05 – Simpatia-volere; antipatia-pensare.

O.O.293 – Arte dell’educazione I° – Antropologia – 26.08.1919


 

Sommario: Vivente articolazione delle forze animiche. Simpatia-volere; antipatia-pensare. L’essenza dell’evoluzione morale. Il sentire e il suo nesso con percezione sensoria, volontà e conoscenza.

 

Abbiamo parlato ieri della natura della volontà, in quanto questa è inserita nell’organismo umano.

Ora vogliamo far tesoro di ciò che abbiamo imparato sui rapporti della volontà con l’uomo

per comprendere tutto il resto dell’essere umano.

 

Avrete osservato che finora, parlando dell’uomo, ne ho considerato specialmente l’attività intellettuale, conoscitiva, da un lato, e l’attività volitiva dall’altro. Vi ho pure mostrato come la prima delle due stia in rapporto col sistema nervoso e l’altra con l’attività del sangue. Se riflettete su tutto ciò, vi chiederete: come stanno le cose riguardo alla terza attività dell’anima, cioè a quella del sentimento? Finora ce ne siamo occupati poco. Ma appunto venendo oggi a considerare il sentire, ci si offrirà la possibilità di conoscere più a fondo anche gli altri due lati della natura umana, quello conoscitivo e quello volitivo.

 

Dobbiamo però renderci conto chiaramente di un’altra cosa, cui ho già spesso accennato per diversi rapporti.

Non si possono soltanto collocare pedantescamente l’una accanto all’altra

queste facoltà dell’anima: pensare, sentire e volere,

perché nel complesso dell’anima vivente c’è sempre un trapasso dall’una all’altra.

 

Esaminate ad esempio il volere, e vedrete che non potete volere alcunché senza compenetrarlo di rappresentazione, dunque di un’attività conoscitiva. Cercate di concentrarvi sul vostro volere, in un’auto-osservazione, sia pure solo superficiale. Nell’atto volitivo troverete sempre nascosta, in qualche modo, l’attività del rappresentare. Senza di ciò non sareste esseri umani; fareste tutto ciò che emana dalla vostra volontà in un modo ottuso e istintivo, se non compenetraste quell’azione volitiva di un’attività di rappresentazione.

E come in tutte le azioni della volontà sta nascosto il rappresentare,

così ogni pensare contiene sempre volontà.

 

Anche qui un’osservazione di voi stessi, sia pure molto superficiale, vi rivelerà che, mentre pensate, fate continuamente penetrare la vostra volontà nella formazione dei pensieri. Una sottile attività volitiva pervade la formazione dei pensieri, li collega fra loro, per arrivare a giudizi e conclusioni.

Perciò dobbiamo limitarci a dire: l’attività volitiva è «principalmente» attività volitiva, ma ha in sé la corrente sotterranea dell’attività pensante; e viceversa l’attività pensante è «principalmente» tale, ma ha in sé una corrente sotterranea volitiva. Dunque, già per l’osservazione delle singole attività dell’anima non è possibile allinearle pedantescamente l’una accanto all’altra, perché l’una si riversa nell’altra.

 

Questo interpenetrarsi delle attività dell’anima si riscontra anche impresso nel corpo, in cui l’attività animica in questione si manifesta.

• Guardiamo per esempio l’occhio umano: se lo osserviamo nella sua totalità, vediamo in esso proseguire i nervi; ma vediamo proseguire nell’occhio anche le vie del sangue. Per il fatto che vi proseguono i nervi, penetra nell’occhio l’attività del pensiero, della conoscenza; e per il fatto che vi proseguono le vie del sangue, vi penetra l’attività volitiva. Così anche nel corpo volontà e rappresentazione sono congiunte fino alla periferia delle attività sensorie; è così per tutti i sensi e per gli arti del movimento che servono alla volontà:

• la conoscenza passa attraverso i nervi,

• e la volontà attraverso i vasi sanguigni.

 

Ora però dobbiamo imparare a conoscere anche

la natura speciale della nostra attività conoscitiva.

