L’opera d’arte nel mondo

O.O. 276 – La missione universale dell’arte – 09.06.1923


 

Sommario: Spirito e antispirito in pittura. L’intima vita del colore. L’Assunta del Tiziano. Il genio del linguaggio. Apparenza, saggezza, virtù. L’opera d’arte nel mondo.

Oggi vorrei aggiungere qualcosa alle conferenze che qui tenni negli ultimi giorni. Nelle conferenze precedenti parlai spesso del genio del linguaggio, ed è noto dal mio libro Teosofia che quando in un contesto antroposofico si parla di entità spirituali si intendono reali entità spirituali e che quindi, parlando di geni del linguaggio si intendono reali entità spirituali, singole entità spirituali per ogni singola lingua, in cui l’uomo si immedesima e che in un certo senso dal mondo spirituale gli dànno la forza per esprimere i pensieri che in un primo tempo esistono in lui come morta eredità del mondo spirituale, come esseri terreni. Perciò, proprio in un contesto antroposofico sarà opportuno cercare nella struttura di una lingua un senso che in un certo grado provenga dal mondo spirituale in modo indipendente dall’uomo.

 

Avevo inoltre fatto presente in quale particolare modo indichiamo l’arte, il bello, e il suo contrario. Parliamo del bello e del suo contrario, del brutto, nelle singole lingue. Se descrivessimo il bello, commisurandolo al brutto (hàfilich), allora, poiché l’odio (Hafi) è il contrario dell’amore, non dovremmo più parlare di “bello”, ma di amabile. Dovremmo cioè dire: amabile e brutto. Parliamo invece del bello e del brutto, e in base al genio del linguaggio facciamo una notevole differenza, perché indichiamo così l’uno come il contrario dell’altro. Se ora guardiamo il tedesco (e per le altre lingue dovremmo fare ricerche del genere) il bello come parola (das Schone) è imparentato con apparenza (das Scheinende). Ciò che è bello appare, vale a dire porta alla superficie la sua interiorità. L’essenza del bello è che esso non si nasconde, ma che porta la sua interiorità alla superfìcie, alla forma esteriore. Così è bello quel che mostra la sua interiorità, la sua apparenza nella sua struttura, quel che irradia la sua apparenza, mostrando così il suo essere nel mondo. Se in questo senso volessimo parlare del contrario del bello, dovremmo dire che è ciò che si nasconde, che non appare, che trattiene la sua essenza, non manifesta quel che è e lo trattiene nel suo involucro. Se dunque parliamo del bello, indichiamo qualcosa di oggettivo. Se invece in modo altrettanto oggettivo parliamo del contrario del bello, lo dovremo indicare con una parola che dovrà esprimere qualcosa che si nasconde, che appare all’esterno diverso da come è. Ci stacchiamo allora dall’oggettività, ci avviciniamo alla soggettività e indichiamo la nostra relazione con ciò che si nasconde, trovando di non poter amare quel che appunto si nasconde, di doverlo odiare. Quel che cioè mostra un aspetto diverso da quel che è, è il contrario del bello. Lo chiamiamo però allora non movendo dalla stessa base del nostro essere, ma dalle nostre emozioni, come qualcosa da odiare perché si nasconde, perché non si manifesta.

 

