La vita e le prospettive universali portate nella pedagogia

O.O. 310 – Importanza della Conoscenza dell’Uomo per la Pedagogia e della Pedagogia per la Cultura – 22.07.1924


 

A completamento di quanto dissi ieri sulle riunioni degli insegnanti, anima della scuola, oggi, prima di continuare le spiegazioni puramente di metodo, vorrei ancora aggiungere che noi diamo massimo valore al fatto di mantenerci in piena armonia con i genitori dei nostri allievi; a questo scopo noi organizziamo, a intervalli relativamente brevi, delle serate per i genitori che vengono frequentate dai genitori presenti nel luogo; noi ci intratteniamo così con loro sulle finalità, le istituzioni e i metodi scolastici, naturalmente in modo generico, accogliendone poi i desideri per quel tanto che in una riunione essi si manifestano. Si ha così l’occasione di elaborare ciò cui tendiamo pedagogicamente, attingendolo davvero da tutto l’ambiente sociale dal quale in realtà esso proviene. Gli insegnanti ascoltano le idee che i genitori si fanno sull’educazione dei figli, e i genitori ascoltano (se ne parla sempre con grande lealtà e franchezza) quanto succede nella scuola, quanto si pensa sull’educazione e sull’avvenire dei fanciulli, e come sia necessario avere liberi istituti di educazione, simili al nostro. In breve, queste conversazioni ci permettono di intrattenere coi genitori non soltanto una corrispondenza astratta di pensieri, ma ci fanno mantenere con loro un contatto ininterrotto. Noi diamo grande importanza a queste riunioni perché manchiamo di ogni altro appoggio. In una scuola statale ogni cosa è preordinata. In essa si sa con grande precisione che fini educativi si debbono perseguire; si sa che per esempio a nove anni il fanciullo deve esser arrivato a quel dato punto, e così via. Tutto è regolato con precisione.

 

Nella nostra scuola, invece, tutto è sottoposto persino alla libera individualità del singolo maestro. Dalla direzione, per quanto sta in me, non partono direttive, linee di condotta. In generale, noi non abbiamo una direzione nella scuola, ma invece il singolo insegnante, in un certo senso, è sovrano. Quello cui noi tendiamo, al posto di una direzione, è lo studio, il progredire, attraverso le riunioni stesse degli insegnanti. Abbiamo così uno spirito che, proprio come spirito concreto, vive in mezzo al corpo insegnante, che anche agisce, che non è tirannico, che non detta teorie, disposizioni o programmi, ma che incessantemente vuol portare avanti, e anche migliorare di continuo, le disposizioni e il corso dell’insegnamento. I nostri insegnanti non possono affatto sapere oggi che cosa andrà bene fra cinque anni nella Scuola Waldorf; poiché in cinque anni essi avranno imparato molto, e giudicheranno allora, fra cinque anni, che cosa è bene e che cosa non lo è. Per questo, ciò che delle associazioni per una riforma pedagogica immaginano sia bene per l’educazione, è del tutto indifferente per quello che vien fatto nella Scuola Waldorf. Sono cose che, per l’educazione, non si possono ricavare dal raziocinio, ma soltanto intimamente elaborare. E proprio questo elaborare è importante per il corpo insegnante! Per il fatto di essere nella possibilità di vivere in un vivente fluire con quanto noi vogliamo, appunto per questo a noi occorre un appoggio diverso da quello che una scuola solita ha nell’autorità superiore che le prescrive quel che essa deve fare, e così via. Noi invece dobbiamo avere un appoggio in quell’elemento sociale da cui provengono i nostri ragazzi. A noi occorre l’intimo appoggio dei genitori per tutti i quesiti che continuamente nascono dalla presenza nella scuola del fanciullo, che vi arriva appunto dalla casa paterna.

 

Ma se questo accordo da individuo a individuo viene conseguito, e il maestro, in quanto si appoggia ai genitori e si occupa di tutto lo sviluppo del fanciullo, forse anche più dei genitori (non soltanto dando loro informazioni poco utilizzabili, ma, nelle serate per genitori, prolungando il proprio interessamento fino nella casa patema), allora nel fanciullo che noi accogliamo in scuola nell’età scolastica, intorno ai sette anni, noi abbiamo ben più di quanto crediamo, abbiamo in lui il padre, la madre e le altre persone del suo ambiente; tutti stan dietro a lui come delle ombre. Con loro si ha a che fare quasi altrettanto che col bambino stesso, specie nei riguardi fisiologici e patologici. L’insegnante deve elaborarsi tutto questo, lo deve considerare nel suo insieme per capire davvero il fanciullo e soprattutto per fare con piena comprensione quanto egli deve compiere nell’ambiente che circonda il fanciullo. E costruendo questo ponte verso la casa patema, si ottiene anche una specie di appoggio sociale, ma in modo libero e vivente.

