Mosè / Il cammino di Mosè nel deserto

L’aurora della rivelazione


 

In un’esposizione limitata nello spazio, si può mettere in risalto solo ciò che è più adatto a favorire la comprensione degli elementi essenziali. Non sarà perciò possibile addentrarsi in tutti i particolari della vita di Mosè, quali ci vengono descritti nella Bibbia.

Per comprendere l’opera di Mosè come una realtà che si sviluppa nel tempo, occorre perciò estrarre dal racconto dell’intera peregrinazione del popolo di Israele nel deserto tre eventi significativi. Essi sono:

• il nutrimento del popolo mediante la manna celeste,

• il suo dissetarsi mediante l’acqua scaturente dalla roccia,

• la sua liberazione dai serpenti infuocati mediante il serpente di bronzo.

 

Questi tre avvenimenti rappresentano le tappe di un cammino che il popolo eletto doveva compiere sotto la guida di Mosè. Che questo cammino potesse essere compiuto solo nel deserto, risulta evidente dal fatto che si trattava dell’inizio di una nuova corrente spirituale di cultura. Una tale corrente non poteva nascere all’interno di una civiltà già esistente. Essa aveva bisogno, per svilupparsi, di uno spazio libero, di un vuoto culturale.

Egitto, Babilonia, Fenicia erano custodi di antiche culture, ormai i in decadenza. Con le loro tradizioni avrebbero soffocato il tenero germe della nuova cultura. Per questo fu necessario peregrinare così a lungo nel deserto, lontano dalle grandi civiltà, fino a che la cultura della rivelazione israelita non avesse raggiunto un certo grado di maturità. Questo grado di maturità fu raggiunto solo quando la generazione fuoriuscita dall’Egitto era scomparsa.

 

L’elemento nuovo non avrebbe potuto infatti liberarsi dall’influenza egizia,

finché non fossero morti tutti coloro che erano vissuti in Egitto.

 

L’esperienza del deserto aveva dunque lo scopo di preparare una generazione,

chiamata a rinnovare coscientemente il patto di Abramo, Isacco e Giacobbe.

 

I tre impulsi originari dei patriarchi

dovevano essere sperimentati nuovamente da tutto il popolo nel deserto,

in modo tale, però, che essi, dal subconscio in cui operavano,

potessero ascendere nell’ambito della coscienza.

 

Il rinnovamento del patto nel deserto consisteva appunto nel fatto che l’intero popolo fosse condotto da Mosè a quelle conoscenze, di cui un tempo avevano beneficiato Abramo, Isacco e Giacobbe.

I tre gradi del primo patto dovevano ora essere vissuti dall’intero popolo nel deserto.

Per questo nelle pagine seguenti si esamineranno i tre avvenimenti sopra indicati, i quali sono nel contempo gradi del cammino per il rinnovamento di quel patto.

 

Un uomo che percorra il deserto, si trova ad affrontare tre pericoli.

L’aridità, la siccità e la calura lo pongono di fronte ai pericoli della fame, della sete e della prostrazione.

 

L’aspetto spirituale del passaggio nel deserto implica del pari alcuni pericoli.

Essi si presentano in quanto gli effetti della solitudine vengono sperimentati successivamente nel corpo astrale, nel corpo eterico e nel corpo fisico.

La vita dell’uomo dipende dagli stimoli che egli riceve dal variegato mondo circostante.

Se quest’ultimo si riduce all’uniformità del deserto, sorge nell’uomo una fame di stimoli esterni.

 

L’esperienza della mancanza di stimoli provenienti dall’esterno costituisce la prima prova della solitudine. Una simile esperienza produce col tempo un effetto sulla condizione generale della vita interiore. Per il fatto che la vita interiore è rimessa sempre più alle proprie risorse autonome, essa si indurisce in se stessa. La sua vivacità può venir meno, onde l’uomo in stato di solitudine sente la nostalgia del flusso dell’esperienza. Egli prova la sete della vivente mobilità dell’esperienza. Può però accadere che egli cerchi di creare questa mobilità in base al proprio desiderio. Nel vivace gioco della fantasia egli può allora crearsi un mondo soggettivo, che supplisca all’insoddisfacente mondo circostante. La mobile vita del desiderio si fa allora ardente, onde si sviluppa uno stato di infiammazione dell’anima.

Questo è il più grande pericolo della solitudine: l’ipertrofia della vita della volontà, a spese della vita del pensiero e del sentimento. Tutte le passioni esplodono in una febbrile agitazione. Una nebbia di fuoco oscura i sensi. La salutare freddezza del pensare e l’intima chiarezza del sentire vengono travolti da un fuoco che consuma.

