Sviluppo per immagini del concetto di numero

O.O. 311 – L’educazione come arte – 16.08.1924


 

Sommario: L’aritmetica. Sviluppo per immagini del concetto di numero. Contare ritmicamente. Il contare riguarda la volontà. La testa quale osservatrice. Le quattro operazioni aritmetiche. Il materialismo nell’insegnamento. Umorismo nell’insegnamento. L’insegnamento della geometria. Dimostrazione visiva del teorema di Pitagora.

 

Per insegnare ai bambini bisogna aver compreso bene qualcosa dell’essenza vera e propria della materia, affinché non ci si occupi, nel campo dell’insegnamento e dell’istruzione, di cose lontane dalla vita. Ciò che è vicino alla vita si può comprendere. Si potrebbe anche dire che ciò che veramente si comprende è vicino alla vita, mentre le astrazioni le sono lontane.

 

Oggi avviene però che l’insegnante, l’educatore, all’inizio ha soltanto astrazioni, riguardo a certe cose è lontano dalla vita. Ciò provoca le maggiori difficoltà per l’educazione e l’insegnamento. Si cerchi di ricordare come si era arrivati a contare; probabilmente si troverà che il filo della ricerca si spezza in qualche punto, e che si era sì imparato a contare, ma davvero non si sapeva che cosa in realtà si facesse.

 

Vengono escogitate le più diverse teorie pedagogiche su come si debba insegnare al bambino il concetto di numero e guidarlo a contare; in genere si agisce in conformità a tali teorie. Anche se in apparenza si può ottenere qualche risultato, non ci si avvicina al bambino nel suo complesso con teorie del genere, così lontane dalla vita. Di recente si è proprio dimostrato di vivere in astrazioni, introducendo la macchina calcolatrice per l’insegnamento dell’aritmetica. In un ufficio commerciale la gente usi pure la calcolatrice, la cosa non ci disturba, ma nell’insegnamento il rivolgersi così solo alla testa del bambino impedisce fin dall’inizio che egli abbia un contatto naturale con i numeri.

 

Nella realtà il problema è invece riuscire davvero a contare partendo dalla vita stessa. Sarà importantissimo sapere fin da subito che il bambino non deve comprendere integralmente tutto quel che gli si insegna. Assorbirà molto sotto l’influenza dell’autorità del maestro, ma lo farà naturalmente e in modo adeguato alla realtà viva.

 

Forse sembrerà che quel che dirò per l’insegnamento dell’aritmetica sia ancora difficile per il bambino. La cosa non è grave. E importantissimo che nella vita di un uomo vi sia un momento, a 30 o 40 anni, nel quale egli possa dire di comprendere finalmente qualcosa che per autorità aveva assorbito da bambino a 8 o 9 anni, o magari anche prima. Cose del genere vivificano. Se invece si considera quel che oggi si vuole introdurre come insegnamento visivo, sorge il dubbio che tutto sia fatto alla brava per aprire, come si usa dire, la comprensione del bambino.

 

Pensiamo ora di prendere un bambino fra i più piccoli, ancora del tutto impacciato e ingenuo, e di dirgli: “Tu sei lì, io ho un pezzetto di legno e un coltello, e taglio il mio legnetto; posso fare la stessa cosa con te?” Il piccolo capirà da solo che non si può fare la stessa cosa con lui; quindi continuo dicendogli: “Posso comunque tagliare il legno perché non è come te, e tu non sei come il legno; visto che non ti posso tagliare, allora c’è una differenza fra te e il legno, ed è che tu sei un’unità. Il legno non è un’unità; tu invece sì, e quindi non posso tagliarti. Si chiama unità qualcosa come te, che io non posso tagliare”. Si procederà poi mostrandogli con quale segno si indica l’unità: si fa un trattino, un I. Gli si insegna cioè che cosa è un’unità e se ne traccia il segno.

 

Si abbandoni ora il paragone fra legno e bambino e gli si dica: “Guarda, tu hai la mano destra e la mano sinistra”. Bisognerà poi proseguire dicendogli: “Se tu avessi solo una mano la potresti muovere dappertutto, proprio come tu ti muovi. Quando però tu ti muovi non incontri mai te stesso, non ti afferri mai. Invece le tue mani, muovendosi, possono incontrarsi e afferrarsi. È diverso dunque quando tu ti muovi da solo, perché appunto sei un’unità, mentre nelle tue mani che si incontrano non vi più un’unità, ma una dualità. Tu sei solo, ma hai due mani”. Le indico con un altro segno: II. In tal modo si presentano i concetti di unità e di dualità, partendo dal bambino stesso.

