I concetti di domanda e di offerta si annullano da sé

O.O. 340 – I capisaldi dell’economia – 31.07.1922


 

Sommario: Correzione di alcuni concetti economici. I concetti di domanda e di offerta si annullano da sé. Le tre equazioni dei prezzi. Nel mercato il denaro diventa un fattore giuridico. Reali impossibilità odierne: scambio fra diritti e merci, fra capacità e diritti. Il «plusvalore» è concetto morale, non economico. I giudizi concreti in merito al processo economico non sono teorici, ma son solo possibili mediante le associazioni. Il denaro non va compreso attraverso lo scambio. Economia di scambio, economia monetaria, economia delle capacità umane.

 

Oggi dovremo ancora occuparci di correggere alcuni dei concetti esistenti che disturbano chi intraprenda uno studio oggettivo, conforme alla realtà dei problemi economici, e voglia poi, forte di tale preparazione, anche intervenire praticamente nella vita economica; una scienza economica che non sia in grado di fecondare la vita pratica non ha effettivo valore; devono in fondo rimanere sterili i concetti ricavati da una scienza economica che si limiti alla semplice osservazione.

 

Dato che abbiamo forse già riconosciuto che, nell’àmbito della scienza economica, il problema più importante è quello del prezzo, si tratterà di osservare il prezzo nel senso da me esposto. Nel senso che, a seconda ch’esso cresca o si contragga, o permanga a una quota stabile, oppure, per chi abbia una certa sensibilità al riguardo, sia troppo alto o troppo basso per taluni prodotti, il prezzo ci indica se le cose, nell’organismo economico, sono in ordine o no. Il compito delle associazioni dev’essere infatti quello di scoprire, secondo il barometro dei prezzi, ciò che è da farsi nei vari campi della vita economica.

 

È notissimo che una delle opinioni dominanti è che, riguardo al problema dei prezzi, non si possa in pratica far altro che quanto risulta spontaneamente per effetto della domanda e dell’offerta. È però vero che sotto la pressione, non dei fatti economici, ma delle sempre più urgenti aspirazioni sociali, è stata scossa l’opinione, già espressa da Adam Smith e da molti altri, che nella vita economica il prezzo si equilibri in fondo da sé sotto l’influsso dell’offerta e della domanda. Si asserisce semplicemente che quando vi sia un’offerta troppo abbondante, l’offerta stessa ci imporrà di ridurla, di far sì che non permanga quale è; sicché, si dice, si verificherà spontaneamente un assestamento dei prezzi-. Così pure, quando la domanda sia troppo forte o troppo debole, i produttori si regoleranno affinché non si produca né troppo né troppo poco. Insomma, quasi automaticamente, sotto la spinta della domanda e dell’offerta sul mercato, il prezzo dovrà avvicinarsi a una certa condizione di stabilità.

 

Dovremo ora chiederci se con una concezione simile ci si muova solo in un sistema teorico, concettuale, oppure se si scenda nella realtà. No, questa concezione non ci porta nella realtà poiché, andando un po’ in fondo ài concetti di domanda e offerta, si vedrà subito che nella realtà economica non si possono nemmeno porre. Si potranno porre forse da parte di un semplice studioso della vita economica, che osservi sul mercato come si comportano l’offerta e la domanda, ma ci si chiede se ciò che così si osserva penetri molto a fondo nei processi economici, se i concetti relativi ci diano in mano qualcosa di reale. Ma simili concetti non ci daranno nulla per la realtà, perché trascurano ovunque ciò che si nasconde dietro ai fenomeni che con essi si vorrebbero afferrare. Si vedrà svolgersi sul mercato l’offerta e quella che comunemente si chiama la domanda; ma ancora non sì abbraccerà quel che sta dietro all’offerta, né quel che a sua volta precede la domanda. Là appunto si trovano i processi economici reali che poi sul mercato s’intrecciano e si confondono. Lo si vedrà soprattutto nel fatto che quei concetti sono estremamente caduchi.

 

Se vogliamo formarci dei concetti giusti in proposito, questi devono e possono esser mobili di fronte alla vita; devono potersi modificare e trasferire in certo modo dall’uno all’altro campo della realtà; ma non devono mai esser tali da annullarsi da sé.

