Antroposofia e arte

O.O. 276 – La missione universale dell’arte – 18.05.1923


 

Sommario: Antroposofia e arte. Religione, arte e scienza attraverso i misteri antichi. I culti dei misteri e la scienza. Visione vivente e non morti pensieri. Goethe e l’arte. Come le arti derivano dalla natura umana. Architettura, arte dell’abbigliamento, scultura, pittura, musica, poesia, recitazione e declamazione. Euritmia, mimica e danza. Il Goetheanum.

 

Nella concezione antroposofìca del mondo bisogna sempre di nuovo osservare come per suo mezzo sorga la consapevolezza della fonte unica di arte, religione e scienza. Nella concezione antroposofìca viene spesso ripetuto che, in epoche più antiche dell’evoluzione dell’umanità, non esistevano affatto una religione, un’arte e una scienza a sé stanti, ma una unità, coltivata nei misteri. I misteri riunivano in sé ciò che oggi si chiama scuola, chiesa e istituzioni artistiche, perché tutto ciò che nei misteri si offriva non era soltanto detto unilateralmente con la parola. La parola che si accoglieva, quando l’iniziato la pronunciava come parola di conoscenza, che veniva quindi accolta come una rivelazione dello spirito stesso, era affiancata da azioni di culto che rivelavano ad ascoltatori e spettatori, in figure possenti, ciò che si annunciava per mezzo di essa.

 

Così, accanto alla conoscenza terrena che si annunciava, stava lo sviluppo delle azioni religiose del culto che rispecchiavano in immagini, davanti agli occhi di spettatori e uditori, quanto dei fatti del mondo soprasensibile si intuiva e forse anche si vedeva. Religione e conoscenza erano come un tutto unico. Ma in questa presentazione del soprasensibile era inserito anche il bello, l’elemento artistico, così che l’azione del culto e l’immagine del culto erano nello stesso tempo espressione e rivelazione d’arte. Nei misteri si sperimentava il bello artistico. Si era stimolati nella volontà per mezzo degli impulsi religiosi che venivano dati nelle azioni del culto e si era interiormente illuminati dalla parola che accompagnava la bella e artistica cerimonia del culto. Si veniva illuminati interiormente anche per la propria conoscenza.

La consapevolezza di questa unità fraterna di religione, scienza e arte deve sempre esistere in ogni considerazione e in ogni vera indagine antroposofìca, non in forma artificiosa, ma in modo del tutto spontaneo.

 

Quando, nel senso dell’odierna scienza intellettuale e materialistica, cerchiamo di afferrare il mondo conoscitivo mediante pensieri, alla fine ci troviamo con una somma di pensieri che rappresentano appunto in quella forma i fenomeni e gli esseri della natura. Si esprimono in pensieri le leggi della natura. Appunto durante l’ultima epoca più esplicitamente intellettualistica e materialistica, in quelli che si dedicavano alla conoscenza, fu caratteristico arrivare più o meno ad estraniarsi interiormente dal sentire artistico. Se ci si abbandona alla scienza oggi in uso, ci si abbandona davvero a pensieri morti, e si cercano pensieri morti anche nelle manifestazioni naturali. Tutta la storia naturale che enunciamo e che riteniamo essere oggi l’orgoglio della nostra scienza, è fatta di pensieri morti, quasi cadaveri di ciò che era la nostra anima prima di scendere dall’esistenza sopraterrena in quella sensibile.

 

Guardando il cadavere di un uomo sentiamo che la sua forma non può essere il risultato soltanto di pure leggi naturali, ma che è la conseguenza di quel che l’uomo era stato prima di deporre il cadavere una volta morto. Chi possiede una conoscenza vera sa che in lui i pensieri sono i cadaveri della vivente entità animica nella quale egli viveva prima di discendere sulla terra. I nostri pensieri terreni sono i cadaveri della nostra vita pre-terrestre. Ne deriva la loro astrattezza, appunto il loro essere cadaveri. Durante gli ultimi secoli si amarono sempre più i pensieri astratti, ed essi si sono annidati in tutta la vita pratica; gli uomini divennero sempre più somiglianti ai loro pensieri astratti. In modo particolare gli eruditi, che avevano avuto una formazione scientifica, giunsero a somigliare in tutta la loro vita animica, proprio nella loro vita animica superiore, ai loro pensieri astratti. Ma ciò allontana dall’arte. Quanto più ci diamo a pensieri astratti, tanto più ci allontaniamo dall’arte, perché essa vuole la vita, mentre i pensieri sono morti.