 

L’assenza di influenze dall’esterno era necessaria per la rivelazione del nuovo. Tale necessità comportava però anche i pericoli propri del ‘deserto’: la fame, la sete e il caldo, di cui il popolo eletto ebbe a soffrire. Questa sofferenza era d’altra parte necessaria, poiché ogni rivelazione dev’essere preceduta da una sofferenza che le spiani la via. In seguito alla caduta, la compagine umana è costituita in modo tale da richiedere una trasformazione mediante la fatica e il dolore, ogni volta che deve compiersi una nuova rivelazione spirituale.

 

La fortuna rafforza l’uomo per il suo lavoro sulla terra,

ma il dolore gli permette di gettare uno sguardo nel cielo.

 

Di un simile sguardo si trattava riguardo al popolo di Israele quando, sotto la guida di Mosè, peregrinava per il deserto. La fortuna camminava innanzi ad esso nella figura della colonna di fuoco. Il dolore, invece, lo visitò nell’accampamento e nelle tende, forgiando il legame della rinnovata alleanza. Fu così possibile che nel deserto si compisse una rivelazione del manas, o sé spirituale.

Questa rivelazione non fu individuale, ma collettiva. Essa iniziava al crepuscolo della sera, e svaniva con i primi raggi del sole.

 

Un nuovo tipo di sonno subentrò nei membri della comunità israelita: la mancanza di impressioni di cui pativano nella vita diurna, veniva compensata dalla ricchezza di impressioni di cui era foriera la notte. Il deserto taceva durante il cammino diurno, ma durante la notte sussurrava grandi promesse. Se l’orizzonte polveroso del giorno parlava solo di un cammino monotono verso un futuro incerto e lontano, le altezze sideree della notte parlavano dei segreti di un grande futuro, e colmavano l’anima della forza e del coraggio necessari a continuare l’interminabile cammino.

 

La povertà dell’esperienza nella dimensione orizzontale,

era una preparazione alla ricchezza della vita nella dimensione verticale.

 

Se la piana del deserto provocava la fame, la manna che cadeva dal cielo nutriva gli affamati. Le anime che con Mosè hanno sperimentato nel deserto la rivelazione del manas, formano, nei millenni successivi, la comunità karmica degli ‘uomini del manas’. Le impressioni di allora vivono ancora in queste anime, ma non raggiungeranno la maturità del possesso interiore, se non nella sesta epoca di cultura.

 

Questi uomini formano il nucleo originario della comunità ‘filadelfica’ del manas.

A ciò furono destinati fin da quando, sotto la guida di Mosè, ricevettero le rivelazioni notturne nel deserto.

Le anime che un tempo si cibarono della manna celeste,

formano una comunità destinata in futuro a diventare nuovamente una realtà storica.

La rivelazione del manas nel deserto era rivolta al futuro.

 

Gli uomini non potevano però vivere esclusivamente di futuro e per il futuro. Essi erano assetati di una vita diurna nel presente. Se infatti il corpo astrale può, in certo modo, ‘protendersi’ verso il futuro – il che corrisponde all’esperienza del manas nel corpo astrale stesso – il corpo eterico dipende invece dall’afflusso di forze vitali nel presente. Se ciò non avviene, esso si irrigidisce.

Nella comunità israelita in cammino nel deserto tale afflusso dall’esterno fu impedito. I corpi eterici dei suoi membri furono abbandonati a se stessi. Di conseguenza comparve la ‘sete’, ossia il desiderio ardente di un apporto di forze vitali eteriche.

Un tale apporto gli fu dato, non però alla vecchia maniera, ossia dall’esterno, dalla natura circostante, ma dall’interno. Mosè percosse la roccia, e ne scaturì una corrente di acqua viva. L’origine di quest’acqua non va ricercata nella natura, ma nell’interiorità dello spirito umano, che opera nel corpo eterico.

 

La ‘sete’ fu placata dal fluire della forza dello spirito vitale (buddhi) nel corpo eterico.

Non si trattò di una conoscenza dello spirito vitale – essa non era infatti ancora possibile – ma della presenza della sua forza nel corpo eterico. Ma che cos’è la forza dello spirito vitale. Essa è il respiro del Cristo.

 

L’acqua viva che scaturiva dalla roccia, fu un primo contatto con l’entità vivente del Cristo,

che annunciava profeticamente la sua futura presenza nell’organismo della terra.

Fu un’esperienza anticipata dell’’acqua viva’, di cui si parla nei Vangeli.

 

• Grazie all’attività del manas, la rivelazione di Abramo ricevette nuova vita, diventando

però ora un’esperienza comune a tutto il popolo.

