I miracoli come segni e azioni risanatrici

Il figlio dell’uomo


 

Le conseguenze del peccato originale non si manifestano semplicemente nel fatto che l’umanità abbia perso la coscienza sperimentale del mondo spirituale, ma le si avvertono in modo evidente, se nel presente si percorre la via che conduce ad esso. Il sapere relativo a tali conseguenze nella storia spirituale dell’umanità può essere doloroso, ma la loro esperienza diretta sulla via dello spirito fa parte delle più severe prove di perseveranza e di coraggio che l’anima possa affrontare. Nell’ambito delle esperienze dell’anima si fa palese infatti la condizione in cui si trova l’organizzazione umana, animica e corporea, con tutte le conseguenze, divenute organiche, dell’estraniamento dallo spirito.

 

L’anima non sperimenta solo la già descritta qualità morale dell’agire umano, ma anche l’ottusità della capacità ricettiva dell’uomo nei confronti del mondo spirituale. Essa va incontro al mondo spirituale, non con lo stato d’animo della fiducia nell’evoluzione e con la coscienza di una possibilità evolutiva pressoché illimitata, bensì con lo stato d’animo di un malato bisognoso di guarigione e proteso verso le sorgenti risanatrici del mondo spirituale. Indipendentemente dal fatto che l’uomo in questione sia sano o malato dal punto di vista clinico, egli sperimenta in se stesso l’essenza della condizione di malattia dell’umanità, prescindendo dal fatto che essa sia o meno fisicamente presente.

 

Esigendo dalle forze del proprio essere

ciò che deve esigere per il fatto che in lui si è destata la nostalgia dello Spirito,

egli viene a sperimentare la condizione di paralisi, di cecità, di squilibrio, ecc., in cui si trova.

 

È la nostalgia dello Spirito

a rivelare alla coscienza dell’uomo le malattie dell’umanità, l’una dopo l’altra.

 

Sulla via, invece, per la quale avvengono le guarigioni come miracoli interiori,

l’uomo incontra la realtà dell’impulso del Cristo.

L’iniziazione non è infatti solo un processo di conoscenza, capace di trasformare la coscienza dell’uomo,

ma è anche un processo di guarigione,

il quale produce profondi mutamenti nell’organizzazione umana affetta dalle conseguenze del peccato originale.

 

Questi effetti interiori dell’iniziazione sono sostanzialmente gli stessi che il Cristo Gesù ha prodotto sul piano esteriore e visibile, e che sono stati tramandati dai racconti degli Evangelisti.

 

I sette miracoli descritti nel Vangelo di Giovanni, sono guarigioni

dalle sette principali infermità della natura umana, avvenute in singole persone o gruppi di persone.

Il Mistero del Golgota trasferì poi i frutti di quelle guarigioni, compiutesi singolarmente, all’intera umanità.

 

Alla domanda: “Qual è il significato del Mistero del Golgota per l’umanità?”, la tradizione ecclesiastica risponde: la liberazione dal peccato originale. Questa risposta è vera se non viene intesa in senso generico, ma come un processo di guarigione concreto, svolgentesi in sette gradi. I gradi di questo processo sono i miracoli descritti nel Vangelo di Giovanni.

La risposta concreta alla domanda, quale sia la conseguenza concreta del Mistero del Golgota, sarebbe dunque la seguente: la possibilità della guarigione dell’intera umanità, con gli stessi presupposti e condizioni che erano presenti nei sette miracoli del Vangelo di Giovanni.

 

Questo vale anche per i racconti corrispondenti degli altri Evangelisti. Qui si parla in particolare del Vangelo di Giovanni, poiché in questo Vangelo i racconti circa l’attività miracolosa del Cristo Gesù, non solo sono redatti dal punto di vista dell’iniziazione come processo di guarigione, ma anche per il fatto che allo scrittore è riuscito meravigliosamente di mettere in luce questo punto di vista attraverso la forma stessa, lo stile, la composizione.

 

Nella presente trattazione viene considerato principalmente il Vangelo di Giovanni, poiché alla luce di questo Vangelo è in certo modo più facile giungere alla convinzione che il punto di vista prescelto non abbia nulla di arbitrario, ma si basi sulla natura delle cose – sebbene ovviamente se ne potrebbero scegliere altri.

 

Se, facendo silenzio nell’anima, si lascia parlare solo il Vangelo di Giovanni, esso, nella sua composizione, dice:

i sette miracoli del Cristo Gesù sono azioni risanatrici compiute su pochi,

ma che, dopo il Mistero del Golgota, potranno mostrarsi efficaci per molti.

• Quei miracoli non sono solo miracoli, ma anche segni – segni dei futuri processi di guarigione fisico-spirituale

entro l’organizzazione umana affetta dalle conseguenze del peccato originale.

 

L’avvio alla serie di questi segni fu dato dal Cristo Gesù (epòiesen a rchèn ton seméion, Gv 2:11)

con la trasformazione dell’acqua in vino durante le nozze di Cana, in Galilea.

 

Considerando sotto l’aspetto esteriore questo primo segno, può sorgere facilmente la domanda: come si rapporta la trasformazione dell’acqua in vino con quegli effetti risanatori, di cui si è parlato prima? Nel racconto del Vangelo di Giovanni è forse contenuto qualche accenno al fatto che qualcuno dei partecipanti sia stato malato e quindi guarito dal Cristo Gesù? L’unico risultato, a parte il nuovo vino, di questo miracolo menzionato dal Vangelo, è che il Cristo Gesù “manifestò la sua gloria” (ephanérosen ten dòxan autoù) e che “i suoi discepoli credettero in Lui” (kai epìsteusan eis autóri hoi mathetài autoù, Gv 2:11).

 

Per quanto queste indicazioni del Vangelo circa il risultato del miracolo possano apparire generiche e troppo semplici, esse sono tuttavia importanti per chi conosca la realtà alla quale si riferisce il ‘segno’ in questione. Tale realtà non è infatti di natura spaziale, ma temporale. L’azione del Cristo Gesù non si limita nei suoi effetti a coloro che festeggiano le nozze in quel luogo e in quell’ora, ma è, in quel luogo e in quell’ora, un segno della miracolosa azione risanatrice che dovrà mostrarsi negli anni del cammino di vita iniziatosi con la festa nuziale.

