Il ponte conoscitivo fra l’uomo e il mondo

O.O. 326 – Nascita e sviluppo storico della scienza – 02.01.1923


 

Sommario: Il ponte conoscitivo fra l’uomo e il mondo. L’eliminazione di certe esperienze interiori. L’esperienza di un peso portato e quella del peso del proprio corpo. Nozione antica: nell’uomo la luce è il contrappeso della gravità. Leggi galileiane sulla caduta e l’inerzia dei corpi; esperienze corrispondenti nell’uomo. L’opposizione ad Aristotele. Copernico, Keplero, Newton. Origine del concetto di gravitazione. Nascita della chimica. Galeno: i quattro elementi e i quattro umori. La chimica non è ancora all’altezza della fisica. L’atomismo. La teoria della relatività.

 

Ho ancora qualche considerazione da esporre sull’argomento trattato ieri, cioè sull’incapacità della concezione, scientifica moderna, iniziata nel quindicesimo secolo, di afferrare conoscitivamente l’essenza dell’uomo. Vorrei dire che in tutti i campi, in questa concezione del mondo, fa difetto quello che manca già nella sua sfera meccanico-matematica. Questa sfera è stata separata dall’essere umano; la si considera come se nell’esperienza matematica l’uomo non fosse più presente. Questo indirizzo del pensiero matematico ha per conseguenza da un lato la nascita della tendenza a separare dall’uomo anche altri campi dell’esistenza, anche altri processi del mondo, evitando di metterli in rapporto con l’entità umana. D’altro lato, in questo modo nasce l’impotenza a costruire un vero ponte conoscitivo fra l’uomo e il mondo.

 

Più avanti avrò occasione di parlare di un’altra conseguenza di tale incapacità. Consideriamo intanto quella che vorrei definire la causa primaria del fatto che l’evoluzione scientifica ha preso questa direzione. Essa ha perduto la possibilità di sperimentare interiormente ciò di cui oggi tratta l’antroposofia e che in tempi più antichi dell’evoluzione era oggetto di una conoscenza istintiva, ovvero (se la parola non viene fraintesa) di una chiaroveggenza istintiva. La concezione scientifico-naturalistica ha perduto la capacità di guardare all’interno della natura umana, la possibilità di constatare che l’uomo è composto da elementi diversi.

 

Vorrei qui ricordare la struttura che nella nostra concezione antroposofica noi attribuiamo all’uomo, per accostarci alla conoscenza della sua natura: noi distinguiamo in esso il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e l’organizzazione dell’io umano. Teniamo ben presente questa composizione dell’essere umano, al fine di comprendere l’evoluzione della concezione scientifico-naturalistica moderna: dunque, corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale, organizzazione dell’io. Non intendo entrare qui nei particolari di tale strutturazione dell’uomo, dato che ognuno può trovare tutte le nozioni necessarie, per esempio nel mio libro Teosofia. Tuttavia, proviamo ad orientarci sulla scorta di questa descrizione. Guardando al corpo fisico umano e tenendo conto della possibilità dell’orientamento interiore, cioè di sperimentare interiormente il proprio corpo fisico, possiamo chiederci: che cosa si sperimenta realmente per mezzo di esso? Per mezzo del corpo fisico si sperimenta proprio quello che ho spesso menzionato in questi giorni, cioè il triplice orientamento nelle direzioni destra-sinistra, alto-basso e davanti-dietro. Per mezzo del corpo fisico si sperimenta la conoscenza del movimento, in quanto mutamento di luogo del proprio corpo fisico. Per mezzo di esso si fa anche l’esperienza del peso, almeno fino a un certo grado, e in modo variato: questa esperienza del peso vien fatta però in una maniera molto diversificata. Nei tempi in cui queste cose venivano ancora vissute, sperimentate direttamente nei diversi componenti dell’organizzazione umana, si rifletteva su certi fenomeni che non attirano più l’attenzione nella moderna età scientifica. Non si presta alcuna attenzione a certi fatti di importanza fondamentale per la comprensione del mondo. Ammettiamo che qualcuno porti sulle braccia o sulle spalle un’altra persona la quale, pesata sulla bilancia, abbia un peso uguale a quello di chi la regge; ammettiamo che egli percorra un tratto di cammino, portando quest’altra persona: avrà una certa esperienza del peso. Percorrendo quel tratto di cammino, egli porta però anche il proprio corpo, ma questo fatto non viene sperimentato allo stesso modo. È innegabile che noi portiamo attraverso lo spazio il nostro peso, senza farne l’esperienza. Il proprio peso entra nella sfera della nostra esperienza in un modo del tutto diverso. Quando si invecchia si sentono in certo senso le proprie membra in modo da essere portati a dire che se ne sente il peso. Tale esperienza sta effettivamente in un certo rapporto con la gravità, col peso; infatti l’invecchiamento significa appunto una certa disgregazione dell’organismo, per cui le sue singole parti vengono più o meno strappate fuori dall’esperienza interiore, tendono a farsi autonome, vorrei quasi dire ad atomizzarsi, e in questo stato cadono in balìa della gravità. Naturalmente questa tendenza non può mai realizzarsi del tutto durante la vita; forse è solo figuratamente che si parla della pesantezza delle nostre membra. Tuttavia una scienza più esatta mostra che non si tratta solo di un paragone, ma che si tratta di un fatto significativo. Comunque, di norma l’esperienza del nostro peso in fondo si manifesta alla nostra coscienza come una specie di eliminazione del nostro peso stesso.

