05 – Modifiche dell’essere umano nell’evoluzione fra la civiltà paleoindiana e quella attuale.

O.O.226 – Il destino dell’uomo – 20.05.23


 

Sommario: Modifiche dell’essere umano nell’evoluzione fra la civiltà paleoindiana e quella attuale. L’azione del Cristo e l’enigma della morte nel corso dell’evoluzione. La festa dell’Assunzione e il mistero della Pentecoste.

 

Non si può giudicare appieno l’essere umano del presente se non si abbraccia un periodo lungo della sua evoluzione. Dobbiamo infatti pensare che le nostre anime attraversano ripetute vite terrene, tra le quali vi è sempre una vita fra la morte e una nuova nascita, come risulta da tutte le esposizioni dell’antroposofia e da quelle che ho fatto qui in questi giorni; abbiamo in tal modo attraversato con la nostra anima le più diverse epoche evolutive dell’umanità. Se lo si pensa, dev’essere anche chiaro che si può comprendere l’essere umano solo osservando un lungo periodo di tempo, nel quale le nostre anime abbiano ripetutamente attraversato la vita terrena.

 

Già qui esposi in conferenze i periodi evolutivi che si sono susseguiti prima e dopo il mistero del Golgota. Oggi devo ritornarvi da un altro punto di vista. Nel corso della sua evoluzione l’umanità ha attraversato grandi trasformazioni, ma di solito se ne tiene conto troppo poco. Con facilità si pensa che siamo fatti in un certo modo e che, guardando al passato, siamo stati in sostanza sempre uguali. Si sa che vi furono un periodo greco, un periodo egizio e che in precedenza ve ne furono altri. Per i periodi dei quali si parla in tal modo, si pensa che l’essere umano sia stato sempre più o meno come è oggi. Si distinguono i diversi impulsi di civiltà, ma per quanto riguarda l’aspetto principale della vita animica si pensa che gli uomini, almeno per quanto riguarda le epoche storiche, siano sempre stati come oggi. Tuttavia nello studio del passato si immagina un lungo periodo per arrivare di solito allo stadio che oggi si descrive, con un certo compiacimento, come quello in cui l’uomo sarebbe stato ancora simile alla scimmia.

 

Pure, l’evoluzione dell’uomo non fu proprio così. Per comprendere come essa si sia modificata, dobbiamo tenere a mente che nella nostra epoca, durante l’età infantile vi è una dipendenza relativamente grande fra la parte animico-spirituale, che si sviluppa in noi, e quella fisico-corporea.

 

Pensiamo solo un momento all’età infantile fino al cambio dei denti e alla grande modificazione, rilevabile mediante un’osservazione oggettiva e che caratterizzai spesso anche qui, che si ha nel bambino col cambio dei denti. Il corpo subisce il cambio dei denti, e l’atteggiamento dell’anima infantile diventa diverso. Poi si ha un’altra epoca della vita fino alla maturità sessuale. Sappiamo tutti che con lo sviluppo corporeo in questo periodo continua pure la dipendenza spirituale-animica. Anche per il periodo dei vent’anni, se si è solo un poco oggettivi, si nota la dipendenza della parte animico-spirituale da quella corporea, anche se oggi, nell’epoca dei movimenti giovanili, proprio i giovani non ne parlano volentieri – e non lo dico in senso cattivo. Arrivati a sedici o diciassette anni si ritiene naturalmente di essere una signorina o un giovanotto appieno sviluppati, e se poi si hanno speciali capacità spirituali a ventun anni si scrivono articoli sui giornali. Si vorrebbe comunque ignorare che in quell’età vi è ancora una forte dipendenza della parte spirituale-animica da quella corporea. In ogni caso quella dipendenza più o meno cessa per l’uomo di oggi a una certa età.

Dopo i vent’anni si diventa adulti, e non ci si sente più dipendenti dalla corporeità al cambio dei denti, alla maturità sessuale e così via, come quando si attraversavano con piena coscienza questi stati. In tempi relativamente non tanto lontani si aveva ancora un sentimento per tale maturazione, distinguendo con precisione come l’uomo dovesse esser trattato diversamente quando arrivava al cosiddetto tempo del noviziato, quando diventava apprendista e poi, relativamente più tardi, maestro.

 

Come ho detto, per l’uomo di oggi è senz’altro vero che da una certa età in poi con la sua parte animico-spirituale non si sente più molto dipendente da quella corporea. Certo si nota come egli, quando raggiunge una venerabile età, ritorni a dipendere dal corpo; quando le gambe non vogliono più muoversi bene, quando si hanno rughe o quando i capelli incanutiscono, si nota come vi sia di nuovo una certa dipendenza dalla corporeità; ma non vi è un vero parallelismo fra le due parti: corporea e animica. Si sente senz’altro che le forze del corpo cedono, ma si sente che in effetti anche nel nostro tempo la parte spirituale-animica rimane più o meno indipendente da quella corporeo-fisica, e che tale deve rimanere.