 

Il risanamento doveva mostrarsi nel futuro, ma nel momento in cui veniva compiuto questo segno preannunziatore di futura guarigione, si trattava di comprendere il segno e percepire in esso e tramite esso una grandiosa manifestazione di forza risanatrice (ten dòxan autoù – la sua gloria o magnificenza). Pertanto il risultato di quel momento fu che i discepoli “credettero” in lui; cioè, dall’immediata impressione del segno ebbero un presagio fiducioso della futura azione risanatrice. L’effetto stesso doveva manifestarsi nel futuro; nel presente poteva prodursi solo presaga conoscenza, ossia fede. Che questa si producesse, lo dice espressamente l’Evangelista – indicando con ciò in modo sufficientemente chiaro il carattere futuro della guarigione.

Ma qual è l’azione risanatrice avviata e mostrata ad un tempo con il segno della trasformazione dell’acqua in vino durante le nozze di Cana?

 

Per comprendere questa azione risanatrice, occorre dapprima riconoscere che a Cana si celebrava una vera festa nuziale, alla quale il Cristo Gesù era presente come ospite. Si trattava di stringere un patto di destino tra due persone, che l’amore e il desiderio umano avevano unite. Al festeggiamento di queste persone e dei loro amici prese parte il Cristo Gesù. Non furono il dovere o la formalità a motivare la sua presenza a questa festa umana, ma la volontà di arricchirla con il proprio dono.

La presenza del Cristo Gesù come ospite a quella festa nuziale, non significa solo che non gli era estraneo il luogo in cui si celebrava una congiunzione di destini umani, ma che in quel luogo Egli poteva agire, compiendo un miracolo per il risanamento e l’arricchimento di quella festa. I cupi predicatori e i maestri di penitenza possono predicare e insegnare a modo loro – il quadro festoso delle nozze di Cana brilla però con colori luminosi nella cronaca dei tempi e non può più venirne cancellato.

 

Il dono fatto dal Cristo Gesù agli sposi di Cana fu il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, dopo che la scorta di vino si era esaurita. Per leggere questo segno, ossia la futura azione risanatrice di cui esso è preannunzio, occorre immergersi nella successione drammatica degli eventi.

La successione: il bere il vino normale, l’esaurirsi del vino normale, il riempire d’acqua le giare, la trasformazione dell’acqua in vino, lo stupore per il fatto che il vino migliore sia stato offerto dopo quello meno buono – questa successione di immagini esprime di per sé un mistero della vita, senza che si debba ricorrere al sempre incerto procedimento interpretativo.

 

L’immersione in una successione di immagini ordinata secondo un senso, produce il suo significato con la stessa immediatezza con cui una successione ordinata di lettere dell’alfabeto produce una parola.

Come nel leggere non si tratta di interpretare, ma appunto di leggere, così nell’immergersi in una successione di immagini, abbiamo un processo analogo: la successione di immagini diventa parola, che scaturisce dalle immagini, così come la parola scritta si forma dalle lettere dell’alfabeto.

 

La successione delle immagini delle nozze di Cana dice dunque trattarsi in questo caso della guarigione del matrimonio, del sacramento nuziale. E precisamente dice, che il destino interiore di questo rapporto umano fu mutato in modo che ai due stadi dello stesso ne fosse aggiunto un terzo.

• Dopo che l’impulso naturale, mediante il quale Jahvè operava nel sangue, si era esaurito, subentrò come stadio successivo, al posto dell’inebriante ‘vino’, l’elemento chiaro e freddo dell’‘acqua’.

Con questo secondo stadio avrebbe avuto fine anche il decorso naturale del destino, se non fosse sopraggiunto un terzo stadio, grazie all’intervento dell’impulso del Cristo: la compenetrazione dell’’acqua’ con una forza di amore altrettanto inebriante e calorosa di quella naturale, ossia la trasformazione dell’acqua in vino. Il carattere miracoloso di tale trasformazione viene ulteriormente accentuato dal fatto che il secondo vino, come tale, è migliore di quello naturale.

 

• La trasformazione in questione riguarda un mistero del sangue umano, che può divenire veicolo dell’impulso del Cristo. Le fasi di essa vengono rivelate dai successivi momenti in cui si compie il segno di Cana.

 

Se il miracolo di Cana riguarda la trasformazione risanatrice del sangue; il secondo miracolo – che ha luogo anch’esso in Galilea, il paese della mescolanza del sangue – riguarda il risanamento dell’ereditarietà fondata sui rapporti di sangue tra generazioni.

 

• Mentre il primo miracolo concerneva il rapporto tra sposo e sposa,

• il secondo concerne il rapporto tra padre e figlio ( Gv 4:46-54).

 

Nella guarigione del figlio del funzionario regio (basilikós) viene risanato dal Cristo Gesù il passato,

come nelle nozze di Cana fu risanato il futuro.

 

La corrente dell’ereditarietà scorre infatti dal passato al futuro: la sua azione consiste nel trasferire il passato nel presente e nel futuro. Il passato viene trasferito in modo che l’Io e il corpo fisico del padre da un lato, il corpo astrale e quello eterico della madre dall’altro, rappresentino la materia ereditaria che i figli assumono.

Quest’assunzione avviene in ordine inverso: l’Io del padre influenza l’organizzazione fisica del bambino e il suo corpo fisico ne influenza l’organizzazione dell’Io; parimenti il corpo astrale della madre fornisce il modello ereditario per il corpo eterico del figlio e il suo corpo eterico lo fornisce per l’organizzazione astrale.

 

• Se pertanto nella Bibbia si parla solo di “peccati dei padri” che vengono trasmessi ai figli, e mai di “peccati delle madri”, ciò è comprensibile per il fatto che è l’Io a peccare e nell’ereditarietà è determinante l’Io paterno, non quello materno.