 

Abbiamo anche bisogno della casa patema affinché i genitori curino che il naturale rispetto dell’autorità, che il fanciullo deve provare verso il maestro, non venga in nulla menomato. E qui bisogna lavorare molto con mezzi di comprensione psicologica fra insegnanti e genitori. Questi ultimi, venendo a conoscere l’insegnante, e a conoscerlo abbastanza bene, devono disabituarsi dall’essere gelosi. Quasi tutti, i genitori, infatti, sono gelosi dell’insegnante dei loro figli; hanno quasi il senso che il maestro voglia portar loro via il bambino. Se esiste questo sentimento, non si può neppure cominciare a fare qualcosa col bambino in campo educativo. Tuttavia la situazione si può normalizzare ove il maestro riesca in pari tempo a trovare il giusto appoggio nella casa patema. Ecco quanto ho dovuto aggiungere a proposito di come devono essere le riunioni dei maestri.

 

Nella vita del fanciullo, importa ora davvero di capire quegli importantissimi momenti di transizione. Ne ho già citato uno, quando cioè l’insegnamento deve passare dalla precedente configurazione fiabesca alla conoscenza, per esempio, della botanica. Questo momento, per il fanciullo, sta fra i nove e i dieci anni. Qui egli incomincia a mostrare quasi una inquietudine interiore. Affiorano sentimenti diversi che ci fan dire: ma che succede al bambino? Egli stesso non lo sa, ma è preso da un’intima irrequietudine, fa le più diverse domande. In massima parte, le domande stesse non hanno molta importanza per il loro contenuto; ma che il bambino domandi, che in genere si comporti in quel modo, questo davvero ha molta importanza.

 

Quanto facciamo in quel periodo col bambino, riguardo ai nostri rapporti con lui, ha ima grande importanza per tutta la sua vita. Che cosa c’è infatti nel fanciullo, in ogni fanciullo che non sia in una situazione patologica? Fino a quel momento, un bambino non male influenzato dal di fuori accoglie del tutto spontaneamente l’autorità del maestro; un fanciullo sano, cui non siano state dette cose fuori posto per guastarlo, ha infatti un sano rispetto di fronte ad ogni adulto. Egli leva gli occhi verso di lui, ingenuamente, come verso un’autorità ovvia. Ripensiamo pure alla nostra infanzia, a che cosa significa, per il fanciullo di tenera età, potersi dire: « Mi è permesso di fare la tal cosa, come la fa il tale o la tale, personalità di valore ». In quell’età non si ha davvero altro desiderio che quello di porsi sotto ad un’autorità.

 

Fra i nove e i dieci anni, tutto questo subisce semplice- mente una certa scossa, per lo sviluppo della stessa natura umana. Occorre soltanto poterlo riconoscere nella sua portata. La natura umana, in questo periodo, arriva a sentire una cosa del tutto peculiare, che nel fanciullo non giunge fino a coscienza, ma vive in sensazioni e sentimenti indefiniti. Il bambino non la può esprimere, ma essa esiste. Che cosa si dice il fanciullo, incoscientemente? Prima, secondo i suoi sentimenti, egli si diceva: « È bene ciò di cui l’educatore dice che è bene ; è male ciò che egli dice essere male; è giusto ciò che egli dice essere giusto ; è errato quello che egli dice essere errato; è bello ciò che piace all’educatore e che egli dice piacergli; è brutto ciò che a lui non piace o che egli chiama brutto ». Per il bambino l’educatore è la norma del tutto indiscussa. Ora, nel periodo tra i nove e i dieci anni, questo sentimento viene interiormente un po’ scosso. Il fanciullo, mosso dal sentimento, comincia a chiedersi: « Ma lui… o lei… da dove l’hanno imparato? chi è mai l’autorità per il maestro? e dove si trova quest’autorità? ». In quel momento ha inizio nel fanciullo una spinta interiore per pervenire dall’uomo visibile, fino ad ora un dio per il fanciullo, a quanto sta dietro di esso come un dio o una divinità soprasensibile e invisibile. A questo punto bisogna senz’altro far buona prova nei suoi confronti. Ora bisogna star di fronte al fanciullo in modo che egli senta: il maestro si appoggia a qualcosa di soprasensibile che gli sta dietro; non parla arbitrariamente basandosi soltanto su di sé, ma è un missionario del mondo divino.

 

