, tuttavia, che si tratta di una mutazione o di un salto evolutivo che molti, a tutt’oggi, non riescono ancora a digerire (“Il sacrificio di Cristo – scrive Berdjaev – non consiste nel riscatto del peccato e in un rabbonimento di Dio Padre, ma nel miracoloso cambiamento della natura umana nella prospettiva della perfezione”) (11).

Ne volete qualche esempio? Bene, leggete allora Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola (12), oppure La crisi del mondo moderno di René Guénon (13), oppure ancora Memoria e identità di Giovanni Paolo II (14).

In quest’ultimo si sostiene esplicitamente che le “ideologie del male” (il comunismo, il fascismo, il nazismo, nonché lo scientismo e l’utilitarismo) sono radicate nella modernità, e in particolare nel fatto che, a partire da Cartesio, si è venuta sostituendo, alla filosofia dell’esse (all’ontologia), la filosofia del cognosco (la gnoseologia): cioè, al “cogito, ergo Deus est”, il “cogito, ergo sum”.

Ne ho parlato in un articolo di un paio d’anni fa, e non starò pertanto a ripetermi (15).

 

Da una parte, abbiamo dunque gli avversari della modernità e, dall’altra, i suoi fautori o difensori. Dal momento, però, che la modernità viene identificata da entrambi col materialismo, i primi si vedono costretti a rigettare la modernità in nome dello spirito, mentre i secondi si vedono costretti a rigettare lo spirito in nome della modernità.

Tanto i cosiddetti “conservatori”, quanto i cosiddetti “progressisti”, non riescono dunque a comprendere (come osserva Scaligero) il fine perseguito dallo spirito mediante l’esperienza della modernità e del materialismo.

E qual è questo fine? Quello, come dice Steiner, di “condurre l’uomo ad un determinato gradino della sua evoluzione”: al grado appunto dell’autocoscienza e della libertà (“da”).

Sono perciò “conservatori” quelli che rigettano la modernità in nome dello spirito, ma lo sono anche quelli che, rigettando lo spirito in nome della modernità, mostrano di non voler portare avanti la loro evoluzione, redimendo (come fa invece Goethe) Faust: passando, cioè, dalla prima fase di sviluppo (scientifico-naturale) dell’anima cosciente, alla seconda (scientifico-spirituale).

 

Stiamo dunque attenti a non farci coinvolgere e ingannare dai dibattiti o dalle polemiche “culturali” che ci vengono presentate o proposte un giorno sì e l’altro pure, giacché non si tratta che di scontri “dialettici” (Scaligero) tra i “conservatori” del passato (“Semper idem” era il motto episcopale del cardinale Alfredo Ottaviani) e i “conservatori” del presente.

Dovremmo sapere, infatti, che il solo vero “progresso”, o il solo vero movimento verso l’avvenire, consiste nello sviluppo della nostra coscienza, volto a integrare l’ordinaria visione intellettuale della realtà con quella immaginativa, ispirata e intuitiva.

 

Ma torniamo a noi.

“Solo quando i pensieri assunsero la loro impronta nel corpo fisico – dice Steiner -,

e la coscienza si limitò unicamente a tale impronta, sorse la possibilità della libertà”.

 

A quale prezzo abbiamo dunque ottenuto la “possibilità della libertà”? A prezzo della morte del pensiero.

Eclissatisi (nell’ordine) lo spirito, l’anima e la vita, del pensiero non ci è rimasta infatti che la spoglia.

Si dice: “Quando il gatto non c’è, i topi ballano”: ed ecco che, sparito il “gatto” dello spirito,

gli uomini hanno cominciato appunto a “ballare”: a esprimere, cioè, la loro volontà.

• Un tempo, il pensiero era colmo della volontà dello spirito, adesso, invece, è una forma vuota

che si presta, come tale, a essere riempita dalla forza del volere umano individuale.

 

“Nell’evoluzione del mondo – dice Steiner -, quello che importa non è il valore che possono avere le idee dell’odierna concezione della natura di fronte alla natura; tali idee non hanno infatti assunto le loro forme per fornire una determinata immagine della natura, ma per condurre l’uomo ad un determinato gradino della sua evoluzione”.