Per questo motivo anche la Bibbia parla di Adamo come del primo portatore del peccato originale, e non di Eva: per la trasmissione del peccato non ha importanza chi sia stato a renderlo possibile, ma chi ha effettivamente peccato, ossia l’Io di chi ha preso parte al peccato. Quindi la definizione biblica del peccato originale come eredità del vecchio Adamo è del tutto giustificata e più autenticamente vera di quanto i nebulosi concetti teologici attuali siano in grado di riconoscere.

 

Se si comprende come la partecipazione dell’Io di Adamo al primo peccato sia divenuta destino fisico delle generazioni successive, si comprenderà anche a che cosa si riferiscano la malattia e la guarigione del figlio del funzionario regio. Già il termine basilikós (funzionario regio) dice molto. Nei Vangeli, infatti, cose e circostanze esteriori che siano prive di significato morale-spirituale per l’avvenimento descritto, semplicemente non vengono menzionate. Quello che è menzionato, lo è per il fatto che appartiene al senso morale-spirituale dell’avvenimento descritto, ed è adatto ad esprimere questo senso. Così avviene anche per l’accenno relativo al fatto che il padre del ragazzo morente fosse un funzionario regio. Quest’accenno indica una circostanza significativa per la malattia del figlio – e anche per la sua guarigione -, ossia la condizione dell’Io del padre. Essere un funzionario regio, non solo nel senso della condizione esteriore di vita, ma esserlo veramente, significava a quel tempo l’orientarsi del proprio essere in base all’Io di un altro.

 

Il funzionario regio doveva essere come un satellite.

Il re era il suo sole – il proprio Io doveva essere messo da parte.

Egli doveva possedere una straordinaria capacità di seguire un Io altrui, accantonando il proprio.

 

Basilikós pertanto vuol dire: un uomo abituato a decidere e a pensare non in base alla propria iniziativa, ma a quella del re. Quest’abitudine comporta un indebolimento dell’Io. Sul piano ereditario un indebolimento dell’Io comporta però un indebolimento del corpo fisico nel figlio.

 

Nel caso del figlio del funzionario regio, di cui si parla nel Vangelo di Giovanni, questo indebolimento si esprime nella inidoneità del sangue ad essere portatore dell’Io. Esso era troppo ‘debole’ per l’Io, di cui doveva essere veicolo. Insorse così una malattia, la quale si manifestava mediante un’infiammazione del sangue, una febbre alta (ho pyretós, letteralmente ‘calore ardente’).

 

Il funzionario si rivolse allora al Cristo Gesù. Il Cristo Gesù pretese però da lui, che desse prova di quella forza dell’Io, la mancanza della quale aveva causato in precedenza la malattia del figlio. Gli disse dunque: “Se non vedete segni e prodigi voi non credete” (Gv 4:48). Con queste parole il Cristo Gesù gli fece capire che egli, con la forza morale del proprio Io, doveva riconoscere l’entità del Cristo come sorgente dell’azione risanatrice, credere cioè senza aver visto segni e prodigi.

 

Per credere senza il sostegno esteriore dei segni e dei prodigi,

è necessaria un’attività dell’Io capace di condurre a un’intuizione morale.

 

Il funzionario regio soddisfò quest’esigenza, poiché rispose: “Signore (kyrie), scendi prima che mio figlio muoia”. E alle parole del Cristo Gesù: “Va, tuo figlio vive”, l’uomo credette e si mise in cammino. Giunto a casa, il padre apprese che il miglioramento del figlio era avvenuto nell’ora in cui il Cristo Gesù gli aveva detto: “Tuo figlio vive”.

 

È inoltre significativo che il funzionario regio, dopo il colloquio con il Cristo Gesù, venga designato dallo scrittore del Vangelo con un termine diverso rispetto a prima.

Non viene più chiamato funzionario regio (basilikós), ma uomo (ànthropos) dopo che ha abbracciato la fede – e padre (patèr) allorché, informatosi in casa sull’ora in cui è avvenuta la guarigione, non solo lui, ma l’intera sua famiglia ha abbracciato la fede.

 

• Mediante l’iniziativa dell’Io propria dell’intuizione morale, egli cessò dunque di essere funzionario regio e divenne uomo, ossia un essere fondato sulla propria interiorità.

Per il fatto invece che anche la sua famiglia potè convincersi della nuova verità, egli divenne il padre della stessa, nel senso più vero e profondo di questa parola.

• Il senso vero e profondo del padre di famiglia, infatti, non è solo la responsabilità nel mondo fisico, ma anche l’autorità spirituale. Come la madre è l’anima della casa, così il padre deve esserne lo spirito. Questo avvenne appunto per il funzionario regio, il quale, dopo essere diventato ‘uomo’, potè diventare in tal senso anche ‘padre’ della sua famiglia.

 

L’azione del Cristo Gesù nella guarigione del figlio del funzionario regio consistè nell’invertire la direzione della corrente ereditaria. Se la direzione di tale corrente era quella che dal passato va verso il presente, il Cristo Gesù diede all’azione risanatrice la direzione che dal presente va verso il passato, per il fatto che il funzionario regio divenne uomo e l’uomo divenne padre; e dal passato risanato ritorna al presente, per il fatto che il figlio fu guarito.

• Come già il primo, anche il secondo miracolo compiuto in Galilea si riferisce alla guarigione del sangue, in quanto esso è in rapporto con il matrimonio e l’ereditarietà. La prima guarigione si riferiva al futuro, la seconda invece al passato; e precisamente al passato relativo alle cause e agli effetti morali sulla serie delle generazioni.

 

Il terzo miracolo (Gv 5) si riferisce ugualmente al passato, ma ad un passato più lontano e di natura diversa che nel caso della guarigione del figlio del funzionario regio. Si riferisce al passato dell’individualità del paralitico, cioè alla sua vita terrena precedente quella attuale. Che sia davvero così, risulta dalle parole del Cristo Gesù che fan seguito a questo suo atto. Immediatamente dopo la guarigione del paralitico, il Cristo Gesù parla del giudizio trasmesso dal Padre al Figlio (Gv 5:22), e quindi dei morti che udranno la voce del Figlio, e che già ora la odono. Il Cristo Gesù parla anche della resurrezione dei morti, operata dal Padre e ora anche dal Figlio.