 

Ci troviamo dunque di fronte alla necessita ìnsita nell’essere umano di eliminare certi effetti (sicuramente presenti in esso) mediante altri effetti contrari. Si tratta comunque di processi sperimentabili nel corpo fisico umano, sia nel caso delle tre dimensioni spaziali, o del movimento, che si sperimentano in modo più evidente, sia nel caso del peso corporeo che viene sperimentato in modo meno evidente.

 

Ciò che un tempo era stato oggetto di esperienza diretta è stato dunque eliminato del tutto dall’uomo, è stato in certo modo estromesso da lui. Questo fatto ci è risultato del tutto evidente nel caso della matematica. La cosa risulta meno evidente quando riguarda altre esperienze del corpo fisico, come la gravità, il peso, in quanto queste ultime risultano annullate del tutto per la coscienza umana quale oggi. Ma non in ogni tempo esse erano così annullate. Oggi, sotto l’influenza dell’atteggiamento psichico che sta alla base della concezione scientifica, non si ha alcuna idea di quanto fosse diversa l’esperienza umana nel passato. Certo, neanche in tempi passati l’uomo portava in giro coscientemente il proprio peso; aveva però la sensazione dell’esistenza sia di tale suo peso, sia anche di un contrappeso; Se poi veniva istruito, per esempio nei misteri, egli apprendeva di portare certo con sé in ogni momento il proprio peso, ma anche la luce che ne rappresenta di continuo il contrappeso. Possiamo veramente esprimerci così: l’uomo sentiva in qualche modo di dovere gratitudine alla spiritualità presente nella luce, per il fatto che essa controbilancia in lui la spiritualità che opera nella gravità. Si potrebbe in conclusione dimostrare che in nessun campo si riconosceva nell’antichità l’esistenza di qualcosa che fosse del tutto separato dall’uomo. Egli sperimentava i processi che si svolgono in lui unitamente ai corrispondenti processi della natura. Per esempio se fuori, in natura, e quindi di fatto separato da sé, egli vedeva la caduta di un sasso, l’uomo faceva l’esperienza del movimento: la faceva, comparando quel moto esterno a ciò che un analogo moto sarebbe per lui stesso. Egli provava press’a poco queste sensazioni: se io mi volessi muovere a quel modo, dovrei conferirmi una certa velocità; e tale velocità è diversa nella pietra che cade da quella che posso osservare ad esempio in un essere che striscia lentamente. L’uomo prendeva atto della pietra che cade, applicando là propria esperienza del movimentò. In tal modo gli uomini dell’antichità constatavano certo anche in modo oggettivo i processi del mondo esterno che noi oggi studiamo nella fisica; però nell’atto del conoscere interveniva la propria esperienza personale che serviva a riscoprire nei fatti che avvengono nel mondo esterno quello che avviene entro l’uomo stesso.

