L’arte è una via per la manifestazione terrena dello spirito in forme, colori, parole e suoni.

O.O. 276 – La missione universale dell’arte – 03.06.1923


 

Sommario: L’arte è una via per la manifestazione terrena dello spirito in forme, colori, parole e suoni. Lotta umana nell’arte per l’accordo fra la sfera divino-spirituale e quella fisico-terrena. Arte romantica e arte classica. Il modo di trattare le forme. Ludwig Tieck. Winckelmann e il libro di Goethe su Winckelmann. La ricerca di una apertura della vita spirituale nel presente.

 

Le ultime due conferenze erano in sostanza dedicate ai diversi campi dell’attività artistica e del sentire artistico degli uomini. Le tenni in quel modo, perché volevo mettere in rilievo come la maniera particolare di guardare il mondo, con la quale si riesce ad approfondirlo antroposoficamente, può anche condurre a un’interiore ed elementare vivificazione dell’arte nella civiltà del presente e dell’avvenire. Ieri a conclusione ho voluto far notare come, poiché grazie alla concezione antroposofica si perviene ad acquisire una diretta relazione con lo spirito, si acquisiscono di nuovo le forze spirituali che devono esistere affinché nasca una vera arte, forze che sempre furono presenti quando, movendo direttamente dall’uomo, nelle diverse epoche agiva la vera arte.

 

La vera arte da un lato può esistere solo accanto alla vera conoscenza, e dall’altro accanto a una vera vita religiosa dell’umanità. Grazie alla conoscenza e alla religione in un certo senso l’uomo si avvicina spiritualmente ai pensieri, ai sentimenti e alla volontà in un modo che, appunto durante il periodo che si trascorre sulla terra fra nascita e morte, grazie a una conoscenza e a una religione vissute nell’interiorità si sente come avvenga per così dire quel che descrissi nelle conferenze di ieri e dell’altro ieri. Quando vediamo la natura esterna che ci circonda dobbiamo dirci che essa è affine a quanto di fisico è in noi, che comunque non esaurisce il nostro essere uomini. In ogni epoca artistica e veramente religiosa l’uomo sempre se lo disse: sono inserito nell’esistenza terrena, ma in modo che essa contraddice tutta l’essenza della mia umanità. D’altra parte l’uomo deve dirsi che il suo essere porta in sé l’immagine che deve essere il risultato di un altro o di altri mondi, diversi da quello che egli vive fra nascita e morte.

 

Esaminiamo il sentimento che ho appena caratterizzato appunto nella prospettiva antroposofìca riguardo alla conoscenza.

Per la conoscenza noi vogliamo penetrare nei segreti, negli enigmi dell’esistenza universale. L’umanità moderna è anzi molto fiera delle sue conoscenze sulla natura esterna. Nel campo di tale conoscenza si può certo dire che da tre o quattro secoli l’umanità moderna ha davvero fatto enormi progressi. All’osservazione umana si presentano magnifici nessi naturali. Tuttavia, proprio in merito a tali conoscenze la scienza attuale, se riflette sulla sua essenza, deve dirsi con la massima intensità che in sostanza nell’osservazione del mondo, con quel che si arriva a conoscere con il corpo fisico attraverso i sensi, si perviene appunto soltanto alla porta delle connessioni universali che esclude la conoscenza dei segreti e degli enigmi dell’universo. Dall’approfondimento dell’antroposofia sappiamo poi che è possibile attraversare quella porta per entrare veramente nella sfera in cui si può acquisire una visione di quel che vi è dietro il mondo dei sensi; la sfera alla quale si perviene per le vie che portano oltre quella porta presenta all’inizio per l’uomo un certo pericolo interiore, per cui occorre arrivarvi con un’interiore sicurezza nei pensieri, nei sentimenti e nella volontà. Il passaggio attraverso quella porta viene anche chiamato il passare davanti al Guardiano della soglia. Quando si intenda acquisire una vera conoscenza delle basi divino-spirituali del mondo, occorre far presente che si devono superare pericoli, che cioè nelle condizioni naturali in cui si è fra la nascita e la morte non è senz’altro possibile superare la porta che conduce nel mondo spirituale.

