L’Atlantide nella storia e nella leggenda


 

1. La terra di Posidone

Al di là dell’antico confine del mondo segnato dalle colonne d’Èrcole che gli antichi avevano un sacro terrore a varcare, dove oggi si estende per più di 2000 miglia marine l’Oceano Atlantico, sorgeva in tempi immemorabili un grande continente, l’Atlantide, culla e teatro di una fiorentissima civiltà. Questo continente scomparve nel decimo millennio prima di Cristo, per opera di quel tremendo cataclisma acqueo che la Bibbia ricorda con il nome di diluvio universale. Prima però che la terraferma s’inabissasse del tutto, una parte degli Atlantidi si trasferì su altri continenti. Così tanto l’Africa, l’Europa, l’Asia, quanto le due Americhe, quella del nord e quella del sud, furono la meta delle grandi ondate migratorie atlantiche. In questi discendenti degli Atlantidi, ma soprattutto nei popoli che posero piede in America e le cui estreme propaggini sono costituite oggi dai cosiddetti Pellirosse, rimase vivo per molto tempo il ricordo del diluvio e tramandato di generazione in generazione dalla storia e dalla leggenda. Rivolgeremo perciò oggi la nostra attenzione quasi esclusivamente ai Pellirosse, perché le loro condizioni di vita sono una debole eco di quella che fu la veramente grande civiltà Atlantidea. Diciamo subito che i Pellirosse sono gli ultimissimi discendenti delle prime razze atlantiche. Come la nostra evoluzione eurasiatica si svolge attraverso sette razze portatrici di cultura – l’indiana, la persiana, la semitica, la greco-latina, la germanica, la russa e l’americana – così anche la remotissima Atlantide vide fiorire successivamente sette culture, sette civiltà, ciascuna delle quali legata a una singola razza. Nella tradizione occulta, alle sette razze atlantiche si sogliono dare i seguenti nomi:

la i Romohals, 2a i Tlavatli, 3a i Tolteki; da queste prime tre razze atlantiche discendono gli odierni Pellirosse.

4a i Turani, da cui derivano i Cinesi; 5a i Protosemiti, che furono i progenitori tanto dei Semiti che degli Ariani;

6a gli Akkàdi, da cui discendono i Camiti; 7a i Protomongoli da cui derivano gli odierni mongoli asiatici ed europei.

 

Osserviamo che mentre le ultime razze si sono successivamente più o meno ancora evolute, le prime sono rimaste in posizione statica. Perciò i Pellirosse, ed anche i Cinesi, ricordano più che gli altri popoli le condizioni interiori di vita dell’uomo Atlantideo.

Platone, nelle sue opere Timeo e Crizia ha dato alla civiltà occidentale la prima notizia sull’esistenza dell’Atlantide. Egli dice di trarla da Solone, il quale l’ebbe a sua volta dai sacerdoti di Sais, città posta sul delta del Nilo.

Dal Crizia ricaviamo una prima importante nozione. L’Atlantide era la terra di Posidone. Posidone è il nome greco di Nettuno, il dio delle acque. Ciò ci fa comprendere che l’acqua era l’elemento che per gli Atlantidi aveva la massima importanza.

 

Platone ci descrive la città capitale di un regno di Posidonia, l’Atlantide da cui ebbe poi il nome tutto il continente. La città era completamente circondata da un triplice fossato pieno d’acqua. I fossati comunicavano tra loro per mezzo di canali abbastanza larghi per permettere il passaggio di una nave e i bastioni, che dividevano i fossati a loro volta, erano congiunti per mezzo di ponti. Tra il fossato esterno e il mare c’era un grande canale artificiale lungo circa 10 km, largo 300 metri e profondo 20 metri.

 

 

 

Ogni città Atlantidea aveva press’a poco questo aspetto, perché gli Atlantidi si davano cura di recingere le loro città con un complicato sistema di anelli d’acque.

Una colonia Atlantidea esisteva anticamente anche nell’Africa occidentale, dove s’estende oggi il Marocco. La regione era allora amena e fiorente e il lago Tritonide era pieno d’acque azzurre. Nel centro del lago, su palafitte, i progenitori dei Berberi avevano costruito la città di Cernes, congiungendola alla riva con tanti ponti, a somiglianza dei raggi di una ruota che dal mezzo vanno al cerchio.

