Le concezioni del mondo nell’epoca moderna

O.O. 18 – Gli enigmi della filosofia – I (Le concezioni del mondo nell’epoca moderna )


 

Il fiorire della scienza naturale nell’epoca moderna ha alla base la medesima ricerca che ispira la mistica di Jacob Bohme. Lo vediamo in un pensatore che appartiene alla stessa corrente spirituale che con Copernico (1473-1543), con Kepler (1571-1630) e Galilei (1564-1642), eseguì le prime grandi conquiste della scienza naturale moderna. Lo vediamo, cioè, in Giordano Bruno (1548-1600).

 

Quando consideriamo il modo in cui egli si raffigura il mondo come costituito di infiniti piccoli esseri primordiali, dotati di vita e sperimentanti se stessi animicamente — le monadi, che sono immortali ed increate, e che, cooperando fra loro, determinano i processi della natura — potremmo essere tentati di assimilare Giordano Bruno ad Anassagora, per il quale il mondo è costituito da omeomerie. Eppure, tra di loro vi è una differenza importante.

 

In Anassagora, il pensiero delle omeomerie si sviluppa mentre egli è intento ad osservare il mondo; il mondo gli ispira questo pensiero. Giordano Bruno sente che ciò che vi è dietro ai fenomeni naturali deve essere concepito come un’immagine del mondo, in modo tale che l’essere dell’io sia presente nell’immagine stessa.

L’io deve essere una monade, altrimenti non potrebbe essere reale. Così l’ipotesi delle monadi diventa necessaria. E poiché solo la monade può essere reale, gli esseri veramente reali sono monadi con qualità interne diverse. Nell’intimo dell’anima di una personalità come Giordano Bruno, avviene un processo di cui egli non è pienamente cosciente; la creazione dell’immagine del mondo risulta da tale intimo processo.

 

Ciò che avviene nel profondo è un processo inconscio dell’anima: l’io sente di dover rappresentare se stesso in modo che la realtà gli sia assicurata e di dover rappresentare il mondo in modo che esso stesso possa essere reale. Giordano Bruno deve concepire l’idea delle monadi affinché ciò sia possibile. In Giordano Bruno, nella moderna concezione del mondo, l’io lotta per la sua esistenza. E questa lotta si riassume nell’aforisma: sono una monade, ed una monade è increata e immortale.

Confrontiamo le diverse vie mediante le quali Aristotele e Giordano Bruno giungono all’idea di Dio.

 

Aristotele osserva il mondo, vede nei fenomeni naturali ciò che colpisce i sensi e si dedica a questo elemento sensibile; anche nei fenomeni naturali si rivela a lui il pensiero del « primo motore » dei medesimi.

Giordano Bruno si fa strada lottando nella sua vita animica verso l’idea delle monadi. I fenomeni naturali vengono spenti nell’immagine in cui innumerevoli monadi agiscono le une sulle altre, e Dio diventa la potenza vivente in tutte le monadi e operante dietro tutti i processi del mondo percepibile.

Nell’opposizione accesa di Giordano Bruno ad Aristotele

si esprime il contrasto tra il pensatore greco ed il pensatore moderno.

• Nella concezione del mondo moderna risulta in molteplici modi

come l’io cerchi delle vie per sentire in se stesso la propria realtà.

 

Anche l’opera di Francesco Bacone da Verulamio (1561-1626) porta lo stesso carattere, sebbene questo carattere non risulti di primo acchito a chi studia i suoi tentativi nel campo della concezione del mondo.

Bacone da Verulamio esige che lo studio dei fenomeni cominci con la seguente osservazione spregiudicata: si cerchi di separare l’essenziale dal secondario in un fenomeno, per potersi rappresentare ciò che è alla base di un fenomeno o di un oggetto. Egli pensa che, fino al tempo suo, siano stati foggiati prima i pensieri che dovevano spiegare i fenomeni cosmici, e che le rappresentazioni dei singoli oggetti e fenomeni siano state plasmate poi secondo questi pensieri. Egli s’immagina che i pensatori non abbiano attinto i concetti dalle cose stesse.

 

A questo processo deduttivo Bacone voleva opporre il suo metodo induttivo. I concetti debbono essere foggiati a norma degli oggetti: si veda come un oggetto venga consumato dal fuoco; si osservi come un altro oggetto reagisca dinanzi al fuoco e si ripeta questa osservazione per molti oggetti. Così si avrà un’idea generale del modo in cui gli oggetti si comportano in rapporto al fuoco. Che nello spirito umano vi siano tanti idoli invece di idee giuste a proposito delle cose, secondo Bacone, si spiega con il fatto che le indagini non sono state condotte in questo modo.

 

Goethe ha detto cose notevoli su questa concezione baconiana: ▸ « Bacone assomiglia ad un uomo che vede molto bene l’irregolarità, la deficienza, la caducità di un vecchio edificio e che sa additarle agli abitanti. Egli dà a questi il consiglio di abbandonarlo, di trascurare il terreno, i materiali e tutti gli annessi, di cercare un altro luogo e di fabbricare un palazzo nuovo. Egli è un ottimo oratore e persuasore, egli percuote alcuni muri che crollano, e gli abitanti si vedono costretti ad evacuare parte della casa. Egli indica un nuovo terreno; la gente si mette a spianarlo, ma dappertutto è troppo stretto. Egli fa vedere nuovi schizzi, ma questi non sono chiari, non sono invitanti. Soprattutto egli discorre molto di nuovi materiali sconosciuti, e il mondo ne è presto stufo. La folla si espande in tutte le direzioni e riporta una infinità di singole cose, mentre a casa nuovi piani, nuove attività, nuovi stabilimenti occupano i cittadini e afferrano la loro attenzione ».

 

Goethe si esprime così nella sua storia della teoria dei colori nel passo dove parla di Bacone. In un passo seguente, egli dice a proposito di Galilei: ▸ « Se col metodo verulamiano di disperdere la scienza, la scienza della natura sembrava smembrata per sempre, Galilei la ricondusse subito all’unità: egli la reintegrò nell’uomo, e mostrò, già nella prima gioventù, che per il genio un caso vale per mille, poiché egli, da lampade oscillanti, deduceva la teoria del pendolo e della caduta dei corpi. Nella scienza tutto dipende da ciò che chiamiamo sguardo d’insieme, un avvertire ciò che veramente è alla base dei fenomeni. E tale percezione è infinitamente feconda ».

 

Goethe addita così con acume la caratteristica baconiana. Bacone intende trovare per la scienza una via sicura, per mezzo della quale egli spera che l’uomo trovi la sua relazione vera con il mondo. Bacone sente che la via di Aristotele non può più essere percorsa nella nostra epoca. Ma egli non sa che forze animiche diverse agiscono nell’uomo in modo predominante secondo le epoche. Egli vede una cosa sola: ch’egli, Bacone, deve opporsi ad Aristotele.

Ed egli lo fa con passione. Così che Goethe scrive di lui: ▸ « Come si può ascoltarlo placidamente, mentre egli paragona le opere di Platone e di Aristotele a tavole leggere, che il fiume del tempo può trascinare fino a noi nella sua onda, appunto perché esse non consistevano di masse dense e durature? ».