 

Invece tanto il concetto di offerta quanto quello di domanda si annullano proprio da sé. Supponiamo infatti che una certa merce sia offerta. Si ha un’offerta quando uno porta delle merci sul mercato e le mette in vendita a un dato prezzo. Ognuno può asserire che questa è un’offerta. Io invece dico: no, questa è una domanda! Se uno porta sul mercato una merce per venderla, egli fa una domanda di denaro. Se non si approfondiscono i nessi economici, non vi è infatti alcuna differenza tra il fare un’offerta di merci e una domanda di denaro. Se intendo fare domanda di merce, bisogna che io possa fare offerta di denaro.

 

Dunque offerta di merci è domanda di denaro e offerta di denaro è domanda di merci. Queste sono realtà economiche. Il processo economico, in quanto è scambio o commercio, non può compiersi altrimenti che con offerta e domanda, ma tanto da parte dell’acquirente quanto da parte del venditore; l’offerta di denaro fatta dall’acquirente deve prima essersi sviluppata nel processo economico, così come deve essersi sviluppata la merce che si offre.

 

Non abbiamo dunque davanti a noi dei concetti reali, quando crediamo che il prezzo nasca dal reciproco rapporto di ciò che chiamiamo di solito offerta e domanda; il prezzo non si sviluppa affatto secondo le definizioni di chi pensa nel modo accennato. Anche sul modo in cui il prezzo si forma, influisce infatti la circostanza che il richiedente possa diventare un offerente di denaro, oppure che egli, per le contingenze del processo economico, non possa diventarlo in un dato momento e per un dato prodotto. Nel processo economico non basta che vi sia come offerta una certa quantità di merci, ma occorre vi sia anche un numero di persone che, appunto per quelle merci, possano sviluppare l’offerta di denaro. Questo mostra subito come non sia proprio possibile parlare solo di un gioco reciproco di offerta e domanda nel senso solito.

 

Eppure se ora non guardiamo ai concetti, che possono anche essere formati erroneamente, ma se guardiamo ai fatti, alle realtà del mercato, o anche alle realtà dello scambio di merci e di denaro extramercato, è fuori dubbio che il prezzo si sviluppa proprio tra la domanda e l’offerta; però da ambo i lati. Se si guarda puramente ai fatti non si può negare che sia così.

 

Soltanto che offerta, domanda e prezzo sono tutti e tre fattori primari. Non possiamo quindi scrivere matematica- mente: p = f (od) — prezzo in funzione di offerta e domanda — con offerta e domanda come grandezze variabili e p (prezzo), come una grandezza risultante da quelle due variabili. Dobbiamo invece considerare alla stessa stregua offerta, domanda e prezzo tutt’e tre come variabili, indipendenti l’una dall’altra; e dobbiamo avvicinarci a una grandezza x. Abbiamo a che fare con tre quantità indipendenti l’una dall’altra che entrano in reciprocità d’azione, e dànno appunto qualcosa di nuovo. Il prezzo sta in effetti tra l’offerta e la domanda, ma in modo molto peculiare:

x = f(odp)

Il fenomeno va proprio osservato prendendo le mosse da tutt’altra angolatura. Se in qualche luogo del mercato vediamo che l’offerta e la domanda, appunto in questo campo, sono nella connessione già osservata per esempio da Adam Smith, questo è press’a poco (non però del tutto) il caso che vale per la circolazione delle merci dal punto di vista del negoziante. Ma non è affatto il caso che vale dal punto di vista del consumatore, o per quello del produttore. Infatti per il consumatore vale tutt’altro.

 

La posizione del consumatore è determinata da ciò che egli ha; e fra ciò ch’egli ha, e ciò che dà, si sviluppa un rapporto analogo a quello che per il negoziante si sviluppa tra offerta e domanda: il consumatore è inserito nella reciproca azione tra prezzo e domanda. La sua domanda sarà minore quando per la sua borsa il prezzo sarà troppo caro, e sarà maggiore quando per la sua borsa il prezzo sarà abbastanza basso. Come consumatore, egli guarda solo a prezzo e domanda.