 

Tutto il contrario avviene per l’anima quando essa si immerge realmente nella conoscenza che è propria dell’antroposofia. Mentre nella conoscenza intellettuale e astratta dopo un certo tempo si presenta la necessità di riconoscere soltanto il nesso logico e di spiegare tutto in quel modo, persino l’arte, nella conoscenza antroposofica si afferma l’aspirazione all’arte. La conoscenza antroposofica, se è vera, a un certo punto conduce infatti a dire: per afferrare l’intera realtà vivente non bastano i pensieri, ma occorre qualcos’altro. Poiché nella conoscenza antroposofica tutta la vita dell’anima rimane vivente e non viene uccisa dai pensieri morti, nell’antroposofia si aspira appunto a sentire e sperimentare il mondo artisticamente. Quando si vive nei pensieri astratti l’arte diventa una specie di lusso che gli uomini creano, dalle loro illusioni e dai loro sogni, come un’aggiunta alla vita. Quando si attua la conoscenza antroposofica, a un certo punto si arriva a concludere: i pensieri non sono affatto le immagini di una vivente realtà, ma sono come dei gesti. Con i pensieri si addita soltanto la realtà vivente. I pensieri sono gesti morti. A un certo punto si sente che ora occorre incominciare a dare una forma artistica, altrimenti non si afferra affatto la realtà. A un certo punto della sua vita conoscitiva l’antroposofo sente dunque di dover passare all’arte. Sorge allora in lui la concezione che con le idee non è possibile rendere il pieno contenuto del mondo, ma che occorre aggiungere l’elemento artistico alla conoscenza dell’universo.

 

L’antroposofia prepara ed educa l’anima al sentimento artistico e anche alla creazione, al lavoro artistico. I pensieri astratti uccidono la fantasia artistica. Più si diventa logici più si uccide la fantasia artistica e si fanno poi commenti sulle opere d’arte. La cosa più orrenda sorta nell’epoca materialistica è che gli eruditi hanno scritto commenti e spiegazioni erudite sulle opere artistiche. I commenti al Faust, all’Amleto, o le descrizioni dotte sull’arte di Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo sono proprio le bare, le casse da morto del vero sentimento artistico. Così viene uccisa quella che è arte viva. Studiando un commento al Faust si ha proprio il senso di avere in mano il cadavere del Faust, o nel commento all’Amleto il cadavere dell’Amleto, perché i pensieri astratti uccidono l’opera d’atte.

Per mezzo della conoscenza antroposofica si cerca di avvicinarsi con spirito vivente all’opera d’arte. L’ho fatto per la fiaba di Goethe: Il serpente verde e la bella Lilia. Quel mio scritto non è un commento, ma un elemento vivo che deve condurci verso il direttamente vivo. In un’epoca non artistica sono nate molte estetiche e dotte considerazioni sull’arte. Ma le estetiche sono in effetti qualcosa di non artistico. Siamo ben consapevoli che udendoci parlare così, gli eruditi potrebbero obiettare che l’afferrare artisticamente il mondo ci allontana dalla realtà, che non è scientifico afferrare l’universo con l’arte. Da parte dei veri scienziati si proclama che bisogna soffocare la fantasia, escludere l’immaginazione, se si vuole comprendere la realtà, e che bisogna limitarsi alla sola logica. Certo lo si può affermare, lo si può esigere, ma pensiamo un po’: se la realtà, se la natura stessa è un’artista, perché esigere dall’uomo che egli comprenda tutto solo con la logica? Non è possibile conquistare la natura con la sola logica, se la natura stessa è un’artista, e la natura lo è. Lo si scopre con la conoscenza antroposofica, giunti a un dato punto di essa. Occorre cessare di vivere in idee e cominciare a pensare in immagini per poter capire la natura e in modo speciale il suo apice: l’uomo fisico nelle sue forme. Nessuna anatomia, nessuna fisiologia può comprendere l’uomo fisico nelle sue forme. Lo può soltanto la conoscenza vivente, resa alata dal sentimento artistico.

Fu dunque del tutto naturale che la conoscenza trapassasse nella creazione artistica, quando per esempio sorse l’idea di costruire il Goetheanum. Fu necessario che quanto di solito l’antroposofia esponeva in idee venisse ora creato in forme artistiche. Era la medesima cosa manifestata in altro modo. La vera arte si sviluppò sempre in questo modo nel mondo, e Goethe, che davvero sentiva artisticamente, pronunciò infatti il bel detto: «L’arte è una manifestazione di occulte leggi naturali che, senza di essa, non si sarebbero mai palesate». Egli sentì quello che l’antroposofia deve sentire.

 

Quando si sia lavorato fino a poter afferrare la conoscenza del mondo, subentra in noi la viva necessità di non formulare più idee, ma di creare artisticamente sia in scultura, sia in pittura, sia in musica, sia in poesia. Mi si scuserà se dico qualcosa di amaro, ma a volte si fanno grossi guai. Si cerca ad esempio, come io stesso feci nei miei quattro misteri drammatici*, di rendere in forma drammatica qualcosa in merito all’essenza dell’uomo che non si riesce ad esprimere in idee. Gente di buona volontà ma di scarsa comprensione spiegò poi in idee le forme drammatiche e scrisse su di esse una specie di commento. È orribile che questo avvenga, ma avviene lo stesso perché, persino nel movimento antroposofico, spesso si porta un elemento che uccide, e cioè il pensiero astratto. In realtà il movimento antroposofico dovrebbe contenere la vivificazione continua del pensiero astratto. Quel che così non si può più sperimentare in pensieri, si è portati a goderlo per mezzo di figure viventi, come quelle che appaiono nelle scene dei drammi: le abbiamo davanti, le osserviamo e le lasciamo agire su di noi, senza spiegarle in astratto.