Che il motivo della morte, della legge e della resurrezione sia stato toccato in connessione con la guarigione dell’uomo che da trentotto anni giaceva impossibilitato a muoversi, significa che qui è stato svolto il problema del karma – e quindi anche delle ripetute vite terrene. La via più sicura per mostrare in modo convincente che in questo caso si trattò proprio di una guarigione karmica, ossia di una guarigione da una malattia le cui origini non risiedono né in questa vita né, nell’ereditarietà, consiste nell’addentrarsi nella serie di immagini che l’Evangelista ha disposto a tal fine.

 

Nel mezzo di una stella a cinque punte, formata dai cinque portici della “casa della grazia” (o “della misericordia”), sta una sorgente di acque curative, nella quale di tanto in tanto discende un Angelo. Chi coglie questo momento, e con rapida iniziativa si immerge per primo nella sorgente, viene sanato. Vi è lì un uomo di trentotto anni, che da sé non è in grado di farlo. Egli è così solo al mondo, da non avere alcuno che lo possa aiutare.

Perciò è sempre un altro a precederlo al momento propizio. A questo punto sopraggiunge il Cristo Gesù e gli chiede se vuole guarire. Alla sua risposta positiva, il Cristo Gesù lo guarisce. Ciò avviene di sabato, un giorno in cui il lavoro umano deve cessare (Gv 5:2-14).

 

Questa successione di immagini esprime con chiarezza inequivocabile il tipo di karma di quell’uomo. In lui – che viene designato semplicemente come uomo, senza altri appellativi – si ha a che fare con conseguenze karmiche, la cui causa è il contrario di ciò che nel funzionario regio ha causato la malattia del figlio. Se per il funzionario regio si trattava di una debolezza della personalità, in quest’uomo si ha invece un’esuberanza della stessa nella vita precedente. Era un uomo le cui azioni scaturivano solo da se stesso e avevano come scopo solo se stesso. La conseguenza karmica di questa situazione fu la paralisi, e il fatto che egli dovesse attendersi una grazia proveniente da una fonte posta al di fuori di lui.

 

Colui che era abituato a rapide azioni egoistiche, doveva ora giacere immobile e attendere di trovare un uomo che, nell’istante in cui era necessaria un’azione rapida, lo aiutasse. Ma egli giaceva tutto solo, poiché il suo egoismo passato lo aveva condannato all’isolamento. Come egli in passato non aveva sviluppato alcun interesse per gli altri uomini, così ora gli altri uomini gli passavano accanto senza alcun interesse. Colui che nella vita precedente aveva sempre rifiutato di decidere e di agire consigliandosi con l’Angelo, giaceva ora da trentotto anni con la nostalgia di venire in contatto con l’Angelo che, di tanto in tanto, discendeva alla fonte della grazia, collocata nel mezzo dell’edificio avente la forma del segno della personalità – il pentagramma. Egli aveva ora bisogno dell’Angelo e dell’uomo, di coloro cioè che nella vita precedente aveva disdegnati.

 

A quel punto si presentò il Cristo. La domanda rivolta al malato: “Vuoi tu guarire?”, ha un contenuto molto più ampio di quanto la frase così semplice faccia supporre in un primo momento. Il malato comprende però rettamente la domanda, giacché risponde: “Sì, Signore, ma io non ho nessuno che mi aiuti a far sì che possa espormi alla forza dell’Angelo”. Il senso della sua risposta è il seguente: ciò che conta per me non è solo guarire – è naturale infatti che un malato venga alla fonte con il desiderio di guarire – ma guarire per la virtù dell’Angelo e, nonostante i trentotto anni di attesa, non essere scoraggiato e avere ancora la forza e l’umiltà di attendere. La risposta del malato fu appunto una risposta reale alla domanda reale del Cristo Gesù, quale risuona da un approfondimento delle parole: “Vuoi tu guarire?”.

 

Da questa domanda traspariva molto di ciò che viveva nel malato. Vi sono contenute le domande: tu sei qui da trentotto anni, vuoi ancora essere guarito alla fonte della grazia? Credi ancora che la grazia, nonostante tutto, possa raggiungerti? Rinuncerai a possibilità di guarigione provenienti da altre fonti che non siano questa, la fonte della grazia, dove si esplica la virtù dell’Angelo? Hai serbato la fede, che possa esserci un uomo disposto a metterti in contatto con l’Angelo risanatore? Hai serbato la fede nell’uomo, come l’hai serbata nella grazia dell’Angelo?

 

La risposta del paralitico rivelava che egli non era venuto meno nella sua fede, tanto verso lo Spirito, quanto verso l’uomo, nonostante l’attesa durata trentotto anni. Allora egli fu guarito dal rappresentante del mondo angelico e del mondo umano. Il Cristo Gesù, infatti, nel momento della guarigione operava sia nelle veci dell’uomo che il malato attendeva, che in quelle dell’Angelo risanatore, dal quale il malato sperava di essere guarito.

 

Nelle parole: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”, è contenuta l’azione congiunta di entrambe le sfere di coscienza. La parola ‘alzati’ esprime l’azione sollevatrice del mondo delle Gerarchie e la parola ‘prendi il tuo lettuccio’ esprime la direzione orizzontale del passato negativo umano; la parola ‘cammina’ è infine la sintesi delle due direzioni cosmiche – la verticale e l’orizzontale – nella croce dell’uomo che cammina, cioè dell’uomo eretto, portante il carico del proprio passato.

L’immagine dell’uomo guarito, che porta il proprio lettuccio, divenne così una profonda espressione del destino umano: una croce in cammino, formata dall’asse verticale della liberazione spirituale e da quello orizzontale del legame con la terra.