Vi abbiamo già accennato, ma dobbiamo divenire pienamente coscienti di che cosa risieda in tutto questo complesso di attività umana, orientata nel senso della conoscenza, della rappresentazione. Abbiamo visto che qui vive veramente l’antipatia; tutto ciò che tende verso il conoscere è compenetrato di antipatia. Qualcuno giudicherà strana questa asserzione e obietterà: ma io, quando guardo qualcosa, non esercito davvero nessuna antipatia! E nondimeno è vero che esercitate dell’antipatia quando guardate qualcosa. Se nel vostro occhio vi fosse solamente l’attività nervosa, ogni oggetto su cui si fissasse vi sarebbe antipatico, vi farebbe schifo.

 

Solo per il fatto che nell’attività dell’occhio fluisce anche l’attività volitiva che consiste di simpatia,

solo per il fatto che corporalmente penetra nel vostro occhio il sangue,

viene cancellato per la vostra coscienza il sentimento dell’antipatia nel guardare,

e grazie a un pareggio, a un equilibrio tra simpatia e antipatia, di cui non abbiamo coscienza,

viene suscitato l’atto obiettivo e indifferente del vedere.

 

Se studiate la teoria dei colori di Goethe”, specialmente nella sua parte fisiologico-didattica, vedrete come, nella sua osservazione delle sfumature di colore, appunto perché egli penetra nell’attività più profonda del vedere, si manifestino subito l’elemento simpatico e l’elemento antipatico. Basta penetrare, anche poco, nell’attività di un organo di senso, per veder emergere nell’attività sensoria la simpatia e l’antipatia. Infatti anche nell’attività dei sensi l’elemento di antipatia proviene dalla parte conoscitiva, dalla rappresentazione, e quello di simpatia proviene dalla parte della volontà, del sangue.

Osserviamo la differenza, tanto importante, tra la struttura dell’occhio umano e quella dell’occhio animale, differenza che spesso ho descritto in conferenze di antroposofia generale.

Nell’occhio dell’animale, l’attività sanguigna è molto maggiore che non in quello dell’uomo. In certi animali si trovano persino organi che servono questa attività del sangue, come il «flabello» e la «apofisi ensiforme». Da ciò potete dedurre che l’animale manda nell’occhio molto maggiore attività sanguigna che non l’uomo, e lo stesso fa anche per gli altri sensi.

 

• Vale a dire che l’animale sviluppa nei suoi sensi

molta più simpatia istintiva verso il mondo circostante che non l’uomo.

L’uomo, in realtà, ha molta più antipatia per il mondo che non l’animale,

ma nella vita ordinaria ciò non gli viene a coscienza.

 

Gli viene a coscienza solamente quando il suo guardare il mondo esterno si accresce fino a quell’impressione a cui egli reagisce con la nausea. Questa è solo un’impressione accresciuta di tutta la percezione sensibile: reagiamo con nausea all’impressione esteriore.

Quando sentiamo un odore che ci fa nausea, questa nausea non è altro che un accrescimento di quanto si produce in ogni attività sensoria, rimanendo però sotto la soglia della coscienza. Ma se gli uomini non avessero per il mondo circostante un’antipatia maggiore di quella degli animali, non se ne staccherebbero tanto quanto se ne staccano effettivamente.

 

L’animale ha molta più simpatia con l’ambiente, perciò è maggiormente legato con esso,

è tanto più dipendente, che non l’uomo, dal clima, dalle stagioni e così via.

E appunto perché ha tanta maggiore antipatia verso l’ambiente, l’uomo è una persona.

• La possibilità di separarci dall’ambiente, grazie all’antipatia che rimane sotto la soglia cosciente,

determina la nostra coscienza individuale.

• Con ciò è indicata una verità essenziale per la comprensione dell’essere umano.

Abbiamo visto come, nell’attività della conoscenza o della rappresentazione, confluiscano

• il pensare: fisicamente l’attività di nervi,

• e il volere: fisicamente l’attività del sangue.

 

Nell’attività della volontà confluiscono così l’attività della rappresentazione, assieme a quella vera e propria della volontà. Ogni qualvolta noi vogliamo qualcosa, sviluppiamo della simpatia per ciò che vogliamo. Ma il nostro volere resterebbe sempre istintivo se, grazie a un’antipatia che lanciamo in mezzo alla simpatia del volere, non arrivassimo anche a scinderci come personalità da ciò che è oggetto del nostro volere, dall’azione voluta. Solo che qui la simpatia ha il sopravvento, e l’antipatia da noi aggiunta serve soltanto a creare un pareggio. La simpatia come tale resta però sotto la soglia della coscienza, e solo qualche poco ne penetra nell’azione voluta.

