Le concezioni medievali del mondo

O.O. 18 – Gli enigmi della filosofia – I (Le concezioni medievali del mondo)


 

Come un segno precursore appare, con Agostino (354-430), un nuovo elemento prodotto dalla vita stessa del pensiero. Questo si confonderà con la corrente delle rappresentazioni religiose che lo sommergeranno, per riemergere poi in un modo più distinto nel tardo Medio Evo. Presso Agostino, l’elemento nuovo è come una reminiscenza della vita greca del pensiero. Egli guarda intorno a sé e in sé, e si dice: può essere incerto ed illusorio ciò che il mondo ci rivela, una cosa è indubitabile: la sicurezza dell’esperienza dell’anima stessa. Questa non mi giunge attraverso percezioni che possano ingannarmi; io sono nell’interno di essa stessa; essa è giacché io assisto al momento in cui il suo essere è attribuito ad essa.

In queste rappresentazioni, possiamo scorgere qualche cosa di nuovo rispetto alla vita del pensiero greco, sebbene esse sembrino una reminiscenza di questo. Il pensiero greco mette in rilievo l’anima; Agostino mette in rilievo il punto centrale della vita animica.

 

I pensatori greci consideravano l’anima nella sua relazione col mondo.

Per Agostino, qualcosa si contrappone a se medesima entro la vita stessa dell’anima

e ciò è per lui come un mondo particolare, chiuso in se stesso.

Il punto centrale della vita animica si può chiamare « io ».

Per i pensatori greci, diventa un enigma il rapporto tra l’anima e il mondo,

per i nuovi pensatori, l’enigma consiste nel rapporto tra l’« io » e l’anima.

 

Presso Agostino vediamo solo gli albori di questa tendenza; le elaborazioni ulteriori della concezione del mondo sono ancora troppo impegnate a stabilire l’accordo tra conoscenza e religione perché l’elemento nuovo, ora penetrato nella vita dello spirito, possa già venire chiaramente a coscienza. Eppure nei tempi che seguono, vive, più o meno incosciente nelle anime, l’aspirazione a considerare gli enigmi del mondo come lo richiede il nuovo elemento.

 

Presso pensatori come Anselmo da Canterbury (1070-1109) e Tommaso d’Aquino (1227-1274) questo si rivela ancora nel fatto che essi ascrivono al pensiero umano, poggiato su se stesso, la facoltà di esplorare fino ad un certo punto i fenomeni del mondo. Per loro esiste una realtà spirituale più alta, irraggiungibile dal pensare lasciato alle proprie forze, e che deve rivelarsi in modo religioso.

 

Secondo Tommaso d’Aquino, l’uomo con la sua vita animica è inserito nella realtà del mondo, ma la vita animica non è capace in se stessa di afferrare tutto il campo di questa realtà. L’uomo non potrebbe sapere come il suo essere stia nel complesso del mondo, se l’essere spirituale, che la sua conoscenza non raggiunge, non si chinasse verso di lui e non gli comunicasse per via di rivelazione ciò che deve rimanere sempre ignoto alla conoscenza basata solo su se stessa.

 

Su questo presupposto, Tommaso d’Aquino edifica la sua immagine del mondo.

Essa è costituita da due parti:

• la prima contiene le verità che il pensiero scopre da sé intorno al processo naturale delle cose;

• questa parte confluisce in un’altra, nell’ambito della quale

troviamo le verità trasmesse dalla Bibbia e dalla rivelazione religiosa all’anima umana.

Così se l’anima vuole sentirsi nella sua essenza integrale,

deve penetrare in essa qualche cosa di irraggiungibile per la sua intima vita.

 

Tommaso d’Aquino conosce intimamente la concezione del mondo aristotelica; Aristotele è il suo maestro del pensiero. Tommaso è la più eminente fra le numerose individualità del Medio Evo che hanno edificato il loro sistema sul solo terreno filosofico di Aristotele. Per secoli, quest’ultimo sarà « il maestro di color che sanno », secondo l’espressione di Dante che traduce la venerazione del Medio Evo per Aristotele.