 

Si indica così con la massima serietà quella che in verità si può chiamare conoscenza. Viene così anche indicato che in certo modo esiste un abisso fra il mondo solo naturale e quello che dobbiamo cercare se vogliamo entrare nella nostra vera patria, se vogliamo sapere con che cosa è collegato il nostro intimo essere col quale nel mondo solo naturale dobbiamo sentirci estranei. Vi è cioè un abisso fra il nostro intimo essere e il conoscere ove esso si trova. Quando infatti attraverso la nascita entriamo nell’esistenza fisica portiamo naturalmente con noi nella vita terrena il nostro eterno essere divino. Se tuttavia vogliamo conoscere il nostro essere nel mondo troviamo un abisso fra la nostra vita terrena e le sfere della conoscenza che dobbiamo percorrere per riconoscere il nostro essere.

 

Da un lato la vera idea della conoscenza fa presente con precisione quale serietà occorra di fronte al mondo spirituale e alla ricerca delle relazioni verso di esso. Dall’altro non esisterebbe l’uomo religioso come tale se l’esistenza terrena fosse senz’altro soddisfacente, se la realtà fosse come per diversi aspetti sogna il naturalismo moderno, secondo cui l’uomo è soltanto la cima più alta dei fenomeni di natura. Non esisterebbe affatto l’uomo religioso se così fosse, perché allora egli sarebbe soddisfatto della sua esistenza terrena. La religione muove però da tutt’altre premesse che dall’essere soddisfatta dell’esistenza terrena. La religione o ci consola dell’esistenza terrena, oppure propone agli uomini qualcosa che sia un compenso all’esistenza terrena. Oppure ancora tende a risvegliare l’uomo dalla semplice esistenza terrena per fargli sentire in una specie di risveglio che egli è qualcosa di più di quel che può prospettargli la sola esistenza terrena.

 

L’approfondimento antroposofico tende a risvegliare in entrambe le direzioni un forte sentimento, una forte sensazione, sia nel senso della conoscenza, sia in quello dell’esperienza religiosa. Verso la conoscenza, indicando che occorre percorrere un cammino che nobiliti e purifichi prima di dover attraversare la porta del mondo spirituale. Anche per la vita religiosa l’antroposofia fa presente come essa allontani dai soli fatti che si svolgono nell’abituale coscienza terrena. L’antroposofia considera infine il mistero del Golgota, l’apparizione del Cristo Gesù sulla terra, come un evento da comprendere in senso soprasensibile fra gli altri eventi storici che si svolgono nel mondo e che sono da comprendere con i sensi.

 

L’uomo vive per così dire di fronte all’abisso che gli si apre davanti per la conoscenza e secondo la religione; certo è da superare per i contenuti religiosi, non però durante la vita terrena, e per i contenuti conoscitivi non con la stessa coscienza che ci è data solo per la terra. Qui si presenta appunto l’arte per avere nell’ambito dell’evoluzione terrestre qualcosa che superi diretta- mente quell’abisso anche per l’esistenza terrena. Di conseguenza la vera arte non può altro che essere cosciente che da un lato ha da portare la vita divino-spirituale sulla terra, e dall’altro strutturare la vita fisico-terrena in modo che nelle sue forme, nei suoi colori, nelle parole e nei suoni possa apparire come una manifestazione terrena della sfera extraterrena. Ed è indifferente che l’arte sia colorata più in modo idealistico o realistico. L’arte richiede una relazione con lo spirito, con lo spirito reale, e non solo con lo spirito pensato. L’artista non riuscirebbe a creare con la sua materia, se in lui non vivesse l’impulso che proviene dal mondo spirituale. Con questo si indica in pari tempo la serietà del lavoro artistico, accanto alla serietà della conoscenza e della vita religiosa. Non si può negare che per molti aspetti il nostro mondo materialistico e l’umanità si siano allontanati dalla serietà nell’arte. Ogni aspetto della creazione artistica, che nel vero senso della parola merita questo nome, ci mostra nell’opera d’arte anche la lotta umana per un accordo, un’armonia fra la sfera spirituale-divina e quella fisico-terrena. Quando nell’artista non traspare quella lotta non è presente un vero impulso artistico. Si potrebbe dire che questo grande problema dell’arte si presentò in tutta la sua serietà all’umanità a un certo livello della sua evoluzione. Da ultimo si presentò in grande stile nell’evoluzione del mondo in ciò che viveva al tempo di Goethe e di Schiller. Caratterizzava quel tempo proprio la lotta per un accordo, per un’armonia fra la sfera divino-spirituale e quella fisico-sensibile. Per confermarlo basta soltanto gettare uno sguardo alla lotta di Goethe e a quella di Schiller. In tutto il complesso delle nostre considerazioni fatte nel corso degli anni ne abbiamo parlato parecchio. Oggi desidero soltanto accennare a qualcosa per suggerire la caratteristica di fondo.