 

L’esploratore Desiderio Charnay descrive le rovine di una gigantesca metropoli azteca nello stato messicano di Tabasco. Egli, nel suo libro Le mie scoperte nel Messico, dice che le rovine, resti di colossali piramidi, di enormi palazzi, di templi superbamente decorati si estendono nella laguna di Bellota e raggiungono il mare su una linea di venti chilometri.

Anche l’abate Brasseur de Bourbourg, nella sua Storia del Messico, ci fa sapere che le città indiane erano poste sulle acque e che perciò la valle d’Anahuac, ricca di grandi laghi e di corsi d’acqua, fu per molto tempo un fervido centro di vita.

 

Se dall’archeologia passiamo alla mitologia, troviamo subito riconfermato questo profondo legame tra gli Atlantidi e l’elemento acqueo. Le leggende e le favole che raccontano ancor oggi i Pellirosse fumando la pipa all’ombra delle loro tende, hanno quasi tutte per protagonista il colombo marino, il gabbiano. Nel gabbiano che erra su e giù lungo le coste e sorvola gli scogli flagellati dalle onde gettando il suo rauco grido selvaggio, i Pellirosse credono di vedere la loro stessa anima che piange per la scomparsa della terra d’origine. Nel gabbiano che nidifica sugli scogli e reminga incessantemente sul mare, anche noi possiamo avere un’immaginazione verace dell’anima Atlantidea.

 

Ora chiediamoci: perché le città atlantiche erano così intimamente connesse con le acque? Il pensiero materialistico ci suggerirà subito una risposta: perché le acque difendevano gli abitanti dalle fiere e dai nemici. Lasciamo da parte questi luoghi comuni della mentalità pseudoscientifica e leggiamo invece una pagina dello scritto di R. Steiner I nostri progenitori dell’Atlantide.

▸“Gli Atlanti erano in grado di servirsi della forza vitale. Come oggi si trae dal carbone la forza del calore che si trasforma nell’energia dinamica dei nostri mezzi di locomozione, così gli Atlanti sapevano servirsi a scopi tecnici della forza germinatrice. […] Gli Atlanti avevano degli apparecchi che trasformavano la forza vitale dei germi delle piante in energia applicabile alla tecnica. […] A quell’epoca l’acqua era più fluida di ora; e per questa sua fluidità l’acqua poteva, mercé la forza germinatrice di cui gli Atlanti sapevano servirsi, essere diretta a usi tecnici tali che oggi sarebbero impossibili. Per il condensarsi dell’acqua, è divenuto impossibile guidarla e dirigerla con l’arte mirabile di allora. […] L’uomo atlantico assorbiva un’acqua che la forza vitale propria al suo corpo elaborava in modo di trasformarla in energia fisica. Possedeva il mezzo di aumentare in sé le proprie forze fisiche, quando ne aveva bisogno per le proprie occorrenze”.

 

Senza questa spiegazione di Rudolf Steiner, molte cose che la scienza ufficiale riesce a scoprire sul conto della civiltà Atlantidea e delle tracce lasciate da essa in Europa e in America, rimarrebbero completamente inesplicabili.

I germi delle piante e l’acqua erano dunque le materie prime fondamentali dell’industria Atlantidea. Gli Atlanti non usavano il fuoco. L’acqua serviva per ogni occorrenza sia dell’industria, sia della vita casalinga quotidiana.

Sui larghi bastioni che nelle città atlantidee separavano i canali circolari d’acqua, sorgevano grandiosi stabilimenti metallurgici, i quali però avevano un aspetto del tutto diverso delle nostre fonderie, delle nostre acciaierie, dei nostri altiforni. Non il fuoco difatti alimentava gli immensi stabilimenti metallurgici atlantici, ma l’acqua. A questo proposito si può affermare che la nostra industria, per quanto poderosa e perfetta possa apparirci, è ben misera cosa se paragonata alla incredibile perfezione dell’industria dell’Atlantide. Le testimonianze storiche, numerosissime e concordi, non lasciano ombra di dubbio in proposito. Ne sceglieremo soltanto alcune.