Non fu però sempre così; risalendo a precedenti periodi dell’evoluzione umana, troviamo che fino a tarda età gli uomini rimanevano dipendenti dalla loro corporeità come oggi i bambini lo sono fino al cambio dei denti e alla pubertà. Se poi risaliamo sino a un primo periodo dopo la grande e poderosa catastrofe atlantica con la quale i continenti si risistemarono, se risaliamo a quel primo periodo, che non possiamo seguire con la storia esteriore ma con la scienza dello spirito, e che nella mia Scienza occulta chiamo paleoindiano, fino all’età dei cinquant’anni l’uomo si sentiva come ora i ragazzi e le ragazze si sentono dipendenti dalla corporeità fisica dal cambio dei denti fino alla maturità sessuale.

 

• In altre parole, come oggi nell’infanzia si sperimenta la crescita evolutiva ascendente, così allora nella sfera animico-spirituale si sperimentava l’evoluzione discendente. Arrivati ai cinquant’anni gli uomini maturavano interiormente nel senso di essere invecchiati, come oggi i giovani maturano con la maturità sessuale. Si era allora sette o ottomila anni prima del mistero del Golgota, e l’uomo era in attesa per tutta la sua vita di invecchiare, tanto che si diceva: dalla mia corporeità mi si manifesta qualcosa che prima dei cinquant’anni semplicemente non posso sperimentare. Era un’esperienza che si faceva in quella civiltà e che certo per noi è molto scioccante. Oggi si pensa di sicuro che quando il giovane ha raggiunto i vent’anni è senz’altro un uomo fatto. Si pensa che debba solo attendere che con l’età avanzata gli si sveli qualcosa che prima non poteva sapere o sentire.

 

Grazie alla costituzione corporea, attorno ai cinquant’anni si arrivava a sentire qualcosa che si potrebbe chiamare una separazione del corpo fisico dalla sfera animico-spirituale. Per così dire si sentiva sempre più che la corporeità si avvicinava alla condizione di cadavere. Nell’estraniarsi del corpo fisico, nel suo avviarsi verso l’elemento della terra, si sentiva una liberazione della parte animico-spirituale. Proprio perché si sentiva il corpo come una veste, si sentiva anche l’affinità del corpo con la terra, con ciò che con la morte sarà parte della terra. Per così dire ci si stupiva meno che non oggi di dover depositare il corpo e abbandonarlo alle potenze della terra, perché il processo dell’abbandono del corpo era sperimentato lento e graduale. La cosa sembra paradossale, perché si pensa che sia terribile portare in sé il proprio corpo fisico quale cadavere in divenire. Non lo si sentiva però solo come qualcosa di scomodo e in procinto di decomporsi. No, si sentiva quel corpo cinquantenne come una coppa, un involucro indipendente che però, sebbene tendesse alla terra, era pieno di vita. Semplicemente a seguito di tale condizione corporea, a seguito dell’affinità del corpo con la terra si sentiva qualcosa che oggi si arriva a sapere solo dalla scienza astratta. Ad esempio si sperimentava qualcosa dell’interiore struttura dei metalli. Arrivati ai cinquant’anni si aveva un istinto per distinguere il rame, l’argento e l’oro. Si sentiva anche l’affinità di quei metalli con il proprio organismo tendente alla terra; si sentiva in modo diverso stando di fronte a un cristallo di rocca o a un terreno coltivato. Gli uomini diventavano saggi riguardo alle condizioni terrene proprio perché invecchiavano, e tutta la civiltà ne risultava influenzata. I bambini guardavano un vecchio e si dicevano: lui è saggio, e lo saremo anche noi quando saremo vecchi come lui. Si stabiliva così una profonda venerazione, un grande rispetto per la vecchiaia.