 

Nelle rare azioni che compiamo non solo per ragionamento,ma per amore, per entusiasmo, per dedizione,

la simpatia prevale così fortemente nel volere, da emergere anche sopra la soglia della nostra coscienza,

sì che il nostro volere stesso ci appare permeato di simpatia,

mentre di solito si limita a congiungerci obiettivamente col mondo circostante.

 

Come la nostra antipatia per il mondo esterno ci viene a coscienza nel conoscere solo eccezionalmente, non sempre, così la nostra simpatia per il mondo, sempre esistente in noi, può diventarci eccezionalmente cosciente nell’entusiasmo, nell’amore colmo di dedizione. Altrimenti noi compiremmo ogni cosa istintivamente, e non potremmo mai inserirci obiettivamente in ciò che il mondo esige da noi, per esempio nella vita sociale.

Dobbiamo compenetrare di pensiero appunto il nostro volere,

affinché questo ci inserisca nell’umanità intera e nel processo del mondo.

Rendetevi ora conto di come sarebbe terribile se tutto quanto abbiamo ora descritto si svolgesse in modo cosciente; quali deleterie conseguenze risentirebbe l’anima umana, se l’uomo andasse per il mondo con la continua consapevolezza dell’antipatia che accompagna le sue azioni. Sarebbe terribile! Andremmo in giro, sentendoci di continuo in un’atmosfera di antipatia. L’universo ha ordinato saggiamente le cose facendo dell’antipatia una forza necessaria si alle nostre azioni, ma in modo ch’essa resti sotto la soglia della coscienza, e che noi non ne siamo consapevoli.

 

Ora contempliamo un mistero meraviglioso della natura umana, un mistero che in realtà è sentito da ogni uomo evoluto, ma che l’educatore e l’insegnante dovrebbero portare pienamente a coscienza.

In quanto nasciamo bambini, agiamo più o meno partendo dalla pura simpatia. Per quanto strano possa sembrare, il fanciullo agisce sempre mosso, più o meno, dalla pura simpatia; anche quando gioca, salta e schiamazza, compie ogni sua azione per pura simpatia verso l’azione. Quando la simpatia nasce nel mondo, è forte amore, forte volere; ma non può rimanere così, bensì deve venir compenetrata dal rappresentare, deve venire, in certo modo, continuamente «rischiarata» dal rappresentare. Ciò si fa su vasta scala quando facciamo penetrare nei nostri semplici istinti gli ideali, gli ideali morali.

E ora capirete meglio che cosa significhi in questo campo l’antipatia.

 

Se gli impulsi istintivi, di cui osserviamo la presenza nel bambino, ci restassero solamente simpatici per tutta la vita, come lo sono al bambino, ci svilupperemmo animalescamente sotto l’influsso dei nostri istinti. Questi istinti devono diventarci antipatici, e lo diventano infatti attraverso i nostri ideali morali, ai quali gli istinti sono antipatici, e che nella simpatia infantile degli istinti versano, durante tutta la nostra vita ulteriore tra la nascita e la morte, l’antipatia. Ecco perché lo sviluppo morale è sempre qualcosa di ascetico. Basta che questo elemento ascetico sia preso nel senso giusto. È sempre un esercitarci nel combattere contro gli istinti animali.

Vediamo così fino a che alto grado, nell’attività pratica dell’uomo, il volere non sia solamente «volere», ma sia compenetrato anche dal rappresentare, dall’attività conoscitiva.

 

Tra il conoscere, il pensare, e il volere, vi è al centro l’attività di sentimento.

Se ci raffiguriamo ora il volere e il pensare, quali li ho descritti, potremmo dire: da una certa linea di mezzo fluisce, da una parte, tutto ciò che è simpatia – volere; dall’altra, tutto ciò che è antipatia – pensare. Ma la simpatia del volere rifluisce e reagisce anche nel pensare, e così l’antipatia del pensare agisce anche nel volere. Così l’uomo diventa un tutto, in quanto ciò che si sviluppa principalmente in un lato, agisce anche nell’altro.

 

In mezzo tra il pensare e il volere, sta il sentire,

che in una direzione è affine al pensare e nell’altra al volere.

