La «cosa in sé» di Kant

O.O. 326 – Nascita e sviluppo storico della scienza – 28.12.1922


 

Sommario: Inapplicabilità della dottrina del Locke sui caratteri primari e secondari dei corpi. La «cosa in sé» di Kant. Richard Wahle: «Nulla è nel cervello che non si trovi nei nervi». Weismann: l’immortalità degli esseri unicellulari. Inadeguatezza dei concetti matematici di fronte a ciò che è qualitativo. La matematica qualitativa di Spinoza nella sua Etica. Poincaré: il problema atomismo-continuismo. La dottrina cellulare di Schleiden e di Schwann. Scarsa esigenza di chiarezza nelle scienze.

 

Dalle considerazioni fin qui svolte è risultato, come carattere saliente dello sviluppo spirituale da cui è scaturita là mentalità scientifica moderna, la separazione dall’esperienza umana diretta delle idee, soprattutto delle idee matematiche. Vogliamo esaminare ancora, una volta come ciò sia avvenuto.

 

Abbiamo constatato che nei tempi più antichi l’uomo sperimentava, in certo senso in comune col mondo, i fatti che del mondo si proponeva di conoscere; egli sperimentava allora interiormente il suo triplice orientamento nello spazio (fra alto e basso, fra destra e sinistra e fra dietro e davanti), senza però attribuire l’orientamento solo a se stesso. L’uomo si sentiva inserito nell’universo in modo che quei tre tipi di orientamento personale erano al tempo stesso le tre dimensioni dello spazio. Egli sperimentava in comune col mondo ciò che formava il contenuto della sua conoscenza. Perciò non provava alcuna incertezza su come applicare al mondo i suoi concetti, le sue idee. Tale incertezza sorse soltanto con l’emergere della civiltà recente, e noi la vediamo diffondersi a poco a poco in tutto il pensiero moderno, mentre la scienza naturale si sviluppa appunto sotto l’effetto di quell’incertezza. È veramente importante il rendersi conto di questo stato di fatto.

 

Proviamo a evidenziare tale situazione con alcuni esempi concreti. Prendiamo il caso del filosofo John Locke che espose nei suoi scritti quanto un pensatore moderno del suo tempo aveva da dire sulla concezione scientifica del mondo. Il Locke divide in due parti tutto quello che si può percepire nell’ambiente fisico circostante: egli distingue i caratteri dei corpi in cosiddetti caratterino qualità) primari e in Caratteri secondari. Primari sono quelli che l’uomo non può fare a meno di attribuire alle cose stesse: forma, posizione, movimento. Sono invece secondari quei caratteri dei quali egli ritiene che essi non appartengano veramente agli oggetti esterni, ma che rappresentino solo l’effetto delle cose sull’uomo. A questo secondo gruppo appartengono per esempio il colore, il suono, il calore percepito Dice il Locke: se odo un suono, fuori di me c’è dell’aria in vibrazione e io posso magari riprodurre mediante un disegno quei movimenti dell’aria che provengono dal corpo eccitato a produrre un suono e si propagano fino al mio orecchio. Io posso raffigurare mediante figure spaziali la forma delle cosiddette onde nell’aria vibrante; posso rappresentarmele nel loro decorso nel tempo, cioè come movimento. Ciò che esiste nello spazio, come la figura, il moto, la determinazione del luogo delle cose, è certamente presente nel mondo, fuori di me. Senonché tutto ciò che sta fuori, nel mondo, e costituisce i caratteri primari, tutto ciò è muto, è privo di suono. La qualità secondaria del suono ha origine solo quando l’onda d’aria colpisce il mio orecchio, dando origine alla singolare esperienza interiore che io faccio in me, appunto come suono. Lo stesso vale per il colore che di solito viene semplicemente confuso con la luce. Nel mondo esterno deve esserci qualcosa di corporeo, dotato in qualche modo di figura e di movimento, che tramite il mio occhio esercita su di me un certo effetto, diventando così l’esperienza personale della luce e rispettivamente del colore. Analogamente si può ragionare per le altre cose che stanno di fronte ai nostri sensi. Tutto il mondo dei corpi deve essere considerato in modo da farci distinguere le qualità primarie e oggettive, da quelle secondarie che sono soggettive in quanto rappresentano effetti sull’uomo da parte delle qualità primarie. Secondo il Locke si potrebbe dire, in modo un po’ radicale, che il mondo esterno all’uomo è forma, posizione, movimento, e tutto il reale contenuto del mondo dei sensi si trova in verità solo entro l’uomo, si agita all’interno della entità umana. Il vero contenuto del colore, in quanto esperienza umana, non esiste affatto là fuori, ma opera in me; il vero contenuto del suono non esiste all’esterno, ma è presente in me; e così pure il reale contenuto dell’esperienza del caldo o del freddo.