 

Bacone non comprende ch’egli stesso vuole raggiungere ciò che Aristotele e Platone hanno raggiunto e che egli deve adoperare altri mezzi per lo stesso scopo, perché i mezzi dell’antichità non sono adatti all’epoca moderna. Egli indica una via che sembra feconda per lo studio della natura esterna, ma Goethe dimostra, citando il caso di Galilei, che, in questo campo, è necessario altro ancora di ciò che Bacone richiede. Ma la via patrocinata da Bacone si rivela del tutto infeconda, se l’anima cerca non solo una scoperta singola, bensì una concezione del mondo. A che risultato giungerebbe l’indagine dei singoli fenomeni e la formazione di idee generali a norma di questi, se queste idee generali non balenassero, come lampi, dal fondo dell’esistenza su nell’anima, e non si rivelassero esse stesse nella loro verità?

 

Nell’antichità il pensiero si presentava all’anima come una percezione; questo modo di presentarsi viene posto nell’ombra dal chiarore della nuova coscienza dell’io; ciò che nell’anima determina i pensieri che debbono creare una concezione del mondo deve essere una invenzione dell’anima stessa. E l’anima deve cercare la possibilità di conferire un valore alla propria creazione. Essa deve poter credere alla propria creazione.

Tutto questo Bacone non l’avverte, e per costruire un nuovo sistema del mondo, egli indica il materiale da adoperare, cioè i singoli fenomeni naturali. Ma così come non si può costruire una casa badando solo alla forma delle pietre che debbono essere adoperate, così non può essere creata una concezione del mondo feconda in un’anima che si preoccupi soltanto dei singoli fenomeni naturali.

 

In contrasto con Bacone da Verulamio che si preoccupava delle pietre,

Cartesio e Spinoza si preoccupavano del piano di costruzione.

 

Cartesio è nato nel 1596 e morto nel 1650. In lui è significativo soprattutto il punto di partenza nel suo anelito a concepire il mondo. Egli interroga spregiudicatamente il mondo che gli pone molti quesiti, in parte mediante la rivelazione religiosa, in parte mediante l’osservazione dei sensi. Ma né la rivelazione, né i dati dei sensi possono essere accettati immediatamente e riconosciuti come veri; egli, tramite il dubbio, contrappone risolutamente l’« io » ad ogni rivelazione e ad ogni percezione. Questo fatto è di rilevante importanza per il nuovo anelito alla creazione di una nuova concezione del mondo.

L’anima del pensatore non si lascia impressionare da nulla nel mondo,

ma contrappone se stessa a tutto con il dubbio, che solo in essa può nascere.

E ora l’anima afferra se stessa in questo suo atto: io dubito, cioè penso.

Dunque, sia come sia il mondo, tramite il mio pensare dubitativo mi rendo conto che io sono.

Così Cartesio giunge al suo: Cogito ergo sum. Penso, dunque sono.

L’io ottiene, lottando, il diritto di riconoscere la propria esistenza,

mediante il dubbio radicale sul mondo intero.

Da questa radice Cartesio deriva tutto il resto della sua concezione del mondo.

 

Nell’« io » egli ha cercato di afferrare l’essere. Ciò che può legittimare la sua esistenza insieme all’io può contare come verità. L’io trova, innata in se stesso, l’idea di Dio. Questa idea appare all’io così vera, così evidente, come l’io appare a se stesso. Ma essa è così eccelsa, così potente, che l’io non può averla tramite se stesso: essa proviene quindi da una realtà esteriore, alla quale corrisponde.

Cartesio non crede alla realtà del mondo esterno perché questo gli sembra reale, ma perché l’io deve credere a se stesso e poi — ancora oltre — a Dio. Ma Dio può essere concepito solo come veritiero. Sarebbe menzognero da parte sua se egli presentasse all’uomo il mondo esterno come reale, se non lo fosse.

Il modo in cui Cartesio riconosce la realtà dell’io, è solo possibile per mezzo di un pensiero concentrato su questo io nel senso più stretto, per trovare un punto d’appoggio alla conoscenza. Cioè questa possibilità è data solo da una attività interiore, mai da una percezione esteriore. Ogni percezione che ci giunge dall’esterno ci dà solo qualità spaziali.

 

Così Cartesio ammette due sostanze nel mondo:

• l’una ha come qualità propria lo spazio,

• l’altra ha come qualità il pensare e in essa ha radice l’anima umana.

 

Gli animali che, secondo Cartesio, non possono afferrare se stessi con un’attività interiore basata su se medesima, sono per questo meri esseri spaziali, automi, macchine. Anche il corpo umano è una macchina. L’anima è collegata a questa macchina. Quando il corpo diventa inutilizzabile, sia perché logorato, sia per un’altra causa, l’anima lo abbandona e continua la sua vita nel proprio elemento. Cartesio vive già in un tempo in cui un nuovo impulso si manifesta nella vita della concezione del mondo.

 

• Nell’epoca che va dall’inizio dell’èra cristiana a Scoto Eriugena, l’esperienza del pensiero viene attraversata da una forza che s’introduce come un impulso potente nell’evoluzione dello spirito. Il pensiero destatosi in Grecia è illuminato da questa forza. Essa si esprime, nel processo esteriore della vita animica umana, nei movimenti religiosi e nel fatto che le giovani forze dei popoli dell’Europa occidentale e centrale accolgono i risultati dell’esperienza del pensiero antico. Essi penetrano questa esperienza con nuovi impulsi più elementari e così la trasformano.

 

Vediamo quindi, come uno dei progressi dell’umanità operi in modo che le antiche correnti dell’evoluzione dello spirito, che hanno esaurito la loro forza di vita ma non la forza spirituale, vengano continuate da giovani forze, scaturenti dalla natura dell’umanità. Potremo riconoscere in simili fenomeni i principi essenziali dell’evoluzione umana. Essi sono basati su processi di ringiovanimento della vita spirituale.

 

Le forze spirituali conquistate possono continuare il loro sviluppo

soltanto quando esse vengono trapiantate in giovani forze umane naturali.

 

I primi otto secoli dell’èra cristiana rappresentano il progredire dell’esperienza del pensiero nell’anima umana, come se in una oscurità profonda si preparasse l’erompere di nuove forze plasmanti l’evoluzione della concezione del mondo.

In Cartesio, queste forze si rivelano già in alto grado attive.

 

Nell’epoca compresa tra Scoto Eriugena e il secolo decimoquinto circa, il pensiero si fa strada con la forza intrinseca non ancora esplicata apertamente nell’epoca precedente. Ma esso si presenta sotto un aspetto tutto diverso dall’epoca greca.

I pensatori greci l’avevano sperimentato come percezione; dall’ottavo secolo al decimoquinto, si sprigiona invece dalle profondità dell’anima; l’uomo sente che il pensiero nasce in lui.

 

Presso i pensatori greci si produce ancora in modo immediato la relazione tra pensiero e fenomeni naturali.

Nell’epoca cui accenniamo il pensiero si presenta come il frutto dell’autocoscienza.

Il pensatore sente l’obbligo di legittimare il pensiero.

Di questo parere sono i nominalisti, i realisti; dello stesso parere è anche Tommaso d’Aquino, che àncora saldamente l’esperienza del pensiero alla rivelazione religiosa.

I secoli decimoquinto e decimosesto

pongono davanti alle anime un impulso nuovo.

 

Lentamente questo si elabora, lentamente conquista il diritto di cittadinanza. Nell’organizzazione animica umana si produce una trasformazione. Nell’àmbito della vita delle concezioni del mondo questa trasformazione appare con il fatto che il pensiero non può essere sentito come percezione, ma come prodotto (Erzeugnis) dell’autocoscienza.