 

Da un certo punto in poi la vera antroposofia conduce all’arte vera, perché la vera antroposofia non agisce uccidendo i pensieri, ma agisce con l’ispirazione e fa scaturire la fonte artistica nell’anima umana. Allora non si è più tentati di dare forma simbolica o allegorica alle idee, ma di far fluire tutte le idee verso un determinato punto, seguendo solo la forma artistica.

 

Così l’architettura del Goetheanum è sorta, se posso dirlo con parole crude, del tutto senza idee, soltanto perché le forme furono sentite, ma sentite partendo dallo spirito; anche il Goetheanum andava guardato e non spiegato. Quando ebbi l’occasione di far da guida a degli ospiti venuti a vederlo, per lo più cominciavo il mio discorso col dire: «Voi siete naturalmente qui perché io vi spieghi il Goetheanum, ma in verità questo è per me qualcosa di molto sgradevole, perché il Goetheanum esiste per essere guardato e non per essere spiegato». Dicevo sempre che quel che avevamo davanti doveva vivere in immagini e non in pensieri astratti, portatori di morte. Siccome però era necessario spiegare, mi studiavo di dare spiegazioni in modo che esse non fossero astratte; mi studiavo che al fatto di guidare, vorrei dire, venisse in soccorso il sentimento attraverso forme, immagini e colori.

 

Non si può essere spirituali solo nelle parole, ma anche nelle forme, nei colori, nei suoni e così via. Soltanto così viene sperimentato il vero elemento artistico, perché l’arte è sempre l’apparire del mondo soprasensibile nel nostro sensibile. Possiamo rendercene conto in tutte le arti, quando esse si presentano nella forma in cui sono genuinamente scaturite dalla natura umana.

 

Consideriamo per prima l’arte che oggi serve in prevalenza a scopi utilitari esteriori, cioè l’architettura. Per comprenderla veramente col sentimento nelle sue forme, occorre sentire l’uomo stesso artisticamente nella sua forma. Se così lo sperimentiamo, sorge la sensazione che l’uomo abbia proprio abbandonato i mondi ai quali appartiene. Se guardo un orso con la sua pelliccia ho la sensazione che l’universo lo abbia ben corredato del suo rivestimento di pelliccia col quale forma un tutto. Se osservo artisticamente l’uomo mi manca in lui qualcosa, guardandolo soltanto con i sensi. Egli non ha ricevuto dall’universo ciò che l’orso o il cane possiedono nelle loro pellicce o mantelli. Per i sensi fisici se ne sta nudo in mezzo all’universo. Per la sensazione artistica nasce così il bisogno di avere attorno a lui qualcosa di spirituale, in immagine, che lo circondi al posto di qualcosa di fisico.

 

Oggi questa sensazione solo artistica non è evidente, è piuttosto coperta e nascosta nell’architettura. Ma osserviamo un punto di partenza in cui l’architettura ha raggiunto il culmine, proprio per aver creato ripari per i trapassati, per i morti. Guardiamo come i monumenti funebri, le abitazioni funerarie che venivano erette sopra i sepolcri siano un punto significativo di partenza per l’arte architettonica. Quando l’uomo per così dire abbandona la sua prigione terrestre e l’anima abbandona il corpo fisico, l’anima è nuda; essa, per l’originale chiaroveggenza primordiale, non vuole essere proiettata nello spazio universale senza essere avvolta da forme in cui vuole sentirsi accolta. Si diceva: non è ammissibile lasciar andare l’anima nelle correnti caotiche dell’aria e delle intemperie; l’anima ne verrebbe straziata. Quando ha abbandonato il corpo l’anima vuole espandersi nell’universo attraverso ordinate forme spaziali. La si riveste allora con l’architettura della tomba, perché si orienti. Mentre non si può orientare nelle bufere atmosferiche che si scagliano su di lei, né nel soffiare dei venti che le vengono incontro, essa si ritrova nelle forme artistiche con le quali l’architetto ha creato il monumento funebre sopra la tomba. Si formano così le vie per l’anima verso le immensità degli spazi: è il guscio tratto dal soprasensibile per l’anima, la veste che le è offerta poiché l’uomo non riceve, come gli animali e le piante, un guscio o un involucro tratti dagli elementi naturali sensibili.

 

L’architettura esprime quindi in origine il modo in cui l’uomo vuole essere accolto dalle ampiezze cosmiche. Anche quando ci si trova in una casa, la sensazione artistica dovrebbe essere simile. Si guardano le superfici, si osservano le linee. Perché ci sono? Per avvertirci che, nella direzione di quelle linee, l’anima vuole guardar fuori nelle immensità degli spazi. Così l’anima vuole anche essere protetta dalla luce che le si avventa contro. Osservando il rapporto dell’anima col cosmo, con lo spazio universale che l’attornia, impariamo a riconoscere come esso accolga in modo giusto l’anima umana; se ne desume così la forma artistica dell’architettura.