Se dunque badiamo alla lingua, ci si può allora manifestare il genio stesso della lingua, e dobbiamo chiederci: a che cosa tendiamo in effetti se con l’arte aspiriamo al bello nel suo senso più vasto? a che cosa in realtà aspiriamo? Già il fatto che, movendo dal genio del linguaggio, dobbiamo scegliere una parola per il bello che parte da noi, mentre per il contrario del bello non usciamo da noi, restiamo in noi, rimaniamo alle nostre emozioni, all’odio; poiché appunto dobbiamo uscire da noi mostriamo che nel bello vi è un riferimento a una spiritualità al di fuori di noi. Che cosa appare allora? Quel che vediamo con i sensi non richiede di apparirci, è presente. Quel che ci appare, che cioè irraggia nel mondo dei sensi, che annuncia il suo essere nei sensi, è lo spirito. Se dunque parliamo oggettivamente del bello come tale, intendiamo sempre il bello artistico come qualcosa di spirituale che si manifesta, si esprime nel mondo attraverso l’arte. E cioè compito dell’arte afferrare l’apparenza, l’irradiare, il manifestarsi di ciò che come spirito attraversa il mondo e lo vivifica. Ogni vera arte cerca lo spirito, anche se l’arte, come può capitare, vuole presentare il brutto, lo sgradevole, non intende rappresentare lo sgradevole dei sensi, ma lo spirito che annuncia il suo essere nello sgradevole dei sensi. Il brutto può diventare bello, se lo spirito si manifesta, se appare nel brutto. Deve però appunto essere così, deve sempre esservi una relazione con lo spirito, se qualcosa di artistico deve agire come bello.

 

Esaminiamo ora da questo punto di vista una singola arte, diciamo la pittura. Negli ultimi giorni l’abbiamo considerata in quanto essa, attraverso l’apparire nel colore, manifesta appunto nel colore la sua essenza spirituale. Si può dire che nei tempi in cui si aveva una vera interiore conoscenza del colore, ci si era anche abbandonati in giusto modo al genio del linguaggio per mettere il colore stesso in rapporto col mondo. Risalendo ai tempi antichi, in cui si aveva una chiaroveggenza istintiva di queste cose, si troveranno ad esempio metalli che erano sperimentati in modo che nel loro colore si manifestava il loro essere interiore, metalli che non erano denominati secondo il loro aspetto terrestre. Vi era una relazione fra il nome del metallo e i pianeti, e ci si sarebbe vergognati, se così posso esprimermi, di indicare un aspetto terrestre per ciò che si manifesta attraverso il colore. In quel senso si considerava il colore come un’espressione divino-spirituale che soltanto era prestata alle cose terrestri solo nel senso che ho qui esposto alcuni giorni fa. Se nel colore dell’oro si sentiva l’oro, in esso non si sentiva solo un aspetto fisico, ma nel colore dell’oro si vedeva il sole che si annunciava dal cosmo. Si vedeva fin dal principio che nel colore delle cose terrestri si sentiva qualcosa che andava al di là delle cose terrestri. Salendo alle cose viventi si ascriveva ad esse il loro colore, perché esse si avvicinavano allo spirito, perché in esse appariva lo spirito. Negli animali si sentiva che avevano il loro caratteristico colore perché in essi lo spirituale-animico appariva in modo diretto.

 

Si può ora risalire a tempi più antichi nei quali si sentiva artisticamente non solo in modo esteriore, ma anche interiore. Non si arrivava allora in genere alla pittura. Certo dipingere un albero, dipingerlo in verde, sembrava quasi sciocco. Dipingere un albero di verde non è certo fare della pittura, e non lo è perché, anche arrivando a imitare la natura, questa è comunque sempre più bella ed essenziale. La natura è sempre più viva.

 

Non vi è alcun motivo per imitare ciò che vi è nella natura, e infatti il vero pittore non lo fa. Il vero pittore usa gli oggetti ad esempio per far risplendere il sole su di essi, oppure per osservare un particolare riflesso cromatico derivato dall’ambiente, per afferrare il tessere e il vivere del chiaroscuro su di un oggetto. In fondo gli oggetti che si dipingono rappresentano solo un’occasione per dipingerli. Mai si dipinge, diciamo un fiore che si vede alla finestra, ma la luce che arriva alla finestra e che si vede come attraverso il fiore. In effetti si dipinge la luce colorata del sole. Si afferra il sole, e il fiore è soltanto l’occasione per afferrare la luce.

 

Guardando l’uomo lo si può fare in modo persino più. spirituale. Non ha senso, non è pittura prendere la fronte umana e dipingerla come una fronte, come si crede che sia una fronte umana. Compito del pittore, anche se tutto passa in un istante e va messo in relazione con lo spirito, è cogliere come si esponga una fronte umana alla luce del sole che vi cade sopra, come appaia in una luce risplendente una luce opaca, come giuochi il chiaroscuro; è tutto quanto dà l’occasione di prendere colori e pennello.

