La parola come definizione e la parola nelle sue connessioni

O.O. 279 – Euritmia linguaggio visibile – 03.07.1924


 

Sommario: Nel suono va distinto ciò che scende nel mondo fisico e ciò che sale al mondo spirituale. I dittonghi rappresentano qualcosa di sentito in senso più spirituale dei suoni che li compongono. L’intervallo fra i suoni. Doppio carattere della parola. Pronomi personali e loro forme.

 

Anche per i suoni, come abbiamo fatto per l’elemento musicale, dobbiamo distinguere ciò che scende maggiormente nel mondo fisico e ciò che porta maggiormente la parola, il suono, nel mondo spirituale. Finora abbiamo fatto veramente poco questa distinzione. Soltanto ieri, in conclusione, potei ancora sottolineare come, quando il suono viene raddolcito, si penetri nell’elemento che non compare più a livello sensibile con contorni chiari, ma piuttosto in qualcosa che si disperde, si polverizza. Questo però è già nel contempo un penetrare nell’ambito spirituale. Consideriamo la parola Bruder (il singolo fratello). L’impressione sensibile che se ne ha è a contorni netti. Il termine “fratelli” (Bruder) non indica semplicemente ciò che è ogni singolo, ma quel che sono nel complesso; è una ricapitolazione ideale e questo diventare ideale, spirituale, lo ritroviamo nel raddolcimento della vocale (ü).

 

In tal modo veniamo allo stesso tempo rimandati ai dittonghi che manifestano qualcosa sentito in modo più spirituale che non i suoni elementari da cui sono composti. Infatti, proprio come dovemmo dire per l’euritmia musicale, l’elemento veramente spirituale della musica non risiede nel suono intonato, ma in realtà in quel che sta fra i suoni, in ciò che non è suono (l’elemento tonale risiede ovviamente nel suono, ma quello musicale si trova tra i suoni), così anche nell’elemento linguistico tutto ciò che irraggia verso lo spirituale non risiede dove il suono viene accentuato, evidenziato in modo netto, dove si poggia sul suono, ma dove un suono trapassa nell’altro, in ciò che si trova per così dire tra i suoni. Per questo in euritmia non ci si può arricchire spiritualmente, dedicandosi solo a configurare il singolo suono. Si raggiunge questa ricchezza spirituale in euritmia (e non è certo una cosa sbagliata!) riuscendo a poco a poco a passare da un suono all’altro. Quel che fa scaturire un suono dall’altro è quindi l’elemento veramente spirituale del movimento euritmico.

 

Bisogna aggiungere qualcosa di ulteriore. La parola in fondo ha già in sé un carattere duplice: da un lato vuole chiudere in sé l’imitazione esteriore, dall’altro però vuole anche porre nell’ordinamento complessivo del mondo quello che esprime. Se oggi si avesse maggiore propensione a studiare le lingue realmente nel loro elemento spirituale, come scaturiscono dal genio linguistico, si attribuirebbe grande valore al fatto interessante che, nella configurazione della parola, non risiede solo il singolo significato, ma anche il rapporto di un processo, di una cosa che viene definita con le parole, nei confronti del tutto o almeno di un tutto superiore. Dobbiamo senz’altro considerarlo nel suo insieme.

 

Infatti nell’oratore, in chi in una poesia o anche solo in una frase vuole collocare la parola in un giusto contesto, deve essere presente in modo del tutto emotivo-istintuale ciò che fa nascere un sentimento verso i suoni: ciò che è stato descritto si trova in un intero contesto. Dovremo parlarne ancora nei particolari. Adesso però vorrei parlare di come nella parola vi sia da un lato ciò che viene descritto, dall’altro la possibilità di andare oltre la parola stessa, fin nelle connessioni che vi sono contenute. Lo vedremo meglio con alcuni esempi; consideriamo innanzi tutto parole molto caratteristiche, come i pronomi personali. Sin dall’inizio ponete fortemente in un contesto ciò che essi designano, oppure traetevelo, il che in fondo è la stessa cosa. Ipotizziamo per esempio che qualcuno dica “io” in posizione eretta (viene eseguito). Avete espresso la parola “io” nel gesto della i e della o.