 

Andando avanti si può chiamare un altro bambino e dire: “Se voi due camminate potete anche incontravi, potete anche toccarvi, siete perciò una dualità.” Ma può anche aggiungersi un altro bambino, cosa che non può avvenire con le mani; e si insegna così il III.

 

Si possono far derivare i numeri dai bambini stessi; vi si arriva quindi da qualcosa di vivo, non di astratto. Continuando si può dire: “Osserva bene se trovi in te altre dualità”; prima o poi il bambino indicherà le sue gambe e i suoi piedi. Allora gli si potrà chiedere: “Tu hai già visto il cane del tuo vicino di casa: forse anche il cane sta solo due gambe?” Il bambino arriverà così a conoscere il segno IIII, ricavandolo dalle quattro gambe del cane del vicino, e imparerà a costruire i numeri sempre ricavandoli dalla vita stessa.

 

Ciò va bene se l’insegnante ha occhi aperti per tutto e osserva tutto con comprensione. E bene cominciare con i numeri romani, perché più naturali, e il bambino afferra subito il passaggio dal quattro al cinque con l’aiuto della mano: V. Gli si potrà dire che se tiene indietro il pollice ha di nuovo le quattro dita: IIII; poi aggiunge il pollice ed ecco di nuovo il segno V.

 

Una volta stavo di fianco a un insegnante che nella spiegazione dei numeri romani era arrivato fino al quattro, ma non poteva comprendere come i romani non avessero fatto cinque trattini, uno di fianco all’altro, ma avessero invece usato il segno V per il cinque. Arrivava bene solo fino al quattro. Gli dissi: mettiamo le cinque dita distese in modo che sembrino chiuse fra due linee, e abbiamo allora nel cinque romano appunto la mano. Così è sorto veramente il cinque romano: esso contiene la mano.

 

In un corso breve come questo si possono solo esporre i principi secondo i quali si ha la possibilità di dedurre il numero direttamente dalla vita. Solo dopo, quando si siano sviluppati in tal modo i numeri direttamente dalla vita, si cerchi di arrivare a contarli, prendendoli uno dopo l’altro. Lo si faccia però così da suscitare interesse nella classe. Prima di far dire i numeri nella loro normale successione: 1, 2, 3, 4, 5, 6, e così via, si parta dal- ritmo. Per andare dall’uno al due si faccia ripetere 1-2, 1-2, accentuando il passo sul 2; e poi 1-2-3, 1-2-3, facendo accentuare il 3, e così via. In tal modo usiamo il ritmo per la successione dei numeri e formiamo nei bambini la facoltà di afferrare le cose. Arriviamo così naturalmente a insegnare i numeri dalla loro stessa essenza.

 

Normalmente si crede di aver inventato i numeri quando se n’è aggiunto uno a un altro. Non è però così; la testa assolutamente non conta. Nella vita di ogni giorno non ci si immagina quanto la testa sia inutile per la vita terrena. Certo è lì per bellezza, perché il volto può anche piacere, e ha anche altre svariate virtù, ma per l’attività spirituale non ha grande importanza, perché ciò che di spirituale ha in sé ci riporta sempre alle vite terrene precedenti; è la vita terrena precedente trasformata. Per l’uomo avere la testa acquista veramente un senso, se sa qualcosa delle sue vite terrene precedenti. Tutto il resto non viene per niente dalla testa. In effetti contiamo nel subconscio con le dita. In realtà contiamo dall’uno al dieci con le dita delle mani, e dall’undici al venti con quelle dei piedi. Non lo si vede, ma in effetti si fa davvero così fino al venti; quel che si fa così con il corpo viene solo rispecchiato nella testa. La testa guarda soltanto, è veramente solo un apparecchio per rispecchiare tutto quel che fa il corpo. Il corpo pensa e conta; la testa è solo una spettatrice.