 

Diciamo dunque: per il consumatore dobbiamo guardare soprattutto alla reciproca azione tra prezzo e domanda. Per il negoziante dobbiamo guardare specialmente alla reciproca azione tra offerta e domanda. E infine per il produttore conta la reciproca azione tra domanda e prezzo. Infatti il produttore, riguardo all’offerta, si regola secondo i prezzi che sono possibili nell’insieme del processo economico. Possiamo dunque chiamare la prima equazione: p = f (od) equazione del negoziante. Adam Smith l’ha fatta valere per la totalità del processo economico, ma per tutto il processo essa è errata. Possiamo infatti anche formare l’equazione seguente, considerando l’offerta come funzione di prezzo e domanda, e la domanda come funzione di offerta e prezzo. Allora nell’equazione: d = f (op) domanda = funzione di offerta e prezzo, si ha l’equazione del produttore. E nella terza equazione: offerta in funzione di prezzo e domanda, o =f (pd), si ha l’equazione del consumatore. Queste equazioni sono sempre qualitativamente diverse per il fatto che l’offerta è per il consumatore un’offerta in denaro; per il produttore è una domanda di merci, e per il negoziante abbiamo a che fare con qualcosa che sta propriamente in mezzo fra il denaro e la merce.

 

p = f (od) equazione del negoziante

d = f (op) equazione del produttore

o = f (pd) equazione del consumatore

 

Vediamo così quanto più complicato del solito è il modo in cui si deve osservare il processo economico. Appunto perché i concetti si vogliono fissare troppo alla svelta non esiste oggi in fondo una giusta dottrina economica. Se però vogliamo penetrare nella vera realtà, dobbiamo chiederci: quale somma di fatti, quali e quante cose vivono in sostanza in tutto il processo economico?

 

Si può dire: quel che mi procaccio per i miei bisogni, nelle circostanze in cui viviamo, passa nella mia sfera (parlerò più tardi di possesso, di proprietà; ora voglio esprimermi in un modo indeterminato, nondimeno rispondente al fenomeno) ed io in cambio do del denaro o qualcos’altro (così si svolgono in genere i fatti). Ma con ciò abbiamo forse esaurito tutta la realtà dello svolgimento economico? Non potrei forse procacciarmi denaro e merce anche in altra maniera, che non dando merce contro denaro oppure denaro contro merce? Supponiamo che io rubi. Anche rubando mi sarei procacciato qualcosa; e se potessi esercitare il furto all’ingrosso, come talora l’esercitarono per decenni gli antichi capi banditi, bisognerebbe istituire per tali condizioni una scienza economica del tutto diversa da quella che si deve fondare in genere secondo la nostra dottrina morale. Potrà forse sembrare grottesco che io dica: «Rubo», ma che cosa significa precisamente «rubare»? Rubare significa: togliere qualcosa a qualcuno, senza ch’egli sia in grado di opporsi, e senza che chi ruba ritenga opportuno offrire un compenso per la cosa tolta.

 

Confrontiamo ora per esempio il concetto, diventato ignobile, di furto, con quello di requisizione. In determinate circostanze si requisisce, si toglie cioè qualcosa alla gente senza dare alcun compenso. Anche altrimenti avviene nel processo economico che si tolga qualcosa alla gente senza alcun compenso. Si tratta di fatti che occorre ricordare, senza con questo assumere atteggiamenti agitatori. Qui intendo parlare scientificamente e non agitare. Ora supponiamo che si istituisse in qualche luogo un ordinamento sociale, un territorio ristretto ordinato socialmente, in cui si abolisse il denaro e si organizzassero invece, con forze armate sufficienti, delle scorrerie in cui le persone che possiedono qualcosa venissero uccise e private dei loro averi. Che cosa mai impedirebbe che ciò avvenisse? Il fatto che forse gli altri si difenderebbero, e in tal caso dovrebbero avere i mezzi per difendersi; oppure che non si ritenesse utile l’aggressione per l’esiguità del territorio da invadere.