• Come non possiamo tener separate nettamente le attività del pensare e del volere nella totalità dell’anima,

tanto meno possiamo tenerle separate nel sentire.

• Qui gli elementi volitivi e conoscitivi confluiscono energicamente, confondendosi.

 

Anche a questo proposito, con la semplice auto-osservazione, seppur superficiale, potete persuadervi della giustezza di quanto abbiamo detto. Da quel ho già detto finora, potete costatarne l’esattezza, perché ho affermato: il volere, che nella vita solita si svolge obiettivamente, si accresce fino all’azione per amore, per entusiasmo. Qui si vede chiaramente compenetrato di sentimento il volere, che altrimenti viene generato dalle necessità della vita esteriore.

 

 

• Quando facciamo qualcosa per amore o per entusiasmo, compenetriamo di un sentimento soggettivo ciò che emana dal volere. Ma anche nell’attività dei sensi, vista più da vicino (appunto attraverso la teoria goethiana dei colori), si può trovare mescolato il sentire. E quando l’attività dei sensi si accresce fino alla nausea o, dal lato opposto, fino all’aspirazione di un gradevole profumo di fiori, si ha anche qui un’attività di sentimento che interpenetra senz’altro quella sensoria.

Ma anche nell’attività pensante fluisce il sentire.

 

Si ebbe una volta, a Heidelberg, una discussione filosofica di una certa importanza almeno esteriore (nella storia delle concezioni del mondo vi furono molte discussioni filosofiche!) tra lo psicologo Franz Brentano e il filosofo Sigwart. Si trattava di stabilire che cosa risieda nell’attività del giudizio umano. Sigwart diceva: «Quando l’uomo pronuncia un giudizio, per esempio: “l’uomo dev’essere buono”, in tale giudizio parla sempre anche un sentimento; la decisione viene presa dal sentimento». Brentano invece riteneva che l’attività del giudizio e quella del sentimento, che si esprimono nei moti della nostra anima, siano talmente differenti tra loro, che la funzione, l’attività del giudizio non potrebbe affatto venire compresa se soltanto si crede che vi intervenga il sentimento, che vi porterebbe qualcosa di soggettivo, mentre invece il nostro giudizio vuole essere obiettivo.

Una disputa simile prova solo che né gli psicologi né i logici sono arrivati là dove dovrebbero arrivare, cioè alla conoscenza dell’interpenetrarsi delle attività dell’anima.

 

Riflettete bene a ciò che veramente va osservato qui: abbiamo, da un lato, l’attività del giudizio, che naturalmente ha da decidere su qualcosa di ben obiettivo. Che l’uomo debba esser buono, non deve dipendere dal nostro sentimento soggettivo. Dunque il contenuto del giudizio ha da essere obiettivo. Ma quando noi giudichiamo, entra in gioco ancora ben altro. Per il fatto che le cose sono obiettivamente giuste, non sono però ancora coscienti nella nostra anima; dobbiamo prima di tutto rendervele coscienti, e ciò non può accadere senza la cooperazione dell’attività del sentimento.

 

Perciò Brentano e Sigwart avrebbero dovuto mettersi d’accordo dicendo:

sì, il contenuto obiettivo del giudizio è assodato all’infuori del sentimento,

ma affinché nella soggettiva anima umana possa formarsi la convinzione della giustezza del giudizio,

deve intervenire l’attività del sentire.

 

Da ciò vedete quanto sia difficile arrivare in genere a concetti precisi, per l’imprecisione delle attuali considerazioni filosofiche; dobbiamo prima di tutto conquistarci tali concetti, e oggi la scienza dello spirito è la sola che sia in grado di educarli in noi. La scienza crede di possedere concetti precisi, e guarda con superiorità quelli della scienza dello spirito antroposofica; neppure suppone infatti che essi siano molto più esatti e precisi, in quanto attinti alla realtà vera e non a un semplice gioco di parole.

Avendo così cercato l’elemento del sentire da un lato nella conoscenza, nella rappresentazione, dall’altro nella volontà, abbiamo veduto ch’esso costituisce un’attività animica intermedia tra il conoscere e il volere, la quale irradia il proprio essere nelle due direzioni.