 

In quegli antichi tempi dell’evoluzione dell’umanità la venerazione e il rispetto per la vecchiaia esistevano in una determinata parte della terra, ma non ovunque; non nelle regioni in cui vivevano gli uomini dalla fronte sfuggente che oggi vengono ritrovati dagli antropologi, bensì dove vivevano coloro che avevano raggiunto un alto grado di civiltà. In queste regioni tutta la civiltà era legata a una grande venerazione e ad un rispetto per la vecchiaia. Dobbiamo ora chiederci: da che cosa viene che gli uomini avessero quelle esperienze? Le avevano perché allora erano inseriti nel loro corpo fisico meno di quanto non lo siamo ora. Oggi un ragazzo a vent’anni si sente ben inserito nel corpo fisico, e fa in esso tutte le sue esperienze; si sente quindi identico, tutt’uno col suo corpo fisico. E di ciò con cui ci si sente uniti, si condivide il destino. Poiché in quegli antichi tempi gli uomini si sentivano molto più autonomi nel loro corpo fisico, i loro pensieri erano più ricchi di immagini, i loro sentimenti vivevano e tessevano interiormente la realtà; così per loro il corpo fisico era fin dal principio come un involucro in cui erano inseriti. Verso la fine della vita, attorno ai cinquant’anni quell’involucro si induriva, e poiché il corpo si sviluppava conforme al mondo esterno, gli uomini sentivano che ora trasmetteva contenuti di saggezza relativi al mondo.

 

La situazione era già diversa quando la civiltà progredita entrò nel periodo successivo, che nella mia Scienza occulta denomino paleopersiano. Ora gli uomini non sentivano più la dipendenza del corpo fisico dalla sfera della terra attorno ai cinquant’anni. Sentivano piuttosto dai quarantadue, quarantatre anni e fino ai quarantanove, cinquanta una diversa influenza sul corpo fisico dovuta all’invecchiamento. In quei tempi partecipavano cioè intensamente al decorso dell’anno, sentendo nel loro corpo la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno. Il loro corpo avvertiva il prosperare della primavera e dell’estate, e il declinare dell’autunno e dell’inverno. Gli uomini vivevano le modificazioni dell’aria dovute al corso dell’anno. Alla percezione dei cambiamenti dell’aria, del corso dell’anno era legato qualcosa d’altro: l’uomo sentiva come se il suo parlare in effetti più non gli appartenesse. Come prima attorno ai cinquant’anni non sentiva più il corpo fisico come proprio, ma lo sentiva più o meno parte della terra, così nell’antica civiltà paleopersiana l’uomo sentiva come il linguaggio emesso dal corpo fosse parte del popolo e dell’ambiente circostante. Dopo i cinquant’anni l’antico indiano non diceva: “Io vado”, ma in base alle sue sensazioni diceva: “Il mio corpo va”. Non diceva: “Entro dalla porta”, ma: “Il mio corpo entra dalla porta”. Sentiva infatti il suo corpo come qualcosa di affine al mondo esterno, alla terra. Poi, cinque o sei millenni prima del mistero del Golgota, l’antico persiano sentiva che il linguaggio si esprimeva da ed era in comunione con tutto l’ambiente circostante. In quei tempi su tutta la terra non si viveva in uno scambio fra popoli, ma piuttosto ognuno nel suo popolo. L’antico persiano sentiva come se il linguaggio gli fosse estraneo, e per esprimere questa sua sensazione avrebbe potuto dire: “Il linguaggio parla in me”.

 

Quando il singolo aveva raggiunto i quarantanni era realmente come se in un certo senso intendesse con pieno rispetto che potenze divino-spirituali parlassero attraverso di lui. Sentiva anche come se il suo stesso respiro non gli appartenesse, come se fosse del tutto diffuso nell’ambiente.

 

Quando poi nella civiltà egizio-caldaica, da tre-quattromila anni fino agli otto o nove secoli prima di Cristo, l’uomo era intorno ai trent’anni, si sentiva in modo simile di fronte ai propri pensieri, alle sue idee; solo che quando arrivava ai trentacinque anni sentiva come se quelle idee fossero legate alle potenze celesti, al corso delle stelle.

 

• Come alla fine della sua vita l’antico indiano sentiva il proprio corpo legato alla terra,

• come l’antico persiano sentiva il suo linguaggio e il suo respiro legati al corso dell’anno e al suo ambiente,

• così il partecipante all’antica civiltà egizio-caldaica sentiva il suo pensare diretto dal corso delle stelle,

e nei pensieri sentiva l’opera di potenze divine e stellari.

 

Nella civiltà egizio-caldaica fino ai quarantadue-quarantatre anni l’uomo sentiva la dipendenza dei suoi pensieri dalle potenze del cielo. Dopo non gli si presentava più qualcosa di nuovo nel corso della vita umana. Anche l’antico persiano sentiva che il pensare gli veniva come ispirato dalle stelle, e in più attorno ai quarantanni aveva il rapporto con il linguaggio che ho appena descritto. Parimenti l’antico indiano aveva un rapporto con le potenze stellari dai suoi trentacinque anni, e per questo l’astrologia era per lui qualcosa di ovvio. Solo attorno ai quarantanni si aggiungeva per lui la dipendenza del linguaggio dall’ambiente circostante, mentre ai cinquant’anni vi era tutta l’oggettivazione del corpo fisico, il suo divenire ombra. Per così dire si abituava alla morte, perché essa gli si avvicinava già ai cinquant’anni. L’anima non era più tanto legata al corpo, e per questo si avevano le modificazioni nel corpo a seguito delle condizioni esterne. L’anima ne prendeva conoscenza, le percepiva, le sperimentava. Man mano che diveniva più vecchio, l’uomo viveva sempre più nel mondo.