Possiamo constatare questa trasformazione dell’organizzazione animica in tutti i campi dell’evoluzione dell’umanità. Essa si esplica nel rinascimento dell’arte, della scienza e della vita europea, come nei movimenti religiosi della Riforma. La si potrà trovare, se si esaminano Dante e Shakespeare alla luce dei nuovi impulsi dell’arte entro l’evoluzione dell’anima umana. Possiamo solo accennare a tutto ciò poiché le nostre dissertazioni vogliono trattare solamente dell’evoluzione delle concezioni del mondo create dal pensiero.

Un altro sintomo della trasformazione dell’organizzazione dell’anima umana, è l’apparizione del modo moderno di intendere le scienze naturali.

Si confronti la concezione della natura foggiata da Copernico, da Galilei, da Kepler, con i sistemi precedenti. A questa rappresentazione delle scienze naturali corrisponde la disposizione dell’anima umana agli albori dell’epoca nuova, nel Cinquecento. La natura è ormai considerata in modo tale che la percezione dei sensi diventa il solo testimone consentito.

 

Bacone e Galilei sono le due individualità in cui questa tendenza si manifesta apertamente. L’immagine della natura non deve più essere dipinta in modo che il pensiero venga sentito come potenza rivelata dai fenomeni naturali.

Da questa immagine sparisce a poco a poco ciò che allora veniva considerato solo un prodotto dell’autocoscienza. Così le creazioni dell’autocoscienza e l’osservazione della natura si oppongono sempre più decisamente, separate da un abisso.

 

• Con Cartesio si manifesta la trasformazione della complessione animica,

che differenzia l’immagine della natura e le creazioni dell’autocoscienza l’una dall’altra.

• Dal secolo decimosesto in poi, si delinea un nuovo carattere nella concezione del mondo.

• Dopo che nei secoli precedenti il pensiero era apparso così da pretendere,

come prodotto dell’autocoscienza, la sua giustificazione dall’immagine del mondo,

• nel secolo decimosesto esso si rivela in un modo chiaro ed evidente,

fondato su se stesso, nell’autocoscienza.

• Prima esso poteva ancora trovare nell’immagine della natura un sostegno per la propria giustificazione.

• Ora esso era obbligato a trarre dalla propria forza la sua legittimità.

• I pensatori dell’epoca successiva sentono che nell’esperienza stessa del pensiero

debba essere ricercato ciò che le conferisce il diritto di creare una immagine del mondo.

 

Possiamo riconoscere l’importanza di questa trasformazione della vita animica, quando esaminiamo le enunciazioni di filosofi della natura come Cardano (1501-1576) e Bernardino Telesio (1508-1588) intorno ai fenomeni naturali. In loro agisce ancora l’immagine della natura che già perde vigore dinanzi al pensiero scientifico di Copernico, di Galilei e di altri scienziati. Per Cardano, nei fenomeni della natura opera qualcosa che egli si rappresenta secondo un modo animico-umano, come sarebbe stato possibile ai pensatori greci. Telesio parla di forze plasmatrici della natura, che egli pensa siano un’immagine delle forze plasmatrici dell’uomo. Galilei deve già dire che la sensazione di calore provata dall’uomo non si trova nella natura esterna, così come non vi si trova il solletico che l’uomo sente quando gli si tocchi la pianta dei piedi con una penna d’uccello. Telesio può dire ancora che il calore ed il freddo sono gli agenti principali dei fenomeni naturali. Galilei deve già asserire che l’uomo conosce il caldo solo come una esperienza interiore; può essere concepito nell’immagine della natura solo quanto non ha nulla a che vedere con questa esperienza interiore.

 

Così le rappresentazioni matematiche e meccaniche diventano le sole che l’immagine della natura possa plasmare. Una personalità quale Leonardo da Vinci (1452-1519), tanto acuto come pensatore quanto grande come artista, ci fa cogliere nel vivo questa lotta per scoprire le nuove leggi dell’immagine della natura.

Questi spiriti sentivano la necessità di trovare una via verso la natura che non era ancora aperta al pensiero greco e alle sue sopravvivenze medievali. Per penetrare nella natura l’uomo deve lasciare da parte le esperienze che egli fa nel suo intimo: deve ritrarre la natura solo in rappresentazioni che non contengono nulla di quanto egli sperimenta in sé come azioni di quella.

Così l’anima umana si separa dalla natura; si pone su se stessa.

 

Fintantoché si poteva pensare che nella natura scorresse qualche cosa che veniva sperimentato direttamente anche nell’uomo, ci si poteva sentire autorizzati senza esitazione a lasciar parlare il pensiero circa i fenomeni naturali. L’immagine moderna della natura costringe l’autocoscienza umana a sentirsi, insieme al pensiero, fuori della natura, e a dare al pensiero un valore che esso conquista con le proprie forze.

 

Dal principio dell’èra cristiana fino a Scoto Eriugena, la forma dell’esperienza del pensiero è determinata dalla presupposizione di un mondo spirituale, quello della rivelazione religiosa;

dal secolo ottavo al secolo decimosesto l’esperienza del pensiero si sprigiona dal fondo dell’autocoscienza e lascia sussistere, accanto alla sua forza germinativa, quella della rivelazione.

• Dal secolo decimosesto in poi, è l’immagine della natura che respinge da sé l’esperienza del pensiero. L’autocoscienza cerca ormai di trarre dalle proprie forze ciò che con l’aiuto del pensiero può costituire un’immagine della concezione del mondo. Dinanzi a tale compito si è trovato Cartesio. Tutti i pensatori della nuova epoca si trovarono di fronte ad esso.

 

Benedetto Spinoza (1632-1677) si domanda come debba essere concepito il punto di partenza da cui muovere verso la creazione di una immagine vera del mondo.

Tale punto di partenza è basato su questa sensazione: se si presentassero alla mia anima, come veri, innumerevoli pensieri, sceglierei come pietra fondamentale per una concezione del mondo quello di cui io posso determinare prima le qualità.

 

Spinoza pensa che si debba partire solo da ciò che non ha bisogno di un’altra essenza per esistere.

A questa essenza, egli dà il nome di sostanza.

Ed egli scopre che ve ne può essere soltanto una di sostanza simile, e che questa è Dio.

 

Se esaminiamo il modo in cui Spinoza giunge a questo principio della sua filosofia vediamo che egli toglie a prestito il suo metodo dalla matematica. Come il matematico parte da verità generali che l’io umano si foggia liberamente, così Spinoza esige che la concezione del mondo derivi da simili libere rappresentazioni.

 

La sostanza unica è come l’io deve pensarla.

Pensata in questo modo, essa non sopporta accanto a sé una cosa che le sia simile.

Poiché — se non fosse così — essa non sarebbe tutto, ed avrebbe bisogno di un’altra essenza per esistere.

Ogni altra cosa sta alla sostanza, come un suo attributo, dice Spinoza.

 

L’uomo può riconoscere due di questi attributi.

Egli ne scorge uno quando osserva il mondo esterno; l’altro, quando si rivolge a se stesso.

Il primo attributo è la spazialità, il secondo è il pensare.

Nell’essere suo, l’uomo porta i due attributi: la spazialità nel suo corporeo; il pensiero nella sua anima.

Ma egli, con ambedue gli attributi, è un essere nell’unica sostanza.

Quando egli pensa, pensa la sostanza divina; quando egli agisce, agisce la sostanza divina.

 

Spinoza rivendica l’esistenza per l’io umano, ancorando questo io alla sostanza divina, universale, che avvolge tutto. Non si può parlare di una libertà umana incondizionata. L’uomo pensa e agisce da se stesso così poco, come la pietra nel muoversi; in tutto vi è la sostanza unica. Si può parlare di libertà condizionata per l’uomo quando egli non si considera come un essere individuale, indipendente, ma sa di essere uno con la sostanza unica.

