Come si sperimentava il ciclo della natura negli antichi misteri.

O.O. 223 – Il corso dell’anno come respiro della Terra e le quattro grandi festività – 08.04.1923


 

Sommario: Come si sperimentava il ciclo della natura negli antichi misteri. Piena estate: ricevi la luce! Illuminazione divino-morale. Autunno: guardati attorno! (Conoscenza). Inverno: guardati dal male! (Temperanza). Primavera: conosci te stesso. (Penitenza). Conoscenza naturale, conoscenza spirituale. Nella scienza si manifesta ciò che non è spirituale. Il rinnovamento della festa di Michele come festa del coraggio animico.

 

Per portare a un più ampio orizzonte quel che ho detto ieri in merito alla relazione che, sotto l’influenza dei misteri, vi era fra gli uomini e il corso della natura, oggi desidero occuparmi di ciò che in quegli antichi tempi si credeva riguardo a tutto quello che gli uomini ricevevano dall’universo tramite il corso della natura.

Forse, ricordando quel che avevo detto nell’ultimo periodo natalizio su queste cose ancora nel Goetheanum che ora ci è stato strappato, dalla conferenza di ieri si sarà potuto rilevare che il corso dell’anno, con le sue manifestazioni, veniva sentito, e anche oggi potrebbe essere sentito, come l’espressione esteriore di un essere vivente che vi sta dietro, così come le espressioni dell’organismo umano sono le manifestazioni di un essere, dell’anima umana.

 

Ricordiamoci come, sotto l’influenza degli antichi misteri, nel periodo della piena estate, nel tempo che oggi sentiamo di San Giovanni, gli uomini avvertissero un certo nesso col loro io, con l’io che però allora non potevano ancora ascrivere unicamente a se stessi, ma che ponevano nel grembo dell’elemento divino-spirituale.

Quegli uomini, grazie a tutti gli eventi che ho descritto, credevano appunto di avvicinarsi, nel periodo della piena estate, all’io che nel restante corso dell’anno era loro nascosto. Naturalmente, credevano che tutto il loro essere fosse nel grembo delle entità divino-spirituali; solo, pensavano che nulla si manifestasse riguardo all’io nei rimanenti tre quarti dell’anno, e che solo nel quarto dell’anno che culminava nel tempo di San Giovanni l’entità del loro io si manifestasse in certo qual modo attraverso una finestra aperta dal mondo divino-spirituale.

 

Ma l’essenza del loro io che si manifestava entro il mondo divino-spirituale, non era pensata mediante una forma di conoscenza neutrale, indifferente (si potrebbe anche dire flemmatica) come avviene oggi.

Quando oggi si parla dell’io, l’uomo in effetti non pensa che vi sia qualche reale rapporto con questo o quel mondo. Pensa l’io in certo qual modo come un punto dal quale irraggia quel che egli fa e nel quale converge quel che egli conosce.

 

Senz’altro oggi si ha una sorta di sentimento flemmatico del proprio io.

Neppure si può dire che l’uomo di oggi nel proprio io, sebbene questo in effetti sia l’ego, senta il vero e proprio egoismo; se infatti vuol essere onesto, non può certo dire di amare particolarmente il proprio io.

L’uomo ama il proprio corpo, i propri istinti, le proprie diverse esperienze,

ma l’io è soltanto una parolina e viene sentito come un punto

nel quale tutto ciò che è stato accennato viene più o meno riassunto.

 

Nel tempo però in cui l’avvicinamento all’io avveniva con le feste,

in cui a lungo ci si preparava al fine di incontrarlo, per così dire, nell’universo,

nel tempo in cui di nuovo si sentiva come a poco a poco l’io si ritirasse e lasciasse l’uomo col suo essere fisico-animico

(oggi lo chiameremmo essere fisico-eterico-astrale),

in quel tempo si sentiva realmente l’io in relazione con tutto il cosmo, con tutto il mondo.

 

Soprattutto, ciò che si sentiva dell’io nella sua relazione col mondo non era qualcosa di naturalistico, per usare una parola di oggi; non era qualcosa da intendersi solo come fenomeno esterno, ma in sostanza era il punto centrale di un’antichissima visione morale del mondo.