 

Se si ha una sensibilità pittorica, se ad esempio si vede un interno, quel che conta non è vedere un uomo che si inginocchia davanti a un altare. Mi capitò una volta di visitare una mostra con un tale. Vi era un quadro con qualcuno in ginocchio davanti a un altare, e lo si vedeva di spalle. Il pittore si era posto il compito di captare la luce del sole che entrava da una finestra e che cadeva sulle spalle dell’uomo. Chi era con me disse, guardando il quadro, che avrebbe preferito vedere quell’uomo di faccia. L’osservazione era solo materiale, non rivelava un interesse artistico, voleva che il pittore mostrasse come era quell’uomo e così via. La cosa non era però giustificata se si voleva esprimere quel che si percepisce attraverso il colore. Se intendo rappresentare qualcuno a letto malato di una precisa malattia e studio il colore del suo viso per capire l’apparire della malattia attraverso i sensi, potrebbe essere un’espressione artistica. Tale può esserlo se intendo rappresentare nella sua totalità come appaia tutto il cosmo, come si manifesti nell’incarnato umano, nel colore della carne umana. Ma se voglio presentare un signore qualsiasi che mi pongo davanti, prima di tutto non ci riuscirò mai, e in secondo luogo non è un compito artistico; lo è invece proporsi di vedere come la luce lo illumini, come la luce venga deviata perché il soggetto ha folte sopracciglia. Da questa cosa dipende come tutto il mondo agisca sul soggetto che io dipingo. I mezzi attraverso i quali io raggiungo lo scopo sono il chiaroscuro, il colore, il fissare l’attimo che in realtà fugge e che devo catturare nel modo indicato ieri.

 

Queste cose senz’altro si sentivano a quei tempi, che non sono poi così lontani dai nostri, perché non ci si poteva render conto che Maria, la madre di un essere divino, venisse rappresentata senza un viso raggiante, vale a dire con un viso che fosse dominato dalla luce e che risultasse dal dominio della luce su un normale atteggiamento umano. Non la si poteva immaginare se non con un vestito rosso e un mantello blu, perché solo così la Madre di Dio veniva giustamente presentata nella vita terrena: in un vestito rosso con tutte le emozioni della vita terrena, e in un mantello blu indicante l’elemento animico che la avvolgeva con quello spirituale, e con un viso raggiante di spirito che era dominato dalla luce, quale manifestazione dello spirito. Tutto ciò non lo si afferra in modo artistico fino a quando non lo si sente come l’ho appena detto, e che in qualche modo ora ho espresso non artisticamente. Lo si sente artisticamente nel momento in cui si lavori movendo dal rosso, dal blu e dalla luce, mettendo la luce in relazione col colore e con l’oscurità, come è il mondo sperimentato in sé, in modo che in effetti non si abbia altro che il colore, ed esso dica abbastanza perché la Vergine Maria risulti dal colore e dal chiaroscuro.

 

Poi si deve comunque saper vivere col colore; il colore deve essere qualcosa col quale si vive, qualcosa che si è emancipato dalla materia pesante perché essa in effetti contraddice il colore quando lo si voglia usare artisticamente. Contraddice di conseguenza tutta la pittura usare i colori della tavolozza. Essi mostrano sempre una certa pesantezza stendendoli sulla tela. Con i colori della tavolozza neppure si può vivere. Si può solo vivere con i colori liquidi. Nella vita che si sviluppa fra l’uomo e il colore, disponendo del colore liquido, nel rapporto particolare che si ha quando si porta il colore liquido sulla superficie, si sviluppa una vita del colore, si afferra davvero qualcosa che esce dal colore, facendo derivare il mondo dal colore. La pittura nasce quando si afferra qualcosa di vivente nell’apparenza del colore, nel manifestarsi e irraggiare della creazione sulla superficie. Nasce così da solo un mondo. Comprendendo così il colore, si comprende un ingrediente di tutto il mondo.