 

All’architettura si contrappone poi un’altra forma artistica. Quando l’uomo esce dal mondo fisico, abbandona il proprio corpo. Come anima si espande nelle forme dello spazio. Tutta l’architettura vuole manifestare il rapporto dell’uomo con lo spazio universale visibile, con il cosmo visibile. Quando attraversò la nascita il bambino entra nell’esistenza fisica egli ha un subconscio ricordo della sua esistenza prenatale. Si immerge allora con la sua anima nel corpo fisico; di quell’immergersi proprio nulla rimane nella coscienza dell’uomo di oggi. Ma nel subconscio, nel profondo sentire dell’anima, specialmente dove esso diventa ingenuo sentimento artistico, immergendosi nel corpo l’anima sa di essere stata ben diversa prima di entrare nel corpo. Non vuole però essere come è quando si trova nel corpo, ma vuole essere come era prima di entrarvi.

 

Si scopre questo sentimento in modo singolare nei primitivi. Essi sentono artisticamente come vorrebbero essere nel corpo, e in conseguenza cominciano prima a ornarsi, poi a vestirsi. I colori dell’abbigliamento esistono perché l’uomo vuole far trasparire la parte animica nella corporeità. La corporeità nella quale è disceso non gli basta; vuole inserirsi nei colori del mondo come sente animicamente se stesso. Chi osserva con senso artistico le vesti multicolori dei primitivi vede come l’anima operi entro lo spazio, così come vede nelle forme archi- tettoniche il suo inserirsi nello spazio cosmico. Quando vuole dilatarsi nelle vastità cosmiche segue le forme architettoniche. Quando vuole evolversi nello spazio fisico, partendo dal suo più profondo centro interiore, sviluppa le arti dell’abbigliamento.

 

Esse passano poi nell’altra vita artistica. Nei tempi in cui si sentiva molto più l’arte che non oggi, per esempio nel Rinascimento italiano, possiamo osservare che la Maddalena era sempre rappresentata con una determinata veste del tutto differente da quella di Maria. Si confronti il giallo che spessissimo appare nelle vesti delle Maddalene con le vesti azzurre e rosse che si vedono nelle Marie; dal modo in cui il pittore, quando vive ancora appieno nell’elemento artistico, crea persino l’abbigliamento secondo l’impulso della sua anima, si potranno dedurre tutte le differenze animiche.

 

Noi, che nei nostri vestiti preferiamo il grigio sul grigio, non facciamo che presentare nel mondo l’immagine divenuta morta della nostra anima. Ci vestiamo in modo astratto; nella nostra epoca non ci basta pensare astrattamente. Detto tra parentesi, quando non ci vestiamo secondo tale astrazione mostriamo più che mai, nella combinazione dei colori, quanto poco ci resti del pensare vivente che attraversiamo prima di scendere sulla terra. Se oggi non ci vestiamo astrattamente, cominciamo a vestirci senza gusto. Dobbiamo pure renderci conto che appunto l’elemento artistico esige un miglioramento di tutta la nostra civiltà, e che l’uomo deve di nuovo essere inserito nel mondo in vivente modo artistico. Tutto l’essere e tutta la vita dell’universo vanno allora visti di nuovo artisticamente. Per farlo non si deve soltanto andare negli istituti scientifici usando il noto apparecchio per provare l’angolo facciale e così misurare il più astrattamente possibile il carattere di una data razza, ma occorre un approfondimento qualitativo dell’essere umano per riconoscerne le forme attraverso il nostro sentire.

 

Allora, già osservando la curva della fronte e del capo, riconosceremo non solo in un confronto allegorico, ma secondo un’intima realtà l’immagine della volta del cielo che si incurva sopra di noi; anche se non lo fa materialmente, si incurva però dinamicamente secondo determinate forze. La fronte e il sommo del capo sono la riproduzione dell’intero universo. La riproduzione poi di quel che facciamo girando attorno al sole, percorrendo col nostro pianeta un’orbita attorno al sole, questo nostro partecipare a un movimento cosmico, si sente artisticamente nella struttura del naso e degli occhi. Si pensi: la quiete celeste delle stelle fisse nella curva riposante della fronte e del sommo della testa, il movimento dell’orbita cosmica nel mobile sguardo dell’occhio e in tutto quanto mediante il naso e l’olfatto viene interiormente sperimentato. Se artisticamente sappiamo studiare in modo giusto la bocca e il mento, abbiamo una riproduzione di che cosa conduce alla più profonda interiorità umana: la bocca e il mento sono l’uomo stesso con l’anima che vive nel suo corpo. L’intero universo è artisticamente presente: nella fronte e nella curvatura della testa il maestoso curvarsi dell’universo, nell’occhio, nel naso e nel labbro superiore, il movimento attraverso io spazio cosmico, nella bocca e nel mento il riposo dell’uomo in se stesso.