 

In tempi più antichi, quando si sperimentava in comunanza col mondo ciò ch’era diventato contenuto di conoscenza, non si poteva condividere una simile concezione: ho già spiegato che allora si sperimentavano le grandezze matematiche partecipandovi con la propria orientazione corporea e col proprio movimento orientato. Siccome questo veniva vissuto in comunanza col mondo, si trovava nella propria esperienza personale la ragione per cui si accettavano come realtà obiettive la posizione, il luogo, il movimento. Con una parte diversa della vita umana interiore si partecipava però al mondo anche per quanto concerneva il colore, il suono, e così via. Proprio come si perveniva alla rappresentazione del moto partendo dall’esperienza umana del proprio movimento corporeo, così si giungeva all’idea del colore mediante una particolare esperienza del proprio sangue o della sua organizzazione; tale esperienza veniva messa in rapporto con quanto si trova nel mondo come calore, colore, suono, ecc. Certo, anche in quel tempo passato si distinguevano la posizione, il luogo, il decorso del tempo dal calore, dal suono o dal colore: si distinguevano però come diversi tipi di esperienza, collegati a differenti modi di essere del mondo oggettivo. Nell’età della scienza moderna non si sperimenta più personalmente la determinazione del luogo, il movimento, la posizione, la figura, che vengono tutti considerati come cose escogitate e poi identificate con quanto si trova fuori nel mondo. Siccome poi in certi casi evidentemente non è ammissibile che per esempio la figura o il movimento di una cosa si trovino entro l’uomo, allora con disinvoltura si identificano con realtà esterne all’uomo, riferendo quelle cose escogitate a qualcosa di oggettivo.

 

Quanto invece ai caratteri cosiddetti secondari, come il colore o il suono che si percepiscono, essi vengono attribuiti all’entità umana, poiché non si sa a che cos’altro attribuirli. Rimane sconosciuto il modo in cui quei caratteri vengano sperimentati contemporaneamente alle cose e quindi si attribuiscono alla natura umana.

 

C’è voluto parecchio tempo, prima che i seguaci della concezione scientifica moderna si rendessero conto dell’assurdità di un simile modo di pensare. Che cos’era accaduto, infatti? Non si sapeva cosa fare delle cosiddette qualità secondarie (colore, suono, esperienza del calore) e perciò esse per così dire si rifugiarono, per la conoscenza, nell’uomo stesso. A poco a poco non si cercò nemmeno più di comprendere in che modo esse vivessero là dentro! Siccome non esisteva più l’esperienza personale diretta dei fenomeni, né più risultava il nesso con la natura esterna (dato che non lo si sperimentava più), per la conoscenza quelle qualità scomparvero per così dire nell’interiorità umana. Sussisteva un’idea alquanto confusa che là fuori nello spazio fosse presente un movimento dell’etere, capace di essere raffigurato mediante la figura, il moto, ecc.; quel moto dell’etere eserciterebbe un’azione sull’occhio, e attraverso il nervo ottico in qualche modo sul cervello. Poi si andava alla ricerca nell’interiorità umana, mediante pensieri, delle cosiddette qualità secondarie che dovrebbero manifestarsi entro l’uomo, come effetti delle qualità primarie. Ho detto che c’è voluto molto perché singoli pensatori mettessero decisamente in evidenza la stranezza di tale concezione. Così mi sembra molto significativo un pensiero espresso dal filosofo Richard Wahle nel suo libro Il meccanismo del pensiero, sebbene egli stesso non riesca affatto a sfruttare a fondo la propria sentenza: «Nihil est in cerébro, quod non est in nervis», cioè: non vi è nulla nel cervello che non si trovi nei nervi. Ora, per quanto si esaminino materialmente i nervi (anche con mezzi oggi ancora non esistenti), non vi si troverà certo né il suono, né il colore, né l’esperienza del calore. Dunque tali esperienze non si trovano neppure nel cervello! Bisognerebbe in fondo confessare che esse scompaiono, che sfuggono a chi va cercando di conoscerle. Si indaga il rapporto dell’uomo col mondo; si accettano come oggettivi la figura, la posizione, il luogo, il tempo, il moto; invece il suono, il colore, l’esperienza del calore scompaiono, non si sa dove vadano a finire.