 

Con questo gesto un sentimento naturale in effetti avvertirà la mancanza di qualcosa. Il gesto è assolutamente corretto, è un “io” espresso in linguaggio visibile, ma mancherà qualcosa. Si avrà la sensazione che l’”io”, fatto in questo modo, sia veramente rappresentato come in un quadro schematico, come per esempio si presenta una persona semplicemente con il suo ritratto. L’io, per così dire, non è abbastanza vivo, poiché lo spirito dell’uomo che si trova dietro la rivelazione dell’io in questa rappresentazione non viene portato completamente ad espressione. Infatti che cosa esiste spiritualmente nell’io? Il riferirsi a se stesso, l’immaginarsi, il riferire la rappresentazione a se stesso. Quando si vorrà esprimere questo riferirsi a se stesso, lo si potrà fare molto bene non rimanendo fermi, ma entrando nel movimento. Ipotizziamo dunque di fare due passi avanti, di nuovo due passi indietro, avanti, indietro, avanti, indietro.

 

 

Ripercorrete di nuovo a ritroso, sino al punto di partenza tutta la linea percorsa. Alla partenza, durante i due passi avanti, si farà la i, durante i due passi all’indietro la o, allora si avrà l’io nello slancio, nel movimento e precisamente in un movimento che si ritrova di nuovo in se stesso, come la rappresentazione dell’io costituisce nell’immaginazione proprio questo ritrovarsi.

Si eseguirà facendo due passi avanti per la i, due passi indietro per la o, poi si entrerà nella forma (vedere disegno) e cioè in quella forma che risulta come significato dall’unione dei suoni.

 

Passiamo poi per esempio daino al tu: abbiamo qui un significato del tutto diverso, un nesso con gli altri del tutto diverso. Si esegue il “tu” semplicemente restando fermi: t e u (viene eseguito). Quando si sviluppa il “tu” in tale posizione, se ne rimane insoddisfatti; in effetti vi è qui veramente e semplicemente un’immagine del “tu”, non il “tu” stesso. Non diviene vivente. Manca l’elemento spirituale che si forma nell’unione dei suoni. Cerchiamo il passaggio, cerchiamo di trovare anche qui il significato di questo elemento spirituale.

 

Nell’io è chiaro, si ritorna in se stessi. Nel “tu”, se si penetra correttamente nel “tu”, se si intende veramente l’altro, si esce da se stessi. Qui non si può tornare nuovamente nella stessa linea, non si possono toccare di nuovo gli stessi punti che si sono toccati quando ci si è mossi in quella direzione; si tornerebbe proprio in se stessi, e non lo si deve fare. Ma, d’altro canto, non si può neanche uscire del tutto da sé poiché, uscendo completamente, non si avrebbe davanti un “tu”, ma un “egli”. Lo si sente soltanto abbandonando completamente se stessi e allora non si ha dinanzi un “tu”, ma un “lui” oppure una “lei”. Si deve quindi ritornare sempre leggermente a sé in un certo modo. Questo lo si può fare soltanto se per il “tu” si esegue il movimento incrociando la forma in un unico punto.

 

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Nel punto di incrocio si è di nuovo tornati indietro. Se quindi invece di procedere in avanti e all’indietro si fa in modo di ritornare solo in un punto, si ha il movimento del “tu”. Si eseguirà in avanti la t, all’indietro la si, ma in maniera da toccare un unico punto. Ora si è messo in movimento l’intero “tu”: nel movimento non diventa un “lui” o una “lei” perché si è rimasti in collegamento con se stessi, seppure leggermente. Si potrebbe persino pensare ad un crescendo. Se uno, diciamo, volesse a poco a poco accentuare più fortemente se stesso per cui l’uscire da sé divenisse sempre più debole, potrebbe poi persino fare per la u il movimento in questo modo:

Questo non sarebbe però un “tu” affettuoso: eseguendolo, si noterà come sia un “tu” molto più contratto. Queste cose vanno naturalmente afferrate solo con il sentimento: in questo modo si possono davvero afferrare molto bene.