 

A questo punto si deve inserire nel processo economico qualcosa di diverso. Io non posso così senz’altro togliere a qualcuno quel che gli appartiene. E perché no? Perché il fatto che mi sia lecito tenere per me la cosa in questione, deve in qualche modo venir riconosciuto dal mio prossimo; e in nessun modo verrà riconosciuto che mi sia lecito tenere per me ciò che ho acquistato ammazzando la gente tutt’intorno. Che cosa entra qui in gioco? Entra in gioco il diritto. Non potremo mai studiare il processo economico senza riconoscere che vi è in gioco il diritto. Non si può né concepire, né realizzare economicamente ciò che va fatto, se nell’economia non s’inserisce il diritto. Se poi, anziché il baratto, si considera il commercio a base di denaro, si vede subito come nell’economia entri in gioco il diritto. Infatti, come mai potrebbe essere possibile in genere che in cambio di un paio di scarpe io dessi, per esempio, invece di un cappello a cilindro, 20 monete, se esse (anche se d’oro) non fossero riconosciute da tutti come un valore, per il quale a sua volta si riceve qualcosa? Se le 20 monete non venissero immesse nel processo economico nella forma giusta, se ne potrebbero possedere dei mucchi, senza mai avere nulla in realtà. Dunque dal momento in cui nello scambio economico appare il denaro, vediamo con la massima evidenza apparire il fattore «diritto». È straordinariamente importante tenerlo presente, poiché qui si vede come in effetti il complesso organismo sociale si possa abbracciare soltanto trasmutando via via i processi solo economici in ciò che si svolge sotto l’influsso del diritto.

 

Ma ora supponiamo che io abbia acquistato dal calzolaio un paio di scarpe e gli abbia dato 20 monete. Quel calzolaio, dopo avermi venduto le sue scarpe, potrebbe benissimo ricordarsi che talora nel mondo i calzolai furono anche qualcos’altro che non semplici calzolai (per esempio Hans Sachs e Jakob Bòhme!); dopo aver ricevuto le 20 monete, egli potrebbe ora pensare di non adoperarle per continuare a confezionare un nuovo paio di scarpe, bensì per fare tutt’altro, Potrebbe ad esempio far qualcosa in cui dovesse trasfondere il proprio ingegno; in tal caso, quelle 20 monete acquisterebbero per lui improvvisamente un ben altro valore che non quello di un nuovo paio di scarpe. Dal momento in cui abbiamo trasformato la merce in denaro, dunque in diritto, possiamo esercitare il diritto stesso acquistando con le 20 monete qualcosa d’equivalente al paio di scarpe, oppure col nostro ingegno creare mediante il denaro qualcosa che s’inserisca come un prodotto del tutto nuovo nel processo economico. Qui entrano in gioco le attitudini, le capacità umane, quelle che fioriscono appunto liberamente tra gli uomini, e che si inseriscono in ciò che abbiamo acquistato come diritto mediante il denaro, allo stesso modo come il denaro, quale realizzazione del diritto in questo senso, s’incorpora nella merce. Con questo, abbiamo introdotto il diritto e le attitudini, le capacità umane, in quel che finora, provvisoriamente, avevamo osservato nel processo organico dicendo: natura, natura elaborata poi lavoro organizzato dallo spirito.

 

Abbiamo dunque trovato in seno al processo economico stesso una ripartizione che è una triarticolazione. Si tratterà ora di pensare giustamente su di essa. Proprio perché i fatti or ora caratterizzati sono fatti reali, per questo appunto in seno all’economia si producono certi fenomeni che sono realmente impossibili. A un diritto si può infatti anche arrivare mediante conquiste e simili, avendo la forza e la potenza per impadronirsi del diritto. Non sempre si acquisisce un diritto mediante un semplice scambio, bensì anche mediante la forza di arrogarselo. In tal caso il diritto è qualcosa che non è affatto confrontabile con la merce. Non vi è punto di contatto tra merce e diritto. Eppure nel nostro processo economico vengono di continuo scambiate merci (ovvero il loro corrispettivo in denaro) con diritti. Quando per esempio paghiamo il terreno, anzi già quando, pagando la pigione, paghiamo insieme anche il valore attuale del terreno, noi paghiamo un diritto con una merce, per meglio dire col denaro che abbiamo ricavato dalla vendita di una merce; comunque paghiamo un valore-diritto con un valore-merce. Così, se assumiamo un insegnante al quale corrispondiamo uno stipendio, paghiamo delle facoltà spirituali con un valore-merce, col valore di una merce o col suo corrispettivo in denaro. Avvengono cioè di continuo nel processo economico scambi tra diritti e merci, tra capacità umane e merci, e anche tra capacità umane e diritti.