 

 

Si può affermare che fino al quindicesimo secolo tutta la concezione fisica accostava all’esperienza interiore dell’uomo gli oggetti della natura perfino nel loro svolgimento fisico: anche su questo punto l’esperienza umana era congiunta con la natura. Col quindicesimo secolo ha inizio (per la conoscenza) la separazione dei fenomeni naturali dall’uomo e con essa la separazione della matematica; ha inizio un modo di pensare che poi improntò tutta la scienza naturale. Solo a questo punto andò perduta del tutto l’esperienza interiore nel corpo fisico, la fisica interiore all’uomo. La fisica esteriore fu anch’essa separata dall’uomo, come la matematica. Il progresso che ne scaturì consiste, vorrei dire, nella oggettivazione di ciò che è fisico. Un fatto intrinsecamente fisico può infatti venire considerato in duplice modo. Restiamo all’esempio del sasso che cade (v. il disegno).

 

Da un lato lo si può considerare esteriormente; dall’altro si può metterlo in relazione con la velocità che dovremmo sviluppare per procedere noi stessi con la velocità del sasso che cade. In questo modo si svilupperebbe di quell’evento fisico una comprensione nata dall’uomo intero, non solo dalla percezione visiva.

 

Osserviamo ora come si trasforma, a partire dal Quattrocento, quella concezione più antica e precisamente tenendo conto del Galilei, cioè della personalità che più di ogni altra rivelò tale cambiamento. Sappiamo che Galileo è da considerarsi lo scopritore delle cosiddette leggi della caduta dei corpi (o dei gravi), e l’obiettivo principale di tali leggi da lui formulate è la misura dello spazio percorso da un corpo che cade, nel primo minuto secondo. La concezione antica accostava dunque alla constatazione visiva del fenomeno un’esperienza interiore: quella della velocità che l’osservatore dovrebbe assumere per stare alla pari del sasso in caduta: di fronte al sasso che cade veniva posta l’esperienza interiore (rosso, nel disegno). Anche Galileo osserva il sasso che cade; egli però non vi accosta un’esperienza interiore, bensì misura la lunghezza del percorso da esso compiuto nel primo minuto secondo, nello spazio ormai considerato del tutto esteriore. Poiché il corpo cade con velocità accelerata, egli misura anche la lunghezza dei percorsi successivi: tiene cioè conto, non di un’esperienza interiore, ma di un processo esterno misurabile, del tutto estraneo all’uomo. Il fatto fisico viene talmente estraniato dall’uomo, nel processo di conoscenza, da far perdere del tutto la consapevolezza di una sua contemporanea presenza anche interiore.

 

In quel tempo, all’inizio del Seicento, sorge anche un’opposizione ad Aristotele che per tutto il medioevo era stato considerato come la massima autorità scientifica, ma che aveva anche in certo senso rallentato il progresso della scienza. Sorse dunque un’opposizione ad Aristotele in tutte le menti che volevano progredire. Se si prendono in attenta considerazione le dichiarazioni (oggi per lo più fraintese) di Aristotele sopra fatti fisici come quello della caduta di un corpo, si trova che esse accennano sempre al rapporto possibile fra un evento fisico esterno e una possibile corrispondente esperienza interiore dell’uomo. Per lui non si trattava dunque di misurare la velocità, bensì di raffigurarsela in modo che il processo esterno venisse messo in relazione con un’esperienza umana. Se l’uomo si propone di partecipare interiormente a quella velocità, egli fa naturalmente l’esperienza di qualcosa di vivo, di una forza mediante la quale appunto realizza quella partecipazione. Egli sente una certa spinta interiore: gli è del tutto estraneo il pensiero che qualcosa lo attiri nella direzione in cui si muove. Gli è molto più ovvio il pensiero che sia lui stesso a spingere, che non quello di essere attratto. Infatti solo nel diciassettesimo secolo la forza di attrazione, la gravità, comincia ad assumere importanza per la conoscenza umana.