 

La testa ha una straordinaria somiglianza con qualcosa d’altro. Se prendiamo una vettura e ci accomodiamo dentro, noi non facciamo niente, mentre il guidatore deve affaccendarsi. Siamo lì seduti e veniamo scarrozzati per il mondo. Lo stesso è per la testa; non si dà per niente da fare, sta soltanto sul corpo, si lascia portare tranquillamente attraverso il mondo e guarda tutto. È il corpo a fare ciò che deve esser fatto per la vita spirituale. Si conta col corpo, si pensa col corpo, si sente col corpo. La macchina calcolatrice è appunto il frutto dell’errata opinione secondo cui l’uomo conta con la testa. Con la macchina calcolatrice si insegna ai bambini a far di conto, vale a dire si affatica loro la testa, e la testa affatica di conseguenza il corpo, perché in definitiva è il corpo che deve contare. Non si tiene presente che è il corpo a dover contare. È importante e giusto che si faccia contare il bambino con le dita delle mani e anche dei piedi, come anche sarebbe bene che si facesse il possibile perché i bambini diventassero abili. Ad esempio non c’è niente di meglio nella vita che rendere tutto l’essere umano abile. Non lo si ottiene con lo sport, che in effetti proprio non rende abili. Rende invece abili far tenere al bambino una matita fra l’alluce e il secondo dito del piede, facendogli scrivere dei numeri col piede. Ciò può avere importanza, dato che in realtà siamo compenetrati in tutto il corpo di anima e di spirito. La testa è come un viaggiatore bel comodo e nulla facente, mentre il corpo è il portatore che tutto deve fare.

 

Occorre dunque costruire nei modi più svariati ciò che il bambino deve imparare in aritmetica. Così è importante che, quando si è lavorato per un certo tempo nel senso di aggiungere un numero all’altro, il che fra l’altro è una delle cose meno importanti, si arrivi a insegnare al bambino:

 

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“Questa è un’unità, e ora la suddivido (vedi disegno sopra); la seconda linea è una dualità e per arrivarvi non ho aggiunto un’unità all’altra, ma la dualità è sorta dall’unità”. Stesso discorso per la terza linea, la triade. In tal modo si può suscitare l’immagine che l’unità riassuma in sé la dualità, la triade, la tetrade e così via.

 

Imparando a contare in questo modo: 1, 2, 3, 4, i concetti dei bambini diventano viventi, e i bambini vengono intimamente compenetrati dall’essenza dei numeri.

 

In certe epoche del passato non si conosceva il concetto di numero allo stesso nostro modo, mettendo cioè un fagiolo vicino a un altro o una pallina del pallottoliere vicino a un’altra; si diceva invece che l’unità è la cosa più grande, che il due è solo la metà dell’unità, e così via. In tal modo ci si avvicinava all’essenza del numero, in immagini, con cose esteriori. Bisogna sviluppare il pensiero del bambino sempre partendo dall’oggetto, in immagini, e tenendo le astrazioni il più lontano possibile.

 

Nel bambino si forma a poco a poco la serie dei numeri; prima fino a venti, poi fino a cento e così via. Si proceda però come descritto, dando i numeri al bambino in modo vivente. Il bambino sarà allora capace di contare. Dico espressamente che il bambino deve prima imparare a contare, anziché subito fare i conti; deve prima contare e poi fare i conti.

 

Quando si sia insegnato a contare, si arriverà a far di conto. Anche questo dovrà essere sviluppato in modo vivente. Ciò che è vivo è sempre intero e come tale dovrà essere visto. Non si fa niente di buono per l’essere umano, spingendolo a formare una cosa intera da tante parti, anziché educarlo a guardare un intero e a dividerlo in parti. Spingendo il bambino a considerare un intero, per poi dividerlo e spezzarlo, lo si avvicina alle cose viventi.

 

Non si osserva molto quel che l’epoca materialistica ha fatto per la civiltà umana. Oggi non ci sorprende, ma si considera naturale far giocare i bambini con le costruzioni, mettendo assieme piccoli mattoncini per formare una casa. È invece un allontanare fin da subito il bambino dalle cose viventi. Per sua natura il piccolo non ha la necessità di formare un intero con delle parti; ha altre necessità, a volte ben più scomode. Il bambino a cui sia stato dato un orologio ha la necessità, se gli riesce, di scomporlo subito, di separarne i singoli pezzi; corrisponde molto di più all’entità umana osservare come un intero si divida in pezzi.