 

Tutto questo, ora non più visto in pensieri astratti, ma guardato in immagini, non vuole certo restare solo nella testa. Se di fronte al capo si sperimenta quanto ora ho descritto, si comincia a sentire: se prima si credeva di essere passabilmente intelligenti, di avere belle idee, ora la testa è d’un tratto vuota, e nulla si riesce più a immaginare. Si sente soltanto in modo del tutto giusto: fronte, curvatura del capo, occhi, naso, labbro superiore, bocca, labbro inferiore… ma non si riesce più a pensare. I pensieri ci abbandonano e comincia a muoversi qualcosa nel resto del corpo. Soprattutto le braccia e le dita cominciano a diventare strumenti di pensiero; solo che ora i pensieri vivono in forme, e si diventa plasmatori, si diventa scultori.

 

Per diventare scultori occorre dunque soltanto che la testa smetta di pensare. È orribile se da scultori pensiamo con la testa, è un controsenso, è del tutto impossibile. La testa deve riposare, essere vuota, mentre braccia e mani devono cominciare a sapere ben foggiare immagini e forme per rappresentare il mondo. Soprattutto se dalle nostre dita deve uscire la forma della figura umana. Si comincia allora a sentire perché i Greci, che avevano tanto senso per l’arte, formassero in modo tanto singolare la parte superiore della testa di Athena, imponendole persino un elmo sopra la testa stessa: sentivano l’azione formatrice dello spazio in stato di riposo, dello spazio universale. I Greci lo esprimevano ancora in quel copricapo. Osservando appunto le singolari forme del naso, come queste continuassero in quelle della fronte, nei profili greci, si sente che il Greco percepiva lo slancio, il movimento che si esprime nella struttura del naso e in questo era raggiunto l’armonioso accordo col moto universale.

 

È meraviglioso percepire nella rappresentazione di una testa greca come il Greco fosse diventato scultore! Il sentire spirituale, la visione spirituale dell’universo, e non il pensare con la testa, conducono all’arte, a ciò stimolati dalla concezione antroposofica, perché in essa a un dato punto si arriva a dirsi: vi è qualcosa nel mondo a cui non ci possono condurre i pensieri e ora occorre cominciare a essere artisti per arrivarvi. Allora il dottrinarismo intellettuale e materialistico ci si presenta come qualcuno che gira intorno alle cose da fuori, descrivendole solo secondo logica, perché appunto gira solo attorno alle cose. La conoscenza antroposofica esige invece sempre un immergersi nelle cose stesse, un ricostruire quel che fu creato dal cosmo in una vivente forza di creazione.

 

Così comprendiamo a poco a poco che in quanto antroposofi abbiamo una giusta comprensione del corpo fisico, che esce dalle forme spaziali cosmiche, diventando cadavere, e che acquisiamo una comprensione del modo in cui l’anima, abbandonato il corpo fisico, desidera essere accolta dalle forme spaziali: diventiamo così architetti. Se comprendiamo che cosa vuole l’anima quando tende a inserirsi nello spazio con i ricordi inconsci dell’esistenza preterrestre, diventeremo artisti dell’abbigliamento, che è l’altro polo dell’architettura, e mi si scusi se ho usato questa espressione non usuale nel nostro tempo, perché in queste cose ci si è in genere allontanati con la coscienza dall’esistenza preterrestre, perdendone gli impulsi cui ho prima accennato.

 

Si diventa scultori se davvero ci inseriamo con vivezza nella forma umana, e nel modo in cui essa è stata plasmata dall’universo. Imparando a conoscere da tutti lati il corpo fisico, in quanto artisti si diventa architetti. Se però si impara a conoscere il corpo eterico, o corpo delle forze formatrici, nella sua vitalità e nel suo operare e si scopre come esso incurvi la fronte, formi il naso e faccia retrocedere la bocca (perché queste sono tutte forze formatrici) in quanto artisti grazie a ciò si diventa scultori. Lo scultore non fa altro che imitare la forma del corpo eterico.

 