 

Kant disse una volta: «Datemi materia e ne creerò un mondo». Gli si sarebbe potuta dare tutta la natura, ed essere ben sicuri che non ne avrebbe fatto un mondo, perché dalla materia non è possibile creare il mondo. E piuttosto possibile creare il mondo col mezzo ondeggiante dei colori. È possibile perché ogni colore, direi, ha una diretta e personale parentela con qualcosa di spirituale del mondo. Con l’eccezione dei primitivi inizi fatti con l’impressionismo e soprattutto con l’espressionismo, che comunque sono inizi, oggi soprattutto i concetti di pittura e l’attività stessa della pittura sono andati più o meno perduti di fronte al generale materialismo del presente. Oggi infatti in genere non si dipinge, ma si imitano le figure in una specie di disegno e si colorano poi le superfici; ma sono superfici verniciate, non sono dipinte, non sono nate dal colore e dal chiaroscuro.

 

Tuttavia le cose non vanno fraintese. Se qualcuno impazzisce e semplicemente stende i colori uno a fianco dell’altro, credendo di aver realizzato quel che io ho inteso, di avere cioè superato il disegno, proprio non ha afferrato quel che io intendo. Col superamento del disegno io infatti non intendo non avere più disegno, ma ottenerlo dal colore, farlo nascere dal colore. Il colore rende poi il disegno, occorre però saper vivere nel colore. La vita nel colore porta poi il vero artista a poter prescindere del tutto dal resto del mondo e far nascere la sua opera artistica dal colore.

 

Si può ad esempio guardare all’Assunta del Tiziano (v. riproduzione a pag. 131). Abbiamo qui un’opera che, direi, consiste nell’essere passata oltre rispetto all’antico principio artistico. Non vi è più la vivente esperienza del colore che vi era ancora in Raffaello e soprattutto in Leonardo, esiste però ancora una specie di tradizione che non si stacca troppo dalla vita del colore. Sperimentiamo infatti l’Assunta del Tiziano. Guardandola si può dire che vi gridino il verde, il rosso e il blu. Vediamone anche i particolari. Nell’incontro dei singoli colori, direi, in Tiziano si ha ancora un senso di come egli vivesse nel colore e di come davvero in questo caso ricavasse dal colore tutti i tre mondi. Osserviamo soltanto il meraviglioso susseguirsi dei tre mondi: in basso gli Apostoli che sperimentano l’evento dell’assunzione in cielo di Maria, dipinti come creati dal colore. Si vede nel colore come essi siano legati alla terra; non si sente la pesantezza del colore, ma solo lo scuro dei colori in questa parte bassa del quadro di Tiziano, e nello scuro si sperimenta l’essere legati alla terra degli Apostoli.

 

In tutti i colori di Maria si sperimenta il regno di mezzo. Essa è ancora legata in basso con la terra. Avendo l’occasione di osservare il quadro si vede come lo scuro in basso si animi come colore nella sfumatura di Maria e come poi la luce abbia il sopravvento, come la parte superiore, il terzo regno, si direbbe in piena luce, riceva vorrei dire la testa di Maria che vi splende, sollevando la testa, mentre i piedi e le gambe sono ancora legati in basso con il colore. Osserviamo come il regno inferiore, quello intermedio e quello superiore celeste si graduino veramente nell’esperienza del colore attraverso l’accoglienza di Maria da parte di Dio Padre. Per comprendere questo quadro possiamo dire che in effetti si può dimenticare tutto il resto e guardare il tutto soltanto nei colori perché, movendo da essi, sono qui espressi i tre gradi del mondo, non con pensieri intellettuali, ma in modo del tutto artistico. Si può anche dire: è vero che per la pittura è necessario afferrare nel chiaroscuro e nel colore il mondo dell’apparenza raggiante, della manifestazione raggiante, per far rilevare ciò che è materiale, per sollevare l’arte dalla sfera terrena e materiale e non farla arrivare allo spirito. Se vi potesse arrivare non sarebbe infatti più apparenza, ma saggezza e quindi non più arte; la saggezza è invece già in alto, nel regno informe del divino.