 

Venne poi il periodo greco-latino che durò dall’ottavo secolo precristiano fino al quindicesimo dopo Cristo, perdurando fino a tale secolo nel mondo civile gli echi della civiltà greco-latina. Era il periodo in cui l’uomo si sentiva ancora dipendente dal corpo fisico fino ai trentanni. Secondo la storia corrente che oggi impariamo a scuola, e che è del tutto insufficiente, non si ha alcuna idea di tutti questi mutamenti nell’evoluzione dell’umanità. Se così guardiamo ad esempio il greco antico, non si sentiva più dipendente dalle stelle, dal corso dell’anno o dalla terra, ma proprio ben inserito nel suo corpo fisico; sentiva una concordanza, un’armonia fra la parte spirituale-animica e quella fisico-corporea, solo che quest’ultima non era più separata da lui. Era il tempo in cui l’uomo era talmente unito col suo corpo fisico da non più permettere che esso partecipasse al corso del mondo con la sua spiritualità, tanto era legato al corpo fisico. Questo periodo iniziò solo con l’ottavo secolo precristiano.

 

Per l’umanità civile vi fu così una grande svolta in tutta la sua evoluzione. Sui trentanni l’uomo si sentiva davvero tutt’uno col suo corpo fisico, che non era più separato: lo sentiva unito a sé. Il corpo fisico non gli svelava più i segreti dei mondi. La conseguenza fu che proprio in quel periodo il genere umano acquisì un nuovo rapporto con la morte. Nei tempi in cui per così dire si preparava a morire a seguito della separazione dal corpo fisico, la morte stessa costituiva per lui solo un mutamento nella vita, perché sui cinquant’anni imparava a poco a poco a conoscere la morte, sentendola come qualcosa che appunto entrava saggiamente nell’universo. Sentiva la morte come qualcosa che lo introduceva nel mondo nel quale era già vissuto. La morte era del tutto diversa da come è divenuta più tardi. Si potrebbe dire che sempre più la parte spirituale-animica vi partecipasse.

 

Confrontiamo ora il periodo greco con quello paleoindiano. In quest’ultimo il corpo si rendeva indipendente. Il singolo sapeva: “Io sono ancora qualcosa al di fuori del mio corpo autonomo divenuto un guscio”, e proprio non poteva arrivare al pensiero che la morte fosse come la fine della vita. Pensieri del genere non esistevano nel periodo paleoindiano per la vita umana sulla terra. Poi per gradi, e con più forza nell’ottavo secolo precristiano (sia pure inconsciamente e come sensazione, perché allora non si poteva pensare in modo razionale su queste cose) l’uomo sentì di dirsi: il mio corpo muore, e con esso io sono una cosa sola con la mia parte spirituale-animica. Egli non faceva più alcuna differenza fra la parte corporea e quella spirituale-animica.

 

All’inizio del nono e dell’ottavo secolo precristiano dalle più profonde oscurità spirituali si presentò agli uomini un pensiero che aveva qualcosa di spaventoso: la mia anima non potrebbe fare lo stesso cammino, vale a dire morire come il corpo?

Un simile pensiero, del tutto impossibile nel periodo paleoindiano, si presentò sempre più nell’ultimo millennio dell’evoluzione umana prima del mistero del Golgota. Da quell’atteggiamento è derivata la nota frase dell’eroe greco: «Meglio mendicanti nel nostro mondo che re nel regno delle ombre». Il greco sentiva infatti che con la vita del corpo si rafforzava anche la vita dell’anima. Era il tempo in cui maturava l’atteggiamento dell’umanità che si avvicinava nel giusto modo al mistero del Golgota. Da che cosa proveniva infatti quella forza per la salute animica che rendeva impossibile agli uomini antichi il pensiero che l’anima potesse incontrare la stessa morte del corpo? Quella freschezza, quell’indipendenza animica nel sentire esistevano perché in quegli antichi tempi gli uomini sapevano e sentivano di aver avuto una vita prenatale animico-spirituale prima di discendere nel mondo fisico-terreno, e che nel mondo in cui erano stati erano legati a un elevato Essere solare.