 

Vengono scambiate cose che non sono per nulla paragonabili tra loro. Si pensi ad esempio il caso di chi si fa pagare una scoperta, di chi prende un brevetto: egli si fa pagare con un valore-merce un valore puramente spirituale. Qui non c’è nulla che possa figurare come termine di confronto; qui tocchiamo un elemento nel quale la vita del diritto si inserisce nel processo economico. La cosa si complica poi in modo speciale introducendovi il concetto del lavoro.

 

Ho già detto che il lavoratore salariato non riceve in realtà quel che si comprende di solito sotto il concetto di salario, ma che egli vende effettivamente, fino all’ultimo centesimo, il prodotto del suo lavoro all’imprenditore, e ne riceve anche il pagamento; poi l’imprenditore, secondo la congiuntura, conferisce un valore maggiore, il valore giusto, a ciò che ha acquistato dall’operaio. Se si considera la cosa in modo «economico», il guadagno non viene affatto ricavato come plusvalore dal lavoro. A un tale giudizio non si può arrivare con criteri economici; tutt’al più ci si potrà arrivare con criteri morali. Il guadagno vien ricavato per il fatto che l’operaio si’ trova in una condizione sociale più sfavorevole; i prodotti del suo lavoro, che egli vende, hanno quindi minor valore nella posizione in cui egli li vende, che non per l’imprenditore, il quale è in una posizione ben diversa. Quest’ultimo conosce meglio le circostanze e può vendere meglio. L’operaio si trova rispetto all’imprenditore nella stessa condizione di uno che va al mercato e vi compera una data merce per un dato prezzo. Egli deve comperarla lì perché le sue condizioni non gli consentono di comperarsela altrove. Un altro può comprarla altrove a prezzo molto inferiore. Non vi è differenza tra i due casi. Quel che avviene tra imprenditore e salariato, in una prospettiva economica, è semplicemente una specie di mercato.

 

Vi è però una gran differenza tra l’essere pienamente coscienti che la cosa sta così, e il credere di pagare il lavoro all’operaio. La si potrà forse considerare una differenza puramente teorica; ma quando una simile concezione o due simili concezioni diventano l’una e l’altra reali, si vede come si modifichino i reali rapporti economici a seconda che si sviluppino sotto l’una di queste prospettive o sotto l’altra; quel che accade tra gli uomini è appunto anche il risultato di concezioni. Le concezioni modificano ciò che accadeva seconda ch’esse medesime si modifichino. Oggi tutta la massa proletaria poggia le proprie rivendicazioni sul postulato che il lavoro deve essere pagato adeguatamente. Ma il lavoro non viene pagato affatto; sono sempre i prodotti del lavoro che vengono pagati; se lo si capisse nel senso giusto, si esprimerebbe anche nella realtà dei prezzi. Non si può dire: è indifferente che la remunerazione si chiami prezzo delle merci oppure salario, poiché non appena si parla di salario, si crede realmente di pagare il lavoro. Allora si perviene a tutti quei successivi concetti secondari che mettono in relazione il lavoro come tale con altri processi economici generatori di valore; ne nascono così in modo errato le agitazioni sociali. Le agitazioni sociali sono giustificate, in quanto nascono da sentimenti, poiché i sentimenti hanno sempre in certo modo ragione; ma non si può correggere quello che andrebbe corretto, se non si possiedono i concetti giusti. Il guaio della vita sociale è che spesso le discordie nascono sì per motivi giustificati, ma si vogliono risolvere a mezzo di concetti, errati. Fin nei minimi particolari gli uomini svolgono tali concetti errati che si estendono poi a tutta la complessa concezione economica, cagionando veri disastri.