La concezione spinoziana del mondo, nel suo sviluppo logico, conduce la personalità a questa coscienza: io ho un concetto corretto di me stesso quando non mi considero più, ma mi sento unito al divino Tutto nella mia esperienza interiore.

 

Secondo Spinoza, questa coscienza incita l’intera personalità umana al bene, cioè all’azione penetrata dal divino. Questa sgorga, in un modo che va da sé, dall’uomo per il quale la concezione giusta del mondo è pura verità. Perciò Spinoza chiama Etica lo scritto in cui egli espone la sua concezione del mondo. Per lui, l’etica, cioè la condotta morale, è, nel senso più alto, un risultato della consapevolezza dell’uomo di dimorare nella sostanza unica. Quasi diremmo che la vita privata di Spinoza, dell’uomo che prima fu perseguitato da fanatici e poi, dopo avere volontariamente rinunziato alla sua fortuna, visse nella povertà guadagnandosi il pane con il lavoro manuale, è stata, nel modo più raro, la manifestazione esterna della sua anima di filosofo, che sapeva il suo io essere nel divino Tutto e che sentiva ogni esperienza animica, e ogni esperienza della vita, illuminata da questa consapevolezza.

Spinoza costruisce con i suoi pensieri una visione del mondo.

I pensieri debbono essere tali da trarre dall’autocoscienza la giustificazione per la costruzione di questa visione. Da ciò deve scaturire la certezza. Ciò che la coscienza può pensare, come pensa le idee matematiche che si sostengono da sole, può costituire una immagine del mondo che è espressione, in verità, di ciò che esiste dietro i fenomeni naturali.

 

In un senso del tutto diverso da quello di Spinoza, Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) cerca la giustificazione della coscienza dell’io nell’essere del mondo.

Il suo punto di partenza assomiglia a quello di Giordano Bruno, in quanto egli concepisce l’« io » o l’anima come una monade. Leibniz trova nell’anima l‘autocoscienza, trova cioè l’anima conoscente se stessa, quindi la rivelazione dell’io.

Non vi può essere nell’anima nulla che pensi e senta, all’infuori dell’anima stessa. Perché, come potrebbe mai l’anima sapere qualche cosa di se stessa, se il conoscente fosse un altro? Ma essa non può essere che una essenza semplice, non composta. Se vi fossero parti differenti in essa, potrebbero e dovrebbero conoscersi a vicenda; ma l’anima si conosce solo in quanto una. Così l’anima è una essenza semplice, chiusa in sé, che rappresenta se stessa: una monade.

In questa monade non può penetrare un elemento esteriore. Poiché solo essa stessa può operare in sé. Tutte le sue esperienze, le sue rappresentazioni, tutto ciò ch’essa sente, risulta dalla sua attività. Essa potrebbe avvertire un’altra attività in sé, solo resistendo a questa attività, cioè essa avvertirebbe se stessa nella sua resistenza. Nessun elemento esteriore può penetrare in questa monade.

 

Leibniz esprime ciò dicendo che la monade non ha finestre. Tutti gli esseri reali sono monadi, secondo il significato dato al termine dal Leibniz. E in realtà non esistono che monadi: solo, le diverse monadi hanno una vita interiore d’intensità differente. Vi sono monadi con vita interiore del tutto assopita; altre che sembrano sognare; vi sono pure le monadi umane deste; fino alla vita interiore massimamente spiritualizzata della monade primordiale divina. Se l’uomo non vede con i sensi le monadi, questo proviene dal fatto che le monadi vengono scorte dall’uomo come simili ad una nebbia, che in realtà non è nebbia, ma uno sciame di moscerini. Ciò che i sensi umani avvertono è come l’immagine d’una nebbia che sarebbe formata da monadi poste l’una accanto all’altra.

 

Dunque, per Leibniz, il mondo è in realtà una somma di monadi, che non agiscono l’una sull’altra; sono anzi esseri che vivono ognuno per proprio conto, indipendenti e autocoscienti, in breve tanti « io ». Se una singola monade ha, nella sua vita interiore, la vita universale, questo non risulta dal fatto che le singole monadi agiscono a vicenda l’una sull’altra, bensì dal fatto che, nel caso dato, una monade vive nel suo intimo ciò che un’altra monade vive, indipendentemente da essa. Le vite interiori delle monadi concordano tra di loro, come orologi diversi segnano la stessa ora, sebbene uno non agisca sull’altro. Come gli orologi concordano, perché in un primo momento predisposti allo stesso modo, così le monadi sono regolate secondo un’armonia prestabilita dalla monade primordiale divina.

 

Tale è la visione del mondo cui Leibniz viene indotto, perché egli deve formarsi una immagine in cui l’essere animico autocosciente, l’io, possa affermarsi come una realtà. È una immagine del mondo completamente plasmata dall’io stesso. E secondo la prospettiva di Leibniz, la cosa non poteva essere diversa. Con Leibniz l’anelito a formarsi una concezione del mondo giunge al punto in cui, per scoprire la verità, lo spirito non accetta più nulla di ciò che si manifesta nel mondo esterno.

Per Leibniz, la vita sensibile dell’uomo è così determinata, che la monade animica viene collegata ad altre monadi dotate di un’autocoscienza più oscura, sognante, dormiente. Il corpo è una somma di tali monadi, ad esso è unita una monade animica, l’unica desta. Nella morte questa monade centrale si stacca dalle altre e continua ad esistere per sé.

 

Se la visione del mondo delineata da Leibniz è foggiata tutta dall’energia interiore dell’anima cosciente di sé, quella del suo contemporaneo John Locke (1632-1704) è completamente basata sulla sensazione che un tale lavoro non possa essere fatto dall’anima.

Locke riconosce come elementi validi di una concezione del mondo, soltanto ciò che può essere osservato (sperimentato) e ciò che può, sulla base dell’osservazione, essere pensato delle cose osservate. Per lui l’anima non è un essere che sviluppa autonomamente esperienze vere, ma una tabula rasa sulla quale il mondo esterno incide le impressioni. Così, secondo Locke, l’autocoscienza umana è un risultato dell’esperienza: l’origine di questa esperienza non è l’« io ». Se un oggetto del mondo esterno determina una impressione sull’uomo, dobbiamo dire che in realtà gli oggetti non posseggano che spazialità, forma e movimento; mediante il loro contatto con i sensi nascono suoni, colorito, odori, calore e così via. Ciò che nasce così dai sensi non esiste che per il tempo in cui questi stanno a contatto con l’oggetto. Fuori della percezione, non troviamo che sostanze di forma diversa e in diversi stadi di movimento. Locke si sente costretto ad ammettere che, ad eccezione della forma esteriore e del movimento, ciò che i sensi percepiscono non ha nulla a che vedere con gli oggetti stessi. Egli così inaugura una concezione del mondo, che non vuole considerare come appartenenti al mondo in sé le impressioni del mondo esterno che l’uomo, conoscendo, sperimenta.

Con Locke, uno spettacolo straordinario si offre all’anima che osserva. L’uomo può conoscere solo per il fatto di percepire e pensare su quanto egli ha percepito; ma ciò che egli percepisce non ha quasi nulla a che vedere con le proprietà reali del mondo.

 

Leibniz rifugge da ciò che il mondo gli rivela, e foggia dall’intimo dell’anima una immagine del mondo.