 

Di conseguenza si vorrebbe dire: in un vero artista, come è Tiziano nell’Assunto, quando in alto Maria viene accolta, o per meglio dire quando la sua testa viene accolta dal Dio Padre, si sente che ora non si dovrebbe andare più oltre nel trattare la luce. Qui si è proprio all’estremo. Nel momento in cui si cominciasse ad andare oltre, si cadrebbe nell’intellettualismo, vale a dire nel non artistico. Direi che in qualche modo non si dovrebbe fare neppure più una pennellata che vada al di là di quel che è accennato nella luce e non nel disegno. Nel momento in cui ci si addentrasse infatti troppo nel disegno, saremmo nell’intellettualismo, non saremmo più nell’arte. In alto il quadro è tale che in effetti corre il pericolo di essere non artistico. I pittori dopo Tiziano sono incorsi in quel pericolo. Osserviamo fino a Tiziano gli Angeli. Quando si arriva alla regione celeste si giunge agli Angeli. Si vede allora come si eviti di uscire dal colore. Nel tempo prima di Tiziano, e in un certo senso anche in Tiziano, si può sempre dire degli Angeli: non potrebbero essere nuvole? Se in effetti non si riesce ad essere almeno incerti fra essere e apparenza, se si arriva nell’essere, nell’essere dello spirito, si cessa di essere artisti.

 

Quando si arriva al secolo diciassettesimo tutto cambia. Interviene allora il materialismo nella raffigurazione dello spirito. Si vedono così tutti coloro che, direi con una certa verve non artistica, ma per così dire con un certo mestiere negli scorci più diversi dipingono Angeli dei quali non ci si può chiedere se siano nuvole. Allora predomina la riflessione e l’elemento artistico non c’è più.

 

Se ora si guarda verso il basso agli Apostoli si ha in effetti il senso che solo Maria sia artistica in questo quadro. In alto comincia il pericolo che si passi alla sola saggezza, senza la forma. Se cioè si ottiene veramente di raggiungere la mancanza di forma, direi che a questo polo si ottiene la completezza artistica, perché è un’arte audace, perché ci si avventura sino all’abisso nel quale l’arte cessa, i colori scompaiono nella luce e in cui, per proseguire oltre, si dovrebbe cominciare a disegnare. Comunque disegnare non è dipingere. In breve in alto ci si avvicina alla piena saggezza. Si è comunque un grande artista quanto più si raggiunge la piena saggezza nella sfera dei sensi, quanto più si ha possibilità che gli Angeli che si dipingono, se voglio esprimermi concretamente, possano essere considerati come nuvole accumulate che riflettono la luce, o qualcosa del genere.

 

Se partiamo dalla parte più bassa del quadro attraverso la bellezza con Maria che ora davvero si libra nella sfera della saggezza, Tiziano è in grado di raffigurarla bella, perché ancora non vi è arrivata, ma appunto si libra, tende verso l’alto. Tutta l’immagine dà l’impressione che, elevandosi ancora un poco, Maria entrerebbe nella saggezza dove l’arte non ha più nulla da dire. Se ora ritorniamo verso il basso, arriviamo agli Apostoli dei quali ho già detto: attraverso la stesura dei colori l’artista cerca di rappresentare il legame terrestre degli Apostoli.

 

L’artista si espone però così a un altro pericolo. Se intendesse avere la sua Maria ancora più in basso, non la potrebbe rappresentare nella sua intima bellezza che si regge interiormente. Se Maria fosse in basso assieme agli Apostoli (ma non se ne vedrebbe la ragione), non potrebbe apparire come è al centro del quadro, fra il cielo e la terra. In basso vi sono infetti gli Apostoli con la loro colorazione marrone, e Maria non sarebbe adeguata. Non possiamo accontentarci infatti che in basso gli Apostoli abbiano in loro la pesantezza della terra. Deve intervenire dell’altro. Qui inizia anche con forza l’elemento del disegno. In questo quadro di Tiziano si può vedere come cominci a intervenire in modo deciso il disegno. Come mai?