 

A questo conviene badare per insegnare a far di conto; dall’esempio seguente si potrà vedere come ciò influisca su tutta la civiltà. Fin verso il tredicesimo o il quattordicesimo secolo non si dava valore al far ricostruire col pensiero un intero dalle sue parti; vi si arrivò solo più avanti. L’architetto costruiva di più partendo dall’idea di un tutto unico per formare poi le parti, piuttosto che formare la costruzione dalle sue parti. Il mettere insieme le parti entrò infatti più tardi nella civiltà umana. Ciò ebbe per conseguenza che si cominciò a pensare ogni cosa come formata da parti piccolissime. Sorse così la teoria atomica in fisica; entrò così nelle scuole. I nostri maggiori scienziati infatti non parlerebbero di queste infinitesimali caricature di demoni (e gli atomi sono proprio caricature di demoni), se non si fossero abituati, attraverso l’educazione ricevuta, a pensare il tutto come formato da parti. Così sorse l’atomismo. Oggi lo critichiamo, ma in effetti le critiche sono piuttosto superflue, dato che non ci si può liberare dal pensiero errato (che è ormai un’abitudine da quattro o cinque secoli) secondo il quale dalle parti si va all’intero, anziché dall’intero alle parti.

 

La cosa è specialmente importante per l’insegnamento dell’aritmetica. Avvicinandoci da lontano a un bosco, si ha prima l’impressione del bosco e poi, man mano che ci si avvicina, si distinguono nel bosco i singoli alberi. Così si deve procedere anche per l’aritmetica. Nel borsellino non si hanno mai 1, 2, 3, 4, 5 monete, ma un mucchio di monete. Si hanno le cinque monete insieme, e questo è anzitutto l’intero che si ha. Ugualmente, preparando una minestra di piselli non si hanno 1, 2, 3, 30, 40 piselli, ma se ne ha un mucchietto. Così, avendo un cestino di mele, non se ne hanno 1, 2, 3, 4, ma si ha un mucchio di mele nel cesto: si ha un intero. Che cosa importa quante sono? ne abbiamo un mucchio. Si torna a casa col mucchio di mele dove ci attendono tre bambini; non vogliamo però procedere in modo che ognuno abbia lo stesso numero di mele. Forse uno è piccolo e gli altri più grandicelli, e così dal mucchio diamo a ciascuno dei più grandicelli un po’ di mele e al più piccolo un po’ meno; dividiamo così il mucchio di mele in tre parti.

 

Sul separare vi è una storia notevole! Una volta una madre aveva un pezzo di pane grande e disse a uno dei suoi bambini che si chiamava Enrico: “Ora devi tagliarlo, ma da cristiano”. Enrico le domandò: “Che cosa vuol dire tagliare da cristiano?”

 

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La madre rispose che avrebbe dovuto tagliare il pane in due pezzi, uno più grande e l’altro più piccolo, e dare il più grande alla sorellina Anna tenendo per sé il più piccolo. Al che Enrico affermò: “No, allora devi farlo tagliare da cristiani ad Anna”.

 

Bisogna anche aiutarsi con altri concetti. Dare per esempio a uno dei bambini la parte in alto (nel disegno), al secondo il mucchietto a sinistra, e al terzo quello di destra. Per capire bene la cosa, possiamo anche contare tutto il mucchio, tanto più che il bambino sa già contare. Ora conto le 18 mele. Quante ne ha il primo bambino? 5; quante il secondo? 5; quante il terzo? 8. Così sono partito dall’unità, dal mucchio di mele e l’ho distribuito in tre parti.

 

Di solito insegnando si dice: “Hai cinque mele, poi ancora cinque mele e poi otto: se le sommi arrivi a 18”. Così si arriva all’unità partendo dagli addendi, dando però al bambino concetti morti, non viventi. Si parta invece dal 18, dall’unità e la si distribuisca negli addendi: si avrà così l’addizione.