 

Prendiamo un esempio semplicissimo tratto dalla vita vissuta. Un signore mi disse una volta: «A me piace assai spedire delle cartoline illustrate ai miei amici; ne scrivo molte, moltissime». Io gli risposi: «A me non piace affatto spedire cartoline illustrate, e precisamente (allora non ero ancora tanto occupato come adesso) per ragioni economiche». «Perché?» mi domandò l’altro. Io risposi: «Perché, involontariamente, per ogni cartolina illustrata che spedisco, sono portato a pensare che forse un portalettere ha da salire fin su al quarto piano per recapitarla. Io determino uno spostamento nel processo economico. Non è il lavoro del portalettere quello che conta, e nel caso del portalettere è difficile distinguere il servizio dal lavoro. E il servizio deve essere calcolato. Se dunque mi piace spedire molte cartoline illustrate ai miei amici, io aumento in modo antieconomico i servizi che hanno da compiere i portalettere». Quel signore ribattè: «Ciò non è pensato economicamente, poiché se si stipula che un portalettere abbia da prestare un determinato servizio, se le cartoline che la gente scrive saranno molte, verranno assunti nuovi portalettere, e quindi un maggior numero di portalettere riceverà il suo salario. Io sono dunque veramente un benefattore degli uomini assunti per quell’impiego». Al che non potei a meno di rispondere: «Ma produce Lei in più tutto quello che mangiano le persone che vengono così assunte per quell’impiego? Lei non aumenta i generi di consumo, non fa che provocare uno spostamento. Per il fatto di dare impiego a un maggior numero di portalettere, non si aumentano i generi di consumo».

 

Ecco ciò che nel caso singolo provoca spesso gli errori più madornali, perché se in determinate circostanze tipi come quello diventano anche solo consiglieri comunali, ma potrebbero anche diventare ministri, essi direbbero che se ci sono dei disoccupati basta fare qualche costruzione nuova, e così si impiega la gente. Certo per l’immediato si è risolto il problema, ma non si è prodotto nulla di nuovo. Gli operai nel loro complesso non hanno da mangiare di più di quanto non ne avessero prima.

 

Facendo abbassare il piatto della bilancia da una parte, dalla parte opposta esso deve salire. Se dunque provoco qualche fatto, non mediante un provvedimento connesso con tutto il processo economico, bensì con un solo provvedimento isolato, da qualche altra parte dovrà prodursi un disordine economico. Se si imparasse a osservare i fatti, si farebbe questo calcolo: se vogliamo rimediare ai mali sociali col far costruire ai disoccupati nuovi edifici, potremo sì procurar loro del pane, ma solo facendo rincarare altri prodotti per innumerevoli altre persone. Appunto in campo economico è quindi evidente che non si deve pensare entro limiti ristretti, ma in connessione con tutto l’insieme. Si deve appunto vedere quanto importi che le cose siano pensate in relazione col tutto.

 

Il pensare le cose che si svolgono nel processo economico, connesse tra loro in un rapporto generale, è tutt’altro che facile, semplicemente perché il processo economico è del tutto diverso da un sistema scientifico. Il sistema scientifico può esistere, nella sua totalità, nella testa del singolo individuo; forse solo come abbozzo, tuttavia può esistere nel singolo individuo; invece il processo economico non può mai compiersi nella sua totalità nel singolo individuo, ma può rispecchiarsi unicamente là dove collaborano insieme i giudizi di molti uomini che svolgono la loro attività nei campi più diversi.

 