 

Il sentimento è conoscenza ancora incompiuta, come pure è volontà ancora incompiuta:

è conoscenza trattenuta e volontà trattenuta.

• Perciò esso è composto di simpatia e antipatia

che però, come abbiamo visto, sia nel conoscere, sia nel volere, restano celate.

Esistono entrambe, sia nel conoscere, sia nel volere,

nella collaborazione dell’attività corporea dei nervi e del sangue,ma lì si nascondono.

Nel sentire invece divengono manifeste.

 

Come ci si presentano dunque le manifestazioni corporee del sentire?

Le vedrete sempre nascere là dove, nel corpo umano,

le vie del sangue e le vie dei nervi vengono in qualche modo a toccarsi.

Ovunque le vie del sangue e quelle dei nervi si toccano nasce in realtà il sentimento.

Ma nei sensi, ad esempio,

tanto il nervo quanto il sangue sono talmente affinati, che noi non vi percepiamo più il sentire.

Tutto il nostro vedere e udire è percorso da un sommesso sentimento, ma noi non lo scorgiamo,

e tanto meno quanto l’organo sensorio è separato dal resto del corpo.

• Nell’attività visiva dell’occhio non scorgiamo quasi affatto il simpatizzare e antipatizzare del sentimento

perché l’occhio, immerso nella cavità ossea, è quasi separato dal resto dell’organismo.

• Sia i nervi sia i vasi sanguigni che penetrano nell’occhio sono estremamente affinati,

sicché la sensazione che possiamo avere del sentimento in azione nell’occhio è molto attenuata.

 

Meno attenuata è tale azione nell’udito il quale, molto più che non la vista, sta in un rapporto organico con l’attività generale dell’organismo. In quanto l’orecchio ha in sé numerosi organi di tutt’altra natura di quelli dell’occhio, per molti riguardi esso è una fedele immagine di quanto avviene nell’organismo intero. Per questo l’attività sensoria che si svolge nell’orecchio è fortemente accompagnata dal sentimento.

Qui, anche a persone che siano buone intenditrici di ciò che odono, riesce difficile rendersi chiaramente conto di ciò che è semplice conoscenza e di ciò che è sentimento in quello che odono, specialmente se si tratta di opere artistiche. Da ciò è derivato un episodio storico moderno, che ha avuto un’azione anche nella produzione artistica.

Tutti conoscono la figura di Beckmesser nei Maestri cantori di Norimberga di Wagner”.

 

Che cosa doveva rappresentare veramente quella figura?

Doveva rappresentare un uomo che, pur essendo intenditore di musica, dimentica che anche l’elemento del sentimento, appartenente all’uomo intero, agisce nell’elemento conoscitivo dell’attività uditiva.

Wagner, che ha rappresentato la propria concezione nel personaggio di Walter, era convinto – molto unilateralmente – che nella musica dovesse vivere soprattutto il sentimento. Una concezione erronea, o meglio due concezioni erronee si trovano di fronte in Walter e Beckmesser, in contrasto con la concezione giusta secondo la quale, quando l’uomo ascolta musica, vede una collaborazione tra sentimento e conoscenza.

 

Quella concezione erronea si è espressa in un fatto storico, nel contrasto sorto cioè tra Wagner e il critico Eduard Hanslick di Vienna; questi considerava antimusicale tutto ciò che nell’arte wagneriana emana dalla sfera del sentimento. Forse nel campo dell’arte esistono pochi scritti psicologicamente altrettanto interessanti quanto quello di Hanslik: Del bello musicale.

L’autore sostiene soprattutto l’idea che non è autentico musicista, che non è dotato di vero senso musicale, chi nella musica vuole attingere tutto dal sentimento; il vero artista vede l’essenza della musica nei legami obiettivi tra suono e suono, in arabeschi sonori da cui sia escluso ogni sentimento.

Nel suo libro tutto ciò è svolto con ammirevole chiarezza, fino alla conclusione che la musicalità suprema risiede nella pura figura sonora, nell’arabesco musicale; e abbondante scherno viene rovesciato invece sulla musica wagneriana, per la sua tendenza a poggiare interamente sulle basi del sentimento.