Questo dobbiamo far notare al bambino. Ma in che maniera? Certo non predicandoglielo! Lo si può soltanto esprimere, ma meno di tutto si raggiunge un risultato predicandolo. Si potrà arrivare a qualcosa avvicinandosi al fanciullo, dicendogli anche cose il cui contenuto non sia magari di nessuna particolare importanza, ma esposte con tono di voce tale che il bambino veda: costui — o costei — ha un cuore, e questo cuore crede anch’esso a quanto vi è dietro. Occorre proprio far notare profondamente al fanciullo questo nostro inserirci nel mondo. Anche se non afferra con astratto razionalismo, il bambino è già ragionevole al punto da venirci accanto e chiederci: « Ah, io vorrei tanto sapere… ». A questa età i bambini pongono appunto tali domande. Se ora diciamo loro: « Vedi un po’: io accolgo dal sole quel che posso darti ; se il sole non ci fosse, io non potrei darti nulla nella vita; se non ci fosse la luna, che serba in guisa divina, mentre dormiamo, quanto il sole ci dona, io neppure potrei darti nulla ». Come contenuto, tutto ciò non ha ancora molto significato; ma se lo diciamo con un calore tale che il bimbo noti che si ama il sole e la luna, noi conduciamo il bambino al di là di questi suoi quesiti e, nella maggior parte dei casi, al di là della vita. È necessario sapere che nella vita del fanciullo esistono questi momenti di crisi. Allora sentiremo spontaneamente che fin qui avevamo parlato al bambino della natura, aiutandoci con pino e quercia, con ranuncolo e dente di leone, con girasole e violetta, col raccontargli di diversi esseri fiabeschi, per condurlo ad un mondo saturo di spirito. Ma ora è venuto il momento in cui possiamo incominciare a raccontargli delle storie attinte ai Vangeli. Se noi incominciassimo prima, o se prima lo istruissimo al modo del catechismo, distruggeremmo in lui qualche cosa. Ma se cominciamo ora, mentre nel fanciullo si apre una breccia verso il mondo dello spirito, noi facciamo qualcosa verso cui anela tutto il suo essere. Quale è dunque il libro in cui il pedagogo può leggere che cosa è la pedagogia? I fanciulli stessi. Non dobbiamo imparare la pedagogia da nessun altro libro, se non da quello che ci sta aperto davanti e che è il bambino stesso. Per questo si richiede un interesse ampio e profondo per ogni singolo fanciullo, e per questo non dobbiamo lasciarcene sviare, anche se al pedagogo si presentano difficoltà che egli deve coscientemente superare.

 

Supponiamo ora che il pedagogo stesso abbia dei figli. In tal caso egli avrà un compito più severo e più ampio che se non ne avesse. Occorre allora che egli divenga più cosciente in questo campo, e soprattutto egli non deve ritenere, neppure nel subcosciente, che tutti i ragazzi debbano diventare uguali ai suoi figli. Egli deve ricercare in se stesso e constatare che nel subcosciente di tutti coloro che hanno figli esiste l’opinione che tutti i ragazzi devono diventare come i loro.

 

Indubbiamente ciò che si deve acquistare come pedagogo penetra fin nelle più riposte fibre della vita dell’anima. E se queste più riposte fibre della vita dell’anima non venissero afferrate, il nostro atteggiamento nella classe non sarebbe tale da aprirci il pieno accesso ai fanciulli, e quindi anche da conquistarci la loro piena fiducia. Porta danno grave, immenso, se i ragazzi possono supporre che altri bambini siano i prediletti del loro insegnante. È cosa che, in tutti i casi, assolutamente, bisogna evitare. Non è certo così facile da evitare come in genere si crede; ma può essere evitato quando si viva nella scuola, muniti di tutti quei principii che veramente possono derivare dalla conoscenza antroposofica dell’uomo. Allora la cosa viene del tutto spontanea.

 

C’è una cosa, inoltre, che va presa in considerazione, specialmente a proposito dell’argomento che intendo svolgere in questo ciclo di conferenze, qualcosa che è in rapporto con tutta l’importanza cosmica ed umana della pedagogia. È indubbiamente insito nella natura umana che il maestro, talmente occupato con i suoi alunni, di solito arrivi poco a vivere al di fuori della sfera scolastica; eppure egli deve appoggiarsi al mondo, deve guardare fuori nel mondo. Da che dipende che i maestri diventino facilmente di natura così inaridita? Diventano tali, perché realmente essi debbono scendere di continuo al livello del fanciullo. Non bisognerebbe mai mettere in ridicolo il maestro che, coi metodi correnti di insegnamento, si inaridisce. Di questi pericoli può divenire cosciente specialmente il maestro antroposofico. E infatti, se la concezione storica del maestro comune a poco a poco finisce per essere quella del suo libro di testo – e tale diviene dopo qualche anno di insegnamento – da dove può egli prendersi una concezione storica? da dove può attingere delle idee circa l’umanità? possono forse le cose essere diversamente? Il tempo che poi gli avanza, dopo le ore di insegnamento, il maestro lo passa « svagandosi ». Allora i grandi problemi universali assumono spesso un aspetto politico estremamente campanilistico. La vita dell’anima cioè non tende verso quella concezione che occorre possedere intorno ai trenta o ai quarant’anni. Né ci si mantiene freschi e vivi credendo sia meglio, nelle ore libere, giocare a carte o fare qualcosa d’altro totalmente estraneo alla vita dello spirito.