Locke vuole solo una immagine del mondo creata dalla cooperazione del mondo e dell’anima, anche se una tale collaborazione non ci dà una immagine del mondo. Poiché Locke non può trovare nell’io, come Leibniz, il sostegno per la sua concezione del mondo, egli giunge a idee che non sembrano adatte a legittimare una tale concezione, poiché esse non possono considerare il possesso dell’io umano come facente parte dell’interiorità del mondo. Una concezione del mondo come quella di Locke perde il nesso con qualsiasi mondo in cui possa mettere radici l’« io », l’anima autocosciente, perché essa, fin dall’inizio non vuole sapere nulla di altre vie per indagare il mondo fino in fondo, al di fuori di quelle che si smarriscono nell’oscurità dei sensi.

Per Locke, l’evoluzione della concezione del mondo assume una forma in cui l’anima autocosciente lotta per la propria esistenza nell’immagine del mondo, ma perde questo conflitto, perché crede di potere acquisire le sue esperienze solo mediante il contatto con il mondo esterno quale lo presenta l’immagine della natura. Essa deve rinunciare ad ogni sapere che all’infuori di questo contatto possa appartenere all’essenza sua.

 

Ispirato da Locke, George Berkeley (1684-1753) giunge a conclusioni completamente diverse. Berkeley trova che le impressioni che gli oggetti ed i fenomeni del mondo sembrano suscitare nell’anima umana, in verità siano in quest’anima stessa.

Vedo il colore « rosso », debbo fare esistere in me questo « rosso ». Sento il « caldo », quindi, la « caloricità » sta in me. Lo stesso vale per tutto ciò ch’io ricevo in apparenza dall’esterno. Ad eccezione di ciò ch’io produco dentro di me nulla so delle cose esterne. Parlare di cose che dovrebbero essere materiali, non ha senso. Io conosco solo ciò che si presenta al mio spirito come spirituale. Quel che, per esempio, io chiamo rosa, è qualche cosa del tutto spirituale, e precisamente una rappresentazione sperimentata dal mio spirito.

 

Così, pensa Berkeley, non si può mai percepire qualche cosa che non sia spirituale.

E quando io constato che dall’esterno qualcosa è prodotto in me, si tratta di cosa che può essere causata solo da entità spirituali. Poiché dei corpi non possono produrre qualcosa di spirituale. E le mie percezioni sono innanzi tutto spirituali. Vi sono dunque nel mondo soltanto spiriti che operano l’uno sull’altro. Questa è la concezione di Berkeley. Essa trasforma le rappresentazioni di Locke nel proprio contrario: concepisce come una realtà spirituale tutto ciò che Locke considera come un insieme di impressioni determinate dalle cose materiali. Berkley crede invece di riconoscersi con l’autocoscienza in un mondo spirituale, in modo immediato.

 

I concetti di Locke hanno condotto altri pensatori ad altri risultati. Ne è esempio il Condillac (1715-1780). Come Locke, egli pensa che ogni conoscenza del mondo debba e possa basarsi solo sul percepire sensibile e sul pensare. Ma egli accetta tutte le estreme conseguenze di questa idea: il pensare non ha in sé nessuna realtà autonoma, non è che una raffinata, trasformata percezione sensoria esteriore. Perciò, in una visione del mondo, per corrispondere alla verità, devono essere assimilate solo percezioni tramandate dai sensi. La sua spiegazione in proposito è suggestiva: si consideri un corpo umano in cui la vita animica non sia destata affatto e s’immagini che i sensi si sveglino l’uno dopo l’altro. Che cosa troveremmo di più nel corpo fatto sensibile, rispetto al corpo che non percepiva ancora nulla? È un corpo su cui il mondo esterno ha provocato impressioni. E queste impressioni hanno esse sole causato quel che crede di essere un’« io ». Una tale concezione del mondo è nell’impossibilità di comprendere l’« io », « l’anima autocosciente », e non può delineare nessuna visione del mondo in cui l’« io » possa trovare un posto. È la concezione del mondo, che cerca di finirla con l’anima autocosciente eliminandola. Seguirono le stesse orme Charles Bonnet (1720-1793), Claudie Adrien Helvetius (1715-1771), Julien de la Mettrie (1709-1751) e Holbach, con il suo Sistema della natura apparso nel 1770.

 

In quest’opera ogni elemento spirituale è espulso dal mondo. Agiscono nel mondo solo la materia e le sue forze, e per questa visione che non ha più nulla di spirituale Holbach trova le seguenti parole: « O natura, dominatrice di tutti gli esseri, e voi sue figlie, virtù, ragione e verità, siate per sempre le nostre uniche divinità! ».

 

Nello scritto di de la Mettrie L’uomo, una macchina, appare una concezione del mondo tanto dominata dall’immagine della natura, da subordinare a quest’ultima ogni altra cosa. Ciò che sorge nell’autocoscienza deve essere paragonato all’immagine riflessa rispetto allo specchio: l’organismo corporeo dovrebbe essere paragonato allo specchio, l’autocoscienza all’immagine. L’immagine non abolisce dunque lo specchio, di per sé significante. Leggiamo nel libro L’uomo, una macchina: « Se tutte le qualità dell’anima dipendono così tanto dall’organizzazione particolare del cervello e del corpo intero così da essere chiaramente questa organizzazione stessa, abbiamo davanti a noi una macchina superiore… L’anima è dunque una espressione vuota di senso, di cui non abbiamo nessuna idea e che una testa ben fatta può adoperare solo per designare la parte che in noi pensa. Se ammettiamo pure il più semplice principio di movimento, i corpi dotati di anima hanno tutto l’occorrente per muoversi, per provare sensazioni, per ravvedersi, in breve per trovare la loro via, sia nel dominio fisico, sia nel dominio morale che ne dipende… Se ciò che pensa nel mio cervello non è una parte di questo organo e, per conseguenza, di tutto il mio corpo, perché mai si riscalda il mio sangue quando, disteso tranquillamente nel mio letto, faccio piani per il mio lavoro o perseguo una serie di pensieri astratti? » (V. de la Mettrie, L’uomo, una macchina, Philosophische Bibliothek, voi. 68).

 

Alla cerchia in cui agivano simili spiriti — vi appartengono anche Diderot, Cabanis ed altri — Voltaire (1694-1778) ha portato le dottrine di Locke. Voltaire stesso non è mai giunto alle estreme conseguenze ammesse da questi filosofi. Ma egli si animò alle idee di Locke e ne troviamo qualche sentore nei suoi brillanti, abbaglianti scritti. Egli stesso non poteva diventare un materialista nel senso dei filosofi sopra nominati. Egli aveva un orizzonte di idee troppo ampio per negare lo spirito. Egli ha destato l’esigenza dei quesiti posti dalla concezione del mondo nei circoli più vasti, perché egli scriveva in modo tale da collegare questi all’interesse di quelli. In uno studio che volesse trattare le concezioni del mondo, intese come questioni del tempo, vi sarebbe molto da dire riguardo a Voltaire. Ma questo non è il nostro attuale proposito nel presente saggio. Esamineremo solo i più alti quesiti della concezione del mondo nel senso più stretto; non possiamo quindi dire altro su Voltaire e sull’avversario dell’illuminismo, il Rousseau.

 

Se Locke si perde nell’oscurità dei sensi, David Hume (1711- 1776) si perde nell’intimo dell’anima autocosciente, le esperienze della quale non gli sembrano dominate dalle forze dell’ordine del mondo, bensì dalla potenza dell’abitudine umana. Perché si dice che nella natura un fenomeno è causa e che un altro è effetto? Così si domanda Hume. L’uomo vede il sole illuminare una pietra; percepisce che la pietra si è riscaldata. Egli vede spesso questi due fenomeni che si susseguono. Egli si abitua dunque a considerarli come collegati, e considera il raggio del sole come la causa, il riscaldamento della pietra come l’effetto.