 

Le dottrine degli antichi misteri insegnavano che nell’esistenza preterrena l’uomo era unito allo Spirito del sole, come in quella terrena il corpo è unito alla luce fisica solare. I maestri dei misteri dicevano ai loro discepoli, e questi lo riferivano al resto dell’umanità: “Il Cristo (essi non davano ancora il nome di Cristo all’alta Entità solare, ma era il Cristo, e noi possiamo perciò adoperare il suo nome) è un Essere che non discende sulla terra. Ma nell’esistenza prenatale voi stessi eravate con Lui nei mondi spirituali. E la forza del Cristo è quella che vi dà la possibilità di mantenere le vostre anime indipendenti dai vostri corpi”.

 

Il ricordo istintivo di un’esistenza preterrena andò perduto man mano che gli uomini andavano identificandosi col loro corpo. Nel periodo greco, con le forze istintive della sua coscienza in effetti l’uomo terreno vedeva soltanto la vita terrena. Il greco viveva appunto una vita terrena armonica perché gli era sfuggita la visione dei mondi celesti dello spirito; protendeva talmente tanto verso il dominio della sfera fisico-sensibile, che quella spirituale era più o meno scomparsa dall’orizzonte della sua vita. Gli uomini del mondo civile non avevano più coscienza di esser stati, prima di scendere sulla terra, in presenza dell’Elevato essere solare che più tardi fu chiamato Cristo. Vi era buio se si guardava allo stato prenatale, preterreno. Si presentò così l’enigma della morte.

 

Quel che poi avvenne non va visto come qualcosa riguardante solo l’umanità, ma anche gli dèi. Le potenze divino-spirituali che facevano scendere gli uomini sulla terra diedero loro anche gli impulsi per l’evoluzione che ho appena descritta. Poiché poi, riguardo al rapporto fra l’elemento spirituale-animico e il corpo fisico, l’uomo sempre più andava identificandoli, tanto che l’enigma della morte si presentò anche riguardo alla sfera spirituale-animica, per le potenze animico-spirituali vi era il pericolo di perdere gli uomini da esse mandati sulla terra, e che sempre più l’uomo morisse anche nell’anima come nel corpo.

 

L’uomo non sarebbe però mai diventato un essere libero e indipendente se non si fosse immedesimato col proprio corpo. Nell’evoluzione l’uomo poteva diventare libero solo oscurandosi per lui la visione della sfera preterrena, solo potendo stare sulla terra in modo da abbandonarsi del tutto all’involucro del proprio corpo fisico.

Di conseguenza splendette e brillò il suo io autonomo. Il brillare di un io autonomo potè appunto realizzarsi crescendo e inserendosi del tutto nel suo corpo fisico. Quando ci eleviamo a mondi spirituali-animici l’io si ritira, perché ci apriamo all’oggettiva sfera spirituale-animica. L’uomo poteva acquisire un io libero soltanto se gli dèi gli davano l’impulso a crescere e unirsi sempre più col suo corpo fìsico. Così però nasceva l’enigma della morte, perché il corpo fisico soggiaceva alla morte. Se gli uomini non avessero altrimenti raggiunto una diversa prospettiva, sulla terra essi si sarebbero sempre più convinti che con il corpo muore anche l’anima. Saremmo senz’altro a questo punto, se non fosse intervenuto dell’altro, se il corso rettilineo della storia fosse continuato con la convinzione umana che con il corpo scende nella tomba anche l’anima.

 

A quel punto le potenze divino-spirituali decisero di inviare sulla terra l’alto Essere solare, il Cristo, affinché gli uomini, che non avevano più conoscenza della loro comunanza col Cristo nell’esistenza preterrena, ne potessero riavere coscienza, dato che Egli discendeva per loro sulla terra e partecipava in Palestina al loro destino umano nel corpo di Gesù di Nazareth. Il Dio discese sulla terra in quel momento dell’evoluzione storica dell’umanità, in cui gli uomini avevano perduto il senso della loro appartenenza all’Essere solare al di là del mondo terreno.

 

Perché dunque il Cristo discese sulla terra? Perché ora gli uomini ne avevano bisogno sulla terra, perché avevano acquisito piena coscienza dell’io, perché dovevano sperimentare sulla terra che chi vince la morte esiste, che chi la vince può morire e risorgere. Quel mistero doveva esser posto nella storia davanti agli uomini nel tempo in cui essi non potevano più guardare all’esistenza preterrena, affinché vedessero la loro comunanza con chi dà loro l’immortalità, con il Cristo.

 

Che il Cristo sia stato inviato sulla terra dai mondi superiori è una questione non solo dell’umanità, ma degli dèi, perché essi avrebbero perduto il genere umano se non avessero inviato sulla terra uno dei loro Esseri più elevati per intessere con gli uomini e col loro destino, nel complesso dell’evoluzione cosmica e umana, un evento divino in mezzo a quelli terreni e umani. Non si comprende l’evento del Golgota, vedendolo soltanto come evento umano; lo si comprende se lo si considera anche come una questione divina, vedendo che ora nel mondo terreno vi è qualcosa che prima poteva esser scorto soltanto nei mondi divini.