 

Ai tempi di Goethe e Schiller la differenza fra arte romantica e arte classica, argomento da loro stessi toccato, si presenta come orientamento di idee. Per così dire Goethe si presentò come il seguace di un’arte classica. Voleva diventare un vero cultore dell’arte classica, immedesimandosi in ciò che ancora potevano mostrargli i veri segreti della grande arte greca. Col suo viaggio in Italia voleva appunto immedesimarsi nei segreti dell’arte greca. Il suo viaggio in Italia fu per lui l’adempimento di una aspirazione. Nel suo ambiente nordico non sentiva per così dire la possibilità di accordare artisticamente la sfera divino-spirituale, che da un lato si librava davanti alla sua anima, e quella fisico-sensibile che dall’altro lato appunto gli si presentava ai sensi. Quando da Weimar partì per l’Italia, nella visione di quel che credeva di sentire dell’arte greca attraverso le opere artistiche italiane, cercava di armonizzare quel che ancora non lo era. In un senso più profondo fa l’impressione di qualcosa di eroico e di commovente; devo qui usare un’espressione paradossale, ma non ne trovo altre se in effetti intendo indicare quel che egli perseguiva col suo viaggio in Italia.

 

Goethe è un seguace dell’arte classica, volendo dirlo con le parole che ridanno molto bene la sua idea, nel senso che anzitutto il suo sguardo era indirizzato al vero aspetto esterno e sensibile delle cose. Era però uno spirito troppo profondo per non sentire che quell’aspetto non corrispondeva alla patria che l’uomo deve cercare seguendo la sua anima. E un aspetto che va purificato, metamorfosato.

 

Come artista Goethe cercava così di riunire nelle forme della natura e nelle azioni umane ciò di cui credeva, anche se si manifesta in modo imperfetto nella sfera fisico-sensibile, attraverso una presentazione adeguata e senza essere infedele all’aspetto fisico-sensibile, che dovesse apparire la sfera divino-spirituale attraverso la forma sensibile metamorfosata, purificata. L’energica aspirazione di Goethe non era cioè di accogliere con leggerezza nelle sue parole l’elemento divino-spirituale, di esprimerlo con leggerezza in linee o in altro modo; era infatti sempre convinto che, parlandone in una forma romantica, fosse abbastanza facile, accennandolo ma non esaurendolo, non completandolo, portare l’elemento divino-spirituale nella vita terrena. Goethe non voleva annunciare: gli dèi vivono, facendo sul piano terreno una presentazione più o meno simbolica e dimostrando così di credere che essi vivono.

 

Non lo voleva, non aveva una sensazione del genere. Ne aveva piuttosto un’altra: osservo le pietre, osservo le piante, osservo gli animali, percepisco le azioni degli uomini; sono per me figure che sono discese dalla sfera divino-spirituale e che magari ne sono lontane; se però vedo come nella forma che mi viene incontro sul piano terreno, come nel colore che mi viene incontro sul piano fisico, appare un riflesso divino-spirituale devo comunque poter trattare quella forma e quel colore in modo da renderli tali che possano rappresentare nella loro essenza l’elemento divino-spirituale. Goethe sentiva di non dover essere infedele alla natura, ma di doverla soltanto purificare nella rappresentazione artistica in modo che diventasse nella sua essenza l’espressione del divino-spirituale. Questa era per Goethe classicità. Stimava che questo fosse stato l’impulso principale dell’arte greca, che soprattutto questa fosse la vera arte.