 

 

2. Le meraviglie della metallurgia atlantica

Cominciamo da Platone. Egli dice che i tre bastioni della capitale Atlantidea erano intonacati per tutta la loro estensione: il primo di rame, il secondo di stagno, il terzo d’oricalco dai rilessi di fuoco.

Se voi mi chiedeste che cosa sia l’oricalco, io non vi saprei rispondere. È una lega di oro, allo stesso modo che il peltro è una lega d’argento, ma gli altri componenti ci sono ignoti. Gli Atlanti, venendo in Europa, vi portarono la conoscenza della fucinazione dei metalli, ma molte delle loro nozioni andarono perdute.

Enrico Schliemann, il celebre archeologo scopritore di Troia, lasciò scritto d’aver trovato fra il tesoro del re Priamo un vaso con la scritta in geroglifici fenici: «Dal re Chronos di Atlantide». Il vaso era fatto di una lega di platino, alluminio e rame. E lo Schliemann annota: «Questa specie di lega non fu mai conosciuta dagli altri popoli antichi ed è sconosciuta oggi».

 

Queste testimonianze antiche forse non persuadono. Cerchiamone perciò delle altre, più recenti e lampanti, riportate da coloro che misero piede in America e che videro con i loro occhi.

Nel diario di Cristoforo Colombo troviamo scritto che il navigatore genovese riportò dall’America in Europa, come oggetto più prezioso, un rasoio di rame temperato. Cristoforo Colombo ne era giustamente sbalordito, e sbalorditi ne siamo anche noi. Da allora sono passati quasi cinque secoli, ma la tecnica moderna non ha trovato ancora il modo di rendere duro alcun metallo, fuorché il ferro ottenendone l’acciaio. L’idea di un acciaio di rame, proprio della civiltà Atlantidea, sta per l’arte metallurgica moderna al di là di ogni immediata o remota possibilità.

 

Montezuma regalò a Cortez alcuni specchi di platino incorniciati d’oro, ciò che prova che la fusione e la lavorazione del platino erano ben note agli Indiani.

Il Carli, nelle sue Lettere americane, dice che tanto per il matematico quanto per il tecnico rimane un problema insolubile il fatto che i popoli d’America siano riusciti a fondere statue d’oro e d’argento, tutte d’un getto, vuote nell’interno, sottili e senza sostegni.

Egli scrive: «Ho potuto ammirare dei piatti con otto riquadri, ciascuno d’un metallo diverso, cioè alternati d’oro e d’argento, senza alcuna apparente saldatura; pesci ed uccelli dei quali le scaglie e le pinne, ora d’oro, ora d’argento, si alternavano senza la minima traccia di saldatura artificiale».

 

Oviedo vide oggetti fatti di una lega di oro e rame ad altissima tempera e perciò più resistenti dell’acciaio.

Cieza de Leon ci lasciò una descrizione addirittura fiabesca di Cuzco del Perù, città reale degli Incas barbaramente saccheggiata e distrutta dai conquistatori spagnoli. Su di un’altura dominante la città sorgeva il grande tempio del Sole, circondato da sei templi minori per gli altri pianeti. Nello spiazzo fra i templi, si elevavano alte colonne metalliche, sulle quali erano incise le osservazioni dei sacerdoti astronomi sui movimenti degli astri. Davanti al tempio del Sole si estendeva un meraviglioso giardino a terrazze, il quale terminava a picco sul fiume Huatanay. Questo veniva con ragione chiamato il giardino metallico. Ogni sua terrazza aveva per pavimento una lastra di oro puro, dalla quale si innalzavano alberi d’argento e messi di spighe fatte d’oro. Nel giardino metallico si vedevano inoltre farfalle posate sui fiori, uccelli nascosti tra le foglie, serpenti avvolti intorno ai rami, verdi lucertole, chiocciole, tutto in oro puro e in argento cesellato con arte mirabile e tempestato di gemme. Il vento più impetuoso non poteva sradicare il più sottile stelo di quel magico giardino, ma le soldataglie spagnole furono più forti del vento.