In quel tempo non si supponeva che all’uomo si manifestassero grandi segreti della natura. Abbiamo visto ieri che allora gli uomini non ponevano attenzione in prima linea ai grandi misteri della natura; avevano piuttosto la sensazione di dover anzitutto accogliere gli impulsi morali che si manifestavano in piena estate, quando la luce e il calore raggiungono il massimo livello. Era il tempo che l’uomo sentiva come quello dell’illuminazione divino-morale, il tempo in cui si voleva sentire la risposta dei cieli alla musica, alla poesia alle danze che allora si curavano, e si attendeva che dai cieli si manifestasse con tutta serietà ciò che appunto i cieli pretendevano dagli uomini in campo morale.

 

Quando poi succedeva che si svolgessero le feste che ieri ho descritto, e che nell’afoso calore della piena estate scoppiasse un poderoso temporale con tuoni e lampi, appunto nei tuoni e nei lampi si sentiva il monito morale dei cieli all’umanità terrena. Di quei tempi antichi è rimasto ciò che si trova nell’immagine di Zeus, il dio del tuono che dispone dei lampi. Qualcosa di simile vi è anche nel dio tedesco Donar. Questo da un lato, ma si può dire anche dell’altro.

 

Si sentiva allora anche di notte quel che la natura calda, satura e luminosa offriva di giorno, e lo si distingueva dicendosi: durante il giorno l’aria è riempita di calore e di luce, e in essi tessono e vivono i messaggeri spirituali attraverso i quali si vogliono manifestare agli uomini le elevate entità spirituali che intendono offrire loro gli impulsi morali. Però di notte, quando si ritirano le alte entità spirituali, rimangono i messaggeri che si manifestano alla loro maniera. Soprattutto nel pieno dell’estate, si sentiva l’operare della natura nelle notti, nelle serate estive. Quel che allora si sperimentava era come un sogno estivo vissuto nella realtà, un sogno grazie al quale ci si avvicinava in modo speciale al mondo divino-spirituale, un sogno estivo da cui si veniva persuasi che tutti i fenomeni della natura erano nel contempo linguaggio morale degli dèi, e che operavano e si mostravano agli uomini a loro modo anche diversi esseri elementari.

 

Quanto si presenta nel sogno estivo, nel sogno della notte di San Giovanni, è un ricordo delle meravigliose espressioni dell’immaginazione per tutto ciò che compenetrava quale elemento spirituale-animico il periodo della piena estate, ma che veniva accolto in generale dagli uomini quale rivelazione morale divino-spirituale del cosmo.

 

Possiamo quindi dire che la rappresentazione che ne era alla base indicava

• che nella piena estate il mondo divino-spirituale trasmetteva impulsi morali,

istillandoli negli uomini per illuminazione (vedi schema seguente).

• Si sentiva in modo speciale ciò che agiva sugli uomini e sulla loro organizzazione,

e che aveva un carattere sovrumano.

• Partecipando a quelle festività, gli uomini di allora sapevano che erano stati elevati al di sopra di loro stessi,

nell’elemento sovra-umano, e che per così dire la divinità accettava la mano che l’umanità in quel periodo porgeva.

• Si ascriveva alle rivelazioni del tempo di San Giovanni tutto ciò che si credeva di avere di divino-spirituale.

 

Quando poi l’estate volgeva al termine e avanzava l’autunno, quando le foglie appassivano e i semi maturavano, quando le foglie cadevano dagli alberi e sbiadiva la turgida vita dell’estate, si sentiva (poiché ovunque in quel periodo fluivano le conoscenze dei misteri) che il mondo divino-spirituale di nuovo si ritirava dagli uomini.

 

Si sentiva di essere rinviati a se stessi, si passava per così dire dalla sfera spirituale alla natura.

L’uomo sentiva l’inoltrarsi nell’autunno come un uscire dalla sfera spirituale, come un vivere entro la natura.

Le foglie degli alberi si mineralizzavano, il seminato essiccava e si mineralizzava.

Per così dire, tutto si piegava alla morte annuale della natura.