Tommaso d’Aquino si sforza di afferrare in modo aristotelico quanto è afferrabile dall’uomo. Il sistema di Aristotele è la sua guida fino al limite dove possa giungere, con le proprie forze, la vita animica; al di là di questo limite si estende ciò che, secondo Tommaso, la concezione greca del mondo non poteva raggiungere.

Per Tommaso d’Aquino, il pensare umano richiede un’altra luce da cui esso debba essere illuminato. Egli trova questa luce nella rivelazione. Qualunque posizione i pensatori ulteriori abbiano poi assunto di fronte alla rivelazione, essi non poterono più rivivere la vita del pensiero come presso i greci. Non è sufficiente che il pensiero capisca il mondo; essi presuppongono che vi debba essere la possibilità di dare al pensare un appoggio. Si delinea l’aspirazione ad esplorare il rapporto dell’uomo con la sua vita animica.

 

L’uomo considera se stesso come un essere che è presente nella sua vita animica.

Se chiamiamo « io » questo, possiamo dire che

• nei tempi più recenti si afferma nella vita animica la coscienza dell’« io »,

come nell’evoluzione delle concezioni greche del mondo nacque il pensiero.

 

Per quanto diversi possano essere i tentativi di creare concezioni del mondo in questa epoca, essi si accentrano tutti intorno allo studio dell’essenza dell’io. Ma questo fatto non appare sempre chiaro alla coscienza dei pensatori. Credono per lo più di dedicarsi a tutt’altri problemi. Si potrebbe dire che « l’enigma dell’io » appaia sotto le maschere più diverse. Talvolta esso è così nascosto nelle concezioni del mondo dei pensatori, che l’affermazione che nell’una o nell’altra teoria si tratti di questo problema suona arbitraria o forzata. Nel secolo decimonono, la lotta con « l’enigma dell’io » si manifesta con l’intensità massima; e le concezioni del mondo odierne vivono in mezzo a questa lotta.

 

Questo enigma del mondo appare già nella lotta tra realisti e nominalisti. Anselmo da Canterbury può essere definito un patrocinatore del realismo. Per lui, i concetti generali che l’uomo elabora quando osserva il mondo, non sono mere designazioni, create dall’anima, ma hanno radici in una vita reale. Quando ci si foggia il concetto generico del « leone », per designare poi tutti i leoni, è certo che nell’esistenza sensibile non vi sono in realtà che i singoli leoni; ma il concetto generico « leone » non è però una semplice designazione sommaria che abbia solo importanza per l’uso che ne fa l’anima umana. Esso ha le radici in un mondo spirituale, ed i singoli leoni che si trovano nel mondo sensibile sono incarnazioni molteplici dell’unica « natura leonina » che si esprime nell’« idea del leone ».

 

Si opposero contro una tale « realtà delle idee », nominalisti quali Roscellino (anch’egli nel secolo undecimo). Secondo lui, le « idee universali » non sono che denominazioni sommarie, nomi, che l’anima foggia a suo uso per orientarsi, ma che non corrispondono ad una realtà. Solo i singoli oggetti sono reali. Questo conflitto è caratteristico dell’atteggiamento animico dei suoi protagonisti.

 

Ambedue sentono la necessità di indagare quale valore, quale significato abbiano i concetti che l’anima deve foggiarsi. Essi si comportano di fronte al pensiero in un modo diverso da quello di Platone e di Aristotele. E questo è causato dal fatto che, fra il termine dell’evoluzione della concezione greca del mondo e l’inizio di quella moderna si è compiuto qualcosa che, dissimulato sotto la superficie dell’evoluzione storica, appare pure nell’atteggiamento delle personalità di fronte alla loro vita di pensiero.