Abbiamo già accennato a come ci si avvicini ad “egli”, e cioè non toccando affatto nei passi all’indietro i punti toccati in avanti. Questo può accadere perché in “egli” abbiamo il cerchio in cui, finché non si è completato il percorso, non si sono toccati i punti fissati procedendo in avanti: è una linea che non ritorna su se stessa, è una linea circolare: oppure anche, andando in questo senso:

 

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Non si torna di nuovo indietro perché, tornando indietro, il movimento viene cancellato. Dunque abbiamo qui la forma che non tocca due volte nessun punto del suo percorso e con ciò abbiamo espresso “egli”. (Rivolgendosi a un’euritmista: «Faccia “egli” in posizione eretta»). Non può esistere un “egli” restando fermi; qui non lo si può sentire che come riproduzione, ma è in fondo soltanto una visione egoistica dell’altro. Non si esce affatto da sé. (A un’euritmista: «Lo faccia ora in questa forma, descrivendo semplicemente un cerchio, in modo da fermarsi proprio davanti al punto di partenza. Ora da un lato faccia in modo fluido la e, dall’altro gli e si vedrà come emerga il vero “egli”»).

 

Tempo fa feci eseguire l’esercizio di “egli” (er) con determinate connessioni di suoni, e cioè iniziando con una parola simile ad er (der, il), poi er, con la caratteristica di non tornare su nessun punto della linea percorsa (A un’euritmista: «Faccia “Der Wolkendurchleuchter”, ma in modo che vi sia contenuto ciò che ho appena detto»):

 

Der Wolkendurchleuchter Er durchleuchte,        Er durchsonne,       Er durchglùhe,       Er durchwàrme Auch mich.

(Colui che illumina le nuvole illumini, compenetri di sole, compenetri d’ardore, compenetri di calore anche me.)

 

L’euritmista lo ha fatto dapprima in modo tale per cui ha dato, dall’inizio alla fine, il carattere complessivo di er, poiché er ha qui il sopravvento, lo ha fatto in modo tale per cui er viene eseguito mediante il movimento in tutta la poesia.

Sarebbe possibile farlo in modo ancora diverso, precisamente così: ogni volta che compare er (egli) fare il cerchio e proseguendo fare un altro cerchio. Ogni volta che compare er si fa un cerchio, poi si va avanti, si fa un altro cerchio, ancora avanti, ancora un cerchio, di nuovo avanti. In questo modo l’insieme assume un carattere del tutto diverso.

 

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Abbiamo dapprima la sensazione di doverci maggiormente rivolgere a ciò che risiede nella manifestazione nel suo complesso.

La seconda volta abbiamo la sensazione di poterci rivolgere ai singoli processi, all’illuminare, compenetrare di sole, di ardore, di calore.

 

Passando ora da io a noi, giungeremo anche dall’assolo di danza al girotondo, poiché il “noi” intende sempre più di una persona, almeno due; in questo caso faremo in modo da esprimere con il cerchio l’appartenenza, quindi il perdersi in un “egli”, mentre ci mettiamo in posizione ed esprimiamo l’io di un altro facendo fare a uno un certo numero di passi avanti mentre intoniamo il “noi”, poi di nuovo a ritroso, andando avanti e indietro; in questo modo è presente la reciprocità. Lo si farà quindi in modo da avvicinarsi ed allontanarsi, se vi sono soltanto due persone una di fronte all’altra: avvicinarsi, allontanarsi, esprimendo così il significato interiore del “noi”.

Se si è in quattro, il cerchio diventa perfetto e in tal modo si esprime il “noi” avanzando e retrocedendo; nel qual caso si può esprimere l’appartenenza — con due sarà più difficile — per il fatto di avvicinarsi con le braccia, con le mani:

 

 

e questo è un movimento di “noi” particolarmente bello se quattro avanzano e retrocedono in cerchio ed accennano il “noi”. (Agli euritmisti: «Quattro euritmisti si mettano in cerchio e intonino il “noi” nel modo che ho detto. Partite dal cerchio prendendovi per mano, avanzate di due passi: n; se siete davanti, avvicinatevi con la o; retrocedendo, chiudete con la i ed afferratevi di nuovo: “noi”. Ma con la o dovete essere davanti»). In tal modo otteniamo il “noi”; si avranno bellissime sfumature nella rappresentazione; si deve soltanto sentire ovunque questo “io” e “noi” e così via.

Nasce così qualcosa che può essere molto bello. Che cosa accadrà se i quattro non si prendono per mano ma eseguono i suoni a ritroso? Avremo il “voi”, il “tu” al plurale! Nel contempo abbiamo l’allontanamento da noi stessi: “voi”.