 

Non si insegni partendo dai singoli addendi, ma si muova invece dal totale, che è l’unità, e si separino i singoli addendi. Si potrà così separare il totale in parti diverse. Posso separare nei modi più vari gli addendi, mentre il totale, l’unità rimane la stessa. Prendendo prima il totale e poi gli addendi, diversamente da come si fa di solito, si arriva a concetti ben vivi e mobili. Si mostra così che l’unità è una costante, mentre i singoli addendi possono variare. Risulta perciò evidente la proprietà dei numeri: gli addendi si possono raggruppare in modo diverso.

 

Si va poi avanti e si dice: se però qualcosa non è per se stesso un numero, ma ha il numero in sé, come per esempio l’uomo, allora non lo si può dividere a piacere. Prendiamo ad esempio il tronco umano e ciò che vi è unito: testa, braccia, piedi; non li si può separare a piacere, non si può separare un piede o una mano, ma ci si deve attenere a come il complesso è stato organizzato. Se dunque l’unità non dipende dalla natura, ma è solo un numero, la si può suddividere nei modi più svariati.

 

Con questi metodi è possibile portare vita e flusso vivente nell’insegnamento. Non vi sarà più pedanteria, ma invece qualcos’altro di cui il bambino ha grande bisogno: l’umorismo. Naturalmente deve entrare nell’insegnamento un sano umorismo, non bambinesco. Occorre perciò interpretarne bene il senso, che invece viene sempre frainteso.

 

Nell’insegnamento si deve sempre partire dall’intero. Prendendo l’esempio dalla vita immaginiamo di raccontare di una mamma che manda Mariuccia a comperare delle mele. La bambina ne ha avute 25, come ha scritto l’ortolano sul biglietto, ma arriva a casa con solo 10 mele. E una brava bambina e non ne ha mangiata neppure una lungo la strada, ma arriva a casa con solo 10 mele. Dietro di lei camminava però qualcuno, una brava persona che raccoglieva tutte le mele che la piccola andava perdendo lungo la strada. Sorge allora la domanda: quante ne porta quel tale? Lo si vede arrivare da lontano e si vorrebbe sapere subito quante ne porterà. La bambina è arrivata con 10 mele, ma ne aveva ricevute 25, come è scritto sul biglietto dell’ortolano. Ha quindi perduto 15 mele.

 

Così si fa il conto. In genere si parte da un dato da cui togliere qualcosa, e si ottiene il resto. Ci si convinca che nella vita avviene molto spesso che si sa quanto si aveva in origine e quanto è rimasto, mentre bisogna cercare la parte che è andata persa. Procedendo in modo vivo, la sottrazione va fatta partendo dal minuendo e dal resto, per cercare il sottraendo; non si parte dal minuendo e dal sottraendo per cercare il resto. Così il procedimento è morto, astratto. È invece vivo partendo dal minuendo e dal resto per cercare il sottraendo. In questo modo la vita entra nell’insegnamento.

 

Ci se ne renderà conto considerando la storia della mamma, di Mariuccia e di quel tale che ha riportato le mele che erano state perdute. Mariuccia aveva perduto il sottraendo dal minuendo, e si vuol sapere quante mele riporterà quel tale che l’ha seguita e che ora sta arrivando. Così entra vita nella sottrazione. Se invece si domanda quante ne restano, si porta solo morte nell’anima dei bambini. Bisogna invece dar loro sempre qualcosa di vivo.

 

Si può continuare così. Per insegnare la moltiplicazione si può dire: conosciamo l’intero, il prodotto; come si può trovare quante volte qualcosa sta nel prodotto? Si arriva così a qualcosa di vivo. Si pensi come è morto dire: divido un gruppo di persone a tre a tre e poi chiedo: quanti gruppetti di persone ci sono? Così è morto, è senz’anima.

 

Se invece domando: quante volte un qualsiasi gruppo di persone è compreso nell’intero, immetto vita nel calcolo. Posso ad esempio dire ai bambini: ora nella classe voi siete in un certo numero, vi conto e siete 45. Ne scelgo cinque e li metto da una parte; ora vediamo quante volte questi cinque sono contenuti nel 45. Così parto di nuovo dall’intero e non dalle sue parti. Quante volte posso prendere i gruppetti di 5? Scopro che ci sono altri 8 gruppetti di 5 nella classe. Faccio cioè il rovescio: parto dall’intero, dal prodotto e cerco quante volte un fattore vi è compreso. Così vivifico il modo di fare i conti, e soprattutto parto da quel che si vede. Bisogna proprio che mai e mai ci si stacchi da quel che si vede, altrimenti nel bambino si sviluppa troppo presto l’intellettualismo, l’astrazione, e lo roviniamo rendendolo arido; contribuiamo a sviluppare in lui la sclerosi del corpo fìsico. In seguito parleremo ancora dell’educazione spirituale, animica e fisica.