 

Una tale disputa mostra appunto la confusione psicologica delle idee moderne sulle attività dell’anima, altrimenti non sarebbe potuta nemmeno sorgere una tendenza unilaterale come quella di Hanslick. Se però, riconosciutane l’unilateralità, si ascoltano le forti considerazioni filosofiche di Hanslick, si ammetterà che il libro in questione è scritto veramente con molto ingegno.

Vediamo da ciò quanto dell’uomo completo, che in un primo tempo vive come essere di sentimento, penetri conoscitivamente fin nella periferia, nei diversi sensi.

Ciò deve richiamare appunto la vostra attenzione di educatori sopra un fatto che porta grave danno al pensiero scientifico contemporaneo. Se qui, nelle nostre conversazioni, non avessimo fatto e non facessimo tuttora una preparazione atta a farci poi passare a un’azione riformatrice, voi dovreste ricavare dai testi di pedagogia, psicologia, logica e didattica oggi esistenti, e da ciò che si usa fare oggi, le norme per esercitare la vostra attività d’insegnanti.

 

Ma ciò che si usa fare oggi soffre purtroppo di un grave difetto, già per quanto riguarda la psicologia. Infatti dappertutto si trova trattata la cosiddetta «teoria dei sensi». Ma se si esamina in che cosa consista, vi si trova descritta l’attività dell’occhio, dell’orecchio, del naso, ecc.; il tutto riassunto nella grande astrazione denominata «attività dei sensi». È questo un grande errore perché, osservando bene dapprima la sola corporeità, il senso dell’occhio è qualcosa di totalmente diverso da quello dell’orecchio.

Consideriamo solo i sensi che per il momento sono conosciuti da psicologi e fisiologi di oggi, così vedrete, osservando dapprima solo l’elemento corporeo, che in verità il senso dell’occhio è qualcosa di completamente diverso da quello dell’orecchio. Occhio e orecchio sono entità del tutto differenti tra loro, per non parlare poi del senso del tatto la cui organizzazione non è mai stata ancora investigata, nemmeno nella misura in cui sono stati studiati l’occhio e l’orecchio! Ma rimaniamo a questi ultimi: si tratta di attività completamente diverse, tanto che riunire vista e udito in una generica attività sensoria è solo grigia teoria. Volendo procedere in modo giusto, bisognerebbe anzitutto, per mezzo di una veggenza concreta, parlare solo dell’attività dell’occhio, dell’attività dell’orecchio, ecc.; si troverebbe allora una tale diversità da far passare la voglia di stabilire una fisiologia generale dei sensi, come fanno i testi attuali di psicologia.

 

Si perviene a una vera comprensione nello studio dell’anima umana

solo se si resta sul terreno che ho cercato di delimitare

nel mio saggio Verità e scienza, e anche nella Filosofia della libertà.

• Allora si può parlare di «anima unitaria» senza cadere nell’astrazione,

perché ci si trova sopra un terreno sicuro, partendo dal punto di vista

che l’uomo non abbraccia da bel principio la realtà intera,

ma si familiarizza solamente a poco a poco col mondo in cui viene a vivere.

• Egli va sviluppandosi gradualmente,finché ciò che prima non era ancora realtà per lui,

lo diventa grazie al compenetrarsi di pensiero e osservazione.

L’uomo deve conquistarsi la realtà.

 

A questo riguardo le teorie kantiane, che si sono insinuate dappertutto, hanno causato le conseguenze più dannose. Che cosa fa infatti il kantismo? Decreta a priori dogmaticamente: dobbiamo anzitutto osservare il mondo che ci attornia, in noi ne vive soltanto un riflesso. Così Kant arriva a tutte le altre sue deduzioni; non si rende conto di ciò che esiste nell’ambiente percepito dall’uomo.

 

La realtà non è infatti nell’ambiente, né nel fenomeno,

ma emerge a poco a poco per nostra conquista, ed è il coronamento finale del nostro sforzo.

• In ultima analisi la vera realtà sarebbe ciò che l’uomo scorge nel momento in cui non può più esprimersi,

nel momento cioè in cui varca la porta della morte.

 

Molti elementi errati si sono intromessi nella cultura spirituale moderna, ed agiscono più incisivamente che mai nel campo della pedagogia. Perciò dobbiamo fare ogni sforzo per mettere concetti giusti al posto di quelli falsi, e allora potremo esercitare nel giusto modo anche tutto quel che avremo da fare per l’insegnamento.