 

Nel secolo diciottesimo tutto questo condusse all’affermazione di Kant che neppure le qualità spaziali e temporali delle cose possono esistere fuori dell’uomo. Però un certo rapporto fra l’uomo e il mondo doveva pur esistere, dato che non si può negarlo, se appena ci si vuole rappresentare il fatto che col mondo si convive, anche se non si ammetteva più l’esperienza immediata e diretta dell’uomo col mondo, per quanto riguarda le condizioni spazio-temporali. Sorse dunque in Kant questo pensiero: se l’uomo ha da applicare al mondo la matematica, tocca a lui stesso di trasformare il mondo in matematica, tocca a lui di rivestire di matematica le «cose in sé» che rimangono per se stesse del tutto sconosciute. Su questo problema si è poi arrovellata la scienza del secolo scorso. Il carattere fondamentale di questo comportamento umano nel campo della conoscenza è quello di una incertezza nel suo rapporto col mondo: non si sa più in che modo realmente scorgere nel mondo il contenuto delle proprie esperienze. Quell’incertezza penetrò sempre più a fondo in tutto il pensiero moderno.

 

Può ora essere interessante il contrapporre al pensiero relativamente antico del Locke un esempio di tempi più recenti. Il Weismann, un biologo del secolo diciannovesimo, espresse il pensiero che essenziale nello studio biologico di un Organismo vivente dev’essere considerata l’azione reciproca fra i suoi organi, e nel caso degli organismi inferiori quella fra le sue parti. In questo modo, secondo il Weismann, si giunge a conoscere come quell’organismo viva; però l’esame dell’organismo stesso, anche tenendo conto dell’interazione fra le sue parti, non dimostra nessun carattere che accenni al fatto che quell’organismo debba anche morire. Se si osserva soltanto l’organismo (così argomenta il Weismann), non si trova nulla che accenni al fatto che esso deve morire. Egli ne conclude che all’interno dell’organismo vivente stesso non esiste nulla che possa far scaturire dall’essenza stessa dell’organismo l’idea che questo debba morire. Per il Weismann la sola cosa che può mostrarci che l’organismo deve morire è l’esistenza del cadavere. In altre parole, il concetto del morire non può sorgere dall’osservazione dell’organismo vivente; in questo non si trova alcun segno distintivo, alcuna caratteristica da cui si possa riconoscere che la tendenza al morire appartenga all’organismo in se stesso; per conoscere l’esistenza del morire, occorre avere davanti a sé il cadavere. Quando avviene che di un dato organismo si formi il cadavere, quest’ultimo è la sola cosa che indichi che l’organismo può anche morire.

 

Esiste però un mondo di organismi (ci fa ancora osservare il Weismann) nel quale non si possono mai osservare dei cadaveri: si tratta degli organismi unicellulari. Essi non fanno che dividersi in altri due organismi uguali, e mai si trova un cadavere. Si sa come avviene la riproduzione degli organismi unicellulari: ognuno di essi si suddivide in altri due uguali e così via. La prosecuzione della specie avviene in questo modo, e mai si ha un cadavere. Il Weismann ne conclude che gli organismi unicellulari sono immortali, un’idea diventata famosa nella biologia del secolo scorso. Perché dunque vengono considerati immortali quegli organismi? Perché non si riesce a scoprirne un cadavere, e perché la biologia non sa dove collocare il concetto del morire, se non c’è un cadavere che glielo indichi. Quindi se il cadavere non si presenta, viene meno anche la necessità del concetto del morire, e di conseguenza gli organismi che non mostrano dei cadaveri sarebbero immortali.

 

Da un esempio come questo risulta fino a che punto si siano estraniate dal mondo le idee e in genere le esperienze interiori. Il concetto di organismo si è trasformato in modo da non contenere più nemmeno un accenno al fatto che l’organismo debba anche morire: per riconoscere questo dato di fatto, occorre trovarsi di fronte al cadavere. Certo, se ci si limita a guardare un organismo vivente, senza essere capaci di sperimentare quel che si svolge in esso, cioè di partecipare in qualche modo alla sua vita, allora si resta incapaci di scoprire in esso la necessità del morire, e si deve ricorrere a un segno esteriore. Ciò dimostra che i concetti si sono estraniati dalle cose.