Non vi è assolutamente altra possibilità di arrivare a un giudizio reale su quanto ho esposto ora, se non per via associativa; parlo di un giudizio reale, non già di un giudizio teorico. In altre parole: considerando le tre equazioni che abbiamo visto prima, chi conosce a fondo gli usi del negoziante, avrà sempre in mente la prima equazione, agirà sotto l’influenza di questa e potrà quindi conoscere quanto è soggetto a tale influsso. Così il consumatore, che segua con intelligenza le fasi del consumo, conoscerà tutto quel che è soggetto all’influsso della terza equazione, mentre il produttore saprà tutto quel che cade sotto l’influsso della seconda equazione. Si potrà dire: «Ma gli uomini non sono tanto sciocchi da non potersi spingere col pensiero anche oltre il loro particolare orizzonte; anche chi sia solo consumatore o solo commerciante potrà ben esser capace di oltrepassare col pensiero il proprio orizzonte! In definitiva non siamo campanilisti, e non lo sono i nostri uomini politici». Benissimo! Bisogna proprio comportarsi così, quando si tratta d’una concezione del mondo. Ma nei riguardi di ciò che si svolge ad esempio nel commercio, non vi è possibilità di sapere alcunché di positivo, dì sicuro, se non si è dentro il commercio stesso, se non vi si lavora. Non vi è altra via; qui le teorie non valgono. Le teorie possono essere interessanti, ma qui non si tratta di sapere come si commercia in generale: si tratta di sapere ad esempio come il giro dei prodotti si svolga a Basilea e nei dintorni di Basilea. E quando lo si sa, non si conosce ancora come avvenga il giro dei prodotti a Lugano. Il problema non è dunque sapere qualcosa in generale, bensì sapere qualcosa intorno ai singoli casi. Del pari, quand’anche ci si fosse formato un giusto giudizio sui maggiori o minori prezzi a cui si possono fabbricare falci o altri attrezzi agricoli, si sarà ancora lontani dal sapere a quali prezzi si possano fabbricare, diciamo, delle viti o dei chiodi.

 

Il giudizio che dobbiamo formarci sulla vita economica deve risultare dai fatti concreti, e ciò non può avvenire se non formando per determinati territori (la vastità dei quali risulta, come abbiamo visto, dal processo economico) delle associazioni, nelle quali si radunino proporzionalmente, dai rami più disparati, le rappresentanze di tutte e tre le sfere che concorrono alla vita economica: la produzione, il consumo e la circolazione.

 

È molto doloroso che non si trovi comprensione, in questi nostri tempi, per cose in fondo tanto semplici e obiettive. Dal momento infatti in cui la cosa venisse veramente compresa, potrebbe farsi, non dico dopodomani, ma già domani; ché non si tratta di creare dei rivolgimenti radicali, ma di cercare per ogni singolo caso la connessione associativa. Basterebbe risvegliare la volontà e avviare la comprensione. Ecco perché la mancanza di comprensione colpisce tanto dolorosamente; qui infatti il pensiero economico coincide realmente con quello morale e in certo modo col pensiero religioso; a me riesce per esempio del tutto incomprensibile come una siffatta considerazione economica sia potuta passare inosservata a coloro che, diciamo, provvedono ufficialmente ai bisogni religiosi del mondo. Eppure è fuori dubbio l’evidenza del fatto che, nel corso degli ultimi tempi, il dominio delle nostre condizioni economiche ci è sfuggito di mano, che gli avvenimenti hanno trasceso il limite di ciò che gli uomini erano in grado di controllare; cosi ci troviamo anzitutto di fronte al problema: come dominare le circostanze? E sono gli uomini che devono dominarle, gli uomini riuniti in associazioni.

 

Non voglio certo concludere con uno scherzo una trattazione tanto seria, ma vorrei dire: la nostra scienza economica si è evoluta in modo da non seguire con le sue concezioni lo svolgimento effettuatosi nel passaggio dall’economia di baratto all’economia del denaro e delle capacità umane. Coi suoi concetti essa brancola tuttora nell’economia dì baratto e considera pur sempre il denaro come se fosse soltanto una specie di sostituto del baratto. La gente non vuol ammetterlo, ma è proprio questo il contenuto di diverse teorie. Negli antichi sistemi economici, anche se ormai essi non possono più esserci simpatici, si esercitava il baratto; in seguito apparve il denaro, e allora (non vorrei davvero dire una spiritosaggine, ma è il genio della lingua tedesca che qui si manifesta) dallo «scambiare» (tauschen) con un semplice raddolcimento della vocale (tauschen — ingannare) tutto si è confuso: noi ci inganniamo oggi in tutti i processi economici possibili. Lo scambio (Tauschen) è diventato inganno (Tauschen). Non un inganno premeditato, ma una confusione di tutti i processi. Dobbiamo invece di nuovo scoprire come i processi economici si svolgano realmente nella loro vera intima essenza.