 

Per l’insegnante antroposofico accade che, essendo egli ora impegnato nell’antroposofia, da essa gli si delineano sempre più ampie le prospettive universali in modo che egli, proprio in quanto si occupa di antroposofia, allarga sempre più la cerchia delle sue vedute. Si mostra facilmente il rapporto fra queste due cose. Si mostra per il fatto che l’antroposofo entusiasta, se per esempio insegna storia, tende subito a portare l’antroposofia nella storia, ed in definitiva a voler insegnare antroposofia in luogo di storia. Anche questo bisogna cercare di evitarlo. E lo evita assolutamente chi, avendo da una parte i propri alunni e dall’altra l’antroposofia, si trova pure costretto a gettare un ponte fra scuola e genitori. Quando l’antroposofia diviene anche conoscenza dell’uomo applicata e comprensione umana in atto, allora si devono vedere le necessità imposte dalla vita.

 

Sovente, che cosa si pensa oggi, proprio sotto l’influenza di idee riformatrici, anzi rivoluzionarie, sulla scuola? Non voglio ora affatto discutere delle opinioni sostenute in cerchie socialistiche, e mi limiterò a quello che se ne pensa tra buoni borghesi. È sorta per esempio l’idea che sarebbe bene uscire dalle città per educare in campagna, lontano dalle città, buon numero di fanciulli; soltanto così essi potrebbero svilupparsi naturalmente. Ma come inserire siffatto pensiero in una concezione del mondo complessiva? Non altrimenti che riconoscendo la propria incapacità. Non si tratta infatti di escogitare come si possa far sviluppare secondo le proprie idee un certo numero di ragazzi lungi dal mondo intero, ma piuttosto come sia possibile far diventare uomini dei fanciulli nell’ambiente sociale nel quale ci troviamo. Occorre dunque far sorgere la forza di non togliere ai fanciulli la loro vita, quando essi già siano inseriti nel loro ambiente sociale. Dobbiamo avere assolutamente questo coraggio. Tutto ciò è appunto in rapporto con l’importanza universale della pedagogia.

 

Occorre però la profonda convinzione che il mondo deve penetrare nella scuola. Deve essere il mondo che, in modo conforme al fanciullo, continua a vivere nella scuola. Perciò restando sul terreno di una pedagogia sana, noi non tenteremo di escogitare mille lavorucci, adatti soltanto per fanciulli. Così per esempio si dànno da fare ai bambini dei lavori d’intreccio e altre cose senza un rapporto immediato con la vita, inventate per i bambini, al solo scopo di occuparli. Cose che non possono mai giovare al loro sviluppo in maniera confacente. I giochi che si fanno nella scuola devono essere invece un’immagine immediata della vita. Tutto deve essere attinto dalla vita, e nulla escogitato. Per quanta buona volontà ci sia in esse, le cose che, per esempio, Froebel o altri introdussero nell’educazione dei piccoli non hanno relazione col vero sviluppo dei bambini, ma sono invenzioni della nostra epoca razionalistica. Nulla di escogitato, invece, dovrebbe agire nella scuola.

 

Sopra ogni cosa, dovrebbe esistere il segreto intuito che dappertutto la vita penetra nell’educazione. A questo proposito si possono avere delle esperienze molto rilevanti. Ho già detto come al fanciullo che abbia superato la seconda dentizione si debba appianare la via verso la scrittura, avvalendosi del pittorico disegnare e del disegnante dipingere. La scrittura, divenuta un disegno astratto, deve svilupparsi da un pittorico disegnare o da un disegnante dipingere.

 

Così procedendo, dobbiamo tenere veramente presente che il fanciullo è un essere che sente in modo estetico, che in lui si cela un vero piccolo artista. Può ora capitarci un’esperienza molto interessante. Può darsi che la classe sia affidata ad un insegnante ottimo, che si prodiga per le cose ora spiegate e che ne è entusiasta al punto da dire: Bisogna semplicemente mettere da parte tutti i metodi educativi precedenti ed educare soltanto in questo modo! Ed ora incomincia la faccenda del pittorico disegnare o del disegnante dipingere. I vasetti coi colori e i pennelli sono pronti, e i bambini prendono i pennelli in mano. Può dunque capitare l’esperienza che l’insegnante non comprenda che cosa sia un colore luminoso e un colore non luminoso; che sia già troppo anziano per comprenderlo. Il fanciullo invece ci arriva subito; egli ha una meravigliosa mobilità per capire la differenza fra un colore luminoso e un altro non luminoso.

 

Accade in proposito di fare le più strane esperienze. Una volta ebbi occasione di raccontare ad un eccellente chimico che noi, nel Goetheanum, tendevamo a dipingere con colori luminosi, ossia avvalendoci di colori vegetali. Il chimico mi rispose: « Oggi noi possiamo già fare molto meglio ; già oggi noi possediamo i mezzi per fabbricare colori che incominciano a risplendere appena vien buio ». Costui non capiva affatto di che si trattasse: pensava subito chimicamente. Spesso gli adulti, oggi, non hanno alcun senso per un colore luminoso, ma i fanciulli lo hanno. Con poche parole tutto procede a meraviglia, quando si sappia leggere dalla natura infantile quello che essa già possiede. Ma i ragazzi vanno guidati con molta comprensione, e la spiegazione stessa deve essere artistica; allora il fanciullo riesce ad entrare senza fatica in tutto ciò in cui si desidera condurlo.