 

Torniamo adesso a volgere lo sguardo all’epoca in cui esisteva ancora l’esperienza diretta della natura, prima che l’incertezza di cui ho parlato penetrasse tutto il pensiero relativo al mondo dei corpi. A quei tempi, come esisteva ancora un concetto interiormente vissuto del triangolo, o di qualunque altro poligono, Così vi era anche un concetto interiormente vissuto del nascere e del perire: e tale concetto del nascere e del perire conteneva in sé delle gradazioni. Assistendo al progressivo vivificarsi del bambino piccolo, alla comparsa nella sua fisionomia di tratti che denotavano una sempre maggiore compenetrazione del suo organismo da parte dell’anima, ciò appariva come una continuazione della nascita, lo si considerava in un certo senso come una nascita protratta e via via meno intensa: si sperimentava una serie di gradazioni nel divenire dell’organismo. Quando poi l’uomo cominciava a presentare delle rughe o dei capelli grigi, o a tremolare, si aveva dinanzi a sé un primo grado del morire, un morire parziale. Se mi è lecito esprimermi paradossalmente, potrei dire Che la morte era percepita come la somma, o il riassunto di molte esperienze di morte parziali, meno intense. In quei tempi antichi, il concetto era intimamente vivo, e lo erano anche quelli del divenire e del perire.

 

L’esperienza che si faceva del concetto era però congiunta con l’esperienza del mondo dei corpi: non si segnava un netto confine tra la propria esperienza e quella della natura, sì che per così dire la terra interiore dell’uomo trapassava senza sponda nel gran mare del mondo. Un’esperienza di questo genere consentiva anche di sperimentare dall’interno il mondo dei corpi. Certe personalità di tempi passati avrebbero considerato in modo del tutto diverso un fenomeno come quello che suggerì al Weismann la sua teoria della «immortalità degli organismi unicellulari; il modo di pensare e le concezioni di quelle personalità antiche non sono però più comprese oggi dalla scienza, anzi sono quasi dimenticate. Ammesso che uno di quegli antichi pensatori avesse potuto conoscere attraverso un microscopio il fenomeno della duplicazione degli organismi unicellulari, si sarebbe fatto circa un’idea di questo genere, data la sua ancora stretta connessione col mondo. Egli avrebbe constatato di avere davanti a sé un organismo unicellulare che poi si divide in due. Esprimendosi in modo poco preciso, avrebbe forse detto che quell’organismo si suddivide, tende ad atomizzarsi, è per un certo tempo le due parti sono di nuovo organismi indivisi: poi si suddividono a loro volta, e quando ha inizio la divisione, l’atomizzazione, si verifica la morte. Il pensatore antico non avrebbe dedotto il morire dal cadavere, bensì dal suddividersi in parti. Egli concepiva ciò che è capace di vivere come impegnato in un processo di divenire, di unione, mentre quando si manifesta la tendenza alla divisione, all’atomizzazione, l’organismo muore. Nel caso degli organismi unicellulari egli avrebbe pensato che nel momento stesso in cui le due parti dell’unicellulare vengono espulse come morte, si verificano subito anche le condizioni per cui esse possono ritornare vive; e così di sèguito. Tale sarebbe stato il corso del suo pensiero. Descrivendo il processo della suddivisione, dell’atomizzazione, egli vi avrebbe associato il pensiero del morire. Se invece avesse conosciuto il processo di suddivisione di un essere unicellulare, le cui due parti derivate fossero perite subito, per mancanza di condizioni adatte alla vita, il pensatore antico avrebbe formulato la cosa press’a poco così: dalla mònade vivente si sono formati due atomi. Sarebbe conforme al suo pensiero di dire che ovunque ci si trova di fronte alla vita, non si ha a che fare con atomi. Se in un vivente si ritrovano degli atomi, tanto è presente di morto, quanto è presente di atomi. Ovunque si trovino degli atomi, è presente l’inorganico, la morte. Così ci si sarebbe espressi in tempi antichi, fondandosi sopra la viva esperienza interiore della percezione del mondo, del sentimento e dei concetti relativi al mondo.