 

È dunque importante, affinché l’uomo adulto resti ancora agile e duttile, che si impari a far di conto come ora ho suggerì- to; insegnando a contare sul corpo umano, così come ho detto, con le 10 dita delle due mani e poi avanti con quelle dei piedi. Sarebbe già bene se i bambini si abituassero a contare fino a 20 con le dita delle mani e dei piedi, e non col pallottoliere. Insegnando così ai bambini, si vedrà che con questa esercitazione infantile si porterà vita nel loro corpo; si tratta infatti di una meditazione sul proprio corpo, se il bambino è indotto a pensare contando con le dita delle mani e dei piedi. Si rimane ancora agili nella vecchiaia, con tutte le membra, se si è imparato a contare con tutto l’organismo. Se invece si pensa solo con la testa anziché con le membra e con tutto l’organismo, più tardi non si sarà in grado di essere padroni del proprio corpo e si avrà la gotta.

 

Mostrerò ora in un caso concreto quanto davvero sia importante che nell’insegnamento e nell’educazione si faccia tutto in modo vivo, che non è ciò che oggi di solito si intende come “insegnamento visivo”. E il caso del teorema di Pitagora che tutti conosciamo. Lo voglio ora considerare pensando di doverlo insegnare, anche nel caso che già sia stato visto in un’altra prospettiva. Il teorema di Pitagora ha una speciale importanza perché nell’insegnamento della geometria lo si può ritenere un punto di arrivo. Si può costruire la geometria in modo da farla convergere su questo teorema, per il quale in un triangolo rettangolo il quadrato dell’ipotenusa è uguale al quadrato dei due cateti. È qualcosa di grandioso, se ben lo si considera.

 

Una volta dovetti insegnare geometria a una signora di una certa età, per assecondare un suo desiderio. Non so se avesse dimenticato tutto, o più probabilmente non avesse imparato molto nella scuola per fanciulle frequentata da piccola; comunque non sapeva niente di geometria. Cominciai l’insegnamento facendo convergere tutto sul teorema di Pitagora. La signora rimase molto colpita proprio da quel teorema, e in effetti l’esperienza dimostra che esso fa sempre impressione.

 

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Si tratta di comprendere che se si ha un triangolo rettangolo, come qui nel disegno, il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti. Se dunque coltivo delle patate sui due quadrati in alto, disponendole in entrambi a una giusta distanza, avrò lo stesso raccolto come se le avessi coltivate sull’altro campo più grande. E qualcosa che colpisce molto e che a prima vista non si riesce a vedere.

 

Proprio perché non lo si può vedere, perché è così sorprendente, dovrebbe essere utilizzato nell’insegnamento per vivificare l’anima; sarà bene basarsi sulla circostanza che non essendo la dimostrazione evidente a prima vista, ogni volta questa va dimostrata di nuovo. Si potrebbe dire che bisogna credere nel teorema, ma perdere anche subito la fede in esso. Sempre di nuovo occorre convincersi che il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei cateti.

 

Si possono trovare le più diverse prove, tutte per quanto possibile di natura visiva. Finché il triangolo è isoscele la dimostrazione è facile.

 

Se per di più il triangolo è rettangolo, si avrà il quadrato dell’ipotenusa nei triangoli 1, 2, 3, 4, e i quadrati dei cateti nei triangoli 2-5 e 4-6.

 

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Se coltivo patate su queste ultime superfici menzionate, ottengo lo stesso raccolto che se le coltivassi sulla superficie grande (1-2-3-4), cioè sul quadrato dell’ipotenusa. La dimostrazione è facile facendo osservare che i due triangoli (2 e 4) sono già compresi nel quadrato dell’ipotenusa, che il triangolo 5 può essere messo al posto dal triangolo 3, e il 6 al posto dell’1. Tutta la dimostrazione è visibile se il triangolo rettangolo è anche isoscele.