 

Ciò significa che la visione materialistica (naturalistica o positivistica) del mondo

non risponde alle esigenze del mondo (alla sua verità),

bensì a quelle di una particolare fase (quella dell’”età oscura”) della nostra evoluzione.

 

 

Quando i pensieri afferrarono il corpo fisico, dal loro immediato contenuto furono cancellati spirito, anima e vita;

è rimasta soltanto l’ombra astratta che è attaccata al corpo fisico.

Tali pensieri possono fare oggetto della loro conoscenza solo oggetti fisico-materiali,

perché essi medesimi sono reali soltanto se legati al corpo fisico-materiale dell’uomo” (p. 73).

 

 

Ricordate che cosa abbiamo detto una sera (massima 14)?

Che come potremmo credere, specchiandoci, che la nostra immagine, in quanto “attaccata” allo specchio, appartenga allo specchio, così potremmo credere, pensando, che la rappresentazione, in quanto “attaccata al corpo fisico”, appartenga al cervello.

Il che è quanto credono, come sapete, gli odierni neurofisiologi.

 

Non è singolare, tuttavia, che chi si dicesse oggi convinto che la Luna brilla di luce propria, e non di luce riflessa, verrebbe considerato uno “sprovveduto”, mentre chi si dice oggi convinto che il cervello pensa, e non che riflette il pensiero (fornendocene appunto “l’ombra astratta che è attaccata al corpo fisico”), viene considerato un “provveduto”?

 

“Tali pensieri – dice Steiner – possono fare oggetto della loro conoscenza solo oggetti fisico-materiali,

perché essi medesimi sono reali soltanto se legati al corpo fisico-materiale dell’uomo”.

 

Sono dunque tali pensieri ad aver permesso la nascita della scienza del mondo inorganico.

Similia similibus: i pensieri morti possono conoscere solo le cose morte.

E’ proprio da questi pensieri, tuttavia, che devono risorgere la vita, l’anima e lo spirito.

 

Voglio leggervi, al riguardo, un sogno fatto (nella notte tra l’1 e il 2 febbraio del 1933) dal celebre psicoanalista junghiano Ernst Bernhard.

“In una grotta dentro la roccia, sottoterra, Cristo viene martoriato su un tavolo di pietra (…) Gli vengono spezzate le gambe (…) Io sto a un capo del tavolo come uno che osserva, e mi chiedo come sia possibile sopportare tali tormenti. Guardo il suo viso e con mio sollievo constato che è svenuto. Dopo qualche tempo il martirio è cessato. Gesù si alza a sedere sul tavolo e gli portano qualcosa da mangiare, maccheroni crudi in una scodella, che egli inghiotte con l’avidità di un affamato. Tale volontà di vita mi appare sorprendente: non si mangia così quando si è pronti a morire. E infatti egli si riprende sempre più. Ora la moltitudine di ebrei che ha assistito al martirio con una sempre crescente ostilità verso Pilato, lo incita a dare a Gesù il bacio fraterno. Pilato accetta e si avvicina a Gesù. In quel momento la scena muta: i due stanno l’uno accanto all’altro davanti alla parete rocciosa della caverna, illuminati da una luce soprannaturale, in pacata compiuta corrispondenza, e s’assomigliano come un uovo all’altro, indistinguibili” (16).

 

Ebbene, domandiamoci: ma chi è questo “Cristo” cui vengono spezzate le gambe, nonostante Giovanni dica: “Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo [dei due ladroni] e poi all’altro che era stato crocifisso insieme con lui. Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua”; e aggiunga: “Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso” Gv 19, 32-33 e 36)?

Ma chi è questo “Cristo” che non solo non si distingue dall’uomo Gesù e riceve, col favore della folla (rappresentante lo spirito vetero-testamentario), un bacio da Pilato (rappresentante lo spirito pagano), ma che arriva perfino a fondersi con lui (illuminato “da una luce soprannaturale”)?

Ma chi è, soprattutto, questo “Cristo” che non muore (ma si butta anzi con avidità sui maccheroni crudi), e che, non morendo, non risorge: che non facendo cioè esperienza del Golgota, non fa esperienza della morte e della resurrezione?