 

Una personalità come quella di Schiller non poteva seguire quell’orientamento di idee, perché il suo sguardo era indirizzato idealisticamente al mondo divino- spirituale. Egli trattava quel che vi era nel mondo fisico-sensibile solo come un’opportunità che accennasse alla sfera divino-spirituale, che la esprimesse. Di conseguenza Schiller fu l’iniziatore della poesia romantica che poi si collegava a Goethe. E certo interessante osservare le due posizioni contrapposte che, direi, fanno dubitare che si riesca a sollevare l’elemento terreno-sensibile a quello divino che si accontenta di usare soltanto l’elemento terreno fisico-sensibile per esprimere la sfera divino-spirituale, indicandolo più o meno esplicitamente; osservare come appunto la poesia romantica in Europa si riallacci al classicismo cui tendeva Goethe.

 

Osserviamo ora lo stesso classicismo di Goethe, come è espresso dalle sue stesse parole:

Chi possiede scienza e arte ha anche religione; chi non ha le prime due abbia almen la religione.

 

Egli era profondamente convinto che non potesse esservi artista che non avesse in sé impulsi religiosi, ed era nello stesso tempo lontanissimo dalla banale sfera religiosa, poiché aveva in sé un profondo interesse religioso; si dava la massima pena, se posso usare un’espressione quasi pedante, per purificare artisticamente la forma terrena fisico-sensibile affinché apparisse come un’immagine della sfera divino-spirituale. Osserviamo un momento la sincera pena che si dava. Egli afferrava ciò che era molto terreno e si sentiva obbligato a non modificarlo troppo per presentarlo artisticamente. In proposito vediamo i lavori di Goethe per il Gotz von Berlichingen. Prende la biografìa del soggetto come una normale esposizione biografica e la tratta con grande pietà, e la drammatizza; la mette persino come titolo, perché il titolo della prima stesura suona: Storia di Gottfried von Berlichingen con la mano di ferro, drammatizzata. Prende cioè qualcosa di molto fisico-terreno, lo tratta con molto amore, lo modifica solo di poco per trasformarlo drammaticamente. Come artista desidera abbandonare il meno possibile la terra, pur volendola presentare come un’espressione dell’ordine divino-spirituale.

 

Facciamo qualche altro esempio. Vediamo come egli si avvicina alla sua Ifigenia, al suo Tasso. Concepisce i drammi e li presenta in poesia, ma che cosa fa poi? Si direbbe che soprattutto non si fida, per quello che egli è: l’uomo che è nato a Francoforte, che ha studiato a Lipsia e a Strasburgo e che è arrivato a Weimar, di portare a termine l’Ifigenia e il Tasso. Deve andare in Italia, deve camminare nella luce dell’arte greca per sollevare la forma terrena fisico-sensibile e poter presumere che rispecchi lo spirito. Pensiamo soltanto alla lotta svoltasi in lui per superare l’abisso fra la sfera terrena fisico-sensibile e quella divino-spirituale. In Goethe vi era come una malattia, quando per così dire di notte lascia Weimar con la nebbia, senza dir niente a nessuno, solo per poter fuggire in regioni nelle quali gli potesse riuscire a presentare spiritualmente le forme che il Goethe nordico non riusciva a dominare, per spiritualizzarle ancora di più. La psicologia di Goethe colpisce molto a fondo, ha qualcosa di eroico, di toccante quando si consideri Goethe in questo modo.