 

Non credo che sia necessario spendere altre parole per mettere in rilievo la portentosa arte metallurgica degli Indiani. Per quanto meravigliosa ci possa apparire, ricordiamoci che essa non è che una fievole eco di quella che fu la tecnica e la scienza degli Atlanti. Di fronte a tanta meraviglia la nostra scienza ufficiale si mostra perplessa ed impotente. Non così la Scienza dello Spirito. Questa c’insegna che gli Atlanti e i loro discendenti lavoravano i metalli con le forze e i procedimenti che si basavano sull’impiego delle forze vitali e dell’acqua. Tutto ciò è divenuto impossibile all’uomo moderno, e da questa sua impotenza nasce in lui il senso della meraviglia e del miracolo. I giardini metallici degli Incas e degli Aztechi, non sono però sorti per miracolo, ma per opera di una tecnica andata ormai perduta. Anzi a questo proposito bisogna dire che gli Aztechi e gli Incas non hanno costruito quei meravigliosi giardini metallici, quelle immense città longitudinali piene di piramidi, di templi e di palazzi, ma li hanno ricevuti in eredità e gelosamente conservati.

 

Montezuma disse a Cortez queste testuali parole: «Noi non siamo oriundi di questa terra. Non è passato che un piccolo numero di secoli da quando i nostri avi, venuti dalle regioni del Nord, si sono stanziati in questo paese. Io non sono che un viceré e governo le genti che mi sono sottoposte in nome di Quetzalcoatl e secondo l’autorità che da lui mi è stata conferita».

 

Secondo lo storico Montesinos, gli Incas giunsero nel Perù verso il 2450 prima dell’era cristiana e vi trovarono già il meraviglioso giardino metallico di Cuzco e le gigantesche rovine della civiltà preincasica.

Ciò è confermato anche dalla tradizione occulta. Le costruzioni messicane e peruviane non poterono essere edificate che da uomini che avevano ancora in sé, almeno fino a un certo grado, forze e facoltà proprie degli Atlanti. Sono perciò dunque antichissime e coeve della civiltà egizia.

Benché ultimi e tardissimi discendenti degli Atlanti, i popoli dell’America ne conservano ancora le principali qualità interiori e i costumi. Gli Atlanti erano chiaroveggenti; questa facoltà spirituale mancava quasi del tutto ai tardi popoli americani, ma tuttavia essi si sentivano in stretto contatto con la divinità.

 

Quando Montezuma fece a Cortez il nome di Quetzacoatl, lo Spagnolo gli chiese: «Chi è questo re supremo in nome del quale tu governi?»

Montezuma rispose: «È un sacerdote vestito di nero che passeggia lungo le rive del mare. Il suo nome significa il serpente incoronato di piume. Egli è la perpetua guida del nostro popolo.»

«E tu sei in contatto con questo essere misterioso?» chiese allora Cortez.

«Io non faccio nulla che non sia la sua volontà» rispose il re degli Aztechi.

 

3. Le penne dei Pellirosse indicano la loro appartenenza ai mondi divini

Gli Indiani non solo sanno di essere in rapporto con i mondi spirituali, ma lo manifestano anche esteriormente adornandosi di piume d’uccello. Le penne che discendono per le loro spalle hanno lo stesso significato delle ali piumate degli Arcangeli che appariscono in certe tele del Rinascimento: vogliono essere la rappresentazione fisica di organi di locomozione spirituale.

Una leggenda dei Pellirosse canadesi narra che una donna indiana ebbe un figlio con Lucifero, l’astro del mattino. A questa creatura semidivina e semiumana fu posto il nome di Piccolo Astro. Piccolo Astro poteva vivere tanto sulla Terra, quanto sul Sole e sulla Luna. Il Sole prese ad amarlo e gli rivelò i segreti della danza del Sole ed i canti che dovevano accompagnarla. Perciò ogni anno, a primavera, gli Indiani danzano sulla prateria la danza del Sole che li guarisce dalle malattie. Il Sole dette a Piccolo Astro anche due penne di corvo da portare in testa come segno che egli era il suo messaggero.

 

Questa leggenda ha per l’occultista un senso chiaro. Le due penne di corvo stanno in luogo delle due antenne spirituali che vediamo, per esempio, sorgere dalla fronte anche del Mosè di Michelangelo. Esse sono la rappresentazione fisica del Fiore del Loto a due petali che sta nella regione frontale e con il quale l’iniziato entra in rapporto con le Entità spirituali.