 

Compiuta la guarigione, il Cristo Gesù disse nel tempio (en to hierò) a colui che aveva guarito: “Non peccare più, affinché non ti abbia ad accadere di peggio” (Gv 5:14). Con queste parole il Cristo lascia intendere che quella malattia aveva cause morali nel passato e che, per un altro aspetto, sta nella libertà della persona guarita il produrre nuovamente o meno le medesime cause. Questo accenno al nesso della malattia con la libertà spirituale esprime chiaramente, che nell’uomo guarito non era in gioco né una debolezza di carattere, né una vita insana dell’anima, vale a dire né una mancanza nel corpo eterico né una in quello astrale, ma un cattivo uso della libertà morale, la quale non dipende dall’organizzazione, ma dall’Io umano.

 

Ora l’Io è quell’arto dell’essere umano che passa da incarnazione a incarnazione. Il risultato di ogni incarnazione permane nell’Io e, come viene spesso illustrato nella simbologia indiana, si forma una sorta di ‘collana di perle’, di cui le singole ‘perle’ rappresentano le qualità dell’Io nelle diverse incarnazioni, mentre il filo rappresenta la continuità della coscienza da incarnazione a incarnazione. Pertanto gli ‘Io delle vite precedenti’ permangono e rappresentano il passato interiore inscindibile dall’uomo. Nel miracolo della guarigione del paralitico si trattò di un’azione che non riguardava solo l’Io attuale, ma anche quello anteriore, quell’io cioè passato attraverso la morte e con la responsabilità della vita precedente.

 

La coscienza dell’Io passato, che agisce dalla precedente incarnazione,

e a partire dalla quale molte persone spesso vivono e operano,

viene designata nei Vangeli come la coscienza di un ‘morto’,

e gli uomini che vivono in funzione degli impulsi dell’Io antico sono chiamati senz’altro ‘morti’.

 

Nella guarigione del paralitico, non si trattava dunque solo dell’Io attuale, ma anche del ‘morto’, che ode la “voce del Figlio” e compie una trasformazione nella propria coscienza passata. “Come il Padre resuscita i morti e dà loro la vita, così il Figlio dà la vita a chi vuole” (Gv 5:21): queste parole del Cristo Gesù, direttamente connesse con la guarigione del paralitico, si riferiscono alla realtà in questione. Essa viene espressa ancor più chiaramente nelle seguenti: “In verità, in verità vi dico: viene l’ora, ed è già venuta, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno udita, vivranno” (Gv 5:25).

 

Solo pochi morti avevano udito questa voce, il che è attestato ad esempio dalla frase: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8:22). Ciò è implicito nell’impegno fondamentale richiesto all’uomo che voglia udire spiritualmente.

Esso consiste nel fatto che egli superi ogni volta se stesso, e ogni volta ascolti in silenzio la voce della coscienza, con esclusione di qualunque moto personale.

 

I suoni del linguaggio del mondo spirituale non sono ‘vibrazioni’ che si intercettino con un organo a ciò predisposto, ma sono voci morali-spirituali. Queste voci possono essere percepite solo nel caso che l’anima sia in accordo con la voce della coscienza. Chi sia pronto a seguire senza riserve il responso della coscienza, si prepara in tal modo a percepire le voci in cui si esprime la coscienza morale del mondo.

 

Il Cristo stesso dà in modo grandioso una caratterizzazione della sua coscienza sovrumana: “Da me stesso io non posso far nulla; giudico secondo quello che ascolto, e il mio giudizio è giusto, poiché io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5:30).

Come nel Cristo Gesù il giudizio morale è fondato sull’ascolto, sull’ispirazione del Padre, così la sua azione si fonda sulla visione, sull’immaginazione delle opere del Padre – “In verità, in verità vi dico: il Figlio da sé non può far nulla, se non ciò che vede fare dal Padre” ( lett. “se non vedendo il Padre che fa” – an me ti blépe ton Patéra poioùnta – Gv 5:19).

I giudizi del Cristo Gesù erano dunque ispirazioni dell’entità del Padre,

mentre i segni e miracoli da lui compiuti, erano immaginazioni dell’agire del Padre.

 

• Un’immaginazione di tal genere, relativa all’agire del Padre, si presenta all’anima in modo grandioso nel quarto miracolo, quello della moltiplicazione dei pani. Questo miracolo, strettamente connesso con il successivo – il camminare sulle acque – può fornire indicazioni profonde circa l’azione dell’impulso del Cristo, per l’intera umanità, nell’ambito diurno e in quello notturno.

 

La moltiplicazione dei pani si riferisce infatti all’azione diurna del Cristo,

• mentre il camminare sulle acque si riferisce alla sua azione notturna.

Questi due segni (Gv 6:1-21) danno insieme il percorso completo del Cristo-Sole,

• attraverso la coscienza diurna dei molti,      •  e attraverso la coscienza notturna degli inizialmente pochi.

 

In questi miracoli ciò che conta non è interpretare, ma immergersi con immediatezza nell’elemento morale-spirituale, nel quale, non solo le immagini sono intessute, ma per così dire vi nuotano come concretizzazioni dello stesso. A tal fine, ci si ponga le immagini innanzi all’anima, nella connessione significativa con la quale vengono descritte nel Vangelo.

 

Presso le rive del mare di Galilea il Cristo Gesù sale su un monte, circondato dai suoi discepoli. Una gran folla lo segue. È ormai vicino il tempo di Pasqua, in cui si consuma il pane azzimo. Allorché il Cristo Gesù vede che vi è una così gran folla, parla della necessità di sfamarla. Cinque pani e due pesci, che un ragazzo ha con sé, vengono da lui distribuiti ai discepoli e dai discepoli alla folla. Finito il pasto, se ne raccolgono gli avanzi – riempiendone dodici ceste.

 

Queste sono le immagini che ridanno il primo segno, il segno del giorno. Nel loro insieme, esprimono una significativa verità, ossia la verità relativa al modo in cui i sensi dell’uomo devono cristianizzarsi durante l’epoca dell’anima cosciente. La trasformazione operata dall’impulso del Cristo sui sensi, trova espressione nel segno della moltiplicazione dei pani.