 

A voi l’onere della risposta. Io vi ho letto questo sogno soltanto perché mostra, con rara efficacia (e a prescindere da altro), che un conto è la vita che non muore (“non si mangia così quando si è pronti a morire”), altro la vita che muore e risorge.

Abbiamo già visto, del resto, ch’è Lucifero ad amare la vita e a fuggire la morte, e ch’é Arimane, invece, ad amare la morte e a fuggire la resurrezione.

 

Il che significa, tornando a noi, che

Lucifero avversa, guardando al passato, il morto pensiero moderno,

• mentre Arimane avversa, guardando al presente, il tentativo di far risorgere, da quello morto,

un vivo pensiero moderno (di far cioè risorgere, da Lazzaro, Giovanni).

 

 

Il materialismo non è sorto perché nella natura esterna vi sono da percepire solamente esseri e processi materiali,

ma perché l’uomo, nella sua evoluzione, doveva sperimentare una tappa che lo conducesse dapprima

ad una coscienza capace di contemplare soltanto delle manifestazioni materiali.

L’elaborazione unilaterale di questo bisogno dell’evoluzione umana produsse la concezione della natura dell’epoca moderna” (p.73).

 

 

Per un materialista, tutto finisce con la morte. Ciò non gli impedisce tuttavia di vivere, lottare, sperare, gioire e soffrire come se tutto viceversa non finisse.

Occorre molta forza per vivere così (ricordate Leopardi: “Se la vita è sventura, perché da noi si dura?”): più di quanta ne occorra, in ogni caso, a chi “crede” che dopo la morte lo attendono le consolazioni e le gioie del paradiso (osserva Berdjaev: “I rivoluzionari russi che si ispiravano alle idee di Černyševskij proponevano un interessante dilemma filosofico: i migliori fra loro accettarono durante la vita terrena le persecuzioni, l’indigenza, la reclusione, l’esilio, i lavori forzati, l’esecuzione, senza riporre nessuna speranza in un’altra vita, nella vita ultraterrena. Il confronto risultava estremamente sfavorevole per i cristiani dell’epoca, che avevano molto a cuore i beni della vita terrena e facevano conto sui beni della vita celeste”) (17).

Tale forza è la forza dell’uomo moderno (della “eroica e amorosa e dolorosa creatura umana”, dice Teodoro Celli) (18): cioè di un individuo (di un Io) autocosciente che non teme, come si usa dire, di pensare con la propria testa e di camminare con le proprie gambe.

 

A ben vedere (e spesso a dispetto delle apparenze), nel sentire dei conservatori o dei credenti (così come in quello di quanti ritornano nell’uno o nell’altro “ovile”) c’è in effetti un che d’immaturo e di tremulo: una sorta di paura di crescere, di separarsi (o di restare separati) dai genitori, dalla famiglia o dal collettivo (extra ecclesiam nulla salus), e di rimanere così soli (dice però il Cristo: “Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me” – Mt 10, 37).

Osserva ancora Berdjaev: • “L’uomo è terribilmente stanco ed è pronto ad appoggiarsi su qualunque tipo di collettivismo, dentro il quale la sua individualità sia definitivamente destinata a sparire. L’uomo non riesce più a sopportare la propria solitudine” (19).

L’esperienza della solitudine dell’ego (“il peccato pone il singolo”, dice Kierkegaard) non va però evitata, ma affrontata e vinta con coraggio e con amore.

 

Dice Steiner che il materialismo è sorto “perché l’uomo, nella sua evoluzione, doveva sperimentare una tappa

che lo conducesse dapprima ad una coscienza capace di contemplare soltanto delle manifestazioni materiali”.

Questo stesso uomo potrebbe dunque dirsi:

“Dal momento che le manifestazioni materiali non fanno che rivelare qualcosa d’immateriale,

voglio arrivare a conoscere questo qualcosa con una determinazione e un amore ancora più forti

di quelli che mi hanno permesso di conoscerne le manifestazioni materiali”.