Le due penne di corvo che l’Indiano Pellirossa porta sulla fronte sono il segno della sua comunione con i mondi spirituali.

 

Le leggende indiane ricordano anche le condizioni di vita proprio dell’Atlantide. Una di queste dice: «C’era un tempo nel quale quella che è ora la Luna splendeva di giorno e quello che è ora il Sole splendeva di notte. Il loro lavoro era esattamente opposto a quello di oggi, perché la Luna di oggi era il Sole e il Sole di oggi era la Luna. Il Sole allora era pallido e argenteo e la Luna era invece molto rossa e lucente».

Queste strane parole, in un certo senso, vanno prese alla lettera. «Il Sole allora era pallido e argenteo>. Proprio così. Le condizioni atmosferiche sull’Atlantide erano completamente diverse da quelle che si presentano oggi sulla Terra. Noi esperimentiamo oggi, secondo le stagioni, giornate meravigliose con il cielo azzurro e il Sole fulgido e giornate nebbiose e piovose senza Sole. L’uomo dell’Atlantide non conosceva né il Sole, né la pioggia. Egli viveva durante tutto il corso dell’anno su una nebbia umida e fitta che non si diradava mai. Attraverso questa nebbia il Sole gli appariva, come si dice la leggenda indiana, pallido e argenteo. L’Atlante non vedeva mai splendere il Sole nel cielo fisico; egli scorgeva tutt’al più una chiazza luminosa che si spostava sull’orizzonte.

Di notte però egli viveva un’altra vita. Coricandosi sul suo giaciglio, non cadeva in un sonno incosciente. Sognava, ma le esperienze del sogno erano vivaci e reali. L’Atlante nel sonno percepiva coscientemente il mondo spirituale. Il Sole spirituale splendeva fulgido sul suo orizzonte. La Luna – cioè l’astro ch’egli vedeva allora di notte nel cielo spirituale – era rosa e lucente.

 

Ecco in qual modo una semplice fiaba indiana ci illumina sulle condizioni di vita del continente atlantico.

Naturalmente il ricordo dell’Atlantide non è rimasto soltanto nelle fiabe degli Indiani, ma anche nei loro riti religiosi e nei loro testi storici.

Questi testi storici e i libri sacri venivano custoditi dai collegi sacerdotali, che, presso tutti i popoli dell’America, erano anche gli amministratori del sapere e i rettori delle università. Diciamo solo di sfuggita che nelle scuole sacerdotali venivano insegnate ai giovani non solo le scienze spirituali e sacre, ma anche le scienze applicate, come la matematica, la storia, la geografia, il diritto, il cerimoniale di corte, la diplomazia, la strategia. Le fanciulle venivano educate in speciali conventi di sacerdotesse, così che l’istruzione era generale e diffusa presso tutti i ceti della popolazione. Nessun popolo dell’antichità ebbe tanti libri e tante biblioteche quanti ne esistevano, per esempio, presso i Maya dello Yucatan.

I conquistadores spagnoli distrussero tutte le biblioteche, incendiarono tutti i libri con feroce fanatismo religioso. La grandiosa biblioteca reale di Tezcuco, contenente decine di migliaia di opere, fu distrutta per ordine del primo vescovo del Messico. Si salvarono soltanto due opere – il codice troano e il codice velletreuse – che un soldato si mise in saccoccia per pura curiosità.

In tutto lo Yucatan, i libri che si trovavano nelle biblioteche e nelle case private, furono portati in mezzo le piazze e bruciati in enormi falò. Gli abitanti assistevano ai roghi con volti inondati di lacrime. Erostrato passò alla storia per avere incendiato il tempio di Diana. Anche noi, ad onta perpetua, vogliamo ricordare il nome di colui che avvolse in una sola fiamma distruttrice tutta l’America centrale: il vescovo don Diego de Landa.

 

Pochi testi ci sono dunque rimasti per attestarci la grande e fiorente civiltà dei popoli abitatori delle Americhe. Da questi testi sono ricavate le notizie che seguono.