 

Si arriva a tutto ciò soltanto quando si senta profondamente come la scuola sia vita giovane; quella vecchia bisogna però conoscerla. Di conseguenza occorre avere un sentimento per quello che si può e quello che non si può fare.

 

Nessuno voglia prendersela a male, se ora espongo quanto, nel campo della pedagogia antroposofica, mi capitò l’anno passato quando si mostrò qualcosa che in essa è così profondamente inserito, vale a dire l’euritmia per il pubblico. Si fece una rappresentazione, e innanzi tutto si presentarono dei bambini che eseguirono quanto essi avevano appreso a scuola, durante le lezioni di euritmia; soltanto dopo seguì una rappresentazione artistica di euritmia. Cioè non si disse: « Questa è l’euritmia », in modo che la gente se ne formasse prima il concetto : « Dunque questa è l’euritmia, e così essa viene introdotta nella scuola ». Ma per il fatto che si fece precedere l’euritmia dei fanciulli, l’euritmia stessa si presentò in modo che non se ne comprendeva il significato. Immaginiamo che non esista la pittura e che ima volta si cominci col mostrare i pasticci fatti dai ragazzi con i colori. Altrettanto poco, ieri, il pubblico non appartenente al movimento antroposofico poteva vedere nella rappresentazione data dai ragazzi che cosa si vuole con l’antroposofia e con l’euritmia. Tutto ciò ha soltanto un significato se l’euritmia viene presentata prima come arte, perché allora si vede come essa sia inserita nella vita e quale sia il suo significato in campo artistico. Allora si riconoscerà anche l’importanza dell’euritmia per la scuola. Diversamente si dirà: Oggi al mondo ci sono tante follie, e si giudicherà l’euritmia come ima di esse.

 

Son queste le cose che devono condurre non soltanto ad elaborare la pedagogia nel vecchio senso ristretto, ma pure con ampio respiro spirituale per legare la scuola alla vita e per non escluderla dalla vita medesima. Ciò è altrettanto importante quanto l’escogitare un qualsiasi metodo intelligentissimo di educazione. Ancora e sempre devo ripetere che importa l’atteggiamento e il giusto sguardo sulle cose. Certo che si deve pur comprendere che non tutto può subito esser perfetto, e prego dunque che non si prenda in malo modo quanto ho detto, neppure da parte di antroposofi. Io riconosco tutto quanto vien fatto, come qui, cori tanto spirito di sacrificio. Ma se non se ne parlasse liberamente, potrebbe accadere, poiché dove c’è molta luce vi sono pure molte ombre, che anche nei luoghi dove ci si sforza di spiritualizzare le cose, si formino anche le ombre peggiori. Il pericolo non è minore che nella vita consueta, ma è anzi maggiore. Quello che più ci occorre, se vogliamo tener testa a quello che nella vita ci si avvicina in modo sempre più e più complicato, è soprattutto la necessità di essere attenti e vigili per quello che la vita richiede dall’uomo. Oggi non possediamo più quelle tradizioni evidenti che guidavano l’umanità di un tempo. Non ci possiamo più accontentare di quanto ritennero giusto i nostri avi; dobbiamo saper educare i nostri figli a formarsi un giudizio proprio. A tal fine occorre che liberiamo i nostri concetti dall’angustia che li stringe e dobbiamo inserirci nella viva vita e nel tramare dell’universo. Non ci è dunque più consentito, come si faceva in passato, di trovare dei concetti semplici, coi quali voler spiegare i vasti campi della vita. In questo settore la maggior parte delle cose vien fatta in modo che, anche a non voler essere pedanti, si cerca di caratterizzare tutto con concetti semplici; così accadde una volta in una scuola greca di filosofia, quando si volle spiegare che cosa è un uomo. Ne saltò fuori la definizione che l’uomo è un essere vivente che si regge su due gambe ed è implume (molte definizioni che si danno oggi sono proprio di questo stampo). Il giorno dopo un tale, dopo aver meditato a fondo su queste infelici parole, portò un’oca spennata: era un essere « che si regge su due gambe ed è implume », ed egli aveva pensato che fosse un uomo. È questo un caso estremo per quanto per esempio è accennato anche da Goethe, quando, nel Goetz von Berlichingen, il ragazzetto prende a parlare di geografia e, nel parlare del suo paese nativo, lo descrive secondo il libro di testo; descrive poi un uomo che si evolve in quel paesello, senza supporre che costui è suo padre; a forza di dottrina, non conosce neppure il proprio padre, avendo tutto appreso dal testo scolastico.

 

Queste cose non arrivano sempre a un colmo, come mi capitò una volta a Weimar; anche lì naturalmente si pubblicano giornali, ma redatti come si usa di solito in luoghi poco importanti: si prendono cioè i giornali dei grandi centri e se ne ritagliano le notizie che si desidera pubblicare nel proprio giornale. Così il 22 gennaio avvenne di leggere a Weimar la notizia: « Ieri sulla nostra città si scatenò un violento temporale ». Ma era appunto una notizia riportata da un giornale di Lipsia!