 

 

Vogliamo ora intonare il “voi”. (Agli euritmisti: «Fate il “voi”, avendo sin dall’inizio la tendenza ad andare a ritroso con le braccia»). In tal modo si può dare molto significato alla cosa. Si tratta soltanto di sentire anche tali cose in un contesto poetico, sentire come diano un carattere. Si deve poi sperimentare di nuovo ciò che si può sperimentare con singole parole, con parole caratteristiche come i pronomi, lo si deve fare perché le si ritrova in una costruzione linguistica. Dovremo parlarne ancora; ma immaginiamo ora che tre euritmisti facciano questo:

 

 

Agli euritmisti: «Mettetevi in questa posizione e fate questo movimento. Voi avete il plurale: “essi”, molti “egli” sono “essi”, un plurale»).

Si cercherà di esprimere il carattere di “essi” orientando le braccia da un lato, ma dalla stessa parte, con movimenti molto semplici. («Partite da qui e ritornatevi, avremo quindi “essi, essi, essi”»). Così si esprime direttamente “essi”.

 

Sorge naturalmente la domanda: come applico tutto questo? Infatti non sarà possibile fare sempre questo movimento con queste singole parole, benché d’altro lato, e se ne può avere la certezza, può scaturire qualcosa di molto bello con quell’agilità e destrezza acquisite grazie al lungo esercizio, per cui vengono realmente espresse le singole parole: “tu”, “egli”, “noi”, “voi”, “essi”. Ne nasce qualcosa di molto bello.

In certe poesie si ha direttamente il carattere dell’io. In altre, di solito nelle poesie d’amore, si trova il carattere del “tu”. In molte altre, come quasi tutte quelle di Martin Greif*, vi è uno spiccato carattere di “egli”. Si individua il carattere complessivo della poesia sentendovi il carattere di “io”, “tu”, “egli” e poi rappresentandola in una forma presa appunto da “io”, “tu”, “egli”, “noi”, “voi”, “essi”.

Ciò può diventare particolarmente bello quando si abbandoni il carattere obiettivo di “egli”, l’uscire da sé, per passare al carattere soggettivo. Prendiamo la celebre poesia di Goethe che tante volte abbiamo utilizzato perché esprime vari aspetti e sembra fatta apposta per imparare l’euritmia:

 

Uber alien Gipfeln      Ist Ruh;       In alien Wipfeln       Spürest du       Kaum einen Hauch;

Die Vògelein schweigen im Walde.       Warte nur, balde       Ruhest du auch.

(Sopra ogni vetta è pace. Dentro ogni fronda senti appena l’onda d’un respiro.

Tace l’uccello al bosco. Tosto poserai anche tu.) (Versione di Diego Valeri)

 

Analizziamo la poesia molto obiettivamente:

 

Uber alien Gipfeln ist Ruh;

(Sopra ogni vetta è pace.)

 

Diamogli il carattere di “egli”.

 

In allen Wipfeln      Spürest du       Kaum einen Hauch;

(Dentro ogni fronda senti appena l’onda d’un respiro.)

Passiamo al “tu”.

 

Die Vògelein schweigen im Walde:       Warte nur, balde Ruhest du auch.

(Tace l’uccello al bosco. Tosto poserai anche tu.)

 

Ora, qui ci si deve domandare: lo interpreto nel carattere di “io” o in quello di “tu”? Goethe infatti parla a se stesso. Adesso si può provare in ambedue i modi:

 

Ùber alien Gipfeln        Ist Ruh;

                                                                                                                     “egli”

(Sopra ogni vetta è pace.)

 

In alien Wipfeln Spùrest du       Kaum einen Hauch;

                                                                                                                          “tu”

(Dentro ogni fronda senti appena l’onda d’un respiro.)

 

Die Vògelein schweigen im Walde.

                                                                                                                           “egli”

(Tace l’uccello al bosco.)

 

Warte nur, balde        Ruhest du auch.

                                                                                                                              “tu”

(Tosto poserai anche tu.)