 

 

La missione di Michele è di recare ai corpi eterici degli uomini le forze mediante le quali i pensieri-ombra riacquistino vita;

allora, sui pensieri vivificati, si chineranno anime e spiriti dei mondi soprasensibili; l’uomo liberato potrà vivere con loro,

come un tempo era vissuto con loro l’uomo che era soltanto l’immagine fisica delle loro azioni” (p. 73).

 

 

Vedete, • è vero che la soglia di cui solitamente parliamo (Janua coeli)

è quella che divide il corpo fisico e quello eterico (i corpi spazio-temporali o esistenziali)

dal corpo astrale (animico) e dall’Io (spirituale),

• ma è anche vero che la prima soglia che siamo chiamati ad attraversare

è quella che divide il corpo fisico da quello eterico,

per poter così ricevere, da Michele, “le forze mediante le quali i pensieri-ombra riacquistino vita”.

 

Devo purtroppo dire, per esperienza, che non sempre nel “mondo antroposofico” ci si ricorda di questo. Vi è infatti una certa tendenza a voler passare direttamente dal piano fisico ordinario (essoterico) a quello astrale (esoterico), trascurando, di fatto, quello eterico (essoterico-esoterico o, come dice Steiner, “sensibile-sovrasensibile”) (20).

Il che può forse apparire gratificante, ma proprio per il fatto che appaia tale dovrebbe insospettire.

 

Che cosa abbiamo visto infatti, a suo tempo (massima 13)?

Che al grado della coscienza immaginativa (eterica) corrisponde, dice Steiner, “un sentimento vasto – direi cosmico, di gioia, interiormente completamente sperimentato”, mentre a quello della coscienza ispirata (astrale) corrisponde “un dolore animico altrettanto vasto”, “una sofferenza animica altrettanto generale”, giacché si sperimenta l’”isolamento” quale frutto di un processo di “divisione” o, ricordo di aver aggiunto, di “differenziazione”.

 

Teniamo presenti, al riguardo, due cose:

 

a) Ernst Bindel, nel suo studio sugli elementi spirituali dei numeri [21], mette in rapporto

il corpo fisico con la somma e la sottrazione,

il corpo eterico con la moltiplicazione

e il corpo astrale, per l’appunto, con la divisione;

 

b) Karl König, nel suo L’anima umana, afferma:

“Il dolore è luce” [22]. Dal momento che la luce è collegata al corpo astrale,

e che il corpo astrale è collegato alla coscienza ispirata, possiamo dire: “Il dolore è la coscienza ispirata”.)

 

Che cosa significa, allora, provare piacere laddove si dovrebbe provare viceversa dolore?

E’ presto detto: significa illudersi di essere sul piano animico,

mentre si è ancora (come sempre) su quello psichico (dominato appunto, direbbe Freud, dal “principio del piacere”).

 

Non c’è però da rilassarsi o ricrearsi, bensì da lottare. Michele non è infatti un animatore, un coach, un counselor o un personal trainer, ma il principe delle milizie celesti. C’è da capire, insomma, che la lotta spirituale è una lotta drammaticamente seria, come drammaticamente serio, dirà Steiner, è il volto e lo stato d’animo di Michele.

(Scrive Berdjaev: “La guerra materiale è solo il manifestarsi di una guerra spirituale. E tutto il compito sta nel far sì che in questo turbine mondiale si conservi l’immagine dell’uomo, l’immagine del popolo e l’immagine dell’umanità, così che sia possibile il sorgere di una vita creativa più alta” [23].)

 

Dal momento, inoltre, che Michele è il “Cavaliere della Vergine”, come si può sperare di avere accesso al regno (astrale) dell”Ave”, senza aver preso le giuste distanze, con il suo aiuto, da quello ordinario dell’”Eva”?

Diciamola tutta: la via che non passa per Michele (per “il fiammeggiante principe del pensiero”), non porta alla Vergine, ma a Lucifero.

 

“Sui pensieri vivificati – conclude Steiner – , si chineranno anime e spiriti dei mondi soprasensibili; l’uomo liberato potrà vivere con loro, come un tempo era vissuto con loro l’uomo che era soltanto l’immagine fisica delle loro azioni”.