 

Questo segno mostra infatti come i sensi ricettivi [lett. ‘affamati’ – hungrig] divengano sensi produttivi: così come i cinque pani e i due pesci, dopo la benedizione, hanno prodotto dodici ceste di avanzi, allo stesso modo i cinque sensi diurni e i due crepuscolari, se avranno accolto e indirizzato al cuore l’impulso del Cristo, daranno origine, a partire dal cuore stesso, a dodici correnti creative che permeeranno tutto il sistema dei sensi.

 

Il segno in questione si riferisce propriamente al mistero del cuore umano,

che può accogliere dall’esterno l’impulso del Cristo

e iniziare, di conseguenza, a irradiare attraverso tutti i dodici sensi.

 

Che la moltiplicazione dei pani riguardi un profondo mutamento nell’organizzazione sensoriale dell’uomo, a ciò allude il Vangelo col riferire, all’inizio del racconto, che “una gran folla lo seguiva, poiché aveva visto i miracoli da lui compiuti sugli ammalati”. Con questo particolare si dicono due cose: primo, che coloro che seguivano il Cristo Gesù non erano né filosofi, né occultisti, ma “una gran folla”, vale a dire uomini dei sensi; secondo, che questi uomini non lo avevano seguito per motivi filosofici od occulti, ma perché avevano visto i miracoli da lui compiuti sugli ammalati, ossia ne erano stati impressionati tramite i loro sensi. Anche la reazione della folla al miracolo era quella naturale per l’uomo dei sensi: volevano fare del Cristo Gesù un re (Gv 6:15).

 

Il Cristo Gesù si comporta a sua volta in accordo con le motivazioni e i bisogni della folla: dopo avere alzato gli occhi e veduta una gran folla che veniva da lui, egli pose ai discepoli la domanda riguardo a come sfamarla. La vista della folla gli disse dunque, che ciò che essa gli portava era la fame. Di conseguenza egli pose ai discepoli la domanda, come placare quella fame.

 

Il provare la fame è insito nella natura dei sensi umani. I sensi esistono al fine di ricevere le impressioni di cui essi sono bramosi. La bramosia di impressioni da parte dei sensi non è però necessariamente limitata al mero dominio fisico-sensibile. Tramite i sensi è infatti senz’altro possibile percepire qualità morali-spirituali.

 

Rudolf Steiner parlò più volte della spiritualizzazione delle impressioni sensorie e chiamò le impressioni sensorie permeate di qualità morali-spirituali, “impressioni morali” [moralische Impressionen].

Impressioni morali di tal genere furono nella loro essenza tutte le guarigioni compiute dal Cristo Gesù. La folla che le aveva viste compiersi, non vi aveva scorto meri fatti miracolosi, ma fatti moralmente miracolosi. Era rimasta impressionata da questi fatti, ma appunto impressionata da un punto di vista morale.

La fame dunque che la spingeva verso il Cristo Gesù, era una fame di impressioni morali. Ciò aveva riconosciuto il Cristo Gesù nel momento in cui “alzò gli occhi e vide che una gran folla veniva da lui”. I discepoli, invece, non lo compresero se non dopo che il miracolo era avvenuto. Solo allora essi compresero, il che risulta dalla risposta di Pietro alla domanda: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6:67), alla quale Pietro rispose in nome dei Dodici: “Signore! Da chi dovremmo andare? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e riconosciuto che Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Gv 6:68-70). Questo colloquio rappresenta l’esito finale di tutto il sesto capitolo, contenente i miracoli della moltiplicazione dei pani e del camminare sulle acque, – vale a dire l’esito morale-spirituale dei due miracoli nel loro effetto di impressione morale sui discepoli.

 

I discepoli avevano percepito, quale frutto di quegli atti, “parole di vita eterna”, ma la folla voleva fare del Cristo Gesù un re, poiché era stata sfamata. Qui avvenne la grande divisione del cristianesimo in due correnti, divisione che in seguito avrebbe prodotto conseguenze immensamente tragiche nella storia dell’umanità.

Ancora millecinquecento anni dopo questo fatto, il proposito di portare il Cristo Gesù a dominare nelle vesti di un re, non era minore di allora. Come allora, anche più tardi il cristianesimo della libertà dovette essere coltivato in piccoli gruppi – all’incirca nel rapporto di dodici a cinquemila.

 

Comunque si configuri questo rapporto nel corso della storia, con la moltiplicazione dei pani avvenne la divisione visibile del destino delle due correnti del cristianesimo. Per il cristianesimo esoterico non è sufficiente ricevere impressioni morali: esso comporta piuttosto che si dia, con un atto libero e cosciente, un’adeguata risposta umana. Questa risposta fu data dai Dodici in modo cosciente tramite le parole di Pietro; i cinquemila, invece, la diedero in modo inconsapevole nella figura delle “dodici ceste di avanzi”.

 

Queste dodici ceste erano il risultato dell’azione produttiva del cuore sotto forma di impulsi morali, irradianti attraverso le dodici porte del sistema sensoriale complessivo, mentre le parole di Pietro esprimevano la fede e la conoscenza dei Dodici che l’entità di Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio che opera non solo nella coscienza, ma altresì in tutto ciò che vive.

L’espressione “Figlio del Dio vivente” contiene una conoscenza del tutto concreta: che si tratti cioè di un grado di rivelazione del divino tale, da afferrare non solo l’Io e il corpo astrale, ma anche il corpo eterico. Le “parole di vita eterna”, di cui parla Pietro, sono parole che spingono il loro contenuto, tratto dal dominio dell’eternità, fino a quello della vita, ossia fino al corpo eterico, conferendo pertanto l’eternità al corpo eterico stesso.

 

La folla sperimentò la medesima realtà che i discepoli avevano riconosciuto non solo nel suo effetto, ma anche come rivelazione. Avendola riconosciuta come tale, conseguirono una conoscenza profonda dell’entità stessa del Cristo; il popolo invece, avendone sperimentato solo l’effetto, senza riconoscervi il Cristo nella sua entità, lo voleva fare re.