 

Le idee sulla natura si modificarono in maniera radicale, per tutti i concetti della fisica, come ho mostrato per le leggi sulla caduta dei gravi. Una di queste idee è quella ché nella fisica viene chiamata la legge dell’inerzia, o della permanenza nello statò di quiete. La legge d’inerzia esprime però qualcosa di assai generico, e tradisce ancora la sua origine umana. Non ho bisogno di spiegare che cosa significa nell’uomo l’inerzia, perché ognuno ne ha un’esperienza personale: comunque, si tratta certo di qualcosa che si può sperimentare interiormente. Che cosa è diventata la legge d’inerzia nella fisica, sotto l’influsso del pensiero galileiano? Nella fisica essa è diventata qualcosa che si esprime così: un corpo (o meglio un punto) lasciato a se stesso, sul quale cioè non venga esercitato alcun influsso esterno, si muove nello spazio con velocità uniforme, vale a dire che per tutti i tempi esso percorre nello stesso tempo un identico tratto di spazio. Se quindi non opera un influsso esterno e il corpo in questione si trova in moto con una data velocità (cioè percorre una data distanza nella unità di tempo), esso si muoverà con la stessa velocità anche in tutte le successive unità di tempo (v. il disegno).

 

 

Il corpo è inerte: se non interviene un influsso esterno, esso non ha la tendenza a modificare il proprio comportamento. Continua a muoversi in modo da percorrere un tratto uguale in ogni secondo di tempo. Ci si limita a misurare il tratto percorso in ogni secondo; anzi, un corpo viene considerato inerte se mostra di percorrere in ogni secondo la stessa distanza.

 

Un tempo questo fenomeno veniva sentito differentemente. Ci si sarebbe chiesti: in che modo si sperimenta un corpo in movimento che in ogni secondo percorre la stessa distanza? Lo si sarebbe sperimentato permanendo noi stessi nella condizione in cui ci si trova, senza mai modificare il nostro comportamento. Naturalmente, dal punto di vista dell’uomo, questo può essere considerato un caso limite: un ideale di inerzia che di fatto si raggiunge solo in misura molto limitata. Tuttavia, se si possiede ciò che nella vita ordinaria si chiama inerzia, ci si accorgerà che si tratta di un’approssimazione all’ideale di continuare a fare sempre la stessa cosa, in ogni secondo della vita!

 

A partire dal quindicesimo secolo l’intero Orientamento delle idee venne spostato in una direzione che si può caratterizzare dicendo che l’uomo dimentica la propria esperienza interiore, anzitutto l’esperienza del proprio organismo fisico. Galilei concepì leggi che riguardano da vicino l’uomo, come la legge della caduta dei gravi o la legge d’inerzia: i suoi pensieri d’altra parte concernono fenomeni che si possono osservare in natura. Tutto quello che Galileo applicò a fenomeni a noi molto vicini, fu poi applicato anche su una scala più ampia.

 

Sappiamo che Copernico concepì un sistema cosmico in senso fisico, ponendo al centro il Sole invece della Terra, facendo ruotare i pianeti intorno al Sole e valutando poi con questo criterio la posizione celeste di ogni pianeta. Questa è l’immagine del nostro sistema solare sviluppata da Copernico, un’immagine che si può anche rappresentare graficamente. Questa immagine però non tendeva ancora in modo radicale verso l’impostazione matematica che poco più tardi separò del tutto il mondo esterno dall’uomo. Leggendo gli scritti di Copernico se ne riporta veramente l’impressione che egli sentisse ancora il carattere dell’astronomia antica. Nelle complicate linee mediante le quali voleva comprendere per esempio il sistema solare, l’astronomia antica non indicava soltanto le successive posizioni per così dire ottiche dei pianeti, ma sentiva anche in qualche modo l’esperienza che si sarebbe fatta, se l’uomo si trovasse entro i moti del sistema planetario. Vorrei dire che nei tempi antichi la gente aveva ancora un’idea molto chiara degli epicicli ecc. che si pensavano descritti dai pianeti. C’era ancora, si direbbe, almeno un’ombra di sentimento umano. Come noi comprendiamo la posizione del braccio di una persona di cui stiamo facendo il ritratto, in quanto quella stessa posizione può essere una nostra esperienza personale, così c’era ancora qualcosa di vivo nello sperimentare i movimenti di un pianeta intorno alla sua stella fissa. Perfino ancora in Keplero, anzi in lui particolarmente evidente, si trova qualcosa di assolutamente umano nel modo di calcolare le orbite dei pianeti.