 

Tali cose accadono nella vita, e noi me veniamo sempre irretiti. Si teorizza in concetti astratti. Per esempio si studia la teoria della relatività, e si arriva al parere che sia la medesima cosa se ci si reca in automobile ad Osterbeek, oppure se Osterbeek ci viene incontro. Tuttavia, per arrivare ad una conclusione rispondente alla realtà, bisognerebbe dire: Se l’automobile sta ferma, essa non si consuma, e lo stesso guidatore non si stanca; nel caso diverso accade il contrario. Chi pensa così, verrà a conoscere in se stesso, senza misurare ogni linea e ogni movimento, che cosa modifichi il suo proprio essere per il fatto di essere in movimento e non già in riposo. Se si dirige lo sguardo su ciò che è, « in sé », non fa meraviglia che, dall’odierno abituale modo di pensare, risulti una teoria della relatività. Risalendo invece alla realtà, si vede che non concorda con quello che viene escogitato traendolo esclusivamente dalle « relazioni ». Oggi, per eruditi od avveduti che si sia, noi viviamo di continuo propriamente al di sopra della realtà; noi viviamo in rappresentazioni createci da noi stessi similmente al ragazzetto nel Goetz von Berlichingen che non riconosce il proprio padre malgrado egli ne abbia la descrizione nel suo libro. Noi non viviamo nella realtà immediata.

 

Appunto questo noi dobbiamo invece portare nella scuola, vale a dire lo star di fronte alla realtà immediata. E lo possiamo se davvero riconosciamo soprattutto l’uomo e tutto ciò che si riferisce a lui. Per questo io sempre ripeto: È facile dire in teoria che al bambino si debba impartire soltanto un cosiddetto insegnamento semplice, evidente, per lui comprensibile, ma così facendo vengon fuori anche delle spaventose banalità. Ho già ricordato il pallottoliere. Riflettiamo ora un poco sul caso seguente. All’età di otto anni imparo una cosa senza capirne nulla; so soltanto che l’ha detta il maestro, e io cimo il mio maestro. Egli è per me un’ovvia autorità. Avendola detta lui, io la accetto e me la imprimo profondamente nel cuore. Ancora a quindici anni non comprendo quella cosa. Ma a trentacinque anni la vita mi porta incontro un’esperienza, grazie alla quale mi affiora, quasi da mirabili abissi spirituali, proprio ciò che io a otto armi non avevo compreso, che avevo accettato soltanto perché avvalorato dall’autorità dell’amato maestro; ed essendo egli per me « l’autorità », doveva essere cosa verace. Ora la vita mi reca una data esperienza, se un lampo mi illumina: ora comprendo quella remota esperienza! Essa rimase in me tutto quel tempo, ed ora la vita mi porge la possibilità di capirla. Questa esperienza è per l’uomo ima cosa molto impegnativa. E veramente bisognerebbe dire: Guai all’uomo cui non son dati quei momenti in cui, dall’intimo suo, sale quello che prima egli aveva accettato per autorità e che ora soltanto egli giunge a capire! Non dobbiamo sottrarre all’uomo quanto più tardi, entusiasmandolo, gli sorgerà dall’intimo e potrà agire sulla sua vita.

 

Ma ancora: ho già detto che fra la seconda dentizione e la pubertà non bisogna predicare la morale ai ragazzi, bensì far in modo che il bene piaccia loro, perché piace al maestro, e che il male loro ripugni, perché ripugna al maestro. Nel secondo periodo della vita tutto deve cioè costruirsi sulla simpatia per il bene e l’antipatia per il male. Allora i sentimenti morali restano profondamente ancorati nell’anima; allora si avrà compiacenza morale per il bene, avversione morale per il male.

 

Si avvicina poi la maturità sessuale. Come il camminare durante i primi sette anni, come il parlare nei secondi sette, così ora nel terzo settennio della vita, con la maturità sessuale, giunge ad avere la sua piena importanza il pensare. Esso diventa indipendente, autonomo. E diviene tale veramente soltanto con la pubertà: soltanto allora noi diventiamo atti a giudicare. Se quindi abbiamo in noi nel modo indicato dei sentimenti, appunto nel momento in cui, per anelito interiore, incominciamo a formare dei pensieri, allora noi possediamo ima base ottima per la vita del pensiero e noi stessi facciamo la scelta: questa determinata cosa mi è piaciuta, e un dovere mi lega dunque a lei; un’altra mi è dispiaciuta, ed è mio dovere tralasciarla. L’importante è appunto che il dovere medesimo nasca dal piacere o dall’avversione, che il dovere non venga inoculato, ma che germogli appunto da quanto piace e da quanto dispiace. Questa è l’aurora della vera libertà nell’anima umana. La libertà si sperimenta per il fatto che l’impulso morale è il più profondo ed intimo impulso dell’anima umana individuale. Se avremo guidato il fanciullo, per autorità spontanea, verso l’elemento morale, in modo che esso viva per lui nel mondo del sentimento, allora il senso del dovere, dopo la maturità sessuale, si farà strada dall’intimo stesso dell’uomo. Così è il sano processo. In tal modo avremo guidato rettamente i fanciulli verso l’esperienza individuale della libertà.