 

Certo che nel marrone, che già esce un po’ dal colore, non si può presentare il bello come in Maria, ma solo qualcosa che non sia del tutto bello. Può diventarlo attraverso qualcos’altro che in effetti non è bello. Collocare Maria in basso, in basso fra gli Apostoli con gli stessi colori, sarebbe stato un oltraggio, un vero oltraggio. Parlo ora solo di questo quadro e non dico che in generale porre Maria sulla terra debba essere artisticamente un oltraggio; in questo quadro vedere Maria in basso sarebbe come un pugno in faccia per chi guardasse artisticamente. Perché? Se essa fosse in basso nella stessa colorazione degli Apostoli, si dovrebbe infatti dire che Maria è stata presentata dall’artista come piena di virtù. Così egli presenta gli Apostoli. Non possiamo avere altra idea se non che gli Apostoli guardano in alto con la loro virtù. Non possiamo però dire la stessa cosa di Maria. In lei la cosa è tanto ovvia che non dobbiamo ricordare la sua virtù. Sarebbe come se volessimo ricordare quella di Dio. Quando qualcosa è ovvio, quando è l’essere stesso, non può essere presentato nell’apparenza. Maria deve quindi librarsi, deve essere in una regione dove si è elevata al di sopra della virtù, dove, in quanto appare nel colore, non si possa dire di lei che è virtuosa, come non lo si può dire di Dio. Al massimo è Egli stesso la virtù. Questa è però già una frase astratta, è già filosofia, e nulla ha a che fare con l’arte. Per gli Apostoli in basso dobbiamo già dire che l’artista, con il colore, riesce a rappresentarli come persone virtuose. Essi sono virtuosi.

 

La triade di Goethe: saggezza, apparenza e potenza, fu da sempre onorata. Posso comprendere quando qualcuno, già molti anni fa, ebbe a dirmi che non poteva più ascoltare quando gli si parlava del vero, del bello e del buono, perché era diventata una frase fatta parlare sempre del vero, del bello e del buono. Si può comunque risalire a tempi più antichi nei quali queste cose venivano sperimentate con una grande partecipazione umana, con tutto l’interesse dell’anima. Inoltre, potrei dire, nel quadro di Tiziano, nell’espressione del bello, dell’elemento artistico, si vede in alto la saggezza, che però non è ancora solo saggezza, ma appare ancora in modo da essere artistica, da essere dipinta. Al centro vi è la bellezza e in basso la virtù, ciò che è virtuoso. In proposito occorre però chiedersi il vero significato, l’ultima essenza di che cosa è virtuoso. Attraverso lo spirito del linguaggio e ricercando queste cose si giunge alla profondità dell’anima umana. Procedendo in modo solo esteriore, può capitare come a quello storpio, che andando una volta in chiesa, ascoltò una predica nella quale il predicatore in un modo molto retorico aveva esposto ai fedeli come tutto nel mondo fosse bello e adeguato.

 

Lo storpio aspettò il predicatore alla porta della chiesa e gli chiese: «Lei ha detto che secondo la sua idea tutto è buono; sono anch’io cresciuto bene?» Il curato rispose che per essere uno storpio, era cresciuto davvero bene. Certo che considerando le cose in quel modo esteriore non si entra in profondità, e il modo odierno di vedere le cose in innumerevoli campi del nostro tempo è altrettanto superficiale. Oggi la gente si accontenta di caratteristiche e di definizioni del genere e non sa che con le sue idee sta girando a vuoto.