 

Forse ora si potrà obiettare che non tutti gli uomini riconoscono il Cristo, che molti non credono in Lui. Sono essi ora nella condizione di ritenere che la loro anima scenda nella tomba con il corpo che muore? Non dobbiamo intendere l’evento del Golgota in quel modo. Per tutti i secoli che precedettero il nostro, il Cristo, per infinita grazia e misericordia non è morto soltanto per chi crede in Lui, ma per tutti gli uomini sulla terra. La soluzione dell’enigma della morte fu risolto dal Cristo per tutti gli uomini della terra. È una questione che in primo luogo nulla ebbe a che fare con la coscienza umana. Era naturale che vi fossero uomini in grado di assumere a poco a poco anche nella loro coscienza la grandezza e il significato del mistero del Golgota. Il Cristo è però morto e risorto per i Cinesi, i Giapponesi, gli Indiani, come per i cristiani.

 

Dato che nell’evoluzione dell’umanità dal secolo quindicesimo, e ora sempre più, l’intellettualismo è considerato come la massima forza dell’anima, dato che l’impulso intellettualistico diverrà sempre più potente nell’avvenire, siamo ora giunti nell’epoca in cui gli uomini su tutta la terra, proprio perché hanno sempre più coscienza, impareranno sempre più a comprendere che cosa è avvenuto con il mistero del Golgota. Allo scopo sarà però necessario che la sua conoscenza possa realmente divenir comprensibile per tutti gli uomini.

 

Il modo in cui nei secoli sino ad ora il cristianesimo si è sviluppato aveva ancora le caratteristiche delle antiche religioni di popolo, delle antiche religioni etniche. L’evoluzione cristiana non aveva ancora un carattere universalistico. I missionari inviati presso seguaci di altre religioni erano poco o niente compresi, perché parlavano del Cristo come di un Dio particolare che ha le proprietà e le caratteristiche che hanno anche gli altri dèi dei popoli. Così in definitiva si diffuse il cristianesimo. Perché Costantino o Clodoveo vi aderirono? Perché pensavano che il dio Cristo li potesse aiutare più di quanto li avevano aiutati gli dèi precedenti; per così dire cambiarono i loro dèi precedenti con il dio Cristo. Il Cristo acquisì così molte caratteristiche degli antichi dèi di popolo. Tali caratteristiche gli rimasero lungo i secoli.

 

Per questo il cristianesimo non potè diventare religione universale, ma dovette, per così dire, sempre più ritrarsi di fronte all’intellettualismo. Proprio nel secolo diciannovesimo vediamo molte posizioni teologiche che non arrivano più a comprendere l’aspetto soprasensibile dell’evento del Cristo e parlano ancora soltanto dell’uomo Gesù, al quale tuttavia si attribuisce di essere superiore agli altri uomini. Si vuole comunque parlare dell’uomo Gesù e non del dio Cristo. Si deve invece poter tornare a parlare del dio Cristo, perché col mistero del Golgota il destino del Cristo divenne per gli uomini sulla terra quel che era stato nelle altezze del cielo prima che essi scendessero sulla terra.

 

Dobbiamo così dire che le antiche religioni di popolo erano anzitutto religioni locali. Diciamo che si pregava al dio di Tebe, che si pregava al dio che era sull’Olimpo. Erano dèi locali, e si doveva risiedere nei pressi del luogo in questione. In tal modo tutte le antiche confessioni religiose erano fin dall’inizio delimitate in un ambito ristretto della terra. Più tardi, al posto di dèi locali che avevano la loro sede in determinati luoghi, vennero posti dèi che erano legati a singole personalità umane, a eroi condottieri di popoli. Comunque il dio di un popolo era un suo vivente eroe o la sua anima atavica; la confessione religiosa aveva qualcosa di limitato.

 

Con il cristianesimo si sviluppò una religione che è per la terra un elemento spirituale, come il sole ne è un elemento fisico. Il clima nei pressi di Olimpia è diverso dal clima nei pressi di Tebe, e quello nei pressi di Tebe diverso da quello nei pressi di Bombay. Quando una confessione religiosa è legata a una località, non va al di là della località stessa. Il sole però diffonde la sua luce su tutti i luoghi della terra; a tutti gli uomini appare lo stesso sole.