 

La conoscenza dell’entità del Cristo connessa con la moltiplicazione dei pani, riguardante cioè la sua vera regalità, sorse nei discepoli solo nella notte successiva al giorno del miracolo. Quella notte essi si sentirono come un piccolo gruppetto solitario, sballottato dalle onde del mondo della vita su una piccola barca. Buia era la notte e dal profondo si alzavano onde che minacciavano di inghiottirli, i venti soffiavano impetuosi, ed essi non sapevano che direzione prendere. Sperimentavano così il quadro della vera situazione in cui si trova l’uomo nel mondo: con forza elementare agiscono su di lui le onde dalle profondità del subconscio, mentre la sua coscienza viene scossa dagli effetti della lotta che si svolge tra potenze cosmiche.

 

All’immagine della smisurata potenza delle onde cosmiche irrompenti nel subconscio, l’uomo dapprima non può contrapporre altro che la forza incomparabilmente minore della propria personalità – il cielo, infatti, in questo momento tace ed è avvolto nella tenebra. Si tratta allora di vincere la paura suscitata da questa visione, facendo appello alla sorgente della propria interiorità. Questa sorgente deve ora far fluire una forza che non sia di natura ‘personale’, ma che agisca con efficacia cosmica.

 

L’uomo deve trovare nella propria interiorità la forza di un calmo coraggio,

capace di dominare le onde cosmiche che si abbattono sul suo subconscio

e i venti cosmici che agitano la sua coscienza.

 

Questa forza è contenuta nella reale esperienza delle parole “Io sono”,

che costituiscono il nome esoterico del Cristo.

 

L’entità del Cristo è la sorgente

dalla quale scorre la forza che permette alla coscienza dell’Io umano

di tener testa alle forze cosmiche generatrici di paura.

 

È questo il momento culminante del segno di Cristo che cammina sulle acque. Egli appare ai discepoli in un’esperienza notturna vissuta contemporaneamente da tutti loro, mentre cammina sulle onde e fa risonare le parole: “Io sono, non temete”. A questo punto i discepoli trovano la direzione e la forza per raggiungere la riva (Gv 6:20-21).

Nelle parole “Io sono, non temete” è contenuta la rivelazione della vera regalità del Cristo, la quale non consiste in una vocazione al dominio – come volevano i cinquemila – bensì nel conferire all’uomo la forza interiore dell’autodominio.

La regalità del Cristo è la sua capacità di donare all’uomo non solo la libertà, ma altresì la forza per attuare questa libertà. In senso morale-spirituale sarebbe opportuno dire: la regalità del Cristo consiste nell’aver conferito all’uomo una dignità regale.

 

Avendo i discepoli vissuto l’esperienza notturna dell’Io-sono quale vera regalità del Cristo Gesù, essi, il giorno seguente, furono in grado di pronunciare per bocca di Pietro le parole sopra riportate, le quali rappresentano l’assoluto contrario del volere dei cinquemila. Nelle parole di Pietro si esprime in effetti un volere diverso dal volere del popolo. Il Cristo Gesù lo conferma dicendo: “Non vi ho forse scelti io, voi dodici?” (Gv 6:70). Ma a queste parole soggiunge: “Eppure uno di voi è un nemico (diabolos)”. Questa aggiunta indica il fatto che nella cerchia dei Dodici si trovava uno che non avrebbe seguito il volere espresso da Pietro, ma quello dei cinquemila, che cioè nel momento decisivo vorrà il Messia come re terreno.

 

In tal modo, con la moltiplicazione dei pani è stato dato inizio, sia alle due correnti di destino del cristianesimo, che al destino tragico di Giuda. Quest’ultimo ebbe origine – nell’ambito di quella incarnazione di Giuda – dal fatto che Giuda si trovò collocato tra due direzioni del volere – il volere dei cinquemila, che aspiravano ad un re, e il volere dei discepoli, che avevano sperimentato il “Figlio del Dio vivente” come “Io sono”.

Pur avendo Giuda partecipato all’esperienza notturna delle onde cosmiche, l’effetto di questa esperienza fu per lui di natura contraria: esso lo portò alla convinzione che il ‘popolo’ non sarebbe mai stato in grado di sostenere questa prova. Egli perse la fede riguardo alla possibilità che i molti sarebbero mai stati in grado di percepire interiormente la voce dell’Io-sono, e di questo destino del popolo si rammaricava. Così egli prese partito per i molti che, come a lui sembrava, dovevano essere sacrificati a causa dei pochi eletti.

 

Avendo preso partito per i molti, era anche dell’avviso che sarebbe stato meglio dare ai poveri il denaro speso da Maria, la sorella di Lazzaro, per il prezioso unguento con il quale lei avrebbe unto i piedi del Cristo. Per lui, tuttavia, non era determinante il rapporto umano-individuale verso il bisogno del singolo, ma l’idea astratta dell’umanità, secondo il principio che il tutto vale più di una parte. Per questo motivo lo stesso scrittore del Vangelo dice che Giuda contestò l’azione compiuta da Maria, non perché gli stavano a cuore i poveri, ma perché aveva di mira solo la quantità.

“Questo egli disse, non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la borsa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12:6).

 

Giuda era un ‘ladro’, nel senso che egli davvero sottraeva alla collettività quello che cercava di ottenere per la stessa. La tragedia di Giuda consisteva nel fatto che egli non voleva essere un ladro, cioè non voleva sottrarre alcunché alla collettività, ai molti, – e che proprio questo suo volere faceva di lui un ladro. Così Giuda fu dapprima un ladro, nel senso cosmico dell’espressione diabolos, usata nei Vangeli per indicare Lucifero, finché non divenne un ladro assassino, allorché Satana entrò in lui, ossia Arimane entrò in scena quale karma di Lucifero.