 

Mentre ciò che era sulla Terra e la circondava andava stessendosi nel divenire minerale, si sentiva l’intessersi dell’uomo stesso nella natura. A quei tempi la vita interiore dell’uomo partecipava più da vicino a quanto avveniva all’esterno. Nello stesso modo in cui egli si intesseva nella natura, così egli pensava, percepiva nei sensi; tutti i suoi pensieri assumevano quel carattere.

Se oggi volessimo esprimere nel nostro linguaggio quel che allora gli uomini sentivano quando arrivava l’autunno (tenendo anche presente che oggi uso parole che non si potevano usare nelle condizioni di quei tempi), dovremmo dire che allora tutto era senz’altro sensazione, che non si caratterizzavano le cose con pensieri.

Usando parole di oggi si dovrebbe dire: l’uomo sentiva che quel passaggio, tramite la propria direzione di pensiero e la propria sensazione, lo portava da una conoscenza dello spirito a una conoscenza della natura (vedi schema).

Così, verso l’autunno ci si sentiva di non tendere più alla conoscenza dello spirito; l’autunno infatti richiedeva dall’uomo di conoscere la natura. Quindi con l’autunno non si avevano più impulsi morali, ma una conoscenza della natura. Si cominciava a riflettere sulla natura.

 

 

Così era nell’epoca in cui si riteneva che l’uomo fosse una creatura, un essere nell’ambito del cosmo. Allora sarebbe stato considerato privo di senso richiedere in estate agli uomini la conoscenza della natura nella forma di allora.

L’estate esisteva per mettere gli uomini in contatto con l’elemento spirituale del mondo.

Quando poi cominciava il tempo che oggi chiamiamo di Michele si diceva che gli uomini, sentendo tutto quel che era loro attorno nei boschi, negli alberi e nelle piante, erano spinti a conoscere la natura.

In generale era questo il tempo in cui essi dovevano attivarsi alla conoscenza, alla riflessione. Era anche il tempo in cui ciò era reso possibile dalle condizioni della vita. Dunque, nella vita umana si andava dall’illuminazione alla conoscenza; era il tempo della conoscenza che sempre andava aumentando.

 

Quando i discepoli dei misteri ricevevano l’insegnamento dai loro maestri, venivano date loro delle massime, che poi in qualche modo ritroviamo nei detti dei saggi greci. Le sette massime dei sette saggi greci non sono però quelle dei misteri originari.

 

In questi, per il colmo dell’estate la massima era: Ricevi la luce,

e con la luce in effetti si indicava la saggezza spirituale,

si indicava dunque ciò entro cui irraggiava il proprio io umano.

Per l’autunno nei misteri era indicata la massima che esortava l’anima a fare quel che doveva:

Guarda attorno a te.

 

Nel corso dell’anno si avvicinava poi l’inverno,

e con esso anche ciò che l’uomo sentiva in sé legato con quella parte dell’anno.

Siamo nel profondo inverno, nel cui periodo cade il nostro Natale.

• Come nella piena estate l’uomo si sentiva sollevato oltre se stesso all’esistenza divino-spirituale del cosmo,

• così nel profondo inverno si sentiva trascinato al di sotto di se stesso;

per così dire, si sentiva lambito, afferrato dalle forze della Terra.

 

Sentiva come se la sua natura volitiva e istintiva fossero compenetrate e attraversate da forza di gravità, da forza distruttiva e da altre forze che sono nella Terra. In quegli antichi tempi l’uomo non sentiva l’inverno come lo sentiamo noi, che sentiamo solo il freddo che ci costringe a mettere gli stivali, ma sentiva che dalla Terra saliva qualcosa che gli si univa nell’essere. Sentiva il contrasto fra l’afoso elemento di luce e il gelo che saliva dalla Terra.

Ancora oggi noi sentiamo il gelo, perché si riferisce alla corporeità, ma gli antichi sentivano nell’anima l’oscurità, come fenomeno che accompagnava il gelo. Ovunque andassero, sentivano come se dalla Terra salisse l’oscurità e li rinchiudesse in una nuvola, però solo fino alla metà del corpo.