 

• Al pensatore greco, il pensiero si presentava come una percezione: s’imponeva all’anima, come il colore purpureo s’impone all’uomo che contempla una rosa rossa. Il pensatore l’accoglieva come una percezione. Come tale il pensiero aveva una forza di persuasione immediatissima. Il pensatore greco aveva la sensazione che, quando egli si apriva al mondo spirituale, non potesse giungere alla sua anima un concetto erroneo; era impossibile come se, dalla giusta osservazione del mondo sensibile, gli fosse giunta la visione di un cavallo alato. Per il greco si tratta di saper creare dal mondo i concetti. Questi provano da sé la loro verità. La sofistica non si oppone a questa opinione, e neppure lo scetticismo. Nell’antichità, queste due tendenze avevano un colorito ben diverso dall’odierno; non è in contraddizione il fatto, particolarmente chiaro nei caratteri dei vari pensatori, che il greco, sentisse il pensiero in modo più elementare, più ricco di contenuto, più vivido, più reale di quanto possa l’uomo moderno.

 

Questa vividezza che conferiva al pensiero greco il carattere di una percezione non si trova già più nel Medio Evo. E’ avvenuto che, come nell’epoca greca il pensiero era penetrato nell’anima umana soppiantando l’antica conoscenza immaginativa, così, in epoca medievale, s’impone alle anime la consapevolezza dell’« io », e questa smorza la vividezza del pensiero, gli toglie la sua forza di percezione.

Possiamo solo riconoscere quanto sia evoluta la concezione del mondo, se consideriamo che il pensiero, l’idea erano, infatti, per Platone e per Aristotele tutt’altra cosa che per i pensatori del Medio Evo e dei tempi moderni.

 

Il pensatore antico aveva il sentimento che il pensiero gli fosse dato,

il pensatore dei tempi successivi ha la sensazione di formare il pensiero, e così a lui si pone il problema:

quale significato può avere per la realtà ciò che si forma nell’anima?

Il greco si sentiva, come anima, separato dal mondo; nel pensiero, egli cercava di collegarsi al mondo spirituale;

il pensatore più recente si sente solo con la sua vita di pensiero.

Così nasce l’indagine intorno alle « idee universali ».

L’uomo si chiede: che cosa ho dunque creato con queste idee?

Esse hanno la loro origine solo in me, o indicano una realtà?

 

Nei tempi compresi tra l’antica corrente delle concezioni del mondo e la corrente moderna, si esaurisce la vita del pensiero greca; ma sotto la superficie la consapevolezza dell’io s’impone all’anima umana come un fatto.

Già a metà del Medio Evo, l’uomo si trova dinanzi a questo fatto compiuto; e la forza di questa consapevolezza fa evolvere una nuova categoria di enigmi della vita.

 

Il realismo ed il nominalismo sono il sintomo che l’uomo sente che questo fatto è compiuto. Il modo in cui queste due tendenze parlano del pensiero, dimostra che, rispetto alla sua esistenza nell’anima greca, esso si era tanto impoverito e impallidito, quanto l’antica coscienza immaginativa nell’anima del pensatore greco.

Così abbiamo indicato l’elemento dominante che appare nelle concezioni del mondo più recenti. In queste concezioni opera una forza che anela, al di sopra del pensiero, ad un nuovo fattore di realtà.

 

Possiamo avvertire questo anelito dei tempi moderni come dissimile da quello che, anticamente con Pitagora o più tardi con Plotino, mirava a innalzarsi sopra il pensiero. Anche loro cercano di superare il pensiero, ma credono che l’evoluzione dell’anima, il suo perfezionamento, debba conquistarsi quella regione che è al di sopra del pensiero.

Il tempo moderno presuppone che il fattore di realtà che è al di sopra del pensiero debba essere dato all’anima dall’esterno, ch’esso debba giungere ad essa.

L’evoluzione delle concezioni del mondo si trasforma, nei secoli che seguono il nominalismo ed il realismo, in una ricerca del nuovo fattore di realtà.

 

Fra le vie che si palesano allo studioso di questa ricerca, vi è quella battuta dai mistici medievali: Meister Eckhart (morto nel 1329), Johannes Tauler (morto nel 1361), Heinrich Suso (morto nel 1365). Questa via ci appare soprattutto tramite lo studio della cosiddetta Teologia Germanica, opera di uno scrittore ignoto.