 

Non facciamoci dunque illusioni: è solo “sui pensieri vivificati” che possono chinarsi la Vergine e il Cristo.

Eccoci arrivati così alle massime. Mi limiterò a leggerle, giacché riassumono quanto abbiamo detto commentando la lettera.

 

Massime 103 – 105 (12 ottobre 1924)

 

 

103 – “Nell’evoluzione dell’umanità la coscienza discende lungo i gradini dello sviluppo del pensiero.

• Si ha una prima tappa della coscienza:

qui l’uomo sperimenta i pensieri nell’”io” come entità compenetrata di spirito, di anima, di vita.

• In una seconda tappa l’uomo sperimenta i pensieri nel corpo astrale;

qui essi rappresentano soltanto le immagini riflesse, compenetrate di anima e di vita, delle entità spirituali.

• In una terza tappa l’uomo sperimenta i pensieri nel corpo eterico;

qui essi rappresentano soltanto un’attività interiore, come eco di un elemento animico.

• Nella quarta tappa, quella di oggi, l’uomo sperimenta i pensieri nel corpo fisico;

qui essi rappresentano ombre morte dello spirito”.

 

 

 

104 – “Nella stessa misura in cui l’elemento spirito-anima-vita si ritrae dal pensare umano,

sorge la volontà propria dell’uomo; la libertà diventa possibile“.

 

 

 

105 – “È compito di Michele il ricondurre l’uomo sulle vie della volontà là donde è venuto,

quando è disceso con la sua coscienza terrena, sulle vie del pensare,

dall’esperienza del soprasensibile a quella del sensibile”.

 

 


 

Note:

  1. R.Steiner: Il ponte fra la spiritualità cosmica e l’elemento fisico umano. La ricerca della nuova Iside, la divina Sophia – Antroposofica, Milano 1979, pp. 166-167;
  2. cfr. Uomo “in potenza” e uomo “in atto”, 29 maggio 2005;
  3. R.Steiner: La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p. 238;
  4. R.Steiner: Verità e scienza. Proemio di una filosofia della libertà in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, p. 177;
  5. cit. in L.F.Földényi: Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere – il melangolo, Genova 2009, p. 35;
  6. cfr. C.G.Jung: Psicologia e alchimia – Astrolabio, Roma 1950;
  7. cfr. Il cervello, la mente e l’anima, 12 dicembre 2001;
  8. cfr. R.Steiner: Nascita e sviluppo storico della scienza – Antroposofica, Milano 1982;
  9. cfr. G.Colli: La nascita della filosofia – Adelphi, Milano 1975;
  10. R.Steiner: L’essenza della musica e l’esperienza del suono nell’uomo – Antroposofica, Milano 1973, pp. 46, 48 e 49;
  11. cit. in A.dell’Asta: prefazione a N.Berdjaev: Il senso della creazione – Jaca Book, Milano 1994, p. XXXVI;
  12. cfr. J.Evola: Rivolta contro il mondo moderno – Bocca, Milano 1951;
  13. cfr. R.Guénon: La crisi del mondo moderno – Mediterranee, Roma 1994:
  14. cfr. Giovanni Paolo II: Memoria e identità – Rizzoli, Milano 2005;
  15. cfr. L’esse e il cogito, 20 marzo 2005;
  16. E.Bernhard: Mitobiografia – Adelphi, Milano 1969, p. 4;
  17. N.Berdjaev: L’idea russa – Mursia, Milano 1992, p. 131;
  18. T.Celli: L’anello del Nibelungo – Rusconi, Milano 1983, p. 75;
  19. N.Berdjaev: Nuovo Medioevo – Fazi, Roma 2004, p. 7;
  20. cfr. Sergej Prokofieff e La filosofia della libertà, 18 ottobre 2007 e Ancora su Prokofieff e La filosofia della libertà, 18 settembre 2009;
  21. cfr. E.Bindel: Les éléments spirituels des nombres – Payot, Paris 1960;
  22. K.König: L’anima umana – Natura e cultura, Alassio (SV) 1996, p. 36;
  23. N.Berdjaev: Pensieri controcorrente – La Casa di Matriona, Milano 2007, p. 76.