 

Osserviamo ancora che l’elemento più caratteristico in Goethe, per quanto sembri paradossale se lo dico in parole, è che nulla termina. Aveva cominciato il Faust di getto. Solo in più tarda età l’insistente Eckermann lo potè convincere, in un modo possibile appunto per Goethe, a finire il Faust. Vi fii una terribile lotta, e un altro dovette aiutarlo, affinché Goethe portasse l’opera a una forma artistica. Oppure prendiamo il Wilhelm Meister: come lo aveva scritto nella prima stesura, da parte sua non lo voleva terminare. Schiller lo convinse a farlo. Se poi oggi osserviamo la storia, possiamo dire che sarebbe stato meglio se Schiller non lo avesse fatto, perché quel che Goethe poi scrisse proprio non è all’altezza della prima stesura, se fosse rimasto un frammento. Prendiamo la seconda parte: singoli episodi sono messi insieme; non è un’opera unitaria. Consideriamo ancora come Goethe voleva salire alle massime altezze della forma poetica per creare le figure della Pandora in uno dei campi a lui più caro, quello greco. È rimasto un frammento: non riuscì a terminarlo. L’abbozzo era tanto grande che non gli riuscì il completamento. Lo vediamo nell’abbozzo e vediamo anche come pesasse sull’anima dell’artista la difficoltà e la serietà del compito. Vediamo come Goethe volesse idealizzare la vita umana per mostrarla, si direbbe, nello splendore della sfera divino-spirituale: della trilogia riuscì in qualche modo a portare a termine il primo dramma: La figlia naturale.

 

Si potrebbe dire: Goethe confessa dappertutto la sua classicità, mostra tale sua forte propensione creando qualcosa sul piano fisico-terreno che sia però tanto purificato da far apparire lo splendore di quello divino-spirituale. Egli dappertutto tende, lotta per mostrare come sia anche suo compito superare appunto le forze umane e le sue stesse forze, ove quel compito sia afferrato abbastanza a fondo. L’arte appare quindi nella sua seria missione universale in una personalità come quella di Goethe, tanto grandiosa e potente. Ciò che in definitiva risulta entro il romanticismo, appare tanto più caratteristico considerandolo in relazione a Goethe.

 

Giovedì scorso ricorrevano i centocinquant’anni dalla nascita di Ludwig Tieck. Era nato il 31 maggio 1773 e morì il 28 aprile 1853. Anche se purtroppo è oggi molto poco noto, egli fu in un certo senso uno dei più fedele discepoli di Goethe. Proveniva dal romanticismo, direi da ciò che il problema di Goethe dei tempi più vicini, negli anni Novanta del secolo diciottesimo, aveva portato alla scuola di Jena. Da giovane Ludwig Tieck aveva vissuto la pubblicazione del Werther e del Faust I, e assieme a Novalis, a Fichte, a Schelling, a Hegel aspirava a scoprire gli enigmi del mondo. Egli sentiva da molto vicino l’atmosfera dell’aspirazione classica di Goethe. Proprio in Ludwig Tieck si percepisce come la vita spirituale agisse ancora alla svolta dal diciottesimo al diciannovesimo secolo e nella prima metà del diciannovesimo, perché Ludwig Tieck non fu solo colui che accanto a Schlegel fece in effetti conoscere Shakespeare in Germania; era una personalità dalla quale si vede come le grandiose lotte di Goethe si rispecchiassero in un suo importante contemporaneo che appunto avvertiva la serietà, l’elevatezza e la dignità dell’arte come un poderoso ideale della cultura umana. Ludwig Tieck si era guardato attorno nel mondo, non aveva fatto le sue esperienze in un ambito ristretto, e dopo essere stato ai piedi di Fichte, Schelling e Hegel a Jena aveva viaggiato in Italia e in Francia. Conosceva il mondo. Dopo aver conosciuto la filosofìa e il mondo, egli cercava di superare artisticamente l’abisso fra il mondo sensibile e quello celeste-divino al modo di Goethe.