 

La consuetudine a pensare congiunge le percezioni, ma fuori, in un mondo reale, non esiste qualche cosa che si riveli da sé in simile correlazione. L’uomo vede un movimento del suo corpo seguire un pensiero della sua anima: si abitua a pensare che il pensiero sia la causa ed il movimento l’effetto. Nient’altro che abitudini di pensiero — dice Hume — sono alla base delle asserzioni umane, sui fenomeni del mondo. Mediante le abitudini di pensiero, l’anima autocosciente può arrivare a delle linee direttive per la sua vita, ma nelle sue abitudini essa non può trovare materiali atti a creare una visione del mondo, che possa avere un significato per l’essere all’infuori dell’anima. Così per la concezione di Hume tutte le rappresentazioni che l’uomo si foggia per mezzo dell’osservazione dei sensi e della ragione, hanno un contenuto che si accetta per fede, ma che non può mai diventare conoscenza vera. Riguardo al destino dell’anima umana autocosciente, ed ai suoi rapporti con un mondo diverso dal mondo sensibile, non vi può essere scienza, ma solo fede.

 

La concezione del mondo creata da Leibniz fu rimaneggiata in un modo largo e comprensivo da Christian Wolff (nato nel 1679 a Breslau, professore ad Halle). Wolff è dell’opinione che si può fondare una scienza la quale, per mezzo del puro pensare, riconosca ciò che è possibile, ciò che è chiamato all’esistenza perché appare privo di contraddizioni al pensare e può così essere dimostrato. Seguendo questa via, Wolff stabilisce una scienza del mondo, dell’anima e di Dio. Questa concezione del mondo è basata sul presupposto che l’anima umana autocosciente possa formare in sé pensieri che hanno valore per ciò che sta del tutto fuori di essa. Qui giace l’enigma che Kant poi vedrà presentarsi: come sono possibili conoscenze conquistate dall’anima, che pure debbano valere per entità universali viventi fuori dell’anima?

 

Dal secolo decimoquinto o decimosesto in poi si manifesta, nella concezione del mondo, l’anelito ad affidare l’anima autocosciente a se stessa in modo tale, che essa si senta autorizzata a formarsi rappresentazioni valide sugli enigmi del mondo.

 

Dalla consapevolezza che domina la seconda metà del Settecento, Lessing (1729-1781) avverte questo anelito come l’impulso più profondo del desiderio umano. Quando ascoltiamo le sue parole, scorgiamo insieme a lui molte altre personalità che rivelano in tale ricerca ansiosa il carattere fondamentale di questa epoca. Lessing mira a tramutare le verità date dalla rivelazione religiosa in verità razionali. Il suo scopo si può riconoscere distintamente nelle varie espressioni e nelle varie prospettive che il suo pensare deve assumere.

Lessing, con il suo « io » cosciente, sente di far parte di un’epoca dell’evoluzione dell’umanità, che, tramite la forza dell’autocoscienza, deve conquistare ciò che prima le giungeva — attraverso la rivelazione — dall’esterno. Ciò che è accaduto precedentemente nella storia diventa, per Lessing, un processo che prepara il momento in cui l’autocoscienza dell’uomo riposa solo su di sé. Così la storia è per lui « l’educazione del genere umano ».

Queste medesime parole sono il titolo di uno scritto che segna l’apogeo del suo pensiero ed in cui egli non vuole sapere l’esistenza dell’anima limitata ad una sola vita sulla terra: per lui l’anima vive invece ripetute esistenze terrene.

 

L’anima attraversa i diversi periodo dell’evoluzione umana, ma ad intervalli; da ogni periodo, essa prende ciò che questa evoluzione le può dare, e si reincarna di nuovo in un periodo seguente, per continuare così il suo sviluppo. Essa porta con sé da una epoca all’altra i frutti conseguiti, venendo così « educata » dalla storia. Nella concezione di Lessing, l’io s’innalza al di sopra della singola vita; le sue radici vengono poste in un mondo spiritualmente attivo, che giace al di là del mondo dei sensi.

Lessing sta così sul terreno di una concezione del mondo che intende fare avvertire all’io autocosciente, proprio attraverso la sua natura, come ciò che opera in lui non si esprima completamente nella vita individuale e sensibile.

 

Herder (1744-1803) cercò di giungere ad una visione del mondo in modo diverso, sebbene spinto dallo stesso impulso. Egli rivolge lo sguardo all’intero universo fisico e spirituale. Egli cerca in qualche modo il piano di questo universo. Il movimento concertato e l’armonia dei fenomeni naturali, lo spuntare e il fiorire del linguaggio e della poesia, il progresso dell’evoluzione storica, tutto questo Herder lascia che agisca nella sua anima, lo penetra di concetti spesso genialissimi, per raggiungere uno scopo. In tutto il mondo esterno — possiamo dire che Herder vede questo scopo — qualche cosa cerca di arrivare ad esistenza, e questo qualcosa si manifesta in fine nell’anima autocosciente. Quest’anima autocosciente scopre, sentendosi sostenuta dall’universo, solo la via seguita dalle sue proprie forze, prima di aver conquistato la coscienza di sé.

 

L’anima, secondo la concezione di Herder, può sentirsi radicata nella vita universale, poiché riconosce in tutta la struttura naturale e spirituale dell’universo un processo che conduce fino a se stessa, come l’infanzia nella vita individuale conduce all’età adulta. È un’ampia visione di questo suo concetto del mondo che Herder ci presenta nel suo scritto Idee per una filosofia della storia dell’umanità. È un tentativo di pensare l’immagine della natura in tale accordo con quella dello spirito, che vi sia in quella immagine anche un posto per l’anima umana autocosciente. Non si può trascurare il fatto, che nella concezione del mondo di Herder appare lo sforzo di accordare le recenti idee scientifiche con le esigenze dell’anima autocosciente. Herder stava di fronte alle esigenze della concezione moderna del mondo, come Aristotele di fronte a quelle della concezione greca. Lo stesso comportamento che entrambi i pensatori hanno dovuto assumere di fronte alla visione della natura data loro dall’epoca in cui vivevano, conferisce alle rispettive visuali un colorito caratteristico.

 

L’atteggiamento preso da Herder dinanzi a Spinoza, in contrasto con quello di molti suoi contemporanei, illumina anche la sua posizione nell’evoluzione del concetto del mondo. Vediamo il significato di questo suo atteggiamento se lo confrontiamo con quello di Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819). Questi trova nell’immagine del mondo di Spinoza ciò che la ragione umana deve raggiungere, quando segue le vie segnate dalle sue forze. Questa concezione esaurisce tutto ciò che l’uomo può sapere del mondo. Ma questa scienza non può pronunciarsi sulla natura dell’anima, sul principio divino del mondo, sulla relazione dell’anima con questo. Questi campi si schiudono all’uomo solo se egli si abbandona a quella conoscenza data dalla fede che riposa su certe capacità dell’anima.

 

Secondo Jacobi, la conoscenza deve quindi necessariamente essere ateistica. La sua costruzione di pensiero può comprendere un sistema rigido di leggi ma non un ordine divino del mondo. Così, per Jacobi, lo spinozismo diventa l’unico possibile modo di rappresentazione scientifica; ma, nello stesso tempo, egli vede in ciò la prova del fatto che questo modo di rappresentazione non può trovare un collegamento con il mondo spirituale.