 

Perché oggi gli uomini ne sono privi? Ne sono privi perché non la possono avere, perché prima della pubertà viene loro inoculato quello che è bene e quello che è male, quello che debbono fare o debbono tralasciare. Ora, un insegnamento morale che trascuri i giusti gradini di sviluppo inaridisce l’uomo, lo riduce come ci fosse in lui uno scheletro di comandamenti morali e, agganciate ad esso, le possibili azioni della vita, come gli abiti ad un attaccapanni.

 

Perché tutto nella vita possa essere unitario, l’educazione dovrà cambiare completamente rotta. Sarà indispensabile sapere come il bambino è tutt’altro dalla nascita alla seconda dentizione, altro tra questa e la pubertà, ed altro ancora dalla pubertà al ventunesimo anno. Per qual motivo il bambino fa una data cosa nel periodo fino ai sette anni? Perché egli vuole imitare, perché vuol fare quello che fa il suo ambiente. Ma anche questo dovrà avere vita, dovrà potersi tramutare in vivente attività. Si potrà fare molto a questo proposito abituando il bambino ad accogliere con gratitudine quanto gli vien dato dal proprio ambiente. La gratitudine è la virtù fondamentale del bambino dalla nascita alla seconda dentizione. Se il bambino può guardare chiunque, anche fuori del suo ambiente, sia in rapporto con lui, e può vedere come anche costui accolga con gratitudine quanto gli largisce il mondo esterno, se davanti ad ogni cosa che il bambino sente in contatto col mondo esterno, e che vuole imitare, egli vede gesti in cui domina la gratitudine, allora molto si è fatto per il giusto sostegno morale dell’uomo. La gratitudine è al suo posto nei primi sette anni della vita.

 

Se durante questo primo periodo della vita avremo educato nel fanciullo la gratitudine, sarà poi facile sviluppare in lui ciò che deve dominare ogni azione tra il settimo e il quattordicesimo anno, vale a dire l’amore. Questa è la virtù del secondo periodo della vita. Soltanto dopo la maturità sessuale, dalle esperienze vissute nell’amore fra la seconda dentizione e la pubertà, si sviluppa l’intimo impulso umano del dovere. Diviene allora direttiva di vita quello che Goethe ci presenta così bene quando chiede : « Che cosa è il dovere? Amare quello che noi stessi ci imponiamo ». A tanto bisogna venir condotti. Ma lo saremo soltanto quando esista la successione di gratitudineamoredovere.

 

Alcuni giorni fa abbiamo visto come le cose riappaiano da un periodo precedente della vita in quelli successivi. Ne parlai rispondendo ad ima domanda che mi fu posta. Ora vorrei far notare che anche in questo c’è del buono, che così deve essere. Non ho certo inteso dire che la gratitudine debba cessare a sette anni, o l’amore a quattordici. Questo è appunto il segreto della vita, che quello che si sviluppa in un’epoca può, metamorfosato, accresciuto e modificato, continuare a vivere nelle epoche successive. Noi non potremo però trasferire il bene di un’epoca nelle successive, se non esistesse anche la possibilità di trasferirvi il male. L’educazione deve soltanto curare che la forza insita nell’uomo e atta a trasferire delle facoltà da un periodo all’altro venga usata per il bene. Per questo è però necessario mettere in pratica quanto ieri ho detto. A causa di sostrati patologici, è per esempio possibile che, nella vita ulteriore, un ragazzo divenga moralmente debole. Noi osserviamo che il bene non gli piace abbastanza, che il male non gli dispiace a sufficienza; egli non vuol progredire in modo giusto. Tenteremo allora di valorizzare quanto vi è in qualsiasi natura umana; poiché fra i sette e i quattordici anni egli non riesce a sviluppare l’amore come dovrebbe, cerchiamo di sviluppare ora la gratitudine, di educarlo a ima gratitudine veramente sentita verso l’autorità naturale del maestro; allora migliorerà anche la questione dell’amore. Chi conosce i problemi della natura umana, non agisce affermando: « A questo ragazzo manca l’amore per il bene e l’antipatia per il male; bisogna quindi che io glielo inculchi ». Così non si può fare; la cosa risulta invece spontanea sviluppando la gratitudine. Occorre perciò conoscere il compito che, nello sviluppo morale della vita, spetta alla gratitudine in confronto all’amore: occorre sapere che, durante i primi sette anni della vita, la gratitudine è una conseguenza ovvia della natura umana e che l’amore è animicamente attivo in tutta l’organizzazione umana, già prima che esso si esplichi esteriormente, corporalmente, nella maturità sessuale. Infatti, ciò che poi si manifesta esteriormente, fra i sette e i quattordici anni, è davvero principio fondamentale della crescita e dell’essere dell’uomo, lavora e vive nell’intimo. Se posso dirlo in questa sede, dove questi problemi vanno: trattati dalle fondamenta, avviene realmente che, quando il maestro abbia riconosciuto che cos’è una pedagogia basata sulla vera conoscenza dell’uomo, quando da un lato egli sia inserito in un siffatto lavoro pedagogico e dall’altro partecipi alla concezione antroposofica del mondo, allora avviene che una cosa agisca sull’altra. Il maestro deve infatti agire nella scuola guidato dalla premessa che l’amore opera nel fanciullo interiormente, quell’amore che nella sessualità diventa poi esteriore.