 

Naturalmente non aveva la vera forza, la forza d’urto di Goethe. Osserviamo però un’opera abbastanza giovanile di Ludwig Tieck: I pellegrinaggi dì Franz Sternbald, scritto nella forma del Wilhelm Meister. Che cosa sono in fondo i viaggi di Sternbald? Sono i viaggi dell’anima umana verso la terra dell’arte. Su Sternbald pesa con forza la domanda: partendo dalla realtà fisico-sensibile-terrena come trovo la possibilità di elevarla in modo artistico alla luce dello spirito? Se così posso dire, Ludwig Tieck, del quale in effetti in questi giorni si dovrebbero festeggiare i centocinquant’anni dalla nascita, sentiva la serietà che irradia sull’arte dalla vicinanza della conoscenza e anche da quella della vita religiosa. Sono grandiosi gli sprazzi di luce che cadono sulle creazioni artistiche di Ludwig Tieck per la conoscenza e la religione. Ancora abbastanza giovane egli aveva anche scritto un romanzo: William Lovell. Il personaggio vive del tutto sotto l’impressione che Tieck aveva ricevuto dalla serietà per la conoscenza alla quale partecipava quando a Jena era ai piedi di Schelling e di Fichte. Pensiamo soltanto a che cosa là agiva su uno spirito tanto sensibile come era Ludwig Tieck. In modo diverso, anche se altrettanto grandioso, aveva agito su Novalis; ma per Ludwig Tieck, che da giovane era passato a Berlino attraverso la scuola razionalistico-intellettualistica di libero pensiero, come allora si chiamava quella del più che pedante Nicolai, ciò che egli dovette sperimentare fu qualcosa di ancora diverso quando vide come in Fichte e in Schelling l’anima umana in sostanza rinunciava a ogni rapporto con la realtà fisica esteriore e voleva cercare solo da se stessa la via verso il mondo spirituale. Nella Storia del Signor ‘William Lovell Ludwig Tieck presenta un personaggio che, movendo solo dalla propria anima, vuol cercare la via verso lo spirito in modo del tutto soggettivo e che, poiché non poteva trovare ciò che Goethe sempre cercava con la sua arte classica, poiché non poteva trovare l’elemento divino nella sfera fisico-sensibile, lo cercava direi solo al culmine della propria personalità, perdendosi non soltanto nel mondo, ma anche in se stesso. Così, attraverso qualcosa di grandioso, attraverso la filosofia di Fichte e di Schelling, William Lovell perde ogni appiglio nella vita. In modo particolare nel William Lovell viene indicato il pericolo della conoscenza che di necessità si deve attraversare, e si può quindi dire che in Ludwig Tieck si vede come nella serietà dell’arte irraggia la serietà della conoscenza.

 

In età abbastanza avanzata Ludwig Tieck scrisse un’opera poetica: Der Aufruhr in den Cevennen, e che cosa ci presenta in essa? Potenze demoniache che si avvicinano agli uomini, spiriti della natura che li aggrediscono, che li posseggono, che li portano al fanatismo religioso, che li afferrano in modo che il singolo non trova più. la sua strada nel mondo. Egli da un lato sentiva che cosa significhi essere posto al culmine della propria personalità, e dall’altro essere consegnato alle entità spirituali che vivono in natura come spiriti elementari o divinità elementari. Per questo nelle opere di Ludwig Tieck vi sono toni di grande potenza, come nel Dichterleben in cui espone come Shakespeare sia entrato nel mondo quale completa natura poetica e artistica, come il mondo ponga dappertutto ostacoli sulla via di una vera natura poetica, come essa si impigli dappertutto nelle spire della vita. In questa sua opera Ludwig Tieck ci presenta la gioventù di Shakespeare, il suo ingresso nella vita terrena, la vita naturalistica concessa all’artista. Nella sua opera Tod des Dichters egli presentò l’uscita dalla vita terrena, il cammino alla porta della morte di un artista, di un poeta portoghese, Camòes. Sono cose senz’altro toccanti quelle descritte da Ludwig Tieck nel serio periodo goethiano, con l’ingresso nella vita di un poeta, Shakespeare, e con l’uscita dalla vita del poeta portoghese Camòes.

 

Poiché in sostanza Ludwig Tieck non era una tanto grande personalità, mentre la sua grandezza era un riflesso dello spirito goethiano, fu molto caratteristico come Tieck si pose di fronte a tutti quelli che, vorrei dire, come “gente davvero pratica” volevano stare sulla terra senza impulsi spirituali, se volevano essere artisti.