 

Newton applicò poi il principio astratto di Galileo ai corpi celesti, accogliendo nella propria concezione il sistema copernicano ed enunciando idee come là seguente: un corpo centrale, Cioè un Sole, attira un pianeta in modo che la forza di attrazione diminuisce in proporzione al quadrato della distanza, e aumenta invece in proporzione della massa dei corpi. Se dunque il corpo che attrae possiede una massa maggiore, l’attrazione è maggiore; con l’aumentare della distanza la forza d’attrazione diminuisce, e precisamente diminuisce di quattro volte, se la distanza aumenta del doppio, diminuisce di nove volte se la distanza aumenta del triplo. Anche qui dunque si inserisce nel quadro una serie di misurazioni, concepite sempre in modo del tutto separato dall’esperienza umana. In Copernico e in Keplero le cose non erano ancora giunte sino a questo punto; Newton costruisce un quid cosiddetto oggettivo, esclusivamente pensato, senza più alcuna relazione con un’esperienza diretta dei fatti. Nella direzione verso la quale si guarda, si costruiscono delle linee e in esse si sognano delle forze; infatti, quello che si vede non è una forza: la forza dev’essere aggiunta col sogno. Naturalmente si dice che la forza è stata pensata, fintanto che si crede alla cosa; se non vi si crede più, si dice che è stata sognata! Si può dire che con Newton il modo di pensare i fatti fisici separati dall’uomo viene generalizzato e applicato all’intero universo. Si afferma cioè l’aspirazione a dimenticare del tutto l’esperienza fatta nel corpo fisico umano: a oggettivare ciò che in passato si era concepito come strettamente congiunto con l’esperienza del corpo fisico, a oggettivarlo nello spazio esterno, esso stesso in precedenza avulso dal suo rapporto col corpo umano, e a trovare i mezzi per parlare di queste cose senza più tenere alcun conto dell’uomo. Per mezzo della sceverazione dal corpo fisico, della separazione di ciò che si osserva in natura dall’esperienza fatta nel corpo fisico umano, nasce la fisica moderna: essa ha origine solo per effetto di tale separazione di certi processi naturali dalla esperienza personale fatta nel corpo fisico umano (v. il disegno seguente).

 

Prima si era, da un lato, perduta l’esperienza nel corpo fisico (nel disegno a pag. 101 il tratto in rosso); poi, per effetto della compenetrazione dei fenomeni osservati in natura, da parte della matematica e della concezione fisica separate dall’uomo (linea gialla, nel disegno seguente), non fu più possibile riportare entro l’uomo la nuova fisica.

 

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Non si potè più applicare all’uomo ciò che prima era stato da esso separato. Come contropartita, ne seguì l’impossibilità di riaccostarsi col patrimonio scientifico alla natura dell’uomo.

 

Ora, finché si tratta di fenomeni fisici la cosa non è tanto appariscente; lo diventa molto, se ci si pone la questione di come si mettano le cose, volendo comprendere l’esperienza che l’uomo compie nel suo corpo eterico, in questa parte più tenue del suo organismo. Infatti l’uomo fa molteplici esperienze anche nel suo corpo eterico. Questo tipo di esperienza era però stato separato dall’uomo ancor prima e molto più radicalmente: solo che in questo campo si era stati meno fortunati che nella fisica. Se infatti prendiamo in considerazione un naturalista dei primi secoli cristiani, il medico Galeno, vediamo che, secondo la concezione del suo tempo, egli distingue i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco (o calore, come Si direbbe oggi). Sono queste delle realtà che si percepiscono, se si osserva quanto sta fuori, intorno a noi. Se invece si rivolge lo sguardo all’interno, all’esperienza che di se stesso fa il corpo eterico, si poteva constatare che è proprio mediante il corpo eterico che si fa in noi stessi l’esperienza del solido (terra), del liquido (acqua), dell’aeriforme o gassoso (aria) e dell’elemento calorico, o fuoco. Interiormente, i quattro cosiddetti elementi vengono sperimentati nel movimento dei diversi succhi o umori dell’organismo: precisamente la terra come «bile nera», l’acqua come «bile gialla» o «muco», l’aria come «pneuma», ovvero ciò che viene introdotto con la respirazione, e il calore come «sangue». Negli umori circolanti nell’organismo umano si fa dunque l’esperienza interiore delle stesse cose che si possono osservare fuori dell’organismo. Come si partecipava al moto del sasso in caduta, nel proprio corpo fisico, così si partecipava all’esperienza degli elementi attraverso certi processi interni. Nel modo in cui, nei processi del ricambio, si riteneva che interferissero fra loro la bile, il muco, il sangue, si sentiva l’esperienza del proprio corpo, ma era una forma di esperienza alla quale corrispondevano i processi che nel mondo esterno si svolgono fra l’aria, l’acqua, il fuoco e la terra.