Ora devo di nuovo caratterizzare il fenomeno con altre parole; essi si dicevano dunque:

• nella piena estate eravamo di fronte a una illuminazione,

e quanto è celeste e sopraterreno fluiva nel mondo terreno;

ora però sale l’elemento terrestre.

 

L’uomo sperimentava e sentiva l’elemento terrestre già nell’autunno;

sperimentava però la natura umana che per così dire era ancora a lui conforme, gli era ancora legata.

Possiamo anche dire che in autunno sentiva la natura nella propria anima, nel proprio mondo di sentimenti.

 

Ora però sentiva come se la Terra lo volesse assorbire, come se le forze della Terra irretissero la sua natura volitiva.

Sentiva ciò come il contrario dell’ordine cosmico morale.

Nell’oscurità che lo avvolgeva in forma di nuvola

sentiva in pari tempo che forze avverse irretivano la sua sfera morale.

Sentiva l’oscurità salire dalla Terra in forma di serpente e avvolgerlo.

 

Assieme a tutto ciò, sentiva in pari tempo anche dell’altro. Già durante l’autunno aveva sentito che si destava un poco ciò che oggi chiamiamo intelletto. Mentre in estate l’intelletto in qualche modo esalava e da fuori gli giungevano la moralità e la saggezza, durante l’autunno l’intelletto si consolidava. L’uomo si avvicina al male, ma il suo intelletto si consolida.

 

Nel profondo inverno si sentiva senz’altro qualcosa come la manifestazione di un serpente,

•  ma in pari tempo il consolidarsi, il rafforzarsi dell’intelligenza, della riflessione,

di ciò che rende l’uomo astuto e scaltro, che lo sprona a seguire nella vita il principio del vantaggio.

Si sentiva tutto ciò.

 

• Come a poco a poco in autunno aumentava la conoscenza della natura,

• così nel profondo inverno gli uomini sentivano la tentazione dell’inferno, la tentazione da parte del male.

 

Così sentivano. Se quindi nel nostro schema (vedi a pagina 47)

per l’estate scriviamo “Impulso morale

e a San MicheleConoscenza della natura”,

per il profondo inverno dobbiamo scrivere “Tentazione del male”.

 

Era appunto il tempo in cui l’essere umano doveva sviluppare ciò che in lui comunque s’associa secondo natura:

la scaltrezza, la furbizia, l’astuzia,

facoltà tutte tese a ciò che è vantaggioso e che lui doveva dominare con la temperanza.

Era appunto il tempo in cui l’uomo non doveva sviluppare il senso aperto alla saggezza che gli era richiesta,

secondo l’antica saggezza dei misteri, nel periodo dell’illuminazione.

 

Proprio nel periodo in cui il male si manifestava nel modo indicato,

egli poteva sentire la resistenza al male nel modo adeguato: doveva divenire temperato.

Soprattutto ora, dopo il passaggio dall’illuminazione alla conoscenza,

dalla conoscenza dello spirito alla conoscenza della natura,

doveva passare dalla conoscenza della natura alla contemplazione del male.

 

Così lo si comprendeva, e ai discepoli dei misteri, ai quali i maestri avevano dato la direttiva

• per la piena estate: “Ricevi la luce”

• e per l’autunno: “Guarda intorno a te”,

• per il profondo inverno suggerivano: Guardati dal male.

 

Si faceva conto che grazie alla temperanza e a questo guardarsi dal male gli uomini arrivassero a una sorta di autoconoscenza che li portasse a riconoscere come, nel corso dell’anno, essi si fossero allontanati dagli impulsi morali.

Il deviare dagli impulsi morali tramite la contemplazione del male, e il suo superamento grazie alla temperanza, doveva arrivare alla coscienza dell’uomo proprio nel tempo che seguiva il più profondo inverno.

In quella saggezza entravano quindi molte cose che guidavano gli uomini, ad esempio a far penitenza quando si rendevano conto di essersi allontanati dagli impulsi morali ricevuti con l’illuminazione.

 

Ci avviciniamo ora alla primavera. Sempre nel nostro schema di pagina 47,

• come per l’estate abbiamo l’illuminazione,

• per l’autunno la conoscenza

• e per il profondo inverno la temperanza,

• così per la primavera abbiamo quella che era sentita come penitenza.