In un certo senso non vi è una satira più felice di quella dataci da Ludwig Tieck nel suo Cavaliere Barbablù contro tutti i romanzi di cavalieri e di briganti. Né in un certo senso vi è una satira più felice contro tutto quanto di sentimentale, che vorrebbe essere artistico e diviene solo lacrimevole, sempre impreciso e mormorato in direzione della sfera divino-spirituale. Nulla vi è di più felice del Gatto con gli stivali di Ludwig Tieck col quale egli caratterizza la strada di tutta la gentaglia, come egli sentiva il sentimentale Iffland e il chiacchierone Kotzebue.

 

In una personalità come quella di Ludwig Tieck, ci si presenta ciò che il goetheanismo avrebbe potuto rispecchiare nella prima metà del secolo diciannovesimo, si vede come negli ultimi secoli vi fosse una sorta di ricordo dei grandi antichi tempi in cui l’umanità guardava al mondo divino-spirituale e in cui dappertutto nelle opere artistiche si voleva creare un ricordo di quei mondi. In personalità del genere si vede come vi fosse un effettivo passaggio da un tempo in cui vi era almeno un ricordo vivente dello spirito a un tempo in cui tutto venne accecato dall’impressione di una brillante concezione scientifica e da una meno brillante pratica di vita; comunque di un tempo che di per sé non poteva trovare lo spirito se non proveniva da un impulso spirituale derivato da una diretta visione spirituale del mondo, vale a dire attraverso l’immaginazione, l’ispirazione e l’intuizione verso le quali tende l’antroposofia.

 

Osserviamo ancora una volta in questa prospettiva l’enorme serietà che animava questa gente. Goethe e molti altri dubitavano di trovare la via verso il mondo spirituale in ciò che poteva offrire il mondo culturale. In Goethe essa non si fece strada fino a quando in Italia non ebbe un’idea di come i Greci penetrassero con le loro opere artistiche nei segreti dell’esistenza. Cito spesso un detto di Goethe: «Presumo che i Greci, nelle loro creazioni artistiche, intuissero appunto le leggi secondo cui procede la natura, e io sono sulle loro tracce». Goethe credeva cioè che nella creazione delle loro opere artistiche i Greci fossero stati arricchiti dagli dèi, per creare in esse qualcosa di superiore alle opere della natura, vale a dire immagini dell’esistenza divino-spirituale. I seguaci di Goethe, ancora influenzati direttamente dal suo spirito, ricevettero da lui ancora come un soffio, la sensazione di dover risalire a tempi antichi dell’umanità, almeno fino ai Greci, per arrivare di nuovo allo spirito.

 

Come ho detto in un recente articolo su “Das Goetheanum”, Herman Grimm, che in questa e in altre cose avvertiva ancora qualcosa dell’atmosfera goethiana, ebbe più volte a dire* che, guardando i Romani, essi erano già affini agli uomini moderni. Camminavano già come i moderni, anche se portavano ancora la toga. Guardando invece i Greci, davano l’impressione che nei più eminenti di loro scorresse nelle vene ancora sangue divino. Una bella espressione! Contiene anzitutto qualcosa di artisticamente sentito. Ho spesso detto che dal secolo quindicesimo abbiamo l’inizio del materialismo e del naturalismo. Era necessario, e qui non intendo contestare quel che l’epoca moderna ha portato. L’umanità sarebbe rimasta dipendente dal mondo divino-spirituale, se fosse rimasta come era stata in precedenza. Per diventare libera, essa doveva addentrarsi nel mondo puramente materiale. Nella mia Filosofia della libertà ho esposto che cosa l’uomo moderno sente in proposito. Va però detto che ancora ai tempi di Goethe, e anche fino alla metà del secolo diciannovesimo, risuonava qualcosa come un crepuscolo della vita spirituale, un crepuscolo di tempi antichi. Ne derivò il profondo anelito di Goethe verso l’Italia per sentire lo spirito, che non poteva più trovare entro la sua civiltà, nel risuonare delle opere dell’antica Grecia. Goethe non poteva vivere senza aver visto Roma, quella Roma nella quale stimava di poter sentire ancora vivente, se anche antiquata, la civiltà che aveva ancora direttamente in sé qualcosa di spirituale nella sfera fisico-sensibile.