Se poi si osserva l’animico in tutto il suo tessere la vita, il multiforme mondo del colore diventa per noi un intero universo; si arriva a poco a poco a quello che vorrei chiamare un percepire astrale dell’universo. Quel che si manifesta nel colore diventa rivelazione dell’elemento animico nel mondo. Guardiamo la pianta nel suo verdeggiare. Quando essa verdeggia non possiamo vederne il verde solo come qualcosa di soggettivo e pensare che sia il frutto di vibrazioni, come crede il fisico. Non abbiamo più la pianta se pensiamo che sugli alberi vi siano le vibrazioni che dovrebbero produrne il colore. Sono astrazioni. Se pensiamo in modo vivente, in realtà non possiamo vedere la pianta in modo vivo senza il suo verde. La pianta esprime da sé il verde. Ma come? Nella pianta sono inserite le morte sostanze terrestri, ma esse sono tutte permeate di vita. Nella pianta vi è ferro, carbonio, acido silicico e ogni possibile sostanza terrestre che troviamo anche nel mondo minerale. Nella pianta però tutto è permeato di vita. Mentre guardiamo come la vita si faccia strada attraverso le sostanze morte, come attraverso l’elemento morto si crei un’immagine, e precisamente l’immagine della pianta, sentiamo il verde quale morta immagine della vita. Dappertutto vediamo il verde attorno a noi. Sappiamo che nelle piante vivono le sostanze della terra, le sostanze morte della terra. Non percepiamo la vita per se stessa. Percepiamo le piante perché contengono le sostanze morte. Per questo esse sono verdi. Il verde è l’immagine morta della vita che domina sulla terra. Guardiamo così il verde avendo in esso una specie di parola cosmica che ci dice come la vita operi e tessa nella pianta.

 

Osserviamo ora l’uomo. Se guardiamo nella natura troviamo quel che più assomiglia al sano incarnato umano nel fresco fiore di pesco a primavera. Non vi è in natura altro colore che più somigli all’incarnato. Sentiamo che nell’incarnato, simile al fior di pesco, si esprime anche l’intima salute umana. Nell’incarnato impariamo a cogliere la salute vivente dell’uomo, giustamente retta dall’anima, e sentiamo che se esso tende al verde il soggetto è malaticcio, perché l’anima non trova il giusto rapporto col corpo fisico. Se invece l’anima dà troppa importanza al corpo fisico, ad esempio nell’avaro, si diventa pallidi. Oppure anche nella paura l’anima occupa troppo il corpo fisico e allora si impallidisce, si diventa biancastri. Fra il biancastro e il verdastro sta il sano colore dell’incarnato col leggero aleggiare del fior di pesco. Sentiamo quindi il verde della pianta quale immagine morta della vita, e nell’incarnato, nel caratteristico e sano fior di pesco dell’uomo la vivente immagine dell’anima. Il mondo prende dunque vita nei colori. Nella sfera del vivente si realizza nel verde l’immagine di ciò che è morto. Nell’incarnato l’elemento animico forma l’epidermide umana a immagine del fior di pesco.

 

E ancora vediamo il sole biancastro e lo sentiamo molto affine alla luce. Se di notte ci svegliamo nella tenebra nera sentiamo che quello non è l’ambiente a noi adeguato in cui poter sentire appieno il nostro io. Abbiamo bisogno di luce fra noi e gli oggetti per poter sentire il nostro io. In un certo senso abbiamo bisogno di luce fra noi e la parete, perché essa a distanza possa agire su di noi. Qui si accende il nostro senso dell’io.

 

Quando ci svegliamo nella luce, cioè in qualcosa di affine al bianco, percepiamo il nostro io. Se ci destiamo nell’oscurità, cioè in qualcosa di affine al nero, ci sentiamo estranei al mondo. Dico luce, ma potrei anche prendere altre sensazioni. Si troverà un’apparente contraddizione, perché il cieco nato non vede mai la luce, ma quel che conta non è vedere la luce in modo diretto, ma come si è organizzati. Anche se nato cieco l’uomo è organizzato per la luce, e gli ostacoli all’energia dell’io, esistenti nei ciechi, esistono proprio per l’assenza della luce. Il bianco è affine alla luce. Se sentiamo il bianco, vale a dire ciò che in questo modo è affine alla luce, sentendo anche come l’io nello spazio si accenda nel bianco alla sua intima forza, possiamo dire, con un pensiero vivente e non astratto: il bianco è l’immagine animica dello spirito. Di conseguenza, ovunque il bianco ci appare in una pittura sentiamo che lì è inteso lo spirito.

 

Prendiamo invece il nero. Quando si vede il nero, quando si applica in qualche posto il nero, si è con facilità condotti all’immagine spirituale di ciò che è morto; così noi stessi ci sentiamo uccisi, paralizzati, quando destandoci siamo costretti a porre il nostro spirito nella tenebra nera. Così il nero si può sentire quale immagine spirituale di ciò che è morto.

 

Pensiamo a come si possa vivere nel colore! Si sperimenta il mondo come colore e luce: il verde come morta immagine della vita, il fior di pesco e l’incarnato umano come vivente immagine dell’anima, il bianco come immagine animica dello spirito e il nero come immagine spirituale di ciò che è morto. Sono in realtà entrato in un cerchio dopo aver detto: verde, immagine morta del vivente, e sono rimasto al vivente; fior di pesco e incarnato, vivente immagine dell’anima, e sono rimasto all’anima per salire allo spirito; bianco, animica immagine dello spirito, nero, immagine spirituale di ciò che è morto; siamo cioè tornati al verde che è la morta immagine della vita, ritornando anche alla morte. Ho chiuso il cerchio. Se disegnassi tutto ciò in uno schema*, si vedrebbe che il lavorio vivente nei colori (e nella prossima conferenza parleremo anche del blu) diventa una reale esperienza artistica della sfera astrale nel mondo.