 

Con la virtù non si tratta di fare qualcosa di adeguato, ma di esserlo spiritualmente, di portare l’uomo al mondo spirituale. Nel giusto senso virtuoso, è uomo completo chi realizza in sé lo spirito, non solo chi lo manifesta, ma chi lo realizza con la volontà. Si arriva poi in una regione a portata dell’uomo che ha a che fare con la sfera religiosa che però non è in quella artistica e non in quella del bello. Tutto nel mondo è polare, e si può quindi dire del quadro di Tiziano: verso l’alto il pittore si espone senz’altro al pericolo di uscire dal bello in quanto va al di là di Maria. È di fronte all’abisso della saggezza. Verso il basso è di fronte a un altro abisso perché, presentando la virtù, cioè quel che l’uomo con la sua essenza intende realizzare movendo dallo spirito, si esce di nuovo dal bello, dalla sfera dell’arte. Se in effetti si cerca di dipingere l’uomo virtuoso, possiamo solo farlo caratterizzando in qualche modo la virtù nell’apparenza esteriore, ad esempio nel contrasto con il vizio. Comunque l’esposizione artistica della virtù non è più arte; nel nostro tempo è già un uscire dalla sfera dell’arte.

 

Certo che nel nostro tempo vi è dappertutto un uscire dall’arte, direi una rozza riproduzione naturalistica delle condizioni di vita, senza che esista un vero legame con lo spirito. Senza tale legame con lo spirito non vi è arte. Di conseguenza nel nostro tempo con l’impressionismo e con l’espressionismo abbiamo di nuovo la tendenza a ritornare allo spirito. Anche se per molti aspetti sono soltanto inizi maldestri, pure essi sono meglio di lavori non artistici presi da modelli in modo rozzamente naturalistico. Anche afferrando in questo modo il concetto artisticamente bello, si potrà ad esempio collocare la sfera tragica e la si potrà in genere afferrare nel suo inserirsi artistico nel mondo.

 

L’uomo che si regola secondo i suoi pensieri, che conduce la sua vita con l’intelletto, mai potrà essere tragico. Anche chi viva secondo virtù non potrà in realtà mai essere tragico. Potrà essere tale chi in qualche modo tende al demoniaco, vale a dire allo spirito. Comincia a diventare tragico chi in qualche modo avverte in sé l’aspetto demoniaco nel bene o nel male. Siamo però oggi nel tempo dell’uomo che tende alla libertà, in cui sarebbe un anacronismo l’uomo demoniaco. Il vero senso del quinto periodo della civiltà postatlantica è che l’uomo esca dalla sfera demoniaca per diventare libero. Diventando libero cessa tuttavia per lui la possibilità della tragedia.

 

Se si prendono le antiche figure tragiche, ancora la maggior parte delle figure tragiche di Shakespeare, abbiamo la demonicità interiore che porta alla tragedia. Quando l’uomo è l’espressione di qualcosa di demoniaco- spirituale, quando ciò da lui irradia o si manifesta, quando per così dire egli è il mezzo del demoniaco, è possibile l’elemento tragico. In questo senso esso dovrà più o meno cessare perché, divenuta libera, l’umanità dovrà sciogliersi dal demoniaco. Oggi ancora non lo fa e cade quindi appunto nel demoniaco.

 