 

Così, quando assunse figura umana il Dio che ha il suo riflesso fisico nel sole, valse come Dio per tutti gli uomini della terra. Occorre solo trovare la possibilità di comprendere a fondo l’essenza del Dio-Cristo, e allora lo si potrà presentare come il Dio che vale per tutta l’umanità terrena. Noi siamo all’inizio dello studio antroposofico. In certo modo balbettiamo soltanto l’antroposofia. Essa si evolverà sempre di più, e una parte della sua evoluzione sarà appunto quella di trovare le parole per presentare il mistero del Golgota. Potrà allora andare presso gli Indiani, i Cinesi e in tutte le regioni della terra per rendere comprensibile il mistero del Golgota in modo che l’indiano, il cinese e il giapponese più non rifiutino quel che di esso vien loro detto.

 

Allo scopo è tuttavia necessario che venga presa seriamente e nel suo pieno significato la tradizione cristiana. Nel corso dei secoli ci si tenne più o meno alle parole dei Vangeli: si studiavano gli antichi testi nel modo in cui li si comprendeva. Qui certo non si intende dire qualcosa contro la validità dei Vangeli. Nei nostri cicli su ognuno dei Vangeli ne abbiamo dato una speciale interpretazione antroposofica, cercando di penetrare nel loro più profondo significato. Tuttavia ci si deve chiedere: perché di solito vengono prese tanto poco sul serio le parole poste alla fine di uno di essi, dove è detto: «Avrei ancora molto da dirvi, solo che ora non lo potreste ancora comprendere»? Oppure: perché vengono prese tanto poco sul serio altre parole del Vangelo: «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dei tempi»? Il Cristo disse infatti la verità. Ebbe a dire agli uomini non soltanto ciò che è indicato nei Vangeli.

In essi sono indicate le parole del Cristo per la comprensione delle quali allora gli uomini, o almeno alcuni di loro, erano maturi. Nell’evoluzione della terra l’umanità dovette diventare sempre più matura. Dal mistero del Golgota rimane il Cristo sempre vivente, non il Cristo morto fra gli uomini. Egli è qui. Se impariamo a comprendere il suo linguaggio potremo anche sapere che Egli è qui, che sono vere le sue parole: «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dei tempi». La concezione antroposofica vorrebbe appunto parlare il suo linguaggio, il suo linguaggio spirituale; vorrebbe parlare della natura, di ogni singolo essere della terra, del cielo stellato e del sole, in modo che nel suo linguaggio divenga comprensibile anche il mistero del Golgota, e il Cristo possa venir inteso come Colui che è sempre presente.

 

Dopo il mistero del Golgota possiamo anche acquisire dal mondo spirituale la parola del Cristo, con il suo aiuto, con l’aiuto dell’Essere che dal cielo discese sulla terra. Dobbiamo realizzare la parola di Paolo: «Non io, ma il Cristo in me». Appunto il Cristo in me in quanto uomo, quando come uomo parlo dei mondi spirituali. Oggi siamo infatti entrati in un tempo in cui non più, come i Greci, dobbiamo sentirci una cosa sola col nostro corpo fisico, ma in maniera evidente sentiamo il nostro corpo fisico come qualcosa di armonicamente autonomo. Oggi entriamo nelle profondità del nostro corpo fisico ancor prima che nel periodo dei Greci, di conseguenza ci separiamo dallo spirito di ciò che ci circonda, per cui possiamo approfondire il nostro essere solo cercando il legame con il Dio che è disceso dal cielo fra gli uomini, possiamo sentirci uniti con il Dio che calpestò il suolo terrestre solo perché gli uomini non possono più arrivare direttamente al cielo nella loro esistenza fisica con la loro coscienza abituale.

Quando troviamo il Cristo, vale a dire quando ci si apre il mondo spirituale, ritroviamo anche la via verso il mondo soprasensibile, ma ora non più attraverso il corpo fisico, come avveniva in tempi antichi, bensì grazie all’aumentata forza dell’anima. La conseguiamo, ora che il parallelismo fra lo sviluppo del corpo e dell’anima perdura solo fino ai vent’anni (e in seguito durerà ancor meno), perché ci compenetriamo della conoscenza di un evento soprasensibile, cioè del mistero del Golgota avvenuto in mezzo a eventi sensibili dell’evoluzione terrestre. Tutto sulla terra avvenne sensibilmente; solo nel mistero del Golgota agli eventi terreni si mischiò il soprasensibile, che può esser compreso solo con una conoscenza soprasensibile. Grazie all’unione con il Cristo noi uomini acquisiamo così nell’anima una grande forza, per arrivare a un rapporto col mondo soprasensibile cui prima gli uomini arrivavano perché erano talmente legati al corpo fisico, che questo poteva sembrare loro come un involucro, tanto sentivano avvicinarsi la morte fisica anche prima del suo arrivo; crescevano così con lo spirito che avevano attorno.