La forza del Figlio, di cui era stato portatore Isacco, divenne del pari un’esperienza

dell’intero popolo, grazie al ‘segno’ dell’acqua scaturente dalla roccia.

• La terza esperienza del popolo nel deserto fu il ripetersi dell’evento del combattimento spirituale di Giacobbe.

 

Come infatti l’esito di quel combattimento era stato determinato dal fatto che Giacobbe aveva scorto una verità superiore a quella del messaggero della morte, così la visione della verità superiore del serpente di bronzo liberò gli Israeliti dal morso letale dei serpenti infuocati.

Quest’ultimo avvenimento racchiude in sé un mistero, del quale si potrà qui parlare, solo per quel tanto che è necessario ad indicare la direzione ulteriore della nostra ricerca.

 

Tra i pericoli della solitudine sopra caratterizzati, il terzo è quello dell’infiammazione dell’anima. Esso consiste in un soggiacere della vita interiore all’influsso luciferico, da cui possono prodursi effetti anche sullo stato di salute fisica. Se la compagine umana perde il suo equilibrio a favore dell’infuocato polo della volontà, si forma il terreno per una febbre distruttiva. Un fuoco ascende allora, con movimento serpentino spiraliforme, alla testa. La malattia fisica è ancora l’esito migliore di questo processo. Essa infatti gli oppone una barriera e lo combatte. Diverso è il caso, quando ‘l’ascesa del serpente di fuoco’ viene utilizzata come metodo.

Negli scritti oggi diffusi sullo yoga indiano, un tale metodo è reso noto ad ampie cerchie nel mondo intero. Se lo si pratica realmente, però, la sua conseguenza non può essere altro che la morte, o un tipo di malattia mentale che non ha ancora un nome in psichiatria.

Questo fu appunto il pericolo che minacciò il popolo di Israele. Il morso letale dei ‘serpenti infuocati’ era una sorta di follia che si diffondeva contagiosamente nel popolo, e si concludeva con la morte di coloro che ne erano stati affetti. Questa malattia era una conseguenza estrema dell’azione del principio luciferico nell’uomo.

 

Il pericolo della solitudine

consiste nella possibilità di soccombere interamente all’influsso luciferico.

 

Durante la peregrinazione nel deserto del popolo d’Israele questo pericolo fu rappresentato dalla piaga dei serpenti infuocati. Di conseguenza la liberazione poteva avvenire solo con la guarigione del popolo dalla malattia luciferica. La guarigione consisteva in una trasformazione interiore dell’elemento luciferico, quale già si era avuta nel combattimento spirituale di Giacobbe. Tutto quanto si è detto nel quarto capitolo a proposito della trasformazione dell’elemento luciferico, vale anche per l’episodio del serpente di bronzo. Per la comprensione di questo simbolo, tuttavia, quello che si è detto là non è sufficiente. A tale scopo si deve aggiungere quanto segue.

 

Grazie al Mistero del Golgota, Lucifero divenne il ‘paracleto’,

ossia un’entità spirituale disposta a servire Cristo per amore.

Questa è la trasformazione interiore di Lucifero.

 

Il karma dell’elemento luciferico, tuttavia, perdura ancora nella direzione assunta in precedenza. A poco a poco l’atteggiamento interiore di Lucifero trasformerà l’azione dell’elemento luciferico. Solo in un lontano futuro, però, tale trasformazione si estenderà all’ambito dei fenomeni oggettivi. La futura condizione dell’universo chiamata Venere, corrisponde, secondo l’occultismo, all’ultimo stadio della trasformazione karmica dell’elemento luciferico.

Lucifero allora opererà come alleato del Cristo anche nell’ambito dei fenomeni esteriori. Egli si manifesterà tramite la forza spirituale del rame che, in accordo con l’azione del Cristo, produrrà effetti risanatori sulla natura. Il serpente che, nella condizione paradisiaca dell’umanità, si era presentato come seduttore, diverrà allora un serpente di bronzo , fungente da strumento risanatore.

 

Anche il processo di trasformazione interiore della gerarchia luciferica si svolge per gradi.

Mentre Lucifero aveva attuato una conversione interiore solo con il Mistero del Golgota, in singole entità appartenenti alla gerarchia luciferica, ciò era avvenuto già in precedenza. Ve n’erano anche alcune che fin dall’inizio al tempo della prima defezione da parte della gerarchia luciferica erano rimaste fedeli allo Spirito Santo.