Questo è proprio il grande compito, la grande missione del nostro tempo: uscire dal demoniaco e crescere nella libertà. Se però ci liberiamo dai demoni interiori che sono le figure che ci rendono personalità tragiche, molto meno ci libereremo dei demoni esteriori. Nel momento infatti in cui entriamo in contatto col mondo esterno, comincia per noi uomini moderni qualcosa di demoniaco. I nostri pensieri devono diventare sempre più liberi. Come ho esposto nella mia Filosofia della libertà, quando i pensieri diventano impulsi per la volontà, anch’essa diviene libera. Sono i due poli opposti che possono divenire liberi: pensieri liberi, volontà libera. Fra di essi vi è la rimanente parte umana che dipende dal karma. Come un tempo l’elemento demoniaco aveva portato alla tragedia, così nell’uomo moderno l’esperienza del karma potrà portare a una profondissima tragedia interiore. La tragedia potrà però fiorire soltanto quando gli uomini sperimenteranno il karma. Fino a quando rimaniamo nei nostri pensieri possiamo essere liberi. Se però rivestiamo i nostri pensieri di parole, esse non ci appartengono più. Che cosa può diventare una parola che ho pronunciato! Viene accolta da qualcun altro, ed egli la circonda di altre emozioni, di altre sensazioni. La parola continua a vivere, vola fra gli uomini, diviene una forza potente, scaturita però da un essere umano. E il suo karma, attraverso il quale è legato al mondo, può poi scaricarsi di nuovo su di lui e divenire tragedia grazie alla parola che ha la sua esistenza, perché non gli appartiene, perché è del genio del linguaggio. Direi che proprio oggi vediamo l’umanità avere dappertutto la disposizione a situazioni tragiche per la sopravvalutazione del linguaggio, per la sopravvalutazione della parola. I popoli si distinguono per il linguaggio, vogliono distinguersi per il linguaggio. Questa è la base di una gigantesca tragedia che ancora in questo secolo si avrà sulla terra, è la tragedia del karma. Se possiamo parlare della tragicità passata come di una tragedia della demonologia, dobbiamo parlare della tragedia del futuro, come di una tragedia del karma.

 

L’arte è eterna, e le sue forme si modificano; va compreso che dappertutto vi è una relazione fra l’arte e lo spirito, che l’arte è dunque qualcosa mediante la quale ci si pone davanti al mondo dello spirito, sia che la si crei, sia che se ne goda. Chi è vero artista può creare il suo quadro anche nella solitudine del deserto. Per lui è indifferente se lo guarda qui un uomo o se qualcuno lo guarda in generale, perché ha operato in un’altra comunità, in quella divino-spirituale. Dèi hanno guardato sopra le sue spalle, ha creato in comunione con gli dèi. Poco importa al vero artista se qualcuno ammiri il suo quadro oppure no. Di conseguenza si può essere artista in completa solitudine. D’altra parte non si può essere artista se non si pone la propria creazione nel mondo che comunque va considerato nella sua spiritualità, perché la propria creazione vive in esso. L’opera deve vivere nella spiritualità del mondo, in essa va posta. Se si dimentica questa relazione spirituale, anche l’arte si trasforma più o meno in una non-arte. In effetti è solo possibile lavorare artisticamente se l’opera artistica è in un contesto universale. Ne erano coscienti gli antichi artisti che ad esempio dipingevano per le pareti delle chiese quadri che erano le guide per i fedeli; lo sapevano gli artisti, tutto ciò era inserito nella vita terrena, in quanto compenetrata di spirito.

 

Invece in questo senso nulla di peggio si può pensare se non lavorare per una mostra. In sostanza è quanto di peggio vi sia ad esempio visitare una mostra di quadri o di sculture nella quale siano esposte opere le une accanto alle altre, senza connessione tra loro, senza che vi sia un significato per il loro essere vicine. Direi che si perde il giusto significato della pittura nel passaggio dal dipingere per una chiesa al quadro per una casa. Quando si dipinge qualcosa messo in una cornice si può almeno immaginare di guardare attraverso una finestra, in cui quel che si vede è fuori, non è più presente. Ma non si può neppure parlare di quando si dipinge per una mostra. In ogni caso un’epoca che vede qualcosa nelle mostre, che vi vede qualcosa di possibile, ha appunto perduto ogni connessione con l’arte. In tutto quanto deve accadere nella cultura spirituale si vede che occorre ritrovare la via per un’arte spirituale. Comunque la mostra è senz’altro da superare. In singoli artisti vi è un ribrezzo per le mostre, ma oggi viviamo in un tempo in cui il singolo non può fare molto se il suo giudizio non si immerge in una concezione del mondo, che di nuovo compenetri l’uomo nella sua libertà, nella sua piena libertà, come una volta in tempi meno liberi era compenetrato da concezioni che portavano a far nascere vere civiltà, mentre oggi non abbiamo vere civiltà.

 

Per la costruzione di una vera civiltà e anche per quella di una vera arte si deve però lavorare a una concezione spirituale del mondo per la quale è necessario il massimo interesse.