 

Al posto della conoscenza, e più precisamente della tentazione da parte del male, si aveva ora qualcosa che si potrebbe chiamare il ritornare, il volgersi di nuovo alla propria natura superiore, grazie alla penitenza. Come abbiamo scritto: Illuminazione, Conoscenza, Temperanza, dobbiamo ora scrivere: Ritorno alla natura umana.

 

Se ora guardiamo di nuovo a quello che nel profondo inverno era il tempo della tentazione da parte del male, dovremo dirci che allora l’uomo si sentiva sprofondato negli abissi della Terra; si sentiva irretito dall’oscurità della Terra. Come durante la piena estate egli era in certo qual modo strappato a se stesso e la sua anima veniva sollevata al di sopra di lui stesso, così ora in inverno, per non essere interiormente irretita dal male, l’anima si rendeva libera. Direi che in inverno vi era la controimmagine di quel che vi era stato in piena estate.

 

Nella piena estate i fenomeni della natura parlavano in modo spirituale; soprattutto nel lampo e nel tuono si cercava il linguaggio dei cieli. Si guardavano i fenomeni della natura, ma vi si cercava il linguaggio dello spirito. Nel tempo di Giovanni si cercava il linguaggio spirituale degli esseri elementari anche nelle cose più insignificanti, però all’esterno; per così dire, si sognava al di fuori di se stessi.

 

Nel profondo inverno ci si immergeva e si sognava in se stessi.

Liberandosi dall’irretimento della Terra, l’uomo sognava in se stesso, se riusciva a liberare la propria anima.

Di tutto ciò è rimasto quel che si collega all’interiore veggenza delle tredici notti che seguono il solstizio d’inverno.

Ovunque sono rimasti ricordi di quegli antichi tempi. Proprio nella leggenda norvegese di Olaf

possiamo riconoscere un tardo riflesso di quel che esisteva in misura ben maggiore in tempi antichi.

 

Poi veniva la primavera.

Oggi i tempi si sono un po’ spostati, ma la primavera era allora più vicina all’inverno.

In generale, l’anno era suddiviso in tre periodi.

Le cose non erano nettamente suddivise, ma nondimeno veniva insegnato quel che ora dirò.

 

Come verso la piena estate si diceva: “Ricevi la luce”,

come verso l’autunno, per il tempo di Michele, si diceva: “Guarda attorno a te”,

e per il profondo inverno, per il tempo in cui ora si festeggia il Natale, si diceva: “Guardati dal male”,

così, per il periodo opposto, si aveva una massima che allora era ritenuta efficace per quel periodo:

Conosci te stesso, appunto contrapposta alla conoscenza della natura.

 

“Guardati dal male” potrebbe anche essere espresso altrimenti: guardati, stai lontano dall’oscurità della Terra; però non lo si diceva. Mentre per la piena estate si prendeva per saggezza il fenomeno naturale della luce, cioè per quel periodo si parlava per così dire in modo naturale, per l’inverno non si sarebbe posta la massima nella frase: “Guardati dall’oscurità”, ma le si sarebbe data un’indicazione morale: “Guardati dal male”.

 

• Dappertutto sono rimasti accenni di quelle festività, almeno per quel che se ne è capito,

e naturalmente tutto si è modificato con il grande evento del Golgota.

• Nel periodo della più profonda tentazione umana, nell’inverno, si ebbe la nascita di Gesù:

nel tempo in cui l’uomo era imprigionato dalle potenze della Terra, sprofondato per così dire negli abissi della Terra.

 

Fra le saghe che si collegano alla nascita di Gesù, ve ne è una che racconta come Egli sarebbe nato in una cavità del mondo, riferendosi appunto a qualcosa che era sentito come saggezza nei misteri più antichi: e cioè che l’uomo può trovare là quel che deve cercare, sebbene sia imprigionato nell’oscurità della Terra, oscurità che contiene al tempo stesso i motivi per cui egli possa cedere al male. Un’eco di tutto ciò è che dopo, all’avvicinarsi della primavera, sia situato il tempo della penitenza.