 

Calore – sangue Organizzazione dell’io

Aria – pneuma Corpo astrale

Acqua – muco (o flegma) Corpo eterico – Chimica

Terra – bile nera Corpo fisico – Fisica

 

Ora, in questo campo non era possibile dimenticare del tutto e radicalmente l’esperienza interiore, la vita dell’organismo, conservandone ancora certi frutti da applicare all’osservazione del mondo esterno. Nel caso della caduta del sasso si poteva misurare qualcosa, per esempio il tratto percorso nella prima unità di tempo. La legge d’inerzia si poteva ricavare dal fatto che possono esservi dei punti in movimento che non modificano le condizioni del loro moto, cioè conservano la medesima velocità. Quando però si volle distaccare dall’esperienza interiore ciò che vi era stato vissuto in modo così specifico, vale a dire la partecipazione ai quattro elementi, allora si potè certo dimenticare l’esperienza interiore, ma non fu possibile portare nel mondo esterno un procedimento corrispondente o simile alla misura di una grandezza fisica. Perciò non si riuscì ad oggettivare questo gruppo di esperienze come si era riusciti per quelle fisiche. A questo punto le cose stanno ancor oggi. La chimica sarebbe potuto diventare nei riguardi del corpo eterico qualcosa di equivalente a ciò che la fisica è per il corpo fisico, se fosse stato possibile separare dall’esperienza eterica, per portarlo nel mondo esterno, tanto quanto era riuscito per l’esperienza del corpo fisico. Invece la chimica non è diventata un perfetto equivalente della fisica: quando enuncia le sue leggi, essa sembra tuttora parlare di qualcosa di abbastanza vago e indeterminato. Perché è proprio così: la chimica vuole conseguire per il corpo eterico ciò che per il corpo fisico si è fatto con la fisica. Certamente la chimica afferma che succede qualcosa di determinato, quando le sostanze si combinano chimicamente fra di loro, modificando talora del tutto le loro proprietà, e perfino il loro stato di aggregazione. Se però non ci si vuol limitare solo alla rappresentazione, che sarebbe la più semplice e la più comoda, bisogna riconoscere che di quel processo si conosce ben poco. L’acqua consiste dì idrogeno e di ossigeno, sicché si è costretti a immaginarseli in qualche modo commisti nell’acqua; però non si riesce ad avere un’idea veramente viva di come quella commistione si realizzi. Allora per spiegare il fenomeno si ricorre a qualcosa di molto esteriore: si dice che l’idrogeno e l’ossigeno consistono entrambi di atomi, o se vogliamo di molecole. Queste si intersecano, si scontrano, si combinano e così via. In questo campo dunque, il dimenticare l’esperienza interiore non produsse gli stessi effetti che per la fisica, nella quale si potevano effettuare delle misure (infatti la fisica ricorse sempre più alla misurazione, alla numerazione, alla pesata); si era invece costretti a raffigurarsi solo nel pensiero il processo interiore. E per la chimica le cose sono restate più o meno allo stesso punto fino ad oggi. In realtà le idee che ci si fanno ancor oggi su quanto avviene all’interno dei processi chimici sono idee aggiunte col pensiero ai processi stessi.