 

Dobbiamo raggiungere con l’anima ciò che nei tempi più antichi si raggiungeva più mediante il corpo fisico. Se anche ammiriamo molto la vera civiltà paleoindiana, sia pure giuntaci da una successiva trasmessaci dalla magnificenza dei Veda, dalla grandezza della filosofia vedanta e dallo splendore della Bhagavad-Gita, dobbiamo ben sapere che in quegli antichi tempi lo si poteva conseguire solo perché l’uomo, crescendo in età, riceveva qualcosa di spirituale, riflessogli dal corpo.

 

In quegli antichi tempi, nei quali dai trentacinque anni la vita declinava, lo spirito si liberava e veniva percepito dall’uomo, per così dire, ricompensandolo dell’invecchiamento, dell’indurirsi e del seccarsi del corpo solcato da rughe. I grandi poemi filosofici dei tempi antichi erano scritti non da giovani, ma da patriarchi divenuti saggi invecchiando. Era il risultato di ciò che ricevevano dal corpo. Nel tempo ora cambiato dell’evoluzione dell’umanità, ciò che in tempi antichi gli uomini avevano dal corpo dobbiamo acquisirlo dall’anima divenuta più forte. Il nostro corpo invecchia, e noi gli rimaniamo congiunti; non permettiamo allo spirito di liberarsi dal corpo, perché lo utilizziamo prematuramente.

 

Se non facessimo così, non diverremmo liberi. È qualcosa che dobbiamo accettare quale giusto nostro destino terreno. Ci deve però anche esser chiaro che l’anima deve per questo rafforzarsi. La forza spirituale, che per così dire ci giungeva in tempi antichi dal corpo indebolito, va ora conquistata col rafforzamento dell’anima. Lo si raggiunge guardando realmente con sguardo vivo al grande e poderoso evento celeste che si inserì negli eventi terreni col mistero del Golgota. Osservandolo, con la consapevolezza che i suoi effetti postumi vivono anche fra noi ma esistono nella sfera spirituale soprasensibile, si rafforza anche il nostro essere spirituale-animico e noi ci avviciniamo di nuovo al mondo spirituale.

Il Cristo discese sulla terra affinché gli uomini lo potessero ivi vedere, dato che più non ricordavano di averlo visto in cielo. In effetti è questo che oggi il mistero del Golgota soprattutto ci indica.

 

I discepoli avevano ancora un residuo dell’antica chiaroveggenza e quindi potevano vedere il Cristo come loro maestro anche dopo la risurrezione, quando visse fra loro in un corpo spirituale. Quella forza scomparve loro però a poco a poco. La completa sparizione di quella forza viene simbolicamente festeggiata nell’Ascensione. I discepoli ebbero un grande dolore, perché pensavano che il Cristo non fosse più presente. Avevano sì vissuto il mistero del Golgota, ma quando il Cristo si allontanò dalla loro coscienza (lo videro scomparire nelle nuvole, vale a dire scomparire dalla loro coscienza) fu per loro come se non fosse più sulla terra, e caddero in un profondo dolore. Ogni vera conoscenza nasce dal dolore, dalla sofferenza, non dal piacere. La vera e profonda conoscenza nasce dal dolore; e da quello che provarono i discepoli per l’Ascensione del Cristo, da quel profondo dolore animico deriva il mistero della Pentecoste.

Per l’esteriore chiaroveggenza istintiva dei discepoli scomparve la vista del Cristo, ma nella loro interiorità sorse la sua forza. Il Cristo aveva inviato loro lo Spirito che rese possibile alla loro anima sentire l’esistenza del Cristo nella loro interiorità. Nell’evoluzione dell’umanità questo fu il contenuto della prima Pentecoste che seguì l’Ascensione. Il Cristo che era scomparso per la chiaroveggenza esteriore dei discepoli, rimasta loro dai tempi antichi dell’evoluzione dell’umanità, si presentò alla loro esperienza interiore nella Pentecoste. Le lingue di fuoco altro non sono che il sorgere del Cristo interiore nelle anime dei suoi discepoli. La festa della Pentecoste doveva di necessità seguire quella dell’Ascensione.

 

Vediamo così come il mistero del Golgota nella sua totalità si inserisca nell’evoluzione dell’umanità. Vi si inserì, operando fino al nostro tempo. Come nel nostro tempo ci possiamo avvicinare degnamente alla comprensione storica del mistero del Golgota, così svilupperemo ulteriormente quel che abbiamo trattato in questi giorni nella conferenza di domani. Ci porremo davanti all’anima il vero e proprio mistero della Pentecoste, ma nel suo significato per il nostro presente, e così chiuderemo il nostro ciclo di conferenze.