 

Nel 1787, Herder difende Spinoza dall’accusa di ateismo. Egli può farlo, poiché non teme di sentire, in modo affine a quello di Spinoza, lo sperimentare dell’uomo nell’essenza divina primordiale. Solo che Herder esprime questo sperimentare in termini diversi da quelli di Spinoza. Questi edifica una pura costruzione di pensieri; Herder cerca invece di conquistare la sua concezione del mondo non solo per mezzo del pensiero, ma anche della pienezza della vita animica umana. Per lui, non vi è contrasto insanabile tra la scienza e la fede quando l’anima si rende conto del modo in cui essa sperimenta se stessa.

 

Parleremo nel senso di Herder se esprimeremo l’esperienza animica come segue: quando la fede si ricorda della sua base profonda nell’anima, essa giunge a rappresentazioni che non sono più incerte di quelle che vengono conquistate con il solo pensare. Herder accetta tutto ciò che l’anima può trovare in sé, nella forma più pura, come forze capaci di darci una immagine del mondo. Così la sua rappresentazione del principio divino del mondo è più ricca, più soddisfacente di quella di Spinoza, ma suppone l’io umano di fronte a questo principio del mondo in una relazione che Spinoza considera come un mero risultato del pensare.

 

Vedremo i fili più diversi dell’evoluzione moderna della concezione del mondo come riuniti in un nodo, se consideriamo l’influenza del pensiero di Spinoza negli anni 1780-1790. Nel 1785, Jacobi pubblica il suo Trattato di Spinoza. Egli riferisce un dialogo avuto con Lessing prima della morte di questi. Nel dialogo, il Lessing avrebbe confessato di aderire anch’egli allo spinozismo. Questo per Jacobi, prova l’ateismo di Lessing.

 

Dobbiamo, se accettiamo il « dialogo con Jacobi » come una rivelazione del pensiero intimo di Lessing, considerare questi quale una personalità che riconosce come l’uomo potrebbe giungere ad una concezione del mondo adeguata alla sua essenza, solo prendendo a sostegno della sua concezione la salda certezza che l’anima dà al pensiero, vivente mediante la propria forza. Con una tale idea, Lessing ci appare come un preannunciatore degli impulsi che creeranno le concezioni del mondo del secolo decimonono. Che egli abbia espresso questa idea poco prima della sua morte e ch’essa sia poco evidente nei suoi scritti, ci mostra quanto sia diventato gravoso anche per le menti più libere, il conflitto con gli enigmi che l’epoca moderna ha imposto all’evoluzione della concezione del mondo. La concezione del mondo deve pure esprimersi in pensieri. Ma la forza convincente del pensiero, che nel platonismo aveva raggiunto l’apogeo e nell’aristotelismo la sua espansione naturale, si era ormai ritirata dagli impulsi animici dell’uomo.

Solo l’animo ardito di Spinoza aveva potuto attingere nel metodo matematico la forza per innalzare il pensiero ad una concezione che doveva indagare persino il principio di questo mondo. Sentire, nell’autocoscienza, l’impulso vitale del pensiero, sperimentarlo in modo tale che, per mezzo di esso, l’uomo senta di essere saldamente inserito in un mondo spiritualmente reale, di questo, i pensatori del Settecento non erano ancora capaci. Lessing sta fra di loro come un profeta, poiché egli sente la forza del suo io autocosciente, tanto da ascrivere all’anima il passaggio in ripetute esistenze terrestri.

 

Ciò che inconsapevolmente si sentiva gravare come un incubo sui quesiti inerenti ad una concezione del mondo, era il fatto che all’uomo il pensiero non si presentasse più come si presentava a Platone, reggentesi sulla propria forza, con un contenuto denso e come una essenza attiva del mondo. Si sentiva sorgere il pensiero dal fondo dell’autocoscienza, si provava la necessità di dargli una forza di sostegno, nata da qualche potenza. Questa forza veniva cercata sia nelle verità della fede, sia nelle profondità dell’animo, ritenute più forti del pallido pensiero, considerato come un’astrazione. Questa è per molte anime l’esperienza ordinaria del pensiero, sentito come semplice contenuto dell’anima, incapaci di trarre da esso una forza sufficiente per provare che l’uomo ha il diritto di sentirsi con la sua essenza radicato nel principio spirituale del mondo. Tali anime sono colpite dalla natura logica del pensiero: gli riconoscono quindi la forza di creare una visione scientifica del mondo, ma vogliono una forza più potente e più efficace per afferrare una concezione del mondo che possa abbracciare le conoscenze più alte. A tali anime manca l’audacia dell’anima spinoziana di cogliere il pensiero alla fonte della creazione del mondo, per sentirsi così, con il pensiero, nel principio universale.

 

Da una simile disposizione d’anima deriva il fatto che l’uomo spesso tenga in poco conto il pensiero nel costruirsi una concezione del mondo, e senta l’autocoscienza più saldamente fondata sull’oscurità delle forze del sentimento. Vi sono personalità per le quali una idea ha tanto meno valore rispetto agli enigmi cosmici, quanto più essa voglia passare dall’oscurità del sentimento alla luce del pensiero. Troviamo presso J.G. Hamann (morto nel 1788) un tale atteggiamento dell’anima. Come molte personalità di questo tipo, egli era un grande stimolatore. Quando uno spirito è geniale come il suo, le idee che attinge dal sentimento profondo e oscuro agiscono con più energia sugli altri uomini di quanto non lo possano i pensieri esposti in forma razionale; Hamann si esprime come un oracolo sulle questioni che stavano preoccupando la vita intellettuale della sua epoca. Come su altri spiriti, egli ebbe una influenza ispiratrice anche su Herder. Nelle sue sentenze da oracolo si riflette un sentire mistico con qualche sfumatura pietistica. In esse appare caotica la ricerca ansiosa dell’epoca di sperimentare una forza dell’anima autocosciente, che possa essere il sostegno di tutte le rappresentazioni che l’uomo vuole farsi del mondo e della vita.

In questo periodo, gli spiriti sentono di dover discendere nelle profondità dell’anima, per trovarvi il punto di collegamento con il principio eterno del cosmo e di dover delineare una visione del mondo partendo dalla conoscenza di questa relazione: dalla fonte cioè dell’autocoscienza. Tuttavia vi è distanza tra ciò che l’uomo può afferrare con le sue forze dello spirito e questa radice interiore dell’autocoscienza. Gli spiriti non raggiungono con il loro lavoro spirituale ciò che oscuramente sentono essere il loro compito. Essi si aggirano intorno a ciò che è il problema universale, ma non l’avvicinano. Tale è l’impressione provata da più di uno spirito di fronte ai quesiti posti dalla concezione del mondo quando, verso la fine del Settecento, Spinoza comincia ad influire sulla filosofia. Idee di Locke e di Leibniz, pur nella forma affievolita data ad esse da Wolff, penetrano nelle menti. Contemporaneamente accanto al desiderio di concetti chiari agisce anche un certo timore nei confronti di questi, tanto che per completare la visione del mondo si ricorre sempre a concezioni attinte dal sentimento profondo. Un esempio di ciò si trova in Mendelssohn, l’amico di Lessing, che la pubblicazione del dialogo con Jacobi aveva molto addolorato. Egli non voleva ammettere che questo dialogo avesse avuto il contenuto comunicato da Jacobi.