 

La chimica sarà all’altezza della fisica solo quando si sarà pienamente riconosciuto quanto ho oggi qui esposto: cioè quando si riuscirà a ritrovare in pieno la connessione della chimica con l’essere umano, pur non potendo più sperimentare direttamente tale connessione come poteva farlo un’antica chiaroveggenza istintiva. Questo però naturalmente non potrà riuscire prima del riconoscimento che anche i fenomeni fisici sono connessi con l’uomo: lo si dovrà riconoscere almeno nel pensiero, per innalzare la conoscenza dei singoli fenomeni a una vera concezione del mondo. Infatti, se si affronta direttamente e si misura il fenomeno esterno, il cosiddetto mondo oggettivo, dimenticando l’esperienza interiore, si va incontro ad altri gravi inconvenienti. È facile dire che l’inerzia si esprime nel movimento di un corpo che percorre in ogni unità di tempo la stessa distanza: ma un tale punto non esiste affatto. Un tale moto uniforme non avviene in nessun luogo osservabile con i mezzi umani, perché ogni oggetto mobile viene qua o là impedito nella sua mobilità. In sostanza non esiste qualcosa che si potrebbe descrivere come massa inerte, o che si potrebbe attribuire alla legge d’inerzia. Ma parlando del moto senza potersi riferire alla partecipazione interiore al moto stesso, cioè alla compartecipazione alla natura, (alla comprensione della velocità di caduta mediante quella che sarebbe la propria esperienza di tale caduta), bisogna concludere che si è del tutto esclusi dal moto. Si è costretti ad orientarsi sul mondo esterno. Se dunque io vedo muoversi qui un corpo (v. il disegno) e questi punti sono le sue posizioni successive, io devo in qualche modo percepire che il corpo si muove. Se nello sfondo si trova una parete, io posso guardare verso di essa in diverse direzioni successivamente. Immaginando la parete retrostante in stato di quiete, ne posso dedurre che il corpo si muove nella direzione della freccia. Sarebbe però necessario inoltre che io effettuassi l’osservazione dà qui (il cerchio scuro, in basso nel disegno), che cioè percepissi anche un’esperienza interiore.

 

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Se mi oriento soltanto fuori, eliminando del tutto l’esperienza umana, il risultato sarebbe indifferente, tanto se fosse l’oggetto a muoversi quanto se esso stesse fermo e si muovesse invece la parete. Mi troverei nell’impossibilità di distinguere se il corpo si muove in una certa direzione o se invece è la parete retrostante a muoversi nella direzione opposta. In fondo potrei eseguire tutti i calcoli sia con l’una sia con l’altra premessa.

 

Si perde quindi la possibilità di comprendere veramente il movimento, se non lo si può sperimentare interiormente. Ciò vale anche per altri fenomeni fisici. Per il fatto di avere eliminato la partecipazione interiore all’esperienza, riesce impossibile gettare un ponte fra noi e l’evento oggettivo. Se sono io stesso a camminare, non mi riuscirà di dire che è indifferente che mi muova io o che il terreno si muova in direzione opposta. Se però io stesso osservo esternamente un’altra persona muoversi sopra un terreno, per tale osservazione puramente esteriore è del tutto indifferente che si muova la persona o il terreno in direzione opposta. Si può veramente dire che la nostra epoca subisce per così dire la vendetta dello spirito del mondo, per il fatto di avere così separato dal fisico l’elemento umano.

 

Mentre Newton era ancora del tutto certo di poter ammettere dei moti assoluti, oggi vediamo numerosi pensatori sforzarsi di constatare che insieme all’esperienza interiore è andata perduta anche la conoscenza del moto. Questa infatti è l’essenza della teoria della relatività che oggi si propone di scardinare la concezione newtoniana. La teoria della relatività è una necessità storica: essa oggi deve esistere, poiché non si riesce a fame a meno, se ci si continua a valere dei concetti che prescindono del tutto dall’uomo. Infatti, volendo conseguire conoscenza del movimento o dello stato di quiete, occorre partecipare all’esperienza di essi: se non vengono sperimentati dall’uomo, perfino il moto e la quiete sono reciprocamente soltanto relativi.