 

Naturalmente, la comprensione della festa della piena estate è ancora più sbiadita che non quella dell’altra parte del corso dell’anno. Quanto più infatti il materialismo si diffuse nell’umanità, tanto meno ci si sentì attratti dall’illuminazione o da altro del genere.

Per l’umanità attuale è di importanza del tutto speciale il tempo che dall’illuminazione, che dapprima rimane ancora inconscia per gli uomini, porta all’autunno. Lì vi è il punto in cui l’uomo, che comunque deve arrivare alla conoscenza della natura, deve cogliere in essa l’immagine di una conoscenza divino-spirituale.

Allo scopo, nulla vi è di meglio che una festa del ricordo come quella di Michele.

Per festeggiarla giustamente, da essa deve scaturire la comprensione tutta umana del problema: come ritrovare la conoscenza dello spirito nell’attuale grandiosa conoscenza della natura? come metamorfizzare la conoscenza della natura in modo che diventi conoscenza dello spirito? in altre parole, come si vince ciò che, lasciato a sé, dovrebbe imprigionare l’uomo nell’elemento subumano?

 

Deve avvenire una svolta: la festa di Michele deve avere un determinato significato, ed esso risulta sentendo nel seguente modo: la scienza ha portato gli uomini a conoscere un lato dell’evoluzione del mondo; ad esempio, che nel corso del tempo da organismi animali inferiori ne sono risultati altri superiori e più perfetti, fin su all’uomo, oppure che durante l’evoluzione embrionale nel corpo della madre l’essere umano percorre una dopo l’altra le forme animali. Questo è però solo un lato: l’altro ci si presenta all’anima dicendo che l’uomo dovette evolversi dal proprio nucleo originario divino-umano. Se quello tratteggiato in chiaro (vedi disegno seguente) è l’originario nucleo umano, l’essere umano dovette evolversi alla propria attuale forma in questo modo: espellendo a poco a poco da sé dapprima gli animali inferiori, e quindi in seguito tutto ciò che è presente nelle forme animali. Questo è ciò che egli ha superato, eliminato da sé, espulso (il tratteggio più scuro).

 

 

Così l’uomo è arrivato alla sua destinazione originaria, e lo stesso avviene nel suo sviluppo embrionale.

Elimina a poco a poco tutto ciò che egli non deve essere.

Così però non otteniamo il vero senso dell’attuale conoscenza della natura.  Quale è infatti il suo vero senso?

È nella frase:

• “In ciò che ti mostra la conoscenza della natura, tu vedi quel che devi escludere dalla conoscenza dell’uomo”.

Cosa significa? Significa che l’uomo oggi deve studiare la natura scientificamente. Perché? Se guardiamo al microscopio, conosciamo ciò che non è spirito. Se col telescopio guardiamo nelle lontananze dello spazio, ci si manifesta ciò che non è spirito. Se in altro modo facciamo esperimenti in un laboratorio fisico-chimico, ci si palesa ciò che non è spirito. Nella pura forma ci si palesa tutto ciò che non è spirito.

 

Quando gli uomini dei tempi antichi guardavano ciò che oggi è natura, vi vedevano ancora trasparire lo spirito.

Oggi noi dobbiamo conoscere la natura appunto per poter dire che il tutto non è spirito, ma saggezza invernale,

e che la saggezza dell’estate deve avere un’altra struttura.

 

Per ricevere l’impulso, la spinta verso lo spirito, dobbiamo riconoscere che cosa non è spirito, che cosa è anti-spirito.

Occorre riconoscere le cose che oggi ancora nessuno ammette.

 

Oggi, ad esempio, ognuno si dice che, se si ha un piccolo essere vivente che non si vede a occhio nudo, mettendolo sotto il microscopio e ingrandendolo, lo si vedrà. Si deve però ammettere che quell’ingrandimento è una menzogna: ingrandisco sì quell’essere, ma non ho più lui, bensì uno spettro. Quel che vedo non è più realtà; ho messo una menzogna al posto della verità.

Per la concezione di oggi il mio discorso è pazzia, eppure è la verità. Quando si ammetterà di aver bisogno di una scienza della natura, affinché da questa controimmagine della verità si possa avere la spinta verso la verità, si svilupperà la forza cui simbolicamente si accenna con la vittoria di Michele sul drago.