 

Il pedagogo antroposofo frequenta poi quei luoghi dove vien coltivata la sua concezione del mondo, l’antroposofia. Quivi, da coloro che già lo sanno, dalla scienza iniziatica, egli sente dire che l’uomo consiste di corpo fisico, di corpo eterico, di corpo astrale e di io; che fra il settimo e il quattordicesimo anno il corpo eterico lavora in prevalenza sul corpo fisico e che il corpo astrale si immerge nel corpo fisico e in quello eterico, quando subentra la maturità sessuale. Ora, chi vede queste cose, chi in tutto quanto percepisce vede una pluralità consistente di fisico e di spirituale e, quando operano separatamente, li percepisce pure separatamente, fin dall’undicesimo, dal dodicesimo anno in su, costui ode risuonare nel giovinetto, nella sua astralità, il timbro di voce più profondo che poi si manifesterà appieno soltanto con la maturità sessuale. Nel sostrato del corpo astrale risuona già il nuovo timbro di voce. E così pure nella fanciulla la peculiarità che matura il sesso già si afferma nel corpo astrale intorno agli undici o ai dodici anni.

 

Queste cose esistono; e se le si prendono nella loro realtà diffondono luce sulla vita. In proposito si possono fare davvero esperienze del tutto speciali, e non vorrei tacerle. L’anno 1906 tenni a Parigi, per una cerchia di persone relativamente piccola, un certo numero di conferenze sull’antroposofia. Avevo regolato le mie conferenze tenendo conto del pubblico che consisteva di letterati, scrittori, artisti e altri che, in quell’epoca, avevano specialissimi problemi. In seguito tutto è cambiato, ma allora esisteva qualcosa nei problemi di cui l’uomo si interessava, l’uomo che, alzandosi la mattina, faceva considerazioni di questo genere: Io faccio parte di una società che si occupa di letteratura, di storia dell’arte, eccetera; e quando si fa parte di questa società si porta ima cravatta di una determinata forma, dall’anno tale in poi non si va più ai tè in frac o in smoking, e si sa che ai pranzi si parla di questi o di simili problemi. La sera si va poi a teatro per quei drammi che si riferiscono a problemi di attualità; i cosiddetti poeti compongono anche drammi di quel tipo. I grandi problemi nascono a tutta prima in modo sincero e onesto nel cuore di un uomo interiormente profondo: per cominciare sarà uno Strindberg. In seguito vengono coloro che volgarizzano l’opera di uno Strindberg per il grosso pubblico. Quando io tenni quelle conferenze a Parigi, si discuteva molto sul problema che poco prima aveva trascinato il tragico Weininger al suicidio. Il problema del giorno era quello che Weininger, in Sesso e carattere, fa emergere in maniera così infantilmente grandiosa. Dopo aver fatto una disamina delle cose necessarie alla comprensione, io specificai come in ciascun uomo esista un sesso per il corpo fisico visibile, mentre ognuno di noi reca in sé l’altro sesso nel suo corpo eterico. Bisogna quindi dire: La donna è ”uomo” riguardo al corpo eterico, e viceversa l’uomo è “donna” nel proprio corpo eterico. Di conseguenza l’uomo, considerato nella sua totalità, è bisessuale, porta in sé l’altro sesso. Qui io sono veramente posto nella possibilità di osservare come gli uomini, quando vien detta loro ima cosa siffatta, incominciano a vedere, partendo dal loro corpo astrale, e sentono a un tratto che si è loro risolto un problema che essi rimuginavano da tempo; si constata allora che essi improvvisamente divengono irrequieti sulle loro sedie, sono presi da una gradevole irrequietudine. Dove esistono grandi problemi e non soltanto meschine sensazioni di vita, dove realmente c’è entusiasmo – e sia pure spesso soltanto entusiasmo da salotto – si vede davvero come nell’uomo nasca un senso di sollievo.

 

Così il maestro antroposofico considera sempre che i grandi problemi sono tali da conservargli i suoi interessi umani in ogni età della vita, affinché egli non inaridisca, ma si mantenga fresco e vivo quando entra nella scuola. È tutt’altra cosa avvalersi sempre e soltanto di quello che è stampato nei testi scolastici per insegnarlo ai bambini, oppure liberarsene per essere uomo di fronte alle vaste prospettive universali. Allora quanto si accoglie in sé stessi lo si porta nell’atmosfera con la quale entriamo nella classe e incominciamo la lezione.