 

Certo, queste cose non si ritrovano dette così esplicitamente nelle descrizioni correnti della vita culturale antica (sebbene non ne possa dubitare chi sa leggere nel giusto modo); non si trovano soprattutto nelle descrizioni moderne della filosofia naturale antica, solo per la ragione che le forme di pensiero di quest’ultima sono ormai troppo distanti dal pensiero odierno. Chiunque oggi scriva di storia della scienza o della filosofia proietta i propri pensieri nelle teste antiche di cui sta scrivendo. Neppure di uno Spinoza è però lecito scrivere a questo modo: infatti nel libro che a buon diritto egli ha intitolato Etica, Spinoza espone i suoi pensieri secondo il metodo matematico, ma non nel senso moderno, bensì applicando alla sua filosofia il modo matematico di accostare un’idea all’altra. Così facendo egli fornisce la prova che in lui è ancora presente qualcosa dell’antica esperienza qualitativa dei concetti quantitativi della matematica. Sicché risulta possibile parlare di matematica anche estendendo quel modo di procedere alla sfera qualitativa della esperienza umana interiore. Certo, oggi sarebbe perfettamente assurdo il voler applicare i nostri concetti matematici alla sfera psicologica, o addirittura a quella morale.

 

Un aspetto importante del pensiero moderno che va sottolineato è dunque questo stato di incertezza, di fronte a una antica sicurezza maggiore la quale però non è più adatta alle nostre concezioni odierne. Quell’incertezza ha condotto già nella fase attuale a tentativi di una sua giustificazione teorica. È molto interessante, a tale proposito, una conferenza dedicata alle recenti vedute sulla materia dal pensatore e scienziato Henri Poincaré. Egli vi discute le opinioni divergenti sulla composizione della materia: se si debba concepirla come continua oppure come discontinua; se si debba immaginare nello spazio una sostanzialità continua che lo riempia tutto, oppure invece una distribuzione di tipo atomistico, per cui lo spazio più o meno vuoto è occupato da particelle minutissime (atomi o molecole) distinti gli uni dagli altri. Prescindendo da una certa elaborazione decorativa di tale giustificazione dell’incertezza, nelle conferenze; di Poincaré troviamo il pensiero che la scienza attraversa periodi diversi. In alcuni di questi si presentano fenomeni che inducono a concepire la materia come continua; la concezione della continuità risulta comoda, di fronte ai fenomeni noti in quel tempo, e risulta pure comodo il fermarsi a quello che sembra mostrare la continuità nei fenomeni fisico-sensibili. In altre epoche vengono alla luce in prevalenza risultati di ricerca che rendono più comodo il concepire la materia come discontinua, come scissa in atomi, i quali poi si ricompongono fra loro. A questo punto, il Poincaré sostiene che sarà sempre così: a seconda dei risultati sperimentali, si tenderà, ora in una direzione, ora nell’altra; ora si concepirà la materia in senso «continuistico», ora in senso atomistico. Egli arriva perfino a parlare di una oscillazione fra continuismo e atomismo, nel corso dell’evoluzione scientifica. Le cose andranno sempre così, secondo il Poincaré, perché lo spirito umano ha appunto bisogno di costruirsi teorie sui fenomeni nel modo che gli risulta più comodo. Non sono proprio le parole di Poincaré, ma si potrebbe formulare il suo pensiero più o meno così: dopo avere sostenuto per un certo tempo una teoria continuistica della materia, lo spirito umano se ne stanca. In seguito a nuovi risultati sperimentali, scoperti quasi incoscientemente, esso si mette a ragionare in modo atomistico, proprio come dopo avere inspirato si espira. Vi sarebbe dunque una continua oscillazione fra continuismo e atomismo, e ciò sarebbe dovuto solo a un’esigenza della mente umana; né con l’una teoria, né con l’altra noi siamo in grado di dire qualcosa sulla natura delle cose fisiche. Non avrebbe alcuna importanza per le cose, che si pensi in un modo piuttosto che nell’altro: si tratterebbe solo di un tentativo della mente umana di orizzontarsi nel mondo materiale esternò.

 

Non è da stupirsi che cada nell’incertezza un’epoca divenuta incapace di congiungere le esperienze interiori dell’uomo con quanto si svolge nell’universo, poiché considera le prime come esclusivamente soggettive. Se non si sperimenta più il proprio nesso col mondo, non si può nemmeno sperimentare veramente il continuismo o l’atomismo: ci si limita ad imporre ai fenomeni osservati l’una o l’altra teoria, in precedenza escogitata. Una concezione di tal genere porterebbe da ultimo ad ammettere che l’uomo si formi le sue teorie a seconda dei suoi mutevoli bisogni. Come è costretto alternativamente a espirare ed a inspirare, così alternativamente dovrebbe pensare in modo continuistico o in modo atomistico. Sarebbe come se per riprendere fiato spiritualmente, egli fosse costretto a cambiar modo di pensare: ora secondo la concezione continuistica, ora secondo l’atomistica. In tal modo non si fa che constatare e giustificare l’incertezza e quasi a interpretarla come un arbitrio. Non si ha più nessun contatto interiore col mondo, e si afferma la possibilità di avere con esso rapporti diversi, e anche contrastanti, a seconda della propria soggettiva esigenza.