 

Quando si fa questa esperienza artistica ci stanno di fronte: morte, vita, anima e spirito, come in una ruota della vita, perché partendo dal morto si torna al morto; passando attraverso la vita dell’anima e dello spirito, ci si presentano morte, vita, anima e spirito attraverso luce e colore, come li ho descritti, e si sa allora di non poter rimanere nello spazio, di doverne uscire, e dallo spazio arrivare alla superficie. Nella superficie bisogna sciogliere l’enigma dello spazio, si perde la rappresentazione dello spazio. Come da scultori si è perduto il pensare della testa, si perde ora la rappresentazione dello spazio. Tutto ci spinge verso la luce e il colore, e si diventa pittori. Un tale modo di vedere ci apre da sé la sorgente della pittura e si prova la grande, intima gioia di stendere questo o quel colore, di mettergliene accanto un altro, perché i colori diventano allora la rivelazione vivente di ciò che è vivo, morto, spirituale e animico. Superando il pensiero morto, si raggiunge così realmente il punto in cui ci si sente spinti in modo diretto non più a parlare in parole, non più a pensare in idee, neppure più a plasmare in forme, ma a riprodurre nel colore e nella luce vita, morte, spirito e anima, quali sono e vivono nel mondo.

 

Grazie alla conoscenza antroposofica viene così interiormente stimolata la creazione artistica, poiché essa ci restituisce alla vita e non ce la toglie, come fa la conoscenza astratta, sia idealistica sia empirica. Si sente però come con tutto ciò si sia ancora rimasti del tutto all’esterno dell’uomo. Si è arrivati alla sua superficie, al suo sano colorito, al colore fior di pesco, o al pallore, se egli comprime troppo lo spirito nel corpo fisico, o al verdastro, se invece non riesce a colmare il corpo fisico con la propria anima e quindi si ammala; ma siamo sempre rimasti alla superficie dell’uomo.

 

Se invece penetriamo nella sua interiorità, arriviamo a quel che in lui interiormente si contrappone alla forma esterna del mondo e arriviamo al meraviglioso accordo tra il ritmo del respiro e quello del sangue. Il ritmo del respiro si trasmette al movimento dei nervi. La fisiologia sa ben poco del fatto che il ritmo del respiro (di norma sono diciotto respiri al minuto) si trasmette al sistema nervoso. Esso è contenuto in modo sottile, animico e spirituale nel sistema nervoso. Il ritmo del sangue deriva dal sistema del ricambio. Nell’adulto normale esso è quattro volte più frequente del ritmo del respiro: quattro battiti del polso corrispondono a un respiro, e si hanno quindi settantadue battiti del polso al minuto. Quel che vive nel sangue, e in esso vive ciò che è attinente all’io, ciò che è solare, agisce sul sistema respiratorio e quindi sul sistema nervoso.

 

Osserviamo una parte qualsiasi dell’uomo, ad esempio l’occhio: in esso sfociano i vasi sanguigni assottigliandosi molto. La pulsazione del sangue s’incontra con la corrente dei nervi, del nervo ottico che si espande nell’occhio. Un processo mirabilmente artistico si svolge fra la circolazione del sangue e il nervo ottico; questo è quattro volte più lento.

 

Guardiamo ora l’uomo intero e il suo midollo spinale con i nervi che ne escono verso ogni parte; seguiamo i vasi sanguigni: si svolge qui un giuoco di tutto il sistema sanguigno (in effetti immesso nell’uomo dal sole) sul sistema nervoso che gli è dato dalla terra. I Greci lo sentivano col loro senso artistico. Nel dio Apollo essi vedevano l’elemento solare e l’artistico gioco del sangue sul sistema nervoso, e con la lira di Apollo indicavano il midollo spinale con le mirabili corde che se ne dipartono e sulle quali agisce il sistema sanguigno, l’elemento solare.

 

Come incontriamo l’architettura, la scultura, l’arte dell’abbigliamento e la pittura se ci accostiamo all’uomo partendo dal mondo esterno, così incontriamo la musica, il ritmo, la cadenza quando ci avviciniamo al suo interno e seguiamo il mirabile artistico configurarsi e la collaborazione tra sistema sanguigno e sistema nervoso.

 

Rispetto a tutta la musica che ascoltiamo, quella che si svolge fra il sistema sanguigno e il sistema nervoso è molto più elevata. Quando poi l’elemento musicale risuona nella poesia, sentiamo dissolversi all’esterno, nelle parole, la musica interiore che si sviluppa fra sangue e nervi. Sentiamo così ad esempio nell’esametro greco (che ha le tre lunghe e la cesura) come il fiato si estenda nella prima metà dell’esametro fino alla cesura, come accolga la cesura e come il sangue giuochi nell’emissione del respiro e introduca le quattro lunghe delle sillabe. Abbiamo così mezzo esametro. Studiando bene la metà dell’esametro nello scandirla abbiamo la misura di come cioè il sangue batta sul sistema dei nervi.