 

In questo atteggiamento lo aveva preceduto chi veramente è come la personificazione del crepuscolo dell’antica vita spirituale: Johann Joachim Winckelmann*. Come Goethe avesse compreso l’atteggiamento di Winckelmann risulta molto bene dal magnifico libro che egli scrisse appunto su di lui e sul suo secolo. Quel che Goethe scrisse nel libro su di lui è una bellissima esposizione dell’aspirazione di Winckelmann alla spiritualità. Si avverte nel libro come Goethe sentisse con vivezza perché Winckelmann fosse andato verso il sud, a Roma, per ritrovare lo spirito che nel suo presente più non riusciva a trovare e per riportare nel presente la spiritualità, attingendola a quella antica. Winckelmann anelava con forza alla spiritualità, e Goethe lo potè sentire. Il suo libro su Winckelmann è appunto grandioso, perché egli era compenetrato della stessa aspirazione. In definitiva, mentre erano a Roma, entrambi sentirono qualcosa del soffio dell’antica spiritualità. Winckelmann lo sentì appunto strappando i segreti dell’arte da ciò che a Roma aveva assorbito spiritualmente non di fisico, ma di animico dai resti della volontà artistica greca. Goethe fece la stessa cosa e potè riscrivere a Roma la sua Ifigenia. Fuggì verso Roma con la sua Ifigenia del nord per riscriverla, per darle quella forma che sola poteva considerare classica. A Roma gli riuscì, ma dopo il suo ritorno non gli riuscì più in opere successive.

 

In questo Goethe mostrò la sua profondissima serietà nella lotta di un artista per la spiritualità. In sostanza egli non riuscì ad essere soddisfatto nella sua ricerca artistica prima di aver creduto di carpire dai colori di Raffaello e dalle forme di Michelangelo ciò che attraverso una pura esperienza artistica è possibile dare nei colori e nelle forme. Egli crebbe così in quella spiritualità e presentò il crepuscolo che ancora era presente e che ancora ricordava una spiritualità logorata e non più valida per l’umanità moderna.

 

Se posso toccare qualcosa di personale, mi sia concesso di raccontare un episodio. Fu in un preciso momento in cui potei sentire molto bene quel che una volta aveva detto Winckelmann quando era andato verso il sud per scoprire i segreti dell’arte; potei allora presagire come Goethe avesse seguito le orme di Winckelmann, e io stesso sentire con grande forza che era passato il tempo in cui noi potevamo dedicarci a quel crepuscolo dell’arte e che era giunto il tempo in cui con tutta la nostra forza dovevamo cercare un nuovo dischiudersi di una vita spirituale, in cui non dovevamo più solo dedicarci alla ricerca della cultura antica. Potei sentire bene tutto ciò nel momento in cui il destino fece sì che dovessi tenere anni fa delle conferenze antroposofiche sull’evoluzione dell’uomo e del mondo proprio nei locali in cui quella volta Winckelmann era vissuto durante il suo soggiorno romano, in cui aveva attinto i suoi pensieri dall’arte italiana e greca, in cui aveva espresso le sue vaste idee che poi avevano tanto entusiasmato Goethe*. Per me fu davvero un profondo sentimento rendermi conto che doveva venir detto qualcosa di nuovo sulla via verso una vita spirituale. Dovetti dirlo nello stesso posto in cui durante il suo soggiorno romano Winckelmann aveva elaborato le sue idee sulle quali poi Goethe aveva scritto il suo libro su Winckelmann. Fu una strana concatenazione di destino che dovessi tenere quelle conferenze proprio nel palazzo in cui Winckelmann era vissuto durante il suo soggiorno romano.

 

Con questa osservazione personale vorrei oggi terminare la mia conferenza.