 

Se invece si ha un triangolo rettangolo a cateti disuguali si può fare come segue:

disegniamo il triangolo rettangolo ABC (1-3) e il quadrato sulla sua ipotenusa ABDE.

 

                                                                                                E

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All’esterno del quadrato si ridisegni il triangolo ABC come BDF (5); lo si ridisegni ancora, questa volta all’interno del quadrato, sul lato AE come AEG (7). Si aggiunga ora il quadrato del cateto AG come AGCH (1-2).

 

Ancora, all’interno del grande quadrato disegno sempre lo stesso triangolo come DEI (6) e poi il quadrato sul cateto maggiore DI (DFHI) (3-4-5). Ora ho i due quadrati dei due cateti. Per il primo ho usato il cateto AG del triangolo AEG, per il secondo il cateto DI del triangolo DEI. I due triangoli sono uguali. Il quadrato sull’ipotenusa è sempre ABDE. Numero ora le diverse superfici e dimostro che i quadrati 1-2 e 3-4-5 costruiti sui due cateti, sommati tra di loro sono uguali al quadrato dell’ipotenusa: 2-4-6-7.

 

Lo si può vedere facilmente. Consideriamo prima il quadrato più piccolo 1-2. La parte che ha in comune col quadrato dell’ipotenusa, lo si vede subito, è la superficie 2. Lo stesso avviene con la parte 4 del quadrato DFHI. Ho così una figura 2-4 che altro non è se non una parte del quadrato dell’ipotenusa ABDE. Questo quadrato, cioè quello dell’ipotenusa, contiene quindi la parte 2 del quadrato del cateto minore, del quale resta fuori l’altra parte 1; il quadrato dell’ipotenusa contiene inoltre la parte 4 del quadrato del cateto maggiore. Devo dunque arrivare a metter dentro le parti che sono rimaste fuori: 1, 3, 5.

 

In basso sono rimaste fuori: una parte del cateto minore, la 1 e le parti 3 e 5 del cateto maggiore DFHI. Ritagliamo la parte 5 rimasta fuori e mettiamola al posto del triangolo 6. Abbiamo ancora la parte 1-3 che è uguale alla superficie interna 7. Il tutto può esser fatto con maggiore evidenza, ma penso che si veda l’uguaglianza fra i diversi quadrati, ancora meglio se il disegno è a colori.

 

Si è così dimostrata con la sovrapposizione delle superfici l’esattezza del teorema di Pitagora. Scegliendo questo modo di sovrapposizione, si vedrà che, se si ritagliano le figure anziché disegnarle, il teorema risulterà ben visibile; tuttavia, ripensandolo più tardi sarà perso di nuovo. Lo si dovrà ricercare sempre di nuovo. Non lo si può ritenere bene a mente, e perciò va ricercato sempre a nuovo, ed è bene, molto bene che sia così; corrisponde allo spirito del teorema di Pitagora doverlo sempre ritrovare a nuovo: lo si vede e poi lo si dimentica di nuovo. È ciò che appunto colpisce del teorema di Pitagora. Si ha così qualcosa di vivo in tutta la questione. Facendolo fare diverse volte agli scolari, si vedrà che essi non lo sapranno sempre a prima vista, dovranno ogni volta ricercarlo e ripensarlo. È l’intima vita del teorema di Pitagora. Non è bene dimostrarlo in modo pedante; è molto meglio che lo si dimentichi e che ogni volta lo si debba ritrovare. Colpisce sempre che il quadrato dell’ipotenusa sia uguale alla somma dei quadrati dei cateti.

 

Con la geometria si può arrivare benissimo, con fanciulli di 11 o 12 anni, a spiegare il teorema confrontando le superfici; essi saranno molto contenti di poterlo vedere e servirà loro di stimolo, divertendoli. Lo vorranno rifare tante volte, special- mente facendolo ritagliare. Ci saranno solo un paio di birbanti intellettualistici che noteranno bene il tutto e lo sapranno sempre rifare. La maggior parte della classe taglierà in modo sbagliato e tenterà fino a scoprire come dover fare. È la caratteristica magnifica del teorema di Pitagora, e in essa conviene insistere, anziché cercare di abbandonarla.