 

A ciò si riferisce qualcosa che, vorrei dire, è anche già presente negli annali della cultura, ma in modo che, quando non si ebbe più alcun sentore di quanto vive nel corso dell’anno, lo si riferì all’essere umano.

 

A ciò che porta all’illuminazione si applicò il concetto della saggezza,

a ciò che porta alla conoscenza si applicò il concetto del coraggio;

rimase così com’era la temperanza (vedi schema di pagina 72),

e alla penitenza si applicò il concetto della giustizia.

 

Abbiamo in tal modo i quattro concetti platonici della virtù:

saggezza, coraggio [fortezza], temperanza, giustizia.

 

Fu così immesso negli uomini quel che prima si riceveva dalla vita del corso dell’anno.

Per la festa di Michele si darà un valore speciale al coraggio umano, alla manifestazione umana del coraggio di Michele. Infatti, che cosa trattiene oggi gli uomini dall’arrivare alla conoscenza spirituale? La mancanza di coraggio animico, per non dire la viltà dell’anima. Oggi si desidera ricevere tutto passivamente, ci si pone di fronte al mondo come in un cinematografo, ci si vuol far dire tutto dal microscopio e dal telescopio.

 

Non si vuole temperare con l’attività lo strumento del proprio spirito, della propria anima.

Non si vuole diventare seguaci di Michele.

Per farlo, occorre il coraggio interiore che si può conseguire con la festa di Michele. Da quella festa del coraggio, dalla festa della coraggiosa interiorità dell’anima umana, irraggerà anche ciò che darà il giusto contenuto alle altre festività dell’anno.

 

Dobbiamo anzi proseguire il cammino e accogliere nella natura umana quel che prima ne era fuori.

Oggi per l’essere umano non è più così, che solo in autunno egli possa sviluppare la conoscenza della natura e altro.

Oggi le cose sono in noi tanto interconnesse, che soltanto così possiamo sviluppare la nostra libertà.

Rimane però pur giusto che in un senso trasformato sia di nuovo necessario celebrare le festività.

 

Se un tempo esse erano feste di donazione della sfera divina agli abitanti della Terra,

se un tempo gli uomini ricevevano nelle feste i doni direttamente dalle potenze celesti,

oggi, nella misura in cui ne siamo capaci, dobbiamo metamorfosare il pensiero delle feste,

in modo che esse siano feste del ricordo,

così da inscrivere nella nostra anima quel che dobbiamo portare a compimento in noi stessi.

 

Lo si potrà fare nel modo migliore, quando inizia l’autunno, con la festa di Michele, la più efficace festa del ricordo, perché in quel tempo tutta la natura si esprime con un importante linguaggio cosmico. Gli alberi si spogliano, le foglie ingialliscono, gli animali si ritraggono dopo che in estate le farfalle avevano svolazzato nell’aria e gli insetti ronzato. Molti animali cadono in letargo, tutto si paralizza. La natura si ritira dopo aver aiutato gli uomini con la sua attività in primavera e in estate. L’uomo è lasciato a se stesso. Ora che la natura lo abbandona, il coraggio animico deve risvegliarsi. Di nuovo siamo indirizzati a una festa del coraggio animico, della forza animica, dell’attività animica, tutto riassumendo nella festa di Michele.

 

È quanto a poco a poco darà ai pensieri delle festività il carattere del ricordo, cui già si accenna con le monumentali parole che indicano come, in futuro, quelle che erano state feste del dono diventeranno o devono diventare appunto feste del ricordo. Le monumentali parole che devono stare alla base dei pensieri di tutte le festività, anche di quelle che devono di nuovo sorgere, sono: «Fate questo in memoria di me». Questo è il pensiero delle festività rivolto al lato del ricordo.

 

Così come l’altro aspetto presente nell’impulso del Cristo deve continuare a operare in modo vivente, e non rimanere un’espressione morta alla quale solo si rivolga lo sguardo, anche questo pensiero deve di continuo agire creando sentimenti e nuovi pensieri; va compreso che le festività devono rimanere, anche se gli uomini si modificano, e che perciò devono anch’esse passare attraverso delle metamorfosi.