Questi mistici vogliono ricevere qualche cosa nella coscienza dell’io, vogliono riempirla. Essi anelano a realizzare una vita interiore « tutta di abbandono », che sprofondi nella quiete ed aspetti così che « l’io divino » scenda a colmare l’intimo dell’anima. Un simile stato d’anima lo troveremo in seguito con slancio di spirito più forte ancora, presso Angelo Silesio (1624-1677).

 

Niccolò Cusano (Niccolò Chrypffs, nato a Kues sulla Mosella nel 1401, morto nel 1464) segue un’altra via. Al di là della scienza raggiungibile dal pensiero, egli mira a raggiungere uno stato d’anima in cui questa scienza finisca e l’anima incontri il suo Dio nella « docta ignorantia », l’ignoranza sapiente.

Questo anelito esaminato superficialmente ha molta analogia con quello di Plotino. Ma la concezione dell’anima è ben diversa in queste due personalità.

 

Plotino è convinto che nell’anima umana vi sia altro, oltre al mondo del pensiero. Quando l’anima sviluppa le forze ch’essa ha indipendentemente dal pensiero, arriva — consapevolmente — lì dove è sempre, senza esserne cosciente nella vita quotidiana.

 

Cusano si sente solo con il suo « io »; il quale non ha in se stesso nessun collegamento con il suo Dio. Dio è fuori dell’« io ». Incontra l’« io » solo quando questo raggiunge la « docta ignorantia ».

 

Paracelso (1493-1541) prova già, dinanzi alla natura, un sentimento che si andrà sempre maggiormente affermando nella concezione del mondo più moderna e che è un effetto dell’isolamento sentito dall’anima nella coscienza dell’io. Egli osserva i fenomeni naturali. L’anima non può accettarli nel modo in cui essi si presentano; ma neppure il pensiero, che per Aristotele si svolgeva in armonia serena con i fenomeni naturali, può essere accettato così come si presenta nell’anima. Esso non viene percepito: viene formato nell’anima.

Paracelso sentiva che non si può lasciar parlare il pensiero da solo. Bisogna presupporre che dietro i fenomeni naturali vi sia qualche cosa che si svela quando ci si pone nella giusta relazione con essi. Dobbiamo riuscire ad accogliere qualche cosa dalla natura che non formiamo noi stessi al suo cospetto così come formiamo il pensiero. Dobbiamo essere collegati al nostro « io », tramite un altro fattore di realtà che non sia il pensiero.

 

Dietro alla natura Paracelso è in cerca di una « natura più eccelsa ».

La sua disposizione d’anima è tale che egli non vuole sperimentare nulla solo in se stesso per raggiungere le basi dell’essere, ma vuole penetrare con il proprio io i fenomeni naturali, per scoprire sotto la superficie del mondo dei sensi lo spirito di questi fenomeni. I mistici dell’antichità volevano discendere nel profondo dell’anima: afferrare ciò che nel mondo esterno ci permette di giungere alle radici della natura, tale era anche lo scopo di Paracelso.

 

Jacob Bohme (1575-1624), artigiano solitario e perseguitato, che si foggiò un’immagine del mondo in virtù di una interna illuminazione, conferisce anche a questa immagine la caratteristica dell’epoca moderna. Anzi, nella solitudine della sua anima, egli sviluppa, in modo molto particolare, tale carattere essenziale, poiché alla sua visione spirituale appare la dualità interna dell’anima, il contrasto fra l’« io » e le altre esperienze animiche. Egli sperimenta l’« io » come ciò che crea nella propria vita animica il dissidio interiore, quale esso si riflette nella propria anima. Egli ritrova questa esperienza interiore nei fenomeni del mondo. Bòhme vede in questa esperienza la frattura che si estende dappertutto.

« A questo riguardo troviamo due qualità, una buona ed una cattiva, le quali in questo mondo sono insite in tutte le forze, negli astri e negli elementi e perfino in tutte le creature ». Anche il male nel mondo è il riflesso del bene; il bene appare solo riconoscibile nel male, come l’io diventa percettibile a se stesso nelle sue esperienze animiche.