Il 12 Yuzcatli (30 gennaio) ogni quattro anni venivano commemorate con cerimonie religiose le tre volte in cui il mondo era stato distrutto. A ricordo di queste tre sciagure, a quell’epoca dell’anno, si digiunava per otto giorni.

A questo proposito citiamo che i sacerdoti messicani dividevano in quattro cicli o soli la storia dei rivolgimenti del globo.

1° ciclo o Tlatonitiuh – età della terra, corrispondente all’epoca polare della Scienza dello Spirito.

2° ciclo o Tletonatiuh – età dell’aria, corrispondente all’epoca iperborea.

3° ciclo o Ehecatonatiuh – età del fuoco, corrispondente all’epoca lemurica.

4° ciclo o Atonatiuh – età dell’acqua, corrispondente all’epoca atlantica.

 

Nel codice Chimalpopoca, che contiene La storia dei Soli, sono descritti i quattro grandi cataclismi terrestri. Leggo alcuni brani che riguardano la distruzione della Lemuria.

▸«Durante la terza epoca chiamata Quiahtonatiuh (Sole di pioggia di fuoco) cominciò a cadere dal cielo una pioggia di fuoco […] ed in un sol giorno tutto fu distrutto. E nel giorno del dolore detto Chicometecpatl si consumò tutto ciò che esisteva della nostra carne […] E mentre la pioggia di lapilli si estendeva, la terra cominciò a ribollire e le pietre si fecero di colore vermiglio».

 

La sommersione dell’Atlantide, Aztlan nel linguaggio azteco, veniva invece commemorata ogni anno in una festa religiosa speciale detta Atemotzli. Nel Popol-Vuh, o Libro Sacro dei Quichi del Guatemala, si trova una drammatica descrizione del diluvio che sommerse l’Atlantide.

▸«Nel giorno stabilito dalla volontà divina, le acque cominciarono a gonfiarsi e a crescere. Il cielo si sciolse e una spessa resina si posò sulle campagne. La terra s’oscurò e la pioggia continuò a cadere ininterrotta: pioggia di giorno, pioggia di notte. Si sentiva un continuo crepitare sulle pareti delle case. Ben presto la grande inondazione giunse al di sopra delle teste degli uomini. Allora si videro gli uomini correre, spingendosi, pieni di disperazione; volevano salire sui tetti delle case e le case crollando li facevano ricadere a terra; volevano arrampicarsi sugli alberi e gli alberi si sradicavano e li trascinavano via; volevano ripararsi nelle grotte e le grotte si chiudevano e li inghiottivano …».

 

Un’analoga descrizione la troviamo nel già menzionato codice troano, conservato nel Museo Britannico e tradotto dal Plogeon.

▸«Nell’anno 6 del Kan, l’11 Muluc, nel mese di Zac, la terra fu scossa da terribili terremoti che continuarono senza interruzione sino al 13 del mese Chuen. La contrada delle colline d’argilla, il paese di Ma, fu la prima ad essere sacrificata. Dopo essere stata sconvolta in due riprese, scomparve improvvisamente durante la notte. Il suolo oscillava come un mare in tempesta finché cedette del tutto. Si formarono enormi crepacci che separarono le terre le une dalle altre. Ciò avvenne 8060 anni prima della composizione di questo libro».

 

Nella lingua Maya dello Yucatan si chiama epoca Hun-Jecil (sommersione delle foreste) quel tempo in cui la terra fu contemporaneamente invasa dalle acque e scossa dagli sconvolgimenti vulcanici.

Ruggero Dévigne ci fa sapere che «i Peruviani raccontano che il diluvio e lo sconvolgimento seguito dell’emergere delle Ande sopravvennero in seguito ad una straordinaria eclissi di Sole durante la quale ogni luce scomparve per cinque giorni».

 

In tutte queste tradizioni, sia scritte che orali, ci colpisce la precisione dei particolari e l’esattezza scientifica. Perciò non ci possono essere dubbi sul valore obiettivo della loro testimonianza.

I popoli delle Americhe conservarono non solo il ricordo dell’Atlantide, ma anche usi, costumi, cerimonie religiose.