Queste entità – sotto la guida di una di esse che, in virtù dei suoi sacrifici, era ascesa ad un’alta dignità interiore – formarono la coscienza morale della gerarchia luciferica. Esse appartenevano a questa gerarchia, tuttavia rimasero fedeli alla guida divina, costituendo una sorta di monito per le entità decadute della schiera di Lucifero. Da allora impersonano in certo modo la meta degli spiriti luciferici. In esse la trasformazione dell’elemento luciferico si era compiuta fin dall’inizio.

Il serpente di bronzo non è dunque solo l’immagine di un’evoluzione futura di Lucifero, ma anche, per la coscienza luciferica, un simbolo rammemoratore del passato. La vista di questa immaginazione risanò, ossia produsse una trasformazione dell’elemento luciferico nell’uomo, in quanto destò nella coscienza della gerarchia luciferica la fase dell’ espiazione.

 

Mosè condusse così il popolo di Israele a rinnovare l’alleanza, facendogli sperimentare

• la conoscenza di Abramo,      • la vita di Isacco     • e la trasformazione interiore di Giacobbe,

• mediante gli eventi della manna celeste,

• dell’acqua che scaturisce dalla roccia,

• e della guarigione alla vista del serpente di bronzo.

 

Il cammino di Mosè nel deserto non ebbe tuttavia un significato solo per il popolo, ma anche per lui stesso.

In quelle circostanze, infatti, anche Mosè affrontò alcune prove per il proprio cammino individuale.

Ciò nondimeno, egli percorse quel cammino per il popolo, ossia per giovare al suo bene:

solo così, infatti, era possibile per lui un progresso individuale. Lo stesso vale, del resto, anche per il presente.

 

La massima ‘quando la rosa si fa bella, adorna anche il giardino’ è valida solo fino ad un certo grado dell’evoluzione individuale. I gradi più elevati possono essere conseguiti, solo se il loro conseguimento deriva dalla volontà di prestare servizio all’umanità. Più alto è il grado da conseguire, più ampia dev’essere la cerchia umana che si è disposti a servire. Tale fu anche l’esigenza posta a Mosè.

 

Mettendosi al servizio del popolo, egli potè, mediante la visione e l’ascolto, stabilire un rapporto con l’entità, il cui nome misterioso era ‘Io-sono’.

• Mediante l’immaginazione e l’ispirazione, egli potè conoscere il volto di questa entità, Jahvè- Elohim.

• Per conoscere invece l’entità misteriosa che si celava dietro a Jahvè, egli avrebbe dovuto ascendere all’intuizione.

Tale ascesa sarebbe stata possibile, solo se egli avesse esteso la sua capacità di identificarsi con il popolo di Israele all’intera umanità. Questo però non avvenne.

 

Quando l’entità spirituale che lo guidava gli rivelò la propria intenzione di distruggere quel popolo e farne nascere un altro dalla sua posterità, egli si oppose, dicendo che in quel caso avrebbe preferito morire con il popolo. “Che cosa diranno gli Egiziani, quando verranno a sapere che questo popolo è perito nel deserto?”, fu la sua obiezione

(Cf. Es 32:9- 14; Num 14:10-35; Deut 9:13-19).

Per lui era quel popolo a dover compiere la missione. Egli non potè elevarsi al punto di vista, per il quale ciò che conta è l’opera, non il gruppo umano che la compie.

 

La conseguenza tragica del fatto che Mosè “non aveva creduto nel Signore” (Num 20:12), ossia non era stato in grado di elevarsi alla conoscenza intuitiva dell’entità dell’‘Io-sono’ nel mondo spirituale, fu la proibizione di entrare nella terra promessa. Se, infatti, il cammino nel deserto significò per Mosè l’ascesa dal primo al secondo grado della coscienza sovrasensibile, l’entrata nella terra promessa avrebbe significato il conseguimento del terzo grado, ossia la conoscenza intuitiva dell’entità del Cristo.

 

Ma poiché “non aveva creduto”,

ossia non era stato in grado di elevarsi ad una conoscenza scevra di immagini e di parole,

gli fu concesso di vedere la terra promessa solo da lontano. L’ingresso gli fu precluso.

Mosè morì dunque nel deserto, dopo esser giunto ai confini della conoscenza del Cristo,

e senza averli varcati.

 

La tragedia dell’epoca dell’antica Alleanza risiedeva

nell’impossibilità di giungere ad una conoscenza diretta del Cristo.

A quel tempo, infatti, la conoscenza del Cristo era una conoscenza lunare:

si poteva percepire solo il riflesso della luce del Cristo.

Questa percezione, tuttavia, si interiorizzò sempre più nel corso della storia dell’Antico Testamento.

 

Mostrare in che senso ciò sia avvenuto, sarà il compito del prossimo capitolo.