 

Si dia quindi alla poesia la sequenza: “egli, tu, egli, tu” e si vedrà come la forma scaturisca dall’intero modo di sentire espresso nella poesia. I pronomi personali, quando li si pronuncia: io, tu – sono assolutamente sentire concentrato, cristallizzato, che può essere altrimenti riversato su di un intero contesto. È proprio qui in questa poesia un “egli” aleggia sulla prima riga, un “tu” sulla seconda, poi di nuovo “egli”, nuovamente “tu”, oppure anche, come vedremo in seguito, un “io” sull’ultima riga:

 

Warte nur, balde         Ruhest du auch.

(Tosto poserai anche tu.)

Ora facciamo l’altra forma: “egli, tu, egli, io”:

 

Ùber alien Gipfeln         Ist Ruh;

                                                                                                                              “egli”

(Sopra ogni vetta è pace.)

 

In alien Wipfeln Spùrest du         Kaum einen Hauch;

                                                                                                                                 “tu”

(Dentro ogni fronda senti appena l’onda d’un respiro.)

 

Die Vògelein schweigen im Walde.

                                                                                                                                 “egli”

(Tace l’uccello al bosco.)

 

Warte nur, balde         Ruhest du auch.

                                                                                                                                    “io”

(Tosto poserai anche tu.)

 

Con “io” si dà al tutto un carattere essenzialmente diverso. Quando si provano le cose l’una dopo l’altra, ci si può dire che l’ultima è quella giusta. Si sentirà in modo assoluto che l’ultima è quella giusta. Si può imparare a sentire intensamente proprio con tali poesie, come la forma derivi dalla poesia stessa, se si inizia a sentire la connessione reale proprio nel significato di una correlazione di suoni, come nel pronome personale.

Se applichiamo quel che abbiamo eseguito proprio ora, può divenire bella nell’elaborazione del significato anche una poesia molto breve:

 

Schlummer und Schlaf, zwei Brùder, zum Dienste der Gòtter berufen

Bat sich Prometheus herab, seinem Geschlechte zum Trost.

Aber den Gòttern so leicht, doch schwer zu ertragen den Menschen,

Ward nun ihr Schlummer uns Schlaf, ward nun ihr Schlaf uns zum Tod.

 

(Sopore e sonno, due fratelli, al servizio degli Dei chiamati,

Pregò Prometeo di scender sulla terra a consolar la sua schiatta.

Ma, se tanto leggeri per gli Dei, pesanti furono per l’uomo,

Sonno per noi divenne il lor sopore, morte il lor sonno.)

 

Qui troviamo due volte uns, cioè una declinazione di wir (noi); in un primo tempo diamo comunque il carattere della forma del “noi”. Partendo da queste considerazioni si può fare l’analisi seguente:

“Sopore e sonno, due fratelli al servizio degli Dei chiamati”.

Un puro “egli”.

 

“Pregò Prometeo di scender sulla Terra a consolar la sua schiatta”. Ora, nel pregare, che è sempre rivolto a un altro, a un “tu”, è sempre possibile sentirvi il “tu”.

“Ma se tanto leggeri per gli Dei, pesanti furono per l’uomo”. Qui si deve passare a qualcosa che viene sentito profondamente nell’interiorità. Non si può conseguire tale conoscenza altrimenti che afferrando il tutto a livello conoscitivo.

 

Qui si tratterà di utilizzare quello che indicai come gesto della “conoscenza”.

“Sonno per noi divenne il lor sopore”.

 

Il sopore degli Dei diviene sonno per gli uomini, il sonno degli Dei diviene morte.

“Sonno per noi divenne il lor sopore, morte il lor sonno”.

 

Qui ci troviamo nel destino comune agli uomini in quanto tali, qui abbiamo il “noi”. Ed otterremo semplicemente una forma che animerà senz’altro la poesia, utilizzando le forme che possiamo ottenere in primo luogo dai pronomi personali, poi – laddove la poesia passa del tutto nell’elemento spirituale – utilizzando le forme della conoscenza. E faremo bene a considerare quindi tali forme, come le abbiamo conosciute, nella loro qualità di forme fondamentali e ad utilizzarle poi nella maniera più libera, ma in modo che siano sempre colme di significato.