Nella valle d’Anahuac si estendeva il più grande cimitero del Messico. Gli Aztechi lo chiamano Micaotli, la via dei morti. Nel mezzo del cimitero si elevavano due gigantesche piramidi, quella del Sole e quella della Luna. Otto viali d’accesso attraversavano tutta la valle dei morti e terminavano di fronte alle facce delle grandi piramidi. Tutt’intorno i tumuli, secondo la disposizione degli astri. Ogni tumulo era alto 10 metri ed era costruito in forma di piramide. Ogni piramide raccoglieva i morti di una famiglia per più generazioni. I morti venivano posti uno accanto all’altro e uno sopra all’altro, separati da strati di terra.

 

L’usanza della piramide mortuaria proviene dall’Atlante. Gli Atlanti innalzarono questi monumenti funebri dovunque posero piede. Anche gli Etruschi costruirono piramidi e i Latini ne poterono ancora vedere qualcuna a Porsenna. Che cosa è una piramide? Il termine azteco Micaotli è il più giusto: la via dei morti. La piramide s’innalza verso gli astri perdendo sempre più della sua ponderabilità. Così è delle anime umane, che, attraversando il Kamaloka, si spogliano giorno per giorno dei gravami terrestri.

 

Sulle piramidi mortuarie messicane e peruviane si vede scolpito il Fiore del Loto “Chiave di Osiride”: un Tau con sovrapposto un cerchio. Come il Loto, sorgendo dal fango e attraversando le acque, sboccia appena giunge alla luce del Sole, così l’anima, partita dalla terra, e passata attraverso il Kamaloka, festeggia la sua fioritura nei mondi spirituali.

 

L’Atlantide è scomparsa. Gli ultimi discendenti degli Atlanti sono ora relegati in poche riserve, come selvaggina che sta esaurendosi. Siedono all’ombra dei uiguam, le loro strane tende, costruendo frecce e intrecciando canestri.

Un giorno un cacciatore canadese si sedette vicino a un vecchio pellerossa e gli disse: «I vostri giovani corrono veloci per miglia e miglia senza provare stanchezza. I nostri fisiologi, che pur sono uomini di grande sapere, non sanno spiegarsi questo fenomeno che va contro le leggi della vita. Tu che cosa sapresti dirmi?»

Il vecchio scosse il capo: «La nostra forza e la nostra grandezza sono tramontate da un pezzo. Siamo diventati piccoli di statura e abbiamo perduto le nostre forze. Per i nostri avi sarebbe stato facile attraversare di corsa tutto un continente. Le loro forze erano sempre fresche come l’acqua. Anche gli animali in quei tempi erano diversi, molto più grandi e forti di ora. Il castoro e lo scoiattolo erano potentissimi e ci hanno insegnato a costruire sull’acqua e a vivere sugli alberi. Il nostro più grande amico era il coniglio. Il coniglio era un animale bellissimo: grande, forte, coperto di ricca pelliccia, gentile e fedele. Ci veniva sempre appresso e ci serviva da guida nelle immense foreste. Ora tutto è finito. Noi stiamo spegnendoci lentamente come la brace del fuoco».

 

In queste parole risuona il senso della fatalità.

Questo stesso senso di fatalità pervade le parole di Montezuma. Egli disse a Cortez: «Sapevo che tu dovevi venire. L’ho letto nelle stelle. Il tempo stabilito dagli dei è giunto e le profezie sono compiute».

Cortez aveva con sé 500 uomini, 12 archibugi, 3 bocche da fuoco, 16 cavalli. Con questi mezzi in poco tempo ridusse in cenere un grande e civile impero. Nessuno degli Aztechi si difese; tutti si lasciavano trucidare senza opporre resistenza.

 

L’impero degli Incas fu sopraffatto da soli 150 uomini guidati da Diego de Almagro. Anche qui fu una carneficina generale senza che dalle bocche delle vittime uscisse un solo lamento. Gli occhi dei morenti erano rivolti al cielo: là stavano gli dei e gli avi che li avrebbero accolti tra breve.

Così passò l’Atlantide anche nella memoria degli uomini. Sulle immense distese dell’oceano battono l’ali le procellarie. Altri cataclismi aspettano l’umanità. Niente dura nel mondo. Solo lo spirito è eterno.