 

Il destino di Giuda tra i Dodici fu quello di portare fino in fondo le due croci dell’agire umano – la croce a sinistra e la croce a destra del Golgota. La sua missione di Apostolo nei riguardi dell’umanità, ossia ciò che egli ha annunciato alla stessa, fu l’amara verità relativa alla natura dell’agire umano privo del Cristo. Mentre infatti i dodici Apostoli ebbero la missione di portare l’annuncio del Cristo sotto dodici aspetti, Giuda Iscariota ebbe la penosa missione di far conoscere all’umanità che cosa sia l’agire umano senza il Cristo.

 

Ciò di cui Giuda dovette essere rappresentante è anche un aspetto del mistero di Cristo: il lato negativo del segno dello Scorpione. Pertanto egli appartiene alla cerchia dei Dodici, anche se il Cristo Gesù, già dopo la moltiplicazione dei pani, disse che tutti i Dodici erano sì stati scelti da lui, ma che uno di essi aveva in quella cerchia lo stesso compito avuto dal diabolos (Lucifero) nella cerchia cosmica dello zodiaco.

 

I miracoli della moltiplicazione dei pani e del camminare sulle acque non riguardano il solo mistero di Giuda, ma il mistero dei Dodici. Questo non nel senso che in quella occasione la cerchia dei Dodici si sia posta consapevolmente al di sopra del volere dei cinquemila o in contrapposizione ad esso, che cioè allora la chiamata dei dodici discepoli abbia avuto riscontro, e la loro cerchia si sia formata coscientemente, ma nel senso che in quell’occasione fu rivelato come il Cristo-Sole agisca di giorno e di notte attraverso i dodici sensi dell’uomo.

 

I ‘cinque pani’, con i quali fu saziato il popolo, erano i cinque effetti delle impressioni morali destinate a soddisfare la fame dei sensi diurni. I ‘due pesci’, invece, erano gli effetti delle impressioni morali sui due sensi crepuscolari: essi non appartengono più, come il pane, all’elemento terra del mondo fisico, ma all’elemento acqua del mondo eterico.

L’esperienza notturna dei discepoli, infine, era un’esperienza di impressioni morali sovrasensibili attraverso i cinque sensi notturni. Infatti, l’esperienza notturna dei discepoli in occasione del miracolo del camminare sulle acque comprendeva cinque momenti: essi sperimentarono se stessi come un gruppetto sperduto, riunito in una barca, trasportata dalle onde e spinta dai venti, e infine incontrarono il Cristo che parlava.

 

L’intera esperienza notturna, culminante nelle parole “Io sono”, consiste dunque nei seguenti momenti:

– risveglio dei discepoli (autocoscienza nel sonno);

– percezione degli altri discepoli, come gruppo legato dal destino (barca);

– esperienza di equilibrio minacciato (onde);

– esperienza di forze che spingono dall’esterno (venti);

– esperienza del Cristo che parla;

le quali cinque esperienze trapassano nell’esperienza interiore dell’Io-sono, in cui riecheggiano.

 

Compiuto il segno della moltiplicazione dei pani – e dopo che i discepoli ne avevano sperimentato il lato notturno – la folla ritornò nuovamente dal Cristo Gesù, al quale fu posta la domanda: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” (Gv6:28).

Questa domanda è precisamente la stessa che sta alla base della presente considerazione, cioè la domanda sul terzo modo di agire, per il quale l’uomo non è né ladro né assassino. L’essenza della domanda posta al Cristo consiste in questo: che gli uomini volevano imparare ad agire, in modo che le loro azioni non fossero secondo Lucifero, né secondo Arimane, ma secondo Dio.

 

Che cosa può fare l’uomo di propria iniziativa, affinché la sua attività diventi puramente costruttiva, senza che sottragga o distrugga qualcosa? Tale è il senso della domanda posta dal popolo.

Sconvolgente è la risposta che il Cristo Gesù dà a questa domanda: Egli dice che nessuna azione nell’ambito del corpo fisico, nessuna in quello del corpo eterico, e nessuna in quello del corpo astrale, può compiere l’uomo per propria iniziativa nel senso voluto da Dio.

• Solo l’Io dell’uomo può compiere un’azione di tal genere – nell’ambito di libertà che gli è proprio.

“Questa è l’opera di Dio, che voi crediate in colui che Egli (Dio) ha mandato” (Gv 6:29) – tali le parole testuali della risposta, secondo il racconto di Giovanni.

 

Questa risposta offre un fondamento del tutto chiaro all’autoconoscenza dell’uomo

e all’aspirazione di ciò che ha valore nell’agire umano. Essa mette in luce il fatto che

la natura dell’organizzazione umana è tale,

da non poter produrre per virtù propria un agire voluto da Dio

e che, per un altro verso, il primo e decisivo atto in questa direzione può scaturire solo dall’Io,

nella forma di un ‘atto di fede’ nei riguardi del Cristo Gesù.

• Da questo ‘atto di fede’ deriveranno poi tutti i mutamenti nell’organizzazione e nel destino umani,

necessari affinché l’uomo sia un giorno in grado di compiere anche nel mondo fisico le “opere di Dio”.

 

Questo ‘atto di fede’, come è inteso realmente, non è un’assunzione di dottrine, delle quali non si sappia se siano o non siano vere, ma è l’atto dell’Io umano, che si orienta dal suo ambito di azione, al suo ambito di origine.

Se l’Io invia una corrente verso la propria scaturigine, crea un legame con l’Io-sono del mondo dal quale – come i raggi dipartono dal Sole – i singoli Io attingono la propria pienezza. Questa creazione di un legame con il Sole morale-spirituale del mondo è appunto il processo su cui si fonda l’atto di fede.

 

Dalla luce e dal calore di questo Sole

l’Io attinge allora contenuti e forze per le azioni nel proprio ambito operativo,

le quali possono quindi a poco a poco diventare “opere di Dio”.

 

Il sesto e il settimo miracolo del Vangelo di Giovanni conducono con profondità ancor maggiore nell’ambito di queste realtà. Per tale motivo occorre dedicare ad essi una considerazione a sé.

Il contenuto della prossima considerazione sarà pertanto il frutto di uno studio approfondito dei due miracoli della guarigione del cieco nato e del risveglio di Lazzaro.