 

(A un’euritmista: «Cerchi di fare il primo verso con il movimento di “egli”, di estendere cioè a tutto il verso il movimento di “egli” e di farlo anche in conformità al restante carattere dell’intera forma immaginativa: “egli”. Faccia un “tu” sulla seconda riga. Faccia la terza riga in modo da eseguire, nell’intervallo tra la seconda e la terza, il gesto della conoscenza, dopo la riga di nuovo il gesto della conoscenza; poi faccia l’ultimo nel movimento del “noi”»).

 

Tutto questo non lo si può eseguire da soli; dalla quinta di sinistra e da quella di destra del palcoscenico usciranno altri due euritmisti e l’ultimo verso viene poi interpretato nel movimento del “noi”. In questo modo si traggono le forme dalle poesie.

 

Vorrei che si vedesse in tutto ciò, anche se si tratta di esempi molto semplici, come debba procedere lo studio dell’elemento euritmico. Quando si vuole fare euritmia, si deve effettivamente conoscere prima la poesia, il testo, non semplicemente secondo il testo stesso, ma secondo il contenuto complessivo, con tutte le sfumature, le configurazioni di sentimento che vi sono contenute. Non si dovrebbe interpretare in euritmia una poesia senza porsi domande del tipo: quale carattere fondamentale vi è in una poesia, quale carattere artistico fondamentale?

Prendiamo come esempio il testo goethiano:

 

Seid, o Geister des Hains, o seid, ihr Nymphen des Flusses,

Eurer Entfernten gedenk, eueren Nahen zur Lust!

Weihend feierten sie im stillen die làndlichen Feste;

Wir, dem gebahnten Pfad folgend, beschleichen das Gluck.

Amor wohne mit uns; es macht der himmlische Knabe

Gegenwàrtige lieb und die Entfernten euch nah.

 

(Siate, o spiriti del bosco, siate, voi ninfe del fiume, memori dei vostri lontani, gioia dei vostri vicini!

Benedicenti celebrarono in pace le feste campestri; noi, seguendo il sentiero tracciato, afferriamo la felicità.

Amore dimori con noi; il divino fanciullo rende cari i presenti e vicini i lontani.)

 

Ora, spieghiamo la poesia per la preparazione euritmica. Ciò che vien fatto in modo tanto sommario dev’essere fatto veramente in maniera molto accurata quando si vuole eseguire una poesia in euritmia. Ora:

 

Seid, o Geister des Hains, o seid, ihr Nymphen des Flusses,

(Siate, o spiriti del bosco, siate, voi ninfe del fiume,)

 

Questo non è altro che un “tu”, un’invocazione dopo un “tu”, oppure un “voi”,

se vi è più di un euritmista.

 

Eurer Entfernten gedenk, eueren Nahen zur Lust!

(Memori dei vostri lontani, gioia dei vostri vicini!)

                                                                                                           Di nuovo “voi”.

 

Weihend feierten sie im stillen die Undlichen Feste;

                                                                                                                            “essi”

(Benedicenti celebrarono in pace le feste campestri;)

 

Wir, dem gebahnten Pfad folgend, beschleichen das Gluck.

                                                                                                                               “noi”

(Noi, seguendo il sentiero tracciato, afferriamo la felicità.)

 

Amor wohne mit uns; es macht der himmlische Knabe

                                                                                                                                “egli”

(Amore dimori con noi; il divino fanciullo)

 

Gegenwàrtige lieb und die Entfernten euch nah.

                                                                                                                                   “voi”

(Rende cari i presenti e vicini i lontani.)”

 

Di nuovo “voi”. Abbiamo visto sei versi successivi.

 

(Agli euritmisti: «Sì riuniscano tre euritmisti per eseguire l’intera poesia con questo carattere. Sia quindi chiaro che va fatto come l’abbiamo appena udito: “voi, voi, essi, noi, egli, voi”. Date quindi sempre carattere a tutta la riga»).

 

Si può però fare anche diversamente. Due possono restare fermi e solo il terzo fa il movimento di “egli”, allora il risultato sarà molto soddisfacente. Quindi: “Amor wohne mit uns; es macht der himmlische Knabe” (Amore dimori con noi; il divino fanciullo) (eseguito singolarmente) — ora tutti e tre il movimento di “egli”.

 

Gegenwàrtige lieb und die Entfernten euch nah.

(Rende cari i presenti e vicini i lontani.)

 

Giungiamo in tal modo a vedere come vi sia sempre la possibilità di studiare una poesia anche con le forme euritmiche.