 

Il suo amico — pensava Mendelssohn — in questo caso avrebbe riconosciuto come vera una concezione del mondo che intendeva penetrare con il solo pensiero fino alla radice del mondo spirituale. Ma, con tale metodo, non si raggiunge una concezione della vita di questa radice. È necessario avvicinarsi in un altro modo allo spirito del mondo se lo si vuole sentire, nell’anima, come un’entità pregna di vita. Lessing deve aver proceduto così. Egli si sarebbe convertito solo ad « uno spinozismo purificato », uno spinozismo che andava al di là del semplice pensare, nell’intento di raggiungere il principio divino dell’esistenza. Mendelssohn rifuggiva dal concepire il collegamento con questo principio primordiale, quale lo spinozismo lo rendeva possibile.

 

Per Herder, invece, non era necessario tirarsi indietro, giacché egli coloriva le linee di pensiero dell’immagine del mondo di Spinoza con le rappresentazioni ricche di contenuto che la contemplazione dell’immagine della natura e dello spirito gli concedeva. Egli non si sarebbe potuto arrestare al pensiero di Spinoza. Così come il pensatore lo aveva formulato, esso era per Herder colorato di grigio su sfondo grigio. Egli osservava ciò che si svolge nella natura e nella storia e poneva l’essere umano all’interno della sua osservazione. E ciò che gli si rivelava in questo modo dava come risultato un legame dell’essere umano con il principio divino del mondo e con il mondo stesso, mediante il quale egli si sentiva in accordo con l’intendimento di Spinoza. Herder era pienamente convinto che, dall’osservazione della natura e dell’evoluzione storica, dovesse risultare una visione del mondo mediante la quale l’uomo sentisse in modo soddisfacente il suo posto nell’universo. Spinoza pensava di giungere ad una tale visione del mondo solo nella sfera luminosa dei pensieri, elaborati secondo il modello della matematica. Se si confronta Herder con Spinoza, se si pensa alle disposizioni dell’uno, all’intendimento dell’altro, si deve riconoscere che nell’evoluzione della concezione moderna del mondo opera un impulso che si nasconde dietro ciò che viene alla luce come immagini di questa concezione. È l’anelito verso uno sperimentare nell’anima ciò che lega l’autocoscienza all’insieme dei processi del mondo.

 

Si cerca di delineare un’immagine del mondo, in cui il mondo appaia così che l’uomo vi si possa riconoscere come egli deve riconoscersi quando lascia l’intima voce della sua anima autocosciente. Spinoza intende appagare il bisogno di una tale esperienza lasciando che la forza del pensiero esplichi la propria certezza. Leibniz studia l’anima e vuole rappresentare il mondo quale esso deve esserlo se l’anima, rappresentata in un modo giusto, si deve mostrare al posto che le compete nell’immagine del mondo. Herder osserva i processi esteriori ed è convinto fin dall’inizio che una visione vera del mondo sorge nel sentimento quando questo, con tutta la sua forza, si pone sanamente di fronte a tali processi.

 

Ciò che Goethe dirà più tardi, che cioè ogni fatto è già teoria, è già verità incondizionata per Herder. Egli è stimolato dagli ambienti filosofici simpatizzanti con Leibniz; ma non avrebbe mai osato cercare teoricamente un’idea dell’autocoscienza nella monade, per poi costruire mediante questa una immagine del mondo. L’evoluzione animica dell’umanità si presenta in Herder in un modo tale che tramite lui viene indicato, in forma particolarmente chiara, l’impulso che la determina nell’epoca più recente.

 

Ciò che in Grecia, come pensiero (idea), era stato trattato al pari di una percezione, è ora sentito come auto-esperienza dell’anima. Ed il pensatore sta di fronte a questo problema: come posso penetrare nel profondo dell’anima in modo da afferrare il nesso dell’anima con il principio del mondo, e che il mio pensiero sia allo stesso tempo l’espressione delle forze creatrici del mondo? L’epoca illuministica che si delinea nel Settecento credeva di trovare nel pensiero stesso la sua convalida. Herder supera questo punto di vista. Egli non cerca nell’anima il punto dove questa pensa, ma la sorgente viva donde sgorga il pensiero nato dal principio creatore insito nell’anima. Così Herder sta vicino a ciò che possiamo chiamare l’esperienza misteriosa dell’anima con il pensiero.

 

Una concezione del mondo deve esprimersi in pensieri. Ma il pensiero conferisce all’anima la forza che essa attualmente cerca, in una concezione del mondo, solo quando essa sperimenta il pensiero nel suo nascere da sé. Se il pensiero è già nato, se è già divenuto sistema filosofico, ha già perso la sua potenza magica sull’anima. Questo è il motivo per cui il pensiero e la visione filosofica del mondo siano così spesso sottovalutati. Questo accade a causa di quanti riconoscono come solo pensiero quello proveniente dall’esterno; al quale credono e debbono riferirsi. Conosce la vera forza del pensiero, unicamente chi sperimenta il pensiero alla sua origine.

 

Il modo in cui questo impulso vive nelle anime nei tempi moderni, ce lo rivela una figura eminente della storia della concezione del mondo, quella di Shaftesbury (1671-1713). Per lui vive nell’anima un « senso interiore », attraverso il quale giungono all’uomo le idee che diventano il contenuto della concezione del mondo, come gli giungono, per via dei sensi esteriori, le percezioni sensibili. Non dunque nel pensiero stesso Shaftesbury cerca la convalida del pensiero, ma nell’indicare un fatto animico che renda possibile al pensiero di passare, dal principio universale, all’anima. Quindi, secondo lui l’uomo sta dinanzi ad un duplice mondo esterno: il mondo « esterno » materiale che penetra nell’anima per via dei sensi « esterni » ed il mondo esterno spirituale che si rivela all’uomo mediante il « senso interno ».

 

In questa epoca vive l’esigenza di conoscere l’anima. Si vorrebbe sapere come nella sua natura sia insita l’essenza di una visione del mondo. Vediamo questo anelito presso Nikolaus Tetens (morto nel 1807). I suoi studi sull’anima gli fecero adottare una distinzione delle facoltà animiche, che oggi è generalmente accettata: pensare, sentire e volere; mentre prima si distingueva solo tra facoltà intellettive e appetitive.

 

Abbiamo un esempio in Hemsterhuis (1721-1790) del modo in cui gli spiriti del Settecento cercavano di sorprendere l’anima nel momento in cui agisce creando la sua visione del mondo. Considerato da Herder come uno dei più grandi pensatori vissuti dopo Platone, appare in lui la lotta del secolo decimottavo con l’impulso animico dell’epoca nuova. Esprimeremo il pensiero di Hemsterhuis dicendo: se l’anima umana con la sola forza, senza il sostegno dei sensi, potesse osservare il mondo, vedrebbe distesa dinanzi a sé l’immagine del mondo in un unico momento. L’anima sarebbe così infinita nell’infinito. Se l’anima non avesse la possibilità di vivere in sé, ma dovesse invece contare sui soli sensi esterni, il mondo le si esplicherebbe dinanzi in una distesa temporale infinita L’anima vivrebbe allora, non cosciente di sé, nel mare dell’infinito sensibile. In mezzo a questi due poli entrambi irreali, ma determinanti, come due possibilità, i limiti della vita animica, l’anima vive la sua vita reale: essa compenetra il suo infinito con l’illimitato.

 

Abbiamo tentato, studiando alcuni pensatori, di mostrare come l’impulso animico dell’epoca moderna scorra nel secolo decimottavo entro l’evoluzione della concezione del mondo. In questa corrente troviamo già i germi dalla cui evoluzione emerge l’« epoca di Kant e di Goethe ».