 

Che cosa avrebbe detto in proposito la concezione antica alla quale ho più volte accennato? Essa avrebbe potuto esprimersi press’a poco così: certo, in un’epoca nella quale gli scienziati più importanti seguono un orientamento continuistico, essi pensano di preferenza alla vita. Invece nelle epoche in cui il pensiero è di preferenza orientato atomisticamente, si pensa piuttosto alla natura inorganica, a ciò che è morto, imponendo poi anche al mondo organico le leggi dell’inorganico.

 

Questo non è più un arbitrio ingiustificato, ma è un atteggiamento fondato sopra un rapporto oggettivo con le cose. Certo, io posso interessarmi ora di un vivente, e un’altra volta di qualcosa di non vivente; posso allora scoprire che è conforme all’intima natura del vivente il concepirlo in modo continuistico, mentre dalla natura del non vivente risulta giustificato il concepirlo atomisticamente. Così facendo, però, non si tratta solo di un arbitrario atteggiamento soggettivo dello spirito umano: esso corrisponde a un rapporto oggettivo col mondo. In tal caso, la conoscenza non tiene nessun conto dell’elemento soggettivo, poiché il vivente viene conosciuto in modo continuistico, il non vivente in modo atomistico. Se poi qualcuno si sente veramente costretto ad alternare il pensiero continuistico con quello atomistico, una tale costrizione si deve esprimere in modo oggettivo, dicendo: in un caso il tuo pensiero va rivolto al vivente, nell’altro a ciò che è morto. Non è invece giustificato il forzare un simile atteggiamento nella sfera del soggettivo (come avviene nella concezione del Poincaré), né l’affermare che la concezione propria di fasi più antiche dell’evoluzione, da me descritta, abbia carattere soggettivo.

 

In effetti, se si considerano le cose interiormente, bisogna riconoscere che il pensiero scientifico moderno si è distolto dal vivente, per concentrarsi di preferenza sul morto, e quindi parallelamente dal continuismo all’atomismo, il quale, se inteso nel modo giusto, è valido per la sfera del non vivente, dell’inorganico. Se però l’uomo vorrà un giorno ritrovare se stesso nel mondo, in modo oggettivo è veritiero, dovrà cercare la via dal mondo (studiato mirabilmente, ma concepito in modo atomistico, e quindi morto) al proprio essere: dovrà anzitutto imparare a comprendere in modo vivo se stesso, anche solo come organismo. Infatti fino ad ora lo sviluppo scientifico si è svolto nella direzione atomistica, cioè nella direzione di ciò che è morto, anche negli studi dedicati agli organismi viventi. Quando, nella prima metà del secolo scorso, Schleiden e Schwann svilupparono la loro deplorevole teoria cellulare, essa seguì la via atomistica, non quella continuistica; e precisamente senza che lo si ammettesse in modo esplicito, anzi senza neppure rendersi ben conto che sarebbe stato doveroso dichiararlo apertamente, in quanto corrispondeva all’indirizzo metodologico dominante. Per il fatto che non ci si accorse neppure che il concepire l’organismo come costituito da cellule separate significava atomizzarlo nel pensiero, cioè in sostanza ucciderlo, bisogna affermare che per la concezione atomistica il vero concetto di organismo è andato del tutto perduto.

 

Confrontando la concezione organica di Goethe con le teorie cellulari dello Schleiden e dei botanici successivi, se ne ricava questo quadro: in Goethe troviamo idee viventi e vissute, dall’altra parte cellule Che, sebbene considerate viventi, risultano delle specie di atomi. Certo in questo campo la ricerca empirica non sempre tiene conto del fondamento razionale teorico, perché i fenomeni della vita non lo consentono. D’altra parte le idee che si hanno del mondo organico non vengono adattate neppure a ciò che scaturisce dalla vera osservazione, anche fondata sulla dottrina cellulare. Il criterio non-atomistico si sforza soltanto di far presa, quando si studia la cellula quale è davvero, in quanto non si può fare a meno di descriverla come un essere vivente. Purtroppo è caratteristico di molte descrizioni scientifiche dei nostri giorni, il fatto che si confondano le cose e non si mostri di apprezzare veramente la chiarezza del pensare.