 

Nel declamare e nel recitare si cerca di svelare l’interiore divino artista che è nell’uomo. Ne tratterò con più precisione nella prossima conferenza. Intanto vediamo che se da fuori, da architettura, scultura e pittura penetriamo nell’intimo dell’uomo e giungiamo all’elemento musicale-poetico, dappertutto il vivo senso che abbiamo del mondo e dell’uomo si trasforma in un sentire artistico e in un impulso alla creazione artistica.

 

Quando poi l’uomo sente di essere posto nel mondo e di non realizzare appieno sulla terra ciò che esiste nella sua immagine primordiale che è nei cieli, se lo sente artisticamente, ha la necessità di dare anche un’immagine esterna di quella primordiale. Qui l’uomo stesso diventa strumento per esprimere il rapporto dell’uomo con l’universo, diventa euritmista e si dice: i movimenti delle membra che io faccio qui sulla terra non bastano del tutto alla movimentata immagine primordiale dell’uomo. Devo avere un prototipo ideale dell’uomo, ma prima devo imparare a inserirmi nei movimenti dell’ideale immagine primordiale umana. Il movimento nel quale anche spazialmente l’uomo vuole ricostruire il movimento della propria immagine primordiale celeste si esprime nell’euritmia. Essa perciò non può essere né una semplice arte di gesti, né una semplice danza. Essa è a metà fra danza e mimica. L’arte mimica si può dire che esiste soltanto come sostegno della parola parlata. Quando si vuole esprimere qualcosa in un nesso per cui non basta la parola, la si sostiene con un gesto: si ricorre all’arte mimica che sopperisce all’insufficienza della sola parola. L’arte mimica allude così a qualcosa.

 

L’arte della danza si presenta invece quando la parola non ha più ragione di essere, quando la volontà si impone tanto da far uscire l’anima da se stessa seguendo il suo corpo; il corpo le prescrive i movimenti. Diventano allora gesti eccessivi, ed è l’arte della danza.

 

Possiamo quindi dire: mimica è gesto allusivo; danza è gesto sfrenato. Nel mezzo sta il vero linguaggio visibile dell’euritmia che non è né gesto solo accennato, né gesto sfrenato, ma gesto espressivo come lo è la parola stessa. La parola è infatti gesto fatto nell’aria; quando formiamo una parola imprimiamo nell’aria un certo gesto. Chi può osservare nella sfera sensibile-soprasensibile quel che si forma dalla bocca umana vede appunto nell’aria i gesti fatti: sono le parole. Imitando quei gesti si ha l’euritmia che è un gesto altrettanto espressivo e visibile, come nel parlare è invisibile il gesto nell’aria; in esso il pensiero entra provocando onde per cui tutto può essere udito. L’euritmia è la trasformazione dell’invisibile gesto nell’aria nel visibile gesto delle membra che è gesto espressivo.

 

Per completare il tema di “Antroposofia e arte”, nella prossima conferenza parlerò di “Antroposofia e poesia” e ne parlerò in modo specifico. Oggi volevo soprattutto accennare a come la conoscenza antroposofica, a differenza di quella intellettualistica e materialistica, non uccida l’uomo con i pensieri facendone un commentatore dell’arte e così affossandola; la conoscenza antroposofica fa zampillare la fantasiosa sorgente artistica. L’antroposofia fa dell’uomo stesso un essere che gode e apprezza l’arte o che artisticamente crea, confermando quanto sempre abbiamo ripetuto, e cioè che arte, religione e scienza furono un tempo sorelle, che esse si sono soltanto estraniate l’una dalle altre e che, quando l’uomo si sentirà del tutto uomo, dovranno ritrovarsi nel loro rapporto fraterno. Così il superbo dotto non conoscerà l’opera d’arte soltanto quando potrà commentarla, né d’altra parte le volterà le spalle, ma dovrà invece dirsi: quel che posso esprimere col pensiero mi conduce proprio alla viva necessità di formarlo artisticamente nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nella musica e nella poesia.

 

Il detto di Goethe si avvera: l’arte è una specie di conoscenza perché l’altra, quella intellettuale, non ha appunto carattere universale. Affinché possa esservi vera conoscenza universale l’arte deve prima aggiungersi alla conoscenza astratta. Questa nuova conoscenza, che arriva fino alla creazione, penetra tanto a fondo nell’anima, che l’unione di arte e scienza genera anche l’atteggiamento religioso. Poiché nel Goetheanum si aspirava a questo, amici non tedeschi chiesero che la costruzione di Dornach prendesse il nome di Goetheanum, perché Goethe aveva appunto detto: «Chi possiede scienza e arte ha pure religione; chi non possiede queste due, abbia la religione». Da scienza vera e da arte vera, se confluiscono in modo vivo, nasce vita religiosa. La vita religiosa non ha bisogno di rinnegare scienza e arte, ma tende verso entrambe